Film > Batman
Ricorda la storia  |      
Autore: Youth_    26/04/2016    4 recensioni
- SUICIDE SQUAD -
Racconto della prima volta in cui il Joker incontrò la dottoressa Harley Quinzel.
Quindici minuti intensi di seduta psicologica, che cambieranno per sempre il mondo di Harley.
Dal testo: "- Ha mai conosciuto la pazzia, dottoressa Quinzel?- sibilò lui, a voce bassa, come se stessero parlando di un segreto. Allungò il collo verso di lei, e le sembrò che il suo alito freddo le stesse congelando le ossa:- Ha mai... Vissuto, il malessere della solitudine? È stata mai divorata, fracassata io direi, dalla sensazione d’inadeguatezza in un mondo di persone mediocri?-
La donna provò fatica nel deglutire quelle parole. Sembravano sviscerare le membra, comprimere il cervello.
Le venne voglia di urlare, per cancellare quella sensazione viscida e putrida, come un morbo che la infettava lentamente.
Ma non lo fece. Il suo paziente la stava testando, la stava provocando.
Improvvisamente capì perché le avevano affidato quel caso con così tanto tentennamento."
(Perdonate l'inserimento nella categoria sbagliata, ma non è stata ancora creata una sezione per Suicide Squad)
Genere: Avventura, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harley Quinn aka Harleen Quinzel, Joker aka Jack Napier
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
15 minuti.

Era un edificio bianco, di quelli anonimi, che sfuggono agli occhi dei passanti.
I corridoi, le porte, persino i vestiti dei medici erano bianchi.
Il quadro della perfezione, l’apoteosi dell’equilibrio perfetto: una maschera ben architettata, insomma.
L’ufficio di Harley Quinzel si trovava al quarto piano di questo abile gioco di fili invisibili, come indicava la targhetta in ottone fissata all’entrata della sua sala da ricevimento.
Era considerata, a buon ragione, una delle psichiatre più abili di tutta New York; ciononostante, i colleghi si guardavano bene dal passare con lei la pausa pranzo, o addirittura rivolgerle la parola.
C’era qualcosa di strano in lei, a detta di tutti: una sensazione, più che altro, che dava i brividi, come se con un’occhiata fosse capace di frugare nel tuo cervello, scoperchiare i segreti più scabrosi, sbirciare tra le tende dei tuoi ricordi. Forse per questo, era stata considerata sufficientemente qualificata per uno dei compiti più ardui dell’ultimo decennio.

L’autovettura della polizia parcheggiò proprio davanti a quell’edificio, e le tute blu scuro degli agenti si rifletterono sulle vetrate degli uffici. Tutti notarono le pistole sbucare dalle cinture degli uomini, e ciò non avrebbe provocato la minima reazione, se non fosse stato per l’uomo seduto sui sedili posteriori della macchina. Perché tutti sapevano a chi sarebbero stati destinati i proiettili di quelle pistole, se si fosse presentata l’occasione.
Harley Quinzel aveva appena finito di compilare alcuni moduli per l’acquisto di una nuova casa in California. Non che i soldi traboccassero, ovviamente, con quello scarno stipendio che incassava grazie a quel lavoro massacrante, ma l’estate si avvicinava e non aveva affatto voglia di passare i mesi più caldi e divertenti dell’anno chiusa in quell’opprimente monolocale in affitto, riciclato come “casa” dai tempi dell’università.
Quando sentì la macchina della polizia arrivare, si alzò di scatto.
L’aveva aspettata per talmente tanto tempo che quasi non si capacitava del corso degli eventi che si stava susseguendo proprio sotto i suoi occhi, quattro piani più in basso.
Con una lentezza che le sembrò esasperante, i poliziotti aprirono lo sportello posteriore dell’autovettura.
Ne uscì un uomo dal viso pallido, quasi funereo; indossava un lungo cappotto color prugna, dal colletto alzato fin sopra gli zigomi, che gettava delle ombre oscillanti  sulle sue labbra tirate, di un rosso cupo, che disegnavano un sorriso sbilenco. I capelli color mirto erano secchi, poco curati.
Anche a quella distanza, la dottoressa Quinzel si sentì percuotere da un brivido di eccitazione.

