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Autore: martaparrilla    14/06/2016    10 recensioni
Henry ha 8 anni e non parla più da diciotto mesi. Sua madre, Regina, è convinta che quella sia la giusta condanna per non essere riuscita a proteggerlo dal dolore per la perdita del padre. Un giorno, le loro vite incrociano quelle di Emma che, cauta e silenziosa, riuscirà a conquistare la fiducia del piccolo Henry.
E forse, anche quella di sua madre.
Basterà questo a farlo parlare di nuovo? Henry odia davvero sua madre come essa afferma?
Anche stavolta ho dovuto alternare il punto di vista dell'una e dell'altra, è una cosa che non riesco a evitare per riuscire a spiegare al meglio le decisioni prese da entrambe e come queste influenzino positivamente la crescita del rapporto dei tre protagonisti.
La storia è puramente frutto della mia fantasia, nonostante si tocchino argomenti che troppo spesso le donne sono costrette ad affrontare da sole e in silenzio.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Emma Swan, Henry Mills, Regina Mills
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Seduta sul letto, fisso con insistenza l'armadio spalancato che mette in bella mostra tutto il suo contenuto. Ovviamente possiedo abiti di qualunque genere e per ogni occasione, ma in questo momento tutto mi sembra assolutamente fuori luogo: eccessivamente elegante o eccessivamente.... formale.

La suoneria del telefono mi fa sobbalzare.

È Mary Margaret.

Rispondo.

«Pronto? Ciao Regina, sono io» mi dice lei con voce squillante.

«Si ho visto il nome sul cellulare, tutto ok?» rispondo un po' agitata. Le cose sarebbero sempre potute cambiare, per Emma e per loro.

«No no, tutto bene, volevo sapere se riuscivi a essere qui per le 4:30 pm così da aiutare a sistemare le ultime cose a casa» sento delle urla provenire dal telefono.

«Neal, piantala o ti stacco le corde vocali e le metto sotto spirito!» urla lei poco dopo. Finalmente silenzio.

«Ottimo modo per calmare un bambino» dico io divertita.

«Ti prego cerca di esserci, così Neal gioca con Henry e lui smette di essere iperattivo. Il rientro della sorella lo sta facendo andare fuori di testa!»

«Oh bè, è una cosa che ci accomuna un po' tutti allora» aggiungo io, dimenticando di nuovo di parlare con la madre di Emma.

«Che c'è Regina? Sei preoccupata? Andrà bene, Emma sarà molto felice della tua presenza alla festa!» mi incoraggia mentre passo in rassegna di nuovo tutti i miei vestiti.

«Sì, questo lo so, solo che lei non è una paziente come le altre... vorrei che le cose andassero bene» dico preoccupata.

«Tu come medico e come amica, e bada bene, uso questo termine solo per rispetto per entrambe, perché, per una volta, sento non abbia senso immischiarmi nei rapporti di mia figlia... dicevo che hai fatto tutto quel che dovevi. Ora spetta a lei impegnarsi nella riabilitazione e soprattutto, lei non ti dà la colpa... e nemmeno noi. Lei hai salvato te e tu hai salvato lei, non dimenticarlo mai Regina, qualunque cosa accada questo non cambierà mai».

Parlare con Mary Margaret mi dà la sensazione, mai provata prima, di scambiare pareri e sensazioni con una madre... una madre nel vero senso della parola. O almeno credo, non ho mai parlato di sentimenti con mia madre. Con lei invece è tutto così semplice, anche capire Emma diventava un gioco da ragazzi. Più o meno.

«Hai ragione Mary, andrà tutto bene! Mi vesto e vengo da voi, ok? Henry sarà più che felice di avere più tempo per giocare con Neal!» rispondo convinta e la mia mano si ferma su un vestito blu elettrico di cui avevo completamente dimenticato l'esistenza.

«Brava, così mi piaci! Allora a tra poco, ciao Regina!»

«Ciao Mary!»

Riaggancio.

Sfilo il vestito e lo poggio sul letto. Sono già le 3:45 pm, mi sarei dovuta sbrigare.

«Henry» urlo dalla mia camera.

«Tesoro cambiati ora, dobbiamo essere a casa di Emma per le 4:30, sua madre ha bisogno di aiuto!» Poco dopo, con un videogioco in mano, fa capolino nella mia camera Henry, che risponde continuando a giocare.

«Davvero andiamo già ora? Devo far vedere a Neal questo nuovo videogioco, mi cambio subito!» risponde felice correndo nella sua cameretta a cambiarsi.

