Ciò
che resta
nonostante
tutto
Dopo
aver corso molto, le gambe proseguono da sole. Sono gli stessi
muscoli a continuare a muoversi e così viene messo un piede
davanti
all'altro, un piede davanti all'altro, un piede davanti
all'altro.
Fermarsi era la fine. Fermarsi era consegnarsi ed Anders non era
pronto.
Il gruppo che aveva lasciato Kirkwall nel caos della
follia rossa era ormai lontano da Meredith – il rumore del
mare era
solo nella testa di chi fuggiva dall'onda che minacciava di
travolgerli e disperderli.
Il primo ad andarsene era stato
Fenris, seguito a breve da Merrill. Ma Hawke non si era preoccupato:
sapeva che se la sarebbero cavata. Poi fu il turno di Aveline, che
aveva annunciato che forse sarebbe tornata a Kirkwall – anche
se le
era chiaro che tornare laddove era considerata traditrice, difensore
di un eretico nonostante la sua posizione di spicco fosse un suicidio
annunciato. Il giorno dopo anche Isabela decise di abbandonare i
fuggitivi: fuggitiva, comunque, era lei stessa e poi – aveva
detto
con un sorriso beffardo – si stavano allontanando troppo dal
mare.
Prima di andarsene aveva concesso a lei e Hawke ciò che
sempre aveva
aleggiato, ma che per amor dell'Impuro era stato ucciso: si baciarono
e lo fecero per dirsi “arrivederci”,
perché entrambi sapevano
che quella non era la fine. Sotto lo sguardo imperscrutabile di
Anders, poi, la formosa piratessa aveva pizzicato affettuosamente la
guancia del biondo. Era stato quello il suo saluto – in pieno
stile
Isabela.
E senza dubbio anche il saluto di Varric era stato
sentito. Il nano aveva preso da parte Hawke, l'aveva osservato col
petto villoso gonfio e gli aveva porto la mano. Il mago l'aveva presa
e stretta, attirando l'altro in un abbraccio contenente dei
“grazie”,
dei “prego”, dei “abbi cura di
te” e degli “arrivederci”.
Tutto ciò che dovevano dirsi, in fondo, se lo erano
già detti
all'Impiccato tra un boccale di birra e una risata. E poi a dirla
tutta nessuno dei due era troppo il tipo da sentimentalismi.
Hawke
e Anders si erano concessi il risposo finché la figura bassa
e tozza
del nano non fu scomparsa dietro il crinale di una collina, mentre il
vento spazzava l'ambiente brullo intorno a loro e un ululato si
lamentava in lontananza. A quel punto, guardandosi intorno, sotto un
cielo più grande di loro, si resero conto che se fino a poco
prima
si erano reputati soli, adesso soli lo erano sul serio. Gli alleati
andati, la caccia aperta, il Campione di Kirkwall e l'Eretico
ricercato, mero contenitore per il grande spirito Giustizia. Questo
era ciò da cui dovevano fuggire – fuggire, a conti
fatti, da ciò
che erano.
La
notte era calata e loro si erano forzati a muoversi di nuovo. Stare
fermi era rischioso e loro non potevano permetterselo – non
per
tutto ciò che di bello dovevano proteggere. Avevano saltato
la cena,
a malapena avevano bevuto e col solito ritmo incalzante che si
imponevano ormai da giorni, alla fine, ripiegando sulla costa
scoscesa e ripida, erano giunti in prossimità di un campo in
evidente stato di abbandono. Erano stati cauti: non sapevano con
precisione dove si trovassero e dunque per quanto ne sapevano poteva
anche essere il covo di una qualche banda di briganti. Dopo aver
controllato nelle prossimità del luogo ed aver concordato
sul fatto
che potevano quanto meno permettersi di fingere di essere sotto un
tetto, si erano fermati. La struttura era malconcia ed entrambi si
stupirono del fatto che ancora non si fosse sbriciolata, portata via
dal vento. Era fatta di mattoni, che sul versante nord erano crollati
miseramente, concedendo ai due fuggiaschi il panorama di alcune vette
in lontananza e la luna permessa ad intermittenza da nuvole scure che
passavano, ratte come topi.
Erano tre ambienti, le assi del tetto
assenti in più punti e le tegole cadute all'interno, tutto
marcio
fino all'osso – un po' come loro, per certi versi. Mancava
perfino
la porta, ma, seppur tacitamente, sia Hawke che Anders apprezzarono
quelle quattro mura: Da quando avevano lasciato tutto –
tutto:
speranze, ideali, vite e ricordi – quello era ciò
che più si
avvicinava alla loro vecchia casa.
“Possiamo accendere il fuoco,
secondo te?”
Domandò Anders sottovoce, come se i gufi che
occhieggiavano dagli alberi potessero riferire la loro posizione.
L'ormai ex Campione di Kirkwall parve soppesare un istante la
possibilità, puntando gli occhi d'ambra sulle mani sporche e
callose. Alla fine sospirò, ma annuì: entrambi
erano infreddoliti e
cenare davanti ad una fiamma, piccola ma vibrante, li avrebbe
ristorati. Così il guaritore mosse quei pochi passi che lo
separavano dall'angolo della casa dove erano presenti qualche trave e
probabilmente un pezzo di ciò che un tempo era stata una
sedia e,
una volta presi, li pose difronte al compagno; con un gesto rapido
della mano lo scheletro della stanza venne rischiarato di una luce
aranciata – così stonante nell'ambiente tetro, ma
indispensabile.
Mormorava di serate passate ad amarsi e marchiarsi davanti al
caminetto, nascosti al mondo che rifiutava, di lingue intrecciate e
risate soffuse e – addirittura aleggiò un sorriso,
sul volto
segnato di Anders.
Era la prima sera che passavano da soli ed
entrambi erano piuttosto silenziosi, ognuno perso nei propri
pensieri. Da lì – se ne rendevano conto tutti e
due – cominciava
un'altra vita. Una vita incerta, oscura, spigolosa e già
usurata
nonostante fosse ancora intoccata. Una vita insieme – e non
insieme
come a Kirkwall. I titoli avevano perso di significato –
forse
perfino i nomi l'avevano fatto ed ora ad attenderli c'era la
ricostruzione di un ennesimo mondo solo loro. Sapere comunque che
l'altro c'era e ci sarebbe stato li confortava.
Il pasto fu magro:
alcune strisce di carne secca a testa lasciate loro da Fenris, un
paio di noci e alcune radici trovate lungo il cammino.
Mentre
Anders masticava la radice dolciastra che si impastava tra denti e
saliva, decise di prendere la parola: “Domani dobbiamo
assolutamente cercare qualcosa da mangiare. Carne fresca, intendo. Un
paio di conigli, magari, o i fagiani – ne ho visti alcuni
mentre
perlustravamo la zona.”
Hawke arricciò il naso segnato dalla
cicatrice rossa, profonda e così caratteristica, annuendo.
Poi
sembrò bloccarsi, la noce che sgranocchiava rimasta a
ungergli la
bocca.
“Perché hai fatto saltare in aria la chiesa,
Anders?”
Fu a quel punto che il gelo calò sui due uomini. Perfino
Giustizia taceva e solo il vento s'azzardò a fischiare
più forte,
facendo vacillare la fiamma tra i due. L'arancione era sventolato
precario davanti ai volti dei due fuggiaschi, allungando e
mistificando i tratti, addensando ancora di più il silenzio
già
pesante.
Il tempo passato insieme era stato chiaramente tanto, ma
non avevano avuto modo di parlare – per ovvi motivi. La
priorità
era stata sapere d'essere insieme, ma braccati come volpi. La
priorità era stata sapere di star bene, ma appesi ad un
filo. Ora
che il burrone dentro cui era così facile cadere sembrava
giusto un
po' più lontano, l'ostacolo si era parato innanzi al moro
con
prepotenza e non avrebbe potuto far altro, se non chiedere.