Corse ad accendere il registratore, posizionato saggiamente dietro la fotocopiatrice della sua scrivania; lo utilizzava spesso durante le sedute con i suoi pazienti, per evitare che la sua labile memoria, o una sua distrazione, potessero minare l’analisi dei mille casi a lei proposti; ma questa volta sarebbe stato diverso.
Questa volta avrebbe messo le mani su uno dei gioielli più ambiti del circolo criminale, il sogno di ogni psichiatra che meritasse quel nome; nientemeno che il Joker si stava dirigendo proprio verso il suo ufficio, proprio per parlare con lei.
Sarebbe stato un traguardo professionale a dir poco pazzesco, ma soprattutto una soddisfazione personale.
Aveva chiesto in molteplici occasioni di esaminare il Joker, almeno una quindicina di volte solo nell’ultimo mese, e forse per sfinimento più che per puro interesse, alla fine avevano acconsentito ad una seduta.
Essendo una famosa psichiatra, aveva spesso analizzato dei casi difficili; aveva parlato con molti uomini e molte donne che sembravano essere stati consumati dalla follia, divorati dai loro stessi mostri, ed era sempre riuscita a scovare l’origine del problema, il tarlo che mangiucchiava le pareti della loro mente.
I criminali più sanguinari e le menti più illustri si erano seduti su quella sedia, e tutti si erano alzati con un sorriso ebete, come assuefatti delle sue parole, e avevano varcato quell’uscio, tornando alle loro viti inutili.

Il Joker era diverso.
Non era solo uno psicopatico, probabilmente con un serio problema di sadismo e schizofrenia; lui era un artista. Non era affetto dalla sua instabilità mentale in maniera distruttiva, anzi; sembrava che lui giocasse con la sua pazzia, che gli piacesse quell’eterno disquilibrio tra sogno e realtà, e che lui ne fosse padrone.
Se la dottoressa Quinzel fosse riuscita a prendere le redini di quella mente contorta, ad indirizzarla di nuovo verso la “giusta” via, allora sarebbe stata un’eroina. Tutti l’avrebbero acclamata e avrebbe guadagnato talmente tanti soldi da potersi permettere dieci case ad Hollywood, o magari anche un agente immobiliare che sbrigasse i suoi affari.
Aveva intenzione di pubblicare un libro, nel quale avrebbe reso pubbliche le sue affascinanti scoperte sull’intricato labirinto di quella mente criminale, e con quello sarebbe diventata persino più famosa.
Sorrise soddisfatta. La sua carriera stava per schizzare alle stelle.
Diede un’occhiata al riflesso che le regalava lo specchio: il trucco, l’acconciatura, e tutte quelle piccole formalità che l’avrebbero resa, come al solito, perfetta.
Sentì qualcuno bussare alla porta.
Il suo cuore ebbe un sussulto. Era arrivato il momento tanto atteso.
Andò ad aprire, con un sorriso affettato stampato sul viso, una di quelle espressioni di circostanza che aveva imparato essere molto utili nel posto di lavoro.

- Salve, dottoressa Quinzel-  sussurrò l’agente che le si presentò davanti, tenendo con la mano destra una pistola, che aveva tutta l’aria di essere stata accuratamente lucidata quella stessa mattina; Harley notò come teneva il dito indice tremante sul grilletto. La callosa mano sinistra del poliziotto, invece, teneva il collo dell’uomo in cappotto viola, che la dottoressa identificò come il suo biglietto per il successo; l’uomo gli teneva la testa bassa, cosicché Harley non poté vedere gli occhi del famoso criminale.
Ne fu estremamente delusa, ma preferì non controbattere. Aveva dovuto patteggiare a lungo per avere quell’incontro, non era affatto il caso di lasciarselo sfuggire via.
L’uomo entrò nell’ufficio senza troppi preamboli, e fece sedere quello che doveva essere il Joker sulla sedia imbottita, continuando a premere incessantemente sul suo collo.
- Buongiorno, agente- rispose lei, con voce rilassata, uno dei metodi che aveva imparato durante il suo lungo apprendistato:- Vorrebbe cortesemente lasciarmi sola con il mio paziente?-
- Devo avvertirla- si premurò lui, con aria nervosa:- Si tratta di un uomo molto irascibile. Fossi in lei, lascerei entrare sia me che un altro poliziotto, per la sua sicurezza-
- Oh, sono sicura che non ce ne sarà affatto bisogno- replicò lei:- L’approccio iniziale è fondamentale per la riuscita del percorso di rieducazione. È importante che l’ambiente del carcere non venga rievocato in nessun modo, non sarebbe affatto utile-
- Sì, ma se mi permette...-
- Può rimanere fuori dall’ufficio, davanti alla porta- lo interruppe la dottoressa, più decisa:- Se mai dovesse succedere qualcosa, la chiamerò-
Il poliziotto sembrò combattuto. Probabilmente aveva ricevuto ordini ben diversi, ciononostante Harley non aveva alcuna intenzione di lasciare che un bamboccio del genere compromettesse l’incontro più importante della sua carriera. Piuttosto seccata da tanta titubanza, decise di sfoderare una delle armi che poteva vantare nel suo arsenale: sbatté le ciglia con fare civettuolo e consegnò il suo biglietto da visita all’agente:
- Se vuole, dopo possiamo berci un caffè insieme e ridere di tutta questa faccenda-
L’uomo, che dato il rossore sulle guance e la rotondità della sua pancia, non doveva aver visto molte belle donne rivolgersi a lui con tanta malizia, cominciò a spostare il peso da un piede all’altro e, dopo qualche secondo, balbettò:- M-m-ma... Sì, certo, mi piacerebbe...-

- Allora ci vediamo dopo- sorrise lei, spingendolo via dall’ufficio e chiudendo la porta, in maniera affrettata.
Tirò un sospiro di sollievo, sedendosi dietro la sua solita scrivania, sistemandosi i capelli con aria pacata.
Fremeva d’emozione, ma quando alzò il viso verso il suo paziente, vide che teneva ancora la testa bassa.
Si schiarì la gola, imbarazzata:- Salve, sono la dottoressa Quinzel-
Lui sembrò non sentirla. Dopo qualche secondo di assoluto silenzio, una risata nervosa, quasi folle, cominciò a grattare le pareti di quella stanza, come un gatto affonda lentamente gli artigli nel tessuto di una tenda.
- Niente male- sussurrò una voce spettrale, che paralizzò la giovane psichiatra.
Cercò di riscuotersi, ma le sembrò che il tempo si fosse fermato, che tutto fosse stato congelato.
L’unica cosa che sembrava continuare a vivere era quella voce.
- Davvero niente male. Fa sempre così quando la scocciano?-
La dottoressa sembrò tornare in sé. Si sistemò i capelli nervosamente, pensando che si stava distraendo, che doveva solo prendere confidenza con il nuovo paziente. L’emozione le stava giocando dei brutti scherzi.
- Tendo ad essere gentile con tutti, se possibile- rispose pacatamente, analizzando con cura il profilo del Joker, ancora chinato in avanti come se la mano del poliziotto stesse ancora premendo sull’osso del collo:
- Lei non deve essere nuovo a questo tipo di incontri, giusto?-
- No, infatti- ridacchiò lui, con amara ironia:- Funziona come un giorno alle giostre, no? Arriverà presto anche l’ultimo giro. Il caro paparino si stancherà di sborsare monetine-
- Sono io il suo ultimo giro, signor...-
- Mi chiami semplicemente J, se preferisce- intervenne lui, muovendo le dita come se stesse strimpellando le corde di una chitarra:- Alcuni lo considererebbero troppo informale per un primo incontro, ma lei è brava a mettere le persone a proprio agio. È il suo lavoro, no?-
Lentamente, alzò il viso. Harley non poté evitare di trasalire.
Per quanto avesse bramato di poter guardare il Joker faccia a faccia, non aveva mai compreso a fondo quanto turbamento, quanta malsana e torbida confusione aleggiasse in quegli occhi.
Cercò di non pensarci, di abituarsi lentamente a quella presenza. La sua imperturbabilità era gravemente messa a rischio, ma non i suoi intenti, per fortuna.

- Beh... Sì, è così- rispose lei, che si sentiva presa in contropiede da tutte queste affermazioni.
Di solito era lei a fare le domande, non gli altri:- Allora, signor J, ho sentito molto parlare di lei, e non le nascondo che per me è un piacere poter essere in sua compagnia-
- Lo sarà ancora per poco, suppongo- osservò lui, come se stesse commentando le previsioni del tempo:
- Mi perdoni, signorina, ma dato che io le ho concesso un nome, lei me ne deve dare uno in cambio-
Harley lo guardò interdetta, sentendo il nervosismo crescere esponenzialmente. Non stava affatto andando come aveva previsto, e a lei non piaceva affatto perdere il controllo dei suoi piccoli burattini.
- Mi scusi?-
- Lei può anche spacciarsi per la dottoressa Harley Quinzel, ma lo farà dopo, una volta che lei mi avrà congedato, dichiarando di non volermi mai più vedere. Non ci sarebbe nulla di male se lo facesse, glielo assicuro- continuò lui con tono rilassato, agitando la mano destra, come se volesse scacciare un pensiero, lasciando intravedere una serie di tatuaggi che dovevano avergli deturpato il corpo:- Vorrei che fossimo sinceri, l’uno con l’altra. Che ci mettessimo sullo stesso piano. Parlando francamente, nel campo dell’analisi della mente criminale, lei sarà anche sveglia, ma io sono più esperto-
- E cosa glielo fa credere, se posso permettermi?- lo stuzzicò lei, alzando un sopracciglio.
Aveva studiato anni ed anni per fare quel lavoro. Non esisteva nessuno più competente di lei.
O perlomeno... Così aveva pensato fino a quel momento.
L’uomo sembrò avere uno scatto improvviso: si alzò dalla poltrona nella quale si era comodamente adagiato, affondò le mani nelle tasche del cappotto. Harley ebbe un sussulto, ma rimase composta, distaccata. Anche quando il Joker si avvicinò alla scrivania, poggiandovi i gomiti, cercò di mantenere uno sguardo neutrale.
Nulla di ciò che stava accadendo nella testa di quell’uomo doveva minimamente influenzarla.
Era lì per curarlo, non per essere infettata.

- Ha mai conosciuto la pazzia, dottoressa Quinzel?- sibilò lui, a voce bassa, come se stessero parlando di un segreto. Allungò il collo verso di lei, e le sembrò che il suo alito freddo le stesse congelando le ossa:- Ha mai... Vissuto, il malessere della solitudine? È stata mai divorata, fracassata io direi, dalla sensazione d’inadeguatezza in un mondo di persone mediocri?-
La donna provò fatica nel deglutire quelle parole. Sembravano sviscerare le membra, comprimere il cervello.
Le venne voglia di urlare, per cancellare quella sensazione viscida e putrida, come un morbo che la infettava lentamente.
Ma non lo fece. Il suo paziente la stava testando, la stava provocando.
Improvvisamente capì perché le avevano affidato quel caso con così tanto tentennamento.
Avrebbe fatto tacere quei dubbi una volta per tutte. Ne andava del suo futuro.
- L’ho toccata con mano, signor J- rispose, sottolineando ogni parola, mantenendo gli occhi fissi nei suoi, stando al suo gioco perverso:- Ho frugato nelle menti più intricate, dissolvendo le loro nebbie, placando i loro dolori. Ho visto la pazzia in tutte le sue forme, e su quella sedia sono stati affidati a me gli indovinelli più arcani, e le assicuro che sono sempre riuscita nel mio scopo-
Il Joker sorrise.
Un sorriso a labbra strette, che sembrava recidere la carne piuttosto che abbellirla.
Un sorriso raggelante, ma vero.

- Harley Quinzel...- sussurrò lui, come se fosse in trance, accarezzando con un dito lo zigomo della donna, analizzando il candore della pelle, lasciandosi guidare da quella linea tanto sottile, tanto perfetta:- Che ne direbbe di... Harley Quinn?-
La dottoressa si allontanò, un gesto involontario e del quale si pentì. Non riusciva a staccare gli occhi da quella figura intimorente, quasi demoniaca. La repulsione era fortissima.
L’attrazione, dieci volte peggio.
- Le piace giocare con i nomi, signor J?- chiese, con voce tremante, nervosa.
- Non quanto mi piace giocare con lei- rise lui, come se si stesse sinceramente divertendo:- Per mia sfortuna, lei è tremendamente brava. Di solito io vinco, a questo punto-
- Di solito io faccio al mio paziente delle domande, a questo punto- ribatté lei, scaltra.
Lui poggiò una mano sulla scrivania, con atteggiamento sicuro. Si scostò i capelli dal viso con estremo fastidio. Per un attimo Harley pensò che avrebbe rinunciato a quello spettacolo spettrale e che si sarebbe arreso, sedendosi al suo posto e facendole completare quella seduta che le era costata tanto cara.
Invece, non lo fece.
Continuò a sorridere, quel sorriso imperturbabile e vuoto che le faceva venire i brividi.
- Non si stanca di sentire tutti i problemi degli altri?- mormorò lui, ancora:- Non vorrebbe che qualcuno ascoltasse i suoi, di problemi?-
- Io non ho problemi di alcun genere- si affrettò a rispondere lei:- Sono pagata per non averli-
- Vile, vilissimo denaro- esclamò lui, scavalcando la scrivania con un’agilità che la dottoressa non si sarebbe mai aspettata:- Può nascondere la polvere sotto il tappeto, ma non se ne andrà mica. Io posso aiutarla-
- Stiamo invertendo le carte- rispose lei, alzandosi dalla sedia con impeto, stanca di quel gioco:- Si sieda, per favore. È lei che ha bisogno di una terapia, non io-
- Si sta scaldando così tanto!- ridacchiò lui, divertito:- È perché non ci crede, non è vero?-
- La smetta...-

- Io so che cosa provi, Harley- sussurrò lui, avvicinandosi pericolosamente:- È del tutto normale. Oh, quanto dev’essere stata noiosa la tua vita... Senza nessuno che scoperchiasse questo meraviglioso scrigno, pieno di luccicanti tesori...-
Sgusciò alle sue spalle, rapido e letale come un serpente. Sentì le sue mani fredde prenderle le tempie, afferrarle la testa. Le sembrava quasi di non poter respirare.
Non si mosse, come paralizzata, forse dalla paura o dalla sorpresa.
Cercò di scrollarsi, ma la padronanza del corpo sembrava averla abbandonata. Le mani di lui correvano tra i suoi capelli come i vermi s’infilano nei muri per corroderle i pensieri. La stava modellando come una palla di plastilina. La stava controllando.

- Possono essere tutti miei, se lo vuoi- le mormorò lui all’orecchio.
La sua voce sembrava una lenta ipnosi, come se la stesse lentamente guidando in un coma:- Posso liberarti di questo peso. Anni ed anni di fatiche inutili ti gravano addosso. Per questo ci sono io-
Era assuefatta da quella voce. Ne voleva di più. Voleva che parlasse, che continuasse a fare quel suo gioco. Non ci stava solo prendendo gusto, le piaceva.
Le piaceva in un modo che non aveva mai provato, e voleva provarlo ancora.

- Questa gente... Non ti capisce. Ed è inutile che tu provi a diventare come loro. Tu sei diversa... Oh, so che lo sei. Loro sono noiosi. Sono già morti. Io e te, invece...-
Fece una breve pausa, come per prendere fiato. Harley chiuse gli occhi, lasciandosi andare a quella sensazione di cocente, proibita, meravigliosa libertà.
- Possiamo andare dove loro non sono mai andati. Tu puoi venirci con me. Sono l’unico che ti capisce... Gli altri ti crederebbero solo pazza...-

Pazza.
Aveva sbagliato tutto. Aveva curato le persone sbagliate, aveva agito nel modo sbagliato.
Pazzi erano coloro che avevano cercato di guardare oltre la paura.
Pazzi erano quelli che avevano visto giusto, e lei era stata troppo stupida per capirlo.
Poteva cambiare per lui, fare la cosa giusta. Il Joker poteva essere la sua chiave di svolta.
Pazza.

Sentì le mani dell’uomo scivolare via come quando la realtà ci sbatte in faccia l’illusione del sogno: violentemente, e troppo velocemente. Si sentì debole, e si appoggiò alla sedia della scrivania, tremando.
Lui la guardò con aria d’intesa, come se condividessero un segreto.
Si sistemò il colletto del cappotto con nonchalance, come se non fosse successo niente.
Harley gli scoccò uno sguardo carico d’apprensione. Si sentiva debole, fiacca.
Che cosa diamine era successo?
- Allora, vuole procedere con le sue inutili domande?- chiese lui, rimettendosi a posto nella sua sedia.
Harley lo fissò, con gli occhi iniettati di sangue. Non poteva essere vero. Doveva essersi immaginato tutto.
Ma aveva sentito quella voce. Ne era certa.
E quel sorriso... Quell’orrido, gelido sorriso...

- Se ne vada- esclamò lei, prendendosi la testa tra le mani, massaggiandosi le tempie:- Adesso-
Lui sorrise soddisfatto, e si alzò con calma, avviandosi verso la porta. Prima di girare il pomello, però, buttò la testa all’indietro, come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa.
Sghignazzò, e Harley non poté che provare un profondo risentimento verso quell’uomo. Era lui l’origine del suo dolore, della sua debolezza. Era colpa del Joker, non sua. Lei non aveva fatto niente... Lei aveva sentito... Non se l’era immaginato... Era colpa sua...
- Quindici minuti- sussurrò, con uno sguardo enigmatico.
Prima che lei potesse rendersi conto di ciò che aveva detto, lui varcò l’uscio, sparendo dalla sua vista.
Il registratore continuava a ronzare, segno che aveva registrato tutto. Lo fermò, e riascoltò l’audio, fremendo per la paura. Non sentì niente. Assolutamente niente.
Si portò di nuovo le mani ai capelli, sussurrando a sé stessa incoraggiamenti inutili.
Non poteva essersi immaginato tutto. Il Joker era lì, un minuto fa. Le aveva controllato la testa.
Era l’artefice della sua confusione, doveva essere uno dei suoi trucchi...
Era stato lui, solo lui, a farle questo... Non poteva essere... Non poteva essere diventata... Pazza.
Tremando ancora come una foglia al vento, la dottoressa guardò l’orologio affisso alla parete del muro.

Quindici minuti esatti erano passati da quando quell’uomo aveva varcato la soglia del suo ufficio.
In quindici minuti, lei era già sua. 
   
 
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Batman / Vai alla pagina dell'autore: Youth_