Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |      
Autore: Novizia_Ood    25/06/2016    3 recensioni
OS che si collega tra la fine della seconda stagione e l'inizio della terza.
Dopo la caduta di Sherlock, John si trova completamente solo e in preda a emozioni che non sempre sono semplici da gestire né da accettare.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mary Morstan, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Where have I gone?

 

“Sherlock!”

E avevo urlato di nuovo.

Mi ero svegliato di nuovo.

Ero al centro del mio letto, di nuovo.

Di tutti gli incubi che la guerra mi aveva gentilmente regalato, nulla poteva essere messo a paragone di quello che avevo vissuto solo una settimana prima. 

Ancora troppo presto per metabolizzare, troppo presto per accettare e troppo presto per lasciarlo andare. Come avrei dovuto fare? Quella era la terza notte - seconda di seguito - in cui mi svegliavo punto da quel dolore insopportabile della sua... No, non l'avrei usata quella parola, non ancora, perché magari non era vero e magari lo avrei rivisto entrare dalla porta d’ingresso; quella stessa che ancora mostrava fiera il numero 221b dorato.

Mi alzai diretto in cucina, un bel tè caldo mi avrebbe disteso i nervi, mi avrebbe aiutato a rilassare lo stomaco e magari a liberarlo da quel peso che sentivo di avere. 

La casa era fastidiosamente silenziosa e - ma forse questa era solo una mia impressione - era anche più buia, come se non avesse più la sua luce accesa dall'interno e vista da fuori non sembrasse altro che una vecchia casa abbandonata, piena di oggetti impolverati che più nessuno avrebbe osato spostare.

Il mio sguardo cadde inevitabilmente sul tavolo della cucina, dove alcuni becher se ne stavano fermi nell'attesa che qualcuno li utilizzasse, ma sapevano di non poter contare su di me. Le mie mani non erano così lunghe e affusolate, né esperte o svelte per maneggiare tutto quel materiale chimico. 

Il loro padrone mancava anche a me.

Avrei voluto consolare quegli oggetti, avrei voluto dir loro che sarebbe tornato ad usarