Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
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Autore: Dobhran    14/06/2016    0 recensioni
Si avvicinò per sussurrarmi nuovamente nell'orecchio, a bassa voce come per rendere quella conversazione il nostro sporco segreto. «Lui ti ha fatto delle promesse che non può mantenere, assicurandoti che ti proteggerà. Io invece sono un uomo di parola e ti faccio la mia promessa: ti ucciderò. Non so come, non so quando, ma so per certo che morirai. Non ti lascerò tregua, ti tormenterò, ti farò soffrire e soprattutto farò soffrire lui che guarderà la sua protetta spegnersi per colpa sua».
- La distrazione di una sera e Amber si trova a dover affrontare un pericolo più grande di lei, un predatore spietato e all'apparenza imbattibile. Impaurita, isolata e incapace di distinguere gli amici dai nemici, la realtà dall'incubo, Amber sarà spinta al limite delle proprie forze. Ad aiutarla, un ragazzo misterioso e dall'aria innocente che afferma di essere qualcosa in cui Amber non ha mai creduto. In fondo, angeli e demoni sono solo frutto di sciocche superstizioni popolari...giusto? -
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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L’uomo che agirà con presunzione e senza ascoltare il sacerdote che sta là per servire il Signore tuo Dio, o il giudice, quest’uomo morirà.
Deuteronomio, 17,12.




2.




Per tutto il giorno mi godetti la familiare assenza di mia madre e la piacevole convinzione di essere stata più furba di lei, nonostante non avessi ancora avuto l’occasione di dimostrarglielo. Ogni volta che il senso di colpa sembrava avere il sopravvento, lo ricacciavo indietro ripensando a quanto alla mia età fosse normale avere qualche piccolo moto di ribellione nei confronti dell’autorità. A mia discolpa, mia madre era una vera strega, perciò non avevo nulla di cui sentirmi veramente responsabile. E poi era lei che mi chiedeva di cavarmela, perciò davo per scontato che uscire senza un vero e proprio benestare da parte sua rientrasse nella categoria dell’arrangiarsi.
Restare a casa da sola per me non era un problema. Fin da piccola ero stata forzata dalle ambizioni e dalle esigenze lavorative dei miei genitori. Entrambi nel ramo legale, avevano poche ore da dedicare alla cura della vita domestica, e se un tempo la cosa aveva dato segno di disturbarmi o dispiacermi ora non potevo che essere felice di gestire da sola la mia casa. La responsabilità di quelle mura non mi pesava, anzi, mi spronava alla cura dei miei spazi e mi assicurava che ero in grado di farcela anche senza grandi aiuti.
Louis spesso mi prendeva in giro perché non mi dispiaceva fare le pulizie e mi definiva una maniaca dell’ordine. Quale ragazza di diciotto anni sana di mente amava passare l’aspirapolvere e lavare i vetri? Per quanto insistessi nel ripetere che non si trattava di un’ossessione, non potevo dargli tutti i torti e non riuscivo a fare a meno di assicurarmi che tutto in casa mia fosse in condizioni adatte a renderla vivibile, per me e per qualsiasi eventuale ospite.
Un’altra mia passione che riguardava la sfera domestica era la cucina, ma in questo caso Louis non aveva nulla da ridire dato che lui era uno dei miei assaggiatori di fiducia.
Non lo consideravo un semplice interesse, bensì un amore trasmessomi dal sangue di mia nonna attraverso le vene di mio padre, saltando una generazione e colpendo solo me in famiglia, e alimentato dalla necessità di non morire di fame o non consumare troppo cibo spazzatura a causa della mancanza dei genitori per gran parte della giornata.
Mia madre non amava cucinare, non era molto brava e non aveva nemmeno il tempo per cimentarsi in piatti che richiedessero troppo tempo. Non aveva mai preparato qualcosa di disgustoso, immangiabile o portatore sano di intossicazioni, ma sembrava che tutta l’indifferenza che provava nei confronti del cibo si riversasse nei suoi piatti, perciò preferivo di gran lunga arrangiarmi anche in quella attività. Senza contare che era anche terribilmente sbadata. Soprattutto negli ultimi tempi, quando faceva tardi sul lavoro, non mangiava assieme a me. Pur senza esserne sicura potevo immaginare che tenesse in ufficio diversi menù di ristoranti take away. Non disprezzavo le ordinazioni a domicilio, ma ero quasi contraria al concetto di cucina semplicemente come mezzo per placare la fame e riempirsi lo stomaco. Vedevo una sorta di strana magia nella preparazione di un piatto, una scintilla di passione che si riversava inevitabilmente nel cibo, il segreto per raggiungere i sensi e il cuore dell’assaggiatore. Era un lento corteggiamento fatto di sapori, odori e combinazioni speciali, perciò fin da piccola mi ero data da fare per imparare la sottile e meravigliosa arte della buona tavola, dapprima semplicemente affascinata dai movimenti della nonna in cucina, poi sempre più decisa a partecipare in prima persona. Avevo appreso da lei tutto il possibile e aperto finalmente i libri di ricette in casa nostra, mai utilizzati se non per esperimenti finiti male. Ora erano davvero degni di definirsi ricettari, non più così intatti come lo erano stati al tempo dei tentativi di mia madre, ma pieni di annotazioni in matita ai lati della parole stampate, precisazioni da me scritte dopo esperimenti e verifiche, qualche macchia indefinita sulla carta e foglietti volanti infilati tra una pagina e l’altra, pronti a planare a terra ogni volta che estraevo un volume dalla mensola.
Nonna aveva il merito di avermi insegnato le basi, ma un ruolo fondamentale l’aveva giocato anche la mia curiosità di bambina e la determinazione a voler fare sempre meglio. Ciò che di lei più mi aveva colpito era la luce che scorgevo nei suoi occhi ogni volta che si sfiorava l’argomento cucina. La parola passione acquistava senso quando ricordavo il suo viso lievemente paffuto, dalla pelle costantemente profumata di saponetta e morbida come il velluto. E oltre all’aroma di pulito, ripensando a lei affioravano nella mente gli stessi odori che da piccola mi aveva insegnato a riconoscere e amare.
Quella mattina cercai una distrazione dietro ai fornelli, cucinando qualcosa di semplice ma che mi tenesse occupata la mente da pensieri che non riguardassero solo l’uscita di quella sera. Feci un salto al supermercato per prendere qualcosa di fresco e passai il tempo così, accompagnata dallo sfrigolio delle verdure e dall’aroma che la carne rilasciò nella cucina.
Quando fu il momento, salii elettrizzata le scale che portavano alle camere da letto e ai bagni che ad esse erano accostati. Quando in casa eravamo ancora in quattro era stato utile avere il proprio lavandino personale, una doccia tutta per sé, una vasca e uno spazio riservato dove poter mettere le proprie cose senza il rischio che qualcuno ci mettesse il naso o invadesse territori altrui. Ora che vivevo da sola con mia madre, c’era un bagno in più, completamente inutilizzato perché l’abitudine mi spingeva ad usare sempre e soltanto il mio.
Ero lì quando squillò il telefono, impegnata a depilarmi le gambe per la grande occasione. Non avevo bisogno di essere una sensitiva per indovinare chi fosse. Sapevo che prima o poi l’apparecchio avrebbe dato segni di vita, perciò lo avevo messo a portata di mano, accanto alla vasca, sul cesto dei panni sporchi. Sciacquai via la schiuma dalle mani e afferrare il telefono con le dita ancora bagnate, sgocciolando sulle piastrelle.
Il fattore scatenante della chiamata era stato un sms al mio migliore amico Louis, risalente a pochi minuti prima: Mia madre ha detto no per stasera. Una frase volutamente misera, senza particolari spiegazioni o scuse, per scatenare nel ragazzo la reazione che volevo e che mi esplose nell’orecchio non appena risposi alla chiamata.
«Cos’è ‘sta storia?» strillò Louis, la voce resa acuta dall’agitazione.
Con il telefono in precario equilibrio tra guancia e spalla, continuai l’operazione.
«Niente...» mormorai per tutta risposta, con una voce che volutamente tinsi di finta delusione. Dentro di me il mio stomaco si contrasse in un miscuglio di emozioni che comprendevano la gioia immensa di poter uscire con lui e Jenny e quel tocco di proibito che la disobbedienza a mia madre mi stava procurando.
«…è solo che mia madre si è voluta mettere in mezzo anche stavolta. Proprio non le va giù che vada in quel posto, dice che è pericoloso».
«Pericoloso? Andiamo in un locale, non a prendere a calci i tori».
Aprii il rubinetto quanto bastava perché un filo d’acqua scorresse nella vasca, e sciacquai il rasoio, contemplando il risultato. Una striscia di pelle liscia percorreva la mia gamba, interrompendo in verticale il candore della schiuma. Una piccola strada in mezzo alla neve.
Dato che tardavo a rispondere, Louis insistette con un che di lagnoso nella voce.
«Dai, Amber, non puoi farmi questo, sono settimane che programmiamo questa serata, non possiamo buttare tutto all’aria! Per di più mi avverti solo ora? Mi sono già preparato!»
Fui grata del fatto che una normale conversazione al telefono potesse celare la mia espressione, di certo troppo rivelatrice del divertimento che stavo provando. La voce lievemente stridula del ragazzo mi convinse a tacere ancora un secondo, per godermi appieno la sua vana frustrazione. Lo sentii sospirare profondamente nel ricevitore e mi scappò una mezza risata che nascosi con un colpo di tosse.
«Lo sai che diceva Orazio?» riprese dopo qualche istante di silenzio, facendomi alzare gli occhi al cielo. Tipico di Louis imbarcarsi in riflessioni filosofiche e adattarle come più gli piaceva. Pensai di interromperlo prima che procedesse con la predica, ma decisi di lasciarlo parlare, per vedere dove sarebbe andato a finire col discorso.
«Che diceva?» lo incalzai, pur sapendo che assecondarlo non era una buona idea. Era la stessa regola che valeva anche per i bambini capricciosi.
«Diceva di cogliere l’attimo, Amber. Carpe Diem
«Che buffo, credevo che alle lezioni di latino dormissi».
«Sì, ma ho visto L’attimo fuggente. Robin Williams mi ha insegnato molto».
«Non credo che la frase sia stata ideata in previsione di una serata di ballo scatenato e drink a basso costo» avvolsi entrambe le gambe in un asciugamano e stetti in silenzio, sorbendomi il mio migliore amico che teneva un’improbabile conferenza al telefono su come la vita fosse fatta per essere vissuta appieno.
«Che importa a cosa si riferiva? È un concetto perfettamente utilizzabile anche per la nostra situazione. È necessario rendere attuale ciò che è antico, togliere la polvere e le ragnatele dalle frasi di chi ci ha preceduto e renderle nostre, non credi?»
«Non so che dirti Louis, lo sai com’è fatta mia madre, ha le sue idee, le sue convinzioni. È difficile farle cambiare idea quando si intestardisce».
«Non vedo perché dovrebbe preoccuparsi, non si fida di me? Potrei proteggere sia te che Jenny ad occhi chiusi».
Stentavo a crederlo, ma non lo dissi ad alta voce per non ferire il suo ego di maschio. Non era un palestrato e non lo sarebbe mai stato. Amava dormire fino a tardi e non evitava di riempirsi di schifezze quando ne aveva l’occasione. Non era ciò che si definiva un salutista e il massimo di movimento che per lui valeva la pena di essere compiuto era muoversi come una biscia quando ascoltava il suo iPod. C’era da dire che aveva un gran senso del ritmo, era imbattibile sotto quel punto di vista, ma non credevo che bastasse per difendere due donzelle in pericolo. Se mai ce ne fosse stato bisogno, ed era il caso di sottolineare il se più volte, che avrebbe potuto fare contro qualche malintenzionato? Ondeggiare i fianchi a ritmo di musica?