«Il tuo cambio è sopra il letto, lavati i denti mi raccomando» gli ricordo cercando i collant nel cassetto.

«Eccoli» dico a voce alta poco dopo. Infilo delicatamente le calze, avendo cura di non sfilarle. Poi il vestito. Trucco e capelli sono già a posto. Mi guardo allo specchio: ha ragione Emma, sembro una donna decisamente più grande dei miei 33 anni, anzi, a giorni saranno 34, ma il mio stile comunque non mi dispiace. Avvolgo il mio collo in un foulard nero e infilo il cappotto dello stesso colore. Un po' di profumo e sono pronta.

Il traffico ci fa arrivare in ritardo di dieci minuti rispetto alla promessa fatta a Mary Margaret, ma una volta dentro, il tempo passa in men che non si dica. Il salotto è pieno zeppo degli stuzzichini preferiti da Emma. Sulle scale e all'ingresso ci sono dei palloncini e, per completare il tutto, un enorme striscione con su scritto “Bentornata Emma” sovrasta il caminetto.

Un sms di David avvisa noi tutti che sono sulla via del ritorno. Le mie mani tremano mentre distribuisco i bicchieri agli ospiti e tengo a bada mio figlio e Neal, in evidente stato di iper agitazione. Beati loro che possono darlo a vedere mentre io mi limito a tremare e ad avere in petto un tamburo impazzito. Credo che avrò un infarto a breve.

Poi la porta si apre, e lei è così bella che non partecipo nemmeno all'urlo unanime di "sorpresa"!

Sì, perché prima noto quanto sia bella da morire e solo dopo mi rendo conto che si regge in piedi con le stampelle e non con la sedia a rotelle: se la cava davvero bene.

Il cuore batte all'impazzata e mi sento come la mattina del 25 Dicembre. Lei è viva e sta bene. Non c'è più motivo per sentirsi in colpa, perché le cose si sono sistemate, e stavolta per davvero. Non ci sono più in giro amanti di ex mariti che mi odiano e vogliono ammazzarmi. L'unica cosa di cui devo preoccuparmi è che quella donna riprenda la sua vita come prima che io gliela sconvolgessi. Il mio unico obiettivo è che entro il prossimo anno (e manca solo un mese), lei abbandoni quelle stampelle.

Ci guarda con gli occhi lucidi mentre osserva, uno ad uno, tutti gli invitati a quella festa di rientro. Ma la sua bocca si spalanca quasi, assumendo un'espressione di estremo stupore quando mi vede. Gli occhi si stringono e un sorriso appena accennato diventa aperto, esplicito, mio. Sono come paralizzata di fronte al suo sguardo perso nella mia figura. Gli occhi lucidi e il respiro mozzato, ringrazio di averla incontrata.

Lentamente, tutti gli ospiti si apprestano a salutarla, riempendola di baci e abbracci. Sto ferma al mio posto, riflettendo sulle parole che avrei potuto dirle una volta avvicinatami a lei. Ma programmare le parole con Emma Swan è impossibile. Per cui semplicemente mi faccio guidare da lei, dal suo sguardo complice che mi chiede esplicitamente di ridurre le distanze tra noi.

«Ci vediamo domani, eh?» dice, abbracciandomi subito e sostenendosi con il mio aiuto.

Affondo il viso tra i suoi lunghi e morbidi capelli biondi.

«Per la cronaca, eri molto bella anche tre ore fa, quando sei uscita dall'ospedale» le accarezzo la schiena, cercando di assaporare la realtà che lei è davvero in piedi di fronte a me e sta bene.

«Per la cronaca, oggi sei bella come non lo sei mai stata da quando ti conosco.»

Non smetteva di essere solare e positiva neppure quando i giorni di nebbia avrebbero potuto schiacciarla. I sorrisi illuminano i suoi occhi e, la cosa straordinaria, è che questo suo modo di fare è estremamente contagioso con me.

La stringo più forte.

«Non mi sarei mai persa tutto questo» aggiungo poi stampandole un bacio sulla guancia.

«Ora siediti, così anche le bestioline potranno salutarti per bene!»

Col sostegno del mio braccio, si accomoda sul divano accanto a un bracciolo e, poco dopo, Neal e Henry la assalgono, abbracciandola e iniziando a raccontarle tutte le novità. Rapiscono la sua attenzione per almeno venti minuti prima di sfrecciare via, lasciandola agli altri ospiti.

La serata prosegue tranquilla. È circondata da tante persone che le vogliono bene, dai più grandi ai più piccini. Il suo sguardo è luminoso, ma è il sorriso che mi blocca il respiro ogni volta.

«Perché non ti avvicini a lei?» sussulto e faccio cadere dei pop corn dal bicchiere. Mary Margaret, con un sorriso complice mi porge un bicchiere di vino bianco. La mia mano trema un po'.

«Grazie» mi volto di nuovo verso Emma, che parla fitta fitta con Ruby e una sua amica «non voglio disturbarle, io riuscivo a vederla ogni giorno in ospedale, Ruby l'avrà vista sì e no cinque volte. Avremo modo di stare da sole e parlare» prendo il bicchiere dalle mani della padrona di casa, che mi guarda con affetto.

«Dimmi che ti ho ringraziata per quello che hai fatto per Emma. L'ho già fatto, vero?» mi chiede, improvvisamente seria, con la fronte corrucciata. Ogni volta che pronuncia quella frase il mio stomaco si ribella: perché continua a chiedermi scusa quando sono io che dovrei farlo ogni giorno per il resto della mia vita?

«Sì Mary, l'hai fatto un migliaio di volte, ma è stata lei a salvarmi, non il contrario.»

Lei scuote la testa in segno di disapprovazione.

«Questo è quello che ho insegnato a mia figlia, proteggere ciò che ama a tutti i costi. Ha solo preso troppo alla lettera le mie parole. Lei ha fatto esattamente quello che doveva fare con la persona che ama, Regina.»

Una vampata di calore raggiunge il mio viso, proprio mentre le sue braccia circondano il mio busto.

Mi sta abbracciando.

Con delicatezza, ricambio il gesto affettuoso, avendo cura di non rovesciare il contenuto del bicchiere. Lei è davvero una madre. Un abbraccio così non l'ho mai ricevuto da nessuno, tanto meno dalla mia di madre. È uno di quegli abbracci che rimette a posto tutti i pezzi.

Poco dopo, uno sguardo insistente di Emma su di me mi costringe ad avvicinarmi a lei. Rimaniamo l'una accanto all'altra per tutta la durata della festa, con le sue dita attorno alle mie e nel mio petto il cuore che fa le capriole.

 

Dal giorno della festa, tutti i giorni Emma si presenta puntuale come un orologio alle sedute di fisioterapia. La seguo come un'ombra, assicurandomi che si impegni e che non ne perda nemmeno una.

Quel che vedo però, non mi piace per nulla. In mia presenza pare impegnarsi poco, ancora non riesce a stare in piedi da sola e la cosa peggiore è che ha deciso, dopo solo un mese, di rientrare a casa e stare da sola, per abituarsi ad affrontare le difficoltà che quell'evento avrebbe portato nella sua vita. E di tutto questo lei non mi ha fatto parola. Ho anche cercato di farmi confessare la sua decisione, per sms o tramite telefono, ma ogni mio tentativo è stato vano.

La richiesta disperata di Mary Margaret mi costringe a intervenire, così, nella mia macchina, pondero tutta una serie di frasi che potrei utilizzare per convincerla a tornare dai suoi, almeno fino a che non sarebbe stata indipendente.

Gli appostamenti effettuati quasi un anno prima mi portano di fronte alla sua casa senza l'aiuto del navigatore. Apro il cancelletto cigolante in legno che separa la strada dalla sua casa. Il breve vialetto è coperto di erbacce e immagino che David le abbia proposto un aiuto per sistemare il suo cortile e lei abbia detto con orgoglio di no. Supero i due gradini e una volta di fronte alla porta, busso.

«Arrivo!» la sua voce in lontananza mi rassicura, almeno è viva.

«Emma sono io, non ti affaticare posso aspettare» le dico da dietro la porta.

La spalanca.

Seduta sulla sedia a rotelle, mi guarda imbarazzata, tentando di nascondere come poteva, il suo abbigliamento.

«Regina, che ci fai qui? Potevi avvisarmi, mi sarei fatta trovare in condizioni più decorose.»

Indossa una grossa felpa grigia e dei pantaloni di tuta da ginnastica dello stesso colore.

«Potrei farti la stessa domanda...» le dico io arrivando subito al sodo ed entrando in casa.

«Prego, accomodati pure» risponde subito dopo chiudendo la porta alle sue spalle.

Incrocio le braccia, non voglio posare lo sguardo su nulla attorno a me, altrimenti perderei il momento, mi distrarrei e non riuscirei a dire nemmeno un quarto di quello che devo. Quindi la guardo dritta negli occhi, con sguardo arrabbiato e deluso.

«Cosa intendi dire con “potrei farti la stessa domanda”?» chiede lei sinceramente confusa.

«Cosa ci fai qui da sola? Decidi di rientrare a casa tua e nemmeno me lo dici? Come se fossi una sconosciuta?» alzo il tono di voce e inizio ad andare avanti e indietro, prima di sbattere rumorosamente le mani sui fianchi in attesa della sua risposta.

Con la fronte aggrottata e il muso triste, afferra i cerchioni della sedia a rotelle e mi supera senza degnarmi di uno sguardo. Mi ignora ancora? La seguo e poi mi fermo, quando, affiancato il suo albero di Natale, afferra il filo delle luci e lo attacca alla presa. Luci rosse e bianche iniziano a lampeggiare prima lente poi a velocità intermittente.

Lei rimane lì, ferma, con lo sguardo illuminato dalle luci, completamente rapita da quel luccichio.

«Volevo fare il mio albero come tutti gli anni. Volevo rivedere le luci, e avrei voluto invitare te e Henry a casa una domenica di queste» pronuncia queste parole con lo sguardo sempre fisso sull'albero «avrei anche voluto invitarvi a cena dai miei per la vigilia, ma magari avevate altri impegni...»

Per un attimo, solo uno, penso che la sua idea sia di una dolcezza spropositata. Avere pensato a me e Henry nella sua casa e in quella dei suoi genitori mi scalda il cuore. Sapere che mi considera parte della famiglia è per me motivo di estrema felicità, ma per lo stesso motivo mi sento in dovere di dirle anche tutto il resto. Mi siedo sul divano accanto all'albero e, afferrata la sedia a rotelle, la avvicino a me, così che possa guardarmi negli occhi

«Tua madre è molto preoccupata, vorrebbe che tu tornassi a casa, e lo vorrei anche io» il tono di voce, che inizialmente voleva essere duro, diventa dolce, accompagnato da una leggera carezza sulla sua guancia.

«So badare a me stessa e qualora non lo aveste notato, non ho dodici anni, posso sopravvivere da sola anche sopra questa» il suo tono è arrabbiato e infastidito. Il viso, teso, mi lancia uno sguardo che parla da solo. Allora decido di adeguarmi al suo umore.

«Non mi sembra, per esempio cosa ci fai sulla sedia a rotelle dopo più di un mese di fisioterapia fuori dall'ospedale? Questa sedia non dovrebbe essere in questa casa, dovresti essere in piedi, lenta e zoppicante ma in piedi» scuoto la sedia, adirata, prima di alzarmi e sovrastarla. Voglio farle paura, anche se mi rendo conto che non è l'approccio migliore, soprattutto con una come Emma.

«Io sto facendo le sedute tutti i santi giorni e mi impegno, non puoi sapere come sto andando né tanto meno come sto» risponde lei voltandosi e cercando di mantenere un tono adeguato alla conversazione.

«Certo che so come stai andando e non stai andando bene. Il fisioterapista mi parla e mi dice le cose» ribatto subito.

«Dovrebbe esistere il segreto professionale...»

«Sono un medico dell'ospedale e sono un medico che ti ha curata, non esistono segreti in questi casi.»

In realtà mi sono limitata a osservarla da dietro il vetro. A volte riusciva a sostenersi da sola, altre no. Spesso lanciava gli strumenti di terapia della palestra per aria, e a quel punto il fisioterapista usciva fino a che non si fosse calmata. E, secondo lui, si impegna ma non abbastanza. È come se voglia rallentare il processo di guarigione. O semplicemente le manca qualcosa che la sproni a fare di più, come se farlo esclusivamente per se stessa non sia sufficiente.

«Bè, comunque io sto facendo del mio meglio e tu di certo non puoi dire il contrario.»

Incrocia le braccia al petto, sfoggiando un sorrisetto di sfida. Testarda e strafottente. Questo lato di lei ancora non lo conoscevo.

«Ah e quindi tu pensi che me ne starò qui a guardare come perdi il tuo tempo su quella sedia? Direi di no» ha trovato pane per i suoi denti. Se lei è testarda, io lo sono dieci volte di più.

«E invece sì, Regina. Perché il corpo è il mio e anche la salute e la voglia e tu non puoi mettere bocca in tutto questo.»

Afferra i cerchioni della sedia e si allontana verso un'altra stanza.

«Certo che posso!» le urlo dietro.

«No, non puoi invece. Io ho deciso di mettermi di fronte a quei proiettili per te, tu non mi hai costretta, ho fatto tutto da sola!»

«Ma tu hai rischiato di morire, per me! Il minimo che possa fare è spronarti!»