La
striscia di carne secca che il guaritore ora stava mangiando venne
riposta ordinatamente nella bisaccia, il cuore ovunque
fuorché al
suo posto, gli occhi azzurri che faticavano a discostarsi dai
riflessi vermigli del fuocherello.
“Non era possibile fare
altrimenti, Hawke.”
Rispose allora, le parole scandite con la
cura dell'amante e la gentilezza dell'amico. O della cristallina
follia del posseduto.
“Sarebbe stato possibile fare altrimenti,
invece. Se solo avessi avuto la decenza di venirmelo a dire, invece
di farmi trovare davanti ad Orsino e Meredith e--- te, che sembrava
quasi attendessi che ti ammazzassi.”
Questa fu la gelida
risposta. Hawke avvertiva ora come la sua rabbia si stesse riversando
nelle vene – la stessa che aveva represso e soffocato per
tutto
quel tempo. E tuttavia lo amava: gli aveva fatto male vederlo
additato come unico colpevole, sì, ma mai quanto essere
consapevole
di quanto l'altro fosse stato lucido nel compiere un atto del genere.
Vederlo uccidere degli innocenti per la propria causa aveva fatto
sì
che Hawke si rendesse conto che quando si riferivano ad Anders come
ad un pericolo, avevano ragione. Anders non era un eroe, né
tanto
meno il principe delle favole. Anders era incredibilmente Anders,
l'eretico, la
mela avvelenata,
innocente e bellissima a vederla e letale, ed
avrebbe detto il falso se avesse sostenuto che non era un colpevole.
Un idealista, spietato e folle e, di nuovo, colpevole.
E tuttavia lo amava.
“Mi avresti fermato e ti avrei messo in
pericolo.”
La ragionevolezza che il biondo sembrava voler
ostentare non fece altro che far scattare minacciosamente la mascella
dell'altro, mentre stringeva i pugni.
“Mi hai messo in pericolo
comunque! Hai messo in pericolo te stesso e tutti noi – mi
hai
lasciato scegliere se cacciarti o ucciderti quando Kirkwall stava
impazzendo, pensando che sarei stato in grado di vederti affogare nel
tuo fottuto sangue mentre la città guardava applaudendo il
Campione
che aveva ucciso l'Eretico come un maiale! Questo – questo tu
come
lo chiami?!”
Da Anders non ricevette nessuna risposta – solo
un silenzio pregno di dignità e tutt'altro che pentito. Se
ne stava
seduto ancora composto, bello come un raggio di sole filtrato dalle
tende la mattina, con il peso della consapevolezza che veniva retto
dalle sue ampie spalle e la convinzione della giustezza delle sue
azioni che era chiaro sul suo viso.
“Ti dico come lo chiamo io,
allora: – proseguì Hawke, il volto irrigidito e il
collo arrossato
– egoismo.”
A quel punto Anders ebbe un fremito nervoso,
neanche quelle parole avessero fatto breccia nella sua trincea. Lui,
lucido e forte delle sue convinzioni, aveva fatto tutto quanto
tutt'altro che per egoismo. L'aveva fatto perché tutti i
maghi
potessero insorgere – perché anche i muti avessero
quello
stendardo da erigere e una guerra da combattere. Gli era parso che la
sua posizione fosse stata ampiamente appoggiata dal compagno e si
ricordava delle promesse che si erano fatti (“un giorno due
maghi
come noi potranno amarsi alla luce del sole, liberi”),
condivise e
rinchiuse nella gabbia toracica come in uno scrigno, ed adesso chi
travisava così gravemente il suo comportamento era stato lo
stesso
ad averlo amato ogni notte.
“Ti avevo detto fin dall'inizio che
la mia impresa era più grande di qualsiasi cosa –
di me e di noi
due. Ti avevo detto che non dovevi chiedere, che dovevi fidarti e tu
l'hai fatto. Perché adesso non ti sta più
bene?”