«Louis…» tentai di inserirmi invano nel suo monologo.
«Te ne pentirai, ne sono certo! Resterai a casa tutta la sera a girarti e rigirarti i pollici, struggendoti nel pensiero di aver mandato a monte una serata perfetta, per colpa di stupide preoccupazioni…del tutto infondate tra l’altro!»
«Louis, calmati».
«E soprattutto, di aver gettato nel più tetro sconforto il tuo migliore amico, per non parlare di…»
«Louis, frena la lingua, tesoro».
Lo specchio sopra il lavandino mi restituì il riflesso della mia immagine. Gli occhi scuri ereditati da mio padre mi fissavano dalla superficie liscia, incorniciati dalla pelle chiara del viso e da capelli biondi tagliati abbastanza corti perché non arrivassero alle spalle, ma sufficientemente lunghi perché coprissero le orecchie. Di natura erano lisci, ma avrebbero avuto bisogno di un severo colpo di piastra per correggere l’aspetto arruffato che assumevano ogni volta che li lasciavo asciugare all’aria. Era difficile stabilire da quale dei miei genitori li avessi ereditati, dato che erano biondi entrambi, ma di certo, e c’era da dire anche grazie al cielo, assomigliavo più a papà, tranne nella grandezza della bocca, presa certamente da mia nonna e che giudicavo più un difetto che una caratteristica graziosa. Si diceva che le donne dalla bocca grande fossero mangiatrici di uomini e dato che come definizione non mi si addiceva per niente, mi domandavo il criterio con cui avesse operato madre natura su di me. Probabilmente non aveva tenuto conto delle leggende popolari.
«Che c’è?» fece Louis nel ricevitore, distogliendomi dalla mia immagine nello specchio e dai miei pensieri. Per quanto fosse divertente prendersi gioco del mio migliore amico, il suo nervosismo mi convinse a darci un taglio.
«Tu mi conosci, non è vero?» chiesi.
«Meglio di chiunque altro, perché?»
«Allora sentiamo, da quando in qua ascolto quello che dice mia madre
Caricai le ultime due parole con disprezzo, in attesa che il mio migliore amico facesse due più due. Il silenzio nel ricevitore era assoluto, probabilmente stava persino trattenendo il respiro. Dopo quella che mi parve un’eternità lo sentii sospirare.
«Mi stai mettendo in difficoltà, Amber. Stai cercando di dirmi che visto che non le dai mai ascolto era giunto il momento di farlo oppure che rimani coerente in quello che pensi di lei?»
«Secondo te, testone?» Louis trasse un profondo respiro che mi parve quasi tremulo, come se l’adrenalina gli stesse attraversando tutto il corpo. Non riuscii a trattenere una risatina.
«Quindi vuol dire che…»
«Ho promesso di portarti al Mephisto stasera e così farò, che a mia madre piaccia o no. Si sbaglia se crede che basti sbraitare un po’ per farsi rispettare». Lo sentii prendere fiato.
«Davvero? Allora era tutto uno scherzo? Oddio, mi hai fatto prendere un colpo! Amber, ma sei pazza?» gridò nel telefono, probabilmente stringendosi il petto con la mano, con fare drammatico. «Hai giocato lo stesso brutto tiro anche a Jenny?»
«Certo che no, eri tu il bersaglio principale della mia perfidia, lei è troppo diplomatica, l’avrebbe presa benissimo. L’ho detto solo a te perché sapevo che ti saresti seccato di più. E ci sei cascato con tutte le scarpe, sei peggio di un bambino».
«Ma che stronza!»
«Ehi, vacci piano!» Finsi un tono offeso, ma bastava il mio sorriso a smentirlo. «Chi è che ti scarrozza in giro, stasera?»
«Ho detto stronza?»
«Ho sentito benissimo».
«Scusa, mi sono confuso, intendevo dire che sei un vero angelo, amore mio. Ti voglio bene lo sai? Beh, certo che lo sai, ma te lo ripeto. Ti voglio bene!» la sua risata, unita all’epiteto, mi scaldò il cuore anche attraverso il ricevitore e il paio di chilometri che ci separavano. Profonda, ma con un che di infantile che metteva allegria, come se il fatto che fosse già da un po’ entrato nella vita adulta non contasse nulla e non potesse cancellare l’inguaribile bambinone che giaceva nascosto da qualche parte dentro di lui. Conoscendolo stava saltando sul letto o qualcosa di simile, posseduto dal suo stesso entusiasmo. L’avevo visto ancora parlare al telefono ed era uno spettacolo imperdibile. Aveva la tendenza a camminare qua e là come una mucca al pascolo, ovunque si trovasse in quel momento. Se si trovava in camera, come immaginavo, era probabile che stesse percorrendo a lunghi passi la stanza e facendo su e giù dal letto.
«Non vedo l’ora di farmi due salti in pista, gli esami mi hanno prosciugato» continuò lui, il solito esagerato.
«Vacci piano, Tony Manero, la pazienza non è mai stata il tuo forte. Passo a prendervi alle otto in punto sotto casa di Jennifer. Fatti trovare pronto, bello e profumato».
«Nessun problema, io sono sempre bello, non c’è bisogno che mi sforzi. E anche voi ragazze, sarete splendide. Faremo un ingresso teatrale nel locale più fico di tutta San Francisco. A stasera, tesoro!» Mi schioccò un sonoro bacio nel ricevitore, con tanto entusiasmo che mi parve quasi di sentire le sue labbra sulla guancia, poi riattaccò, prima che potessi rispondere al saluto.
Uno dei maggiori pregi di Louis era la sua capacità totalmente disinteressata di farmi sentire bella in qualunque occasione in qualsiasi condizione mi trovassi, e lo stesso faceva con Jennifer. Era magnifico il suo modo di considerarci sempre speciali, qualcosa che mi gratificava e mi metteva a mio agio. Jennifer non era una grande amante dell’esuberanza, ma avevo l’impressione che quella di Louis fosse per lei fondamentale. Era familiare, confortevole anche per una come lei, così schiva e poco incline alle smancerie.
La mia bocca troppo grande sulla superficie riflettente dello specchio mostrò un sorriso enorme che esprimeva alla perfezione il mio entusiasmo.
Tutto stava andando alla grande e il prosieguo della serata sarebbe stato ancora meglio, non avevo dubbi al riguardo. E per quanto riguardava mia madre, che se ne stesse pure nel suo ufficio spazioso e più accogliente di casa sua, a rivoltare scartoffie assieme al misterioso Mr. Seymour, chiunque egli fosse.
Utilizzai tutto il tempo che mi rimaneva fino all’ora dell’appuntamento per finire di prepararmi, per sistemarmi i capelli e per pensare al trucco. I miei movimenti furono accompagnati dallo stereo acceso e dal cd che inserii per farmi da sottofondo. Essere sola in casa comportava un silenzio che certe volte era rilassante, ma che dopo un po’ trovavo snervante, perciò feci avanti e indietro dalla camera al bagno seguita costantemente da accordi di chitarra e dalla voce familiare di Van Morrison che intonava una canzone dopo l’altra.
Mi stirai i capelli, con il vapore della piastra che si alzava ad ogni passata, e nonostante sapessi che fosse più sicuro restare fermi durante l’uso dell’eyeliner, non riuscii ad impedirmi di tenere il ritmo con il piede nudo sul tappetino del bagno, sulle note di Brown Eyed Girl.
Fissai il mio viso e come una bambina intenta a rimirarsi dopo aver provato i trucchi di mamma, tentai qualche smorfia e diversi sorrisi, come se stessi cercando il migliore da sfoderare appena varcata la soglia del Mephisto. Decisi di lasciare intatta la bocca, abbastanza rosea senza che ci dovessi applicare rossetti o lucidalabbra.
Lanciai un’ultima occhiata allo specchio.
«You my brown eyed girl…» canticchiai, e dopo smorfie e linguacce, l’ultimo sorriso che lo specchio mi restituì fu un sorriso sincero.
  
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