«Regina, tu non fai altro che darmi addosso perché ti senti in colpa. Smettila di sentirti in colpa. Io non sono solo una gamba che funziona male. Io sono una donna. Con una mente, dei sentimenti, e dei tempi di ripresa diversi dai tuoi e da quelli di chiunque altro.»

La sua voce si incrina, e gli occhi diventano lucidi.

«Io ho il dovere di aiutarti!»

«No Regina, tu non hai nessun dannato dovere!» mi colpisce letteralmente con le sue parole, come un pugno.

«Non sono tua figlia, anzi a dire il vero non so nemmeno che cosa siamo!» gesticola mentre la prima lacrima compare sul suo volto. Odio quando piange per colpa mia.

«So solo che il tuo senso di colpa mi sta letteralmente uccidendo. Cosa credi, che dopo aver letto il tuo dannato diario e dopo aver capito cosa avessi passato io non fossi tentata di chiederti scusa per il mio comportamento? Ma non l'ho fatto perché comunque il tuo, con me, non era giustificato dato che non avevo fatto nulla di male. Per cui, se vuoi trattarmi come un essere umano e non come un problema da risolvere, ben venga.»

La guardo. Fisso quegli occhi color acquamarina allagati di lacrime e mi chiedo “perché ti ho incontrata?” Vorrei che passeggiassi un po' tra i miei pensieri, sperando che non rimanga impaurita per il disordine caratteristico. Troveresti qualche soldato dal viso cattivo che aspetta soltanto una carezza... li ho piazzati io, servono a proteggermi. Poi potresti proseguire col tuo cammino.

A destra troveresti l'ansia e a sinistra la paura. Sapessi quanto si sono fatte valere quando ti ho incontrata. Sapessi quanto hanno letteralmente spazzato via la speranza e la fiducia che si sono piano piano affacciate, per la prima volta, dopo tu sai chi. Ma non hanno vinto loro, te lo posso assicurare: l'incoscienza e la ragione si sono comportate come due vere salvatrici, così che speranza e fiducia potessero essere di nuovo accolte nella mia piccola stanza dei desideri.

La stanza dei desideri era per me una sala delle torture. L'Amore per mio figlio era relegato in un angolo e tutte le volte che tentavo di avvicinarmi ad esso, venivo aggredita e riportata indietro da fili con spine tanto aguzze che arrivavano fino al cuore. E io ci provavo tutti i giorni, e tutti i giorni quella ferita si riapriva. Poi sei arrivata tu e sono certa che ti sia accorta del tuo passaggio nella stanza... quella piccola nuvoletta bianca e argentata, che brilla come non mai è la mia Follia. Stava dentro uno scrigno e l'hai liberata, per mia fortuna. La notte non mi faceva dormire tante erano le sue urla. Ora che è libera, la mia mente ha trovato pace.

So che cercheresti di far ordine ma te lo sconsiglio, diventeresti pazza anche tu.

Solo ti prego Emma, ti prego, non uscire dalla mia stanzetta dei desideri. Non far sì che nei miei pensieri comandino di nuovo l'ansia e la paura. Posso riempirmi la vita di sogni, uno più bello dell'altro, ma ho capito che i sogni sono davvero belli quando puoi condividerli con qualcuno. E se tu non ci sei, questi sogni perdono di significato.

Io perdo di significato.

Vorrei solo che nonostante i fantasmi e i pensieri disordinati, io possa farti bene come tu ne fai a me. E forse lo faccio nel modo sbagliato, ma non conosco altro modo.

«Ma Emma...» cerco di dire, consapevole dell'inutilità di qualunque mio tentativo.

«No, ma Emma un cazzo. Con mia madre ci parlo io. Se vuoi ancora far parte della mia vita trattami come se fossi Emma e non una disabile. E se non ci riesci, non ti voglio vedere. Ora per favore, vai.»

Svuotata, ferita, colpevole. Col dorso della mano asciuga il suo viso dalle lacrime e il mio cuore perde un pezzo.

Un altro, di nuovo. Solo che stavolta ho fatto tutto da sola. Indietreggio, prima di darle le spalle e dirigermi verso la porta.

 

 

Note dell'autrice: eccoci qui, siamo al penultimo capitolo.

Devo dire che sono parecchio triste per la fine di questa storia, ma spero di poterle presto dare un seguito, ho già buttato giù qualche idea a riguardo.

In questo capitolo, per quanto Regina possa essere compresa, io sto dalla parte di Emma: stare accanto a qualcuno per il senso di colpa è la cosa meno appagante che possa esistere. Regina deve imparare davvero tanto da Emma. Voi pensate che possa riuscirci?

A Martedì!

 

  
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