Hawke si
alzò, le mani immerse nella chioma nera e lucida come le
scaglie di
un drago. Scosse il capo: “Mi è costato
enormemente lasciarti fare
senza saperne niente! Ti ho chiesto mille volte cos'avevi in mente e
– cosa potevo fare!? Ho insistito, ti ho pregato, ho provato
con
tutto me stesso a farti da spalla in questa follia – tu non
hai
voluto. Tu hai lasciato che scoprissi tutto all'ultimo come chiunque
altro, Anders. Merda, mi sono sentito tradito! Da te!”
Dopo
quel monologo, sputato fuori come acido e doloroso altrettanto per le
lingue, l'atteggiamento serafico di Anders si incrinò un
po'. Ciò
che colpì e ferì ulteriormente Hawke fu vederlo
trincerato dietro a
quel muro che aveva deliberatamente eretto, fermo nelle sue
convinzioni; e d'altronde ormai lo conosceva: la causa del guaritore
sarebbe perennemente venuta prima di tutto.
Si stupiva sempre
della lucida follia che riversava in tutto ciò che faceva, e
se in
un primo momento l'ex campione aveva provato un misto di fascino e
inquietudine, a questo punto non c'era niente che potesse fare:
l'amava. Anche gli anfratti scuri, gli angoli non smussati e
taglienti, le ferite purulente e infette – amava tutto e
tutto si
faceva amare. Era Anders che in fondo aveva il controllo della
situazione: il compito di Hawke consisteva in una semplice decisione
da prendere – che a dir la verità aveva
già preso mesi prima,
senza neanche provare a
vagliare
l'alternativa. La
questione era se rimanere o meno nel turbinio che aveva il biondo nel
petto. Dopo la prima volta che aveva potuto godere la vista di quella
filigrana d'oro bagnata, dopo che ci aveva passato le mani in mezzo
aspettandosi di trovarla placcata – allora aveva
già scelto.
“Mi
dispiace – non era mia intenzione farti stare
così, amore mio.
Però se aspetti che mi scusi per ciò che ho fatto
– per non
averti coinvolto... sappi che lo rifarei. Sappi che se tu decidessi
di uccidermi ora l'accetterei.”
Le parole di Anders affondarono
nella stanza come in mezzo alla melassa. Lo fecero lentamente,
pesanti, facendosi spazio nei cervelli di entrambi con una calma
stucchevole. Le dita di Hawke ebbero uno spasmo e per un istante
l'altro pensò davvero che si sarebbero strette sull'elsa del
pugnale
rugginoso fissato in vita. Queste, tuttavia, non lo fecero.
La
mano di Hawke era ancora inguainata dall'armatura del campione,
placche di ferro finemente lavorate a chiudersi sulle sue dita fino a
coprire tutte le falangi. Quando Anders aveva visto quel bracciale la
prima volta l'aveva osservato con attenzione, sorridendo ampiamente;
sembrano degli artigli
– aveva detto. Molto da Campione di
Kirkwall, Hawke.
Poi,
all'improvviso, ci fu qualcosa che nessuno dei due si aspettava: lo
scatto violento del moro.
La mano si era chiusa a pugno come se
fosse di un burattino, non sua, e poi aveva colpito forte la guancia
ruvida di Anders. Nessuna arma, né magia. Solo la forza
nutrita
ossessivamente dalla rabbia e la paura e la stanchezza.
La rabbia
per ciò che aveva visto. Paura di averlo perso. Stanchezza
della
fuga.
Paradossalmente Hawke si chiese proprio in quel momento,
mentre il compagno si copriva la gota con aria genuinamente sorpresa,
se il suo destino non sarebbe stato quello di vivere come profugo per
sempre, in fuga dal mondo intero. Aveva guardato Anders un momento di
più e aveva capito che no, non lo sarebbe stato: casa sua
era lì,
anche se ora sanguinava.
Quando il biondo aveva tolto le dita
dalla guancia, si accorsero entrambi di come facesse sfoggio di
sé
un taglio slabbrato, ma non troppo profondo – sicuramente
provocato
dall'armatura dell'ex Campione. Subito vide Hawke sporgersi, con la
mano già illuminata da una tenue luce giallina e
un'espressione
indecifrabile, pronto a curare quello slabbro che colava sangue come
le dita delle ombre che popolavano i loro incubi, vomitate
dall'Oblio. Tuttavia Anders si ritrasse, scuotendo piano il capo e
limitandosi a pulirsi dal liquido rosso e viscoso: “No.
È giusto.
Farà il suo corso e se Giustizia lo permetterà,
rimarrà. Servirà
da monito ad entrambi.”
Era sereno mentre pronunciava quelle
parole. Hawke osservava quel bel volto sfigurato e ringraziava il
Creatore o chi per lui gliel'avesse messo sulla strada. Hawke
l'osservava e sapeva che Anders non se ne pentiva – non si
pentiva
di niente. E tuttavia – ancora
– l'amava.
“Sai cosa davvero non tollero?”
Domandò,
mentre gli si accostava e gli prendeva delicatamente il mento tra
pollice e indice. L'eretico non si era scostato, ma entrambi sapevano
che il timore iniziale era stato quello di subire un altro colpo (ed
erano entrambi abbastanza sicuri che Giustizia non gliel'avrebbe
permesso).
Anders scosse la testa, gli occhi grandi.
“Che
nonostante tutto non riesco davvero a smettere di volerti con
me.”
La
voce di Hawke si era abbassata di diversi toni, finendo per ridursi
ad un sussurro che mostrava tra gli spiragli una
vulnerabilità
completamente sconosciuta. Il biondo vedeva la paura, nell'altro, e
ne rimase colpito come se un qunari l'avesse appena
caricato.
Incitato dalle dita del compagno, ancora ferme sul suo
viso, si sporse finché le loro labbra non si trovarono a
metà
strada. Il contatto fu inizialmente casto e candido, ma il respiro di
entrambi si fece pesante nel giro di qualche istante: c'erano solo
quelli e il crepitio discreto del fuoco a interrompere il silenzio
denso della notte. E poi il bacio divenne affamato, famelico, tutto
morsi e schiocchi e lingue intrecciate e mani che stringevano troppo.
La guancia di Anders faceva ancora male ed ora era il turno di
Hawke di sanguinare, a seguito delle unghie spezzate dell'altro che
si erano aggrappate dietro al suo collo e stringevano. Si graffiarono
e si spogliarono e si morsero come bestie e fu animalesco l'amore tra
di loro, perché c'era bisogno di amarsi, sì, ma
anche di farsi
male. E la loro specialità, d'altronde, era quella.
Tra
bocche tappate e pugni tirati al pavimento e carne stretta, era sorta
l'alba. Era sorta e li aveva sorpresi entrambi addormentati, ancora
nudi, con la mano di Hawke placidamente posata sulla pancia nuda e
rossa di ferite superficiali dell'altro. Era l'unico contatto che
avevano.
Il risveglio fu lento e dolce, neanche nuotassero nel
miele, in completo contrasto con la rabbia stretta tra le cosce della
sera prima. Si erano dati un buongiorno umido di baci, mentre gli
uccellini fuori frullavano le ali e una cappa d'umido soffocava la
loro vita instabile.
Hawke aveva scrutato il taglio dritto sulla
guancia del compagno, il sangue secco. Poi aveva schioccato la lingua
contro al palato.
“Rimarrà la cicatrice.”
Anders aveva
annuito, con gli occhi per una volta limpidi e il sorriso tranquillo.
“Rimarrà. E sarà la nostra
storia.”
Walking_Disaster's
corner:
Non so
davvero che pensare di questa FF. Sono sempre più convinta
d'aver
avuto un calo rispetto all'anno scorso – o anche due anni fa,
ma è
una cosa con cui devo fare i conti e non smetterò di
scrivere (non
ora che ho trovato un nuovo fandom da riempire poi, AH!)
perché mi
ritrovo ad apprezzarmi meno.
E' con questa FF, che dedico a me e
al mio Anders, perché come lui non c'è nessuno,
che mi prometto che
lavorerò. Lavorerò e chissà
– magari un giorno leggerò di
Anders – del mio
Anders – e mi dirò brava.
Spero vi piaccia, lasciate un
commento se vi va! :)
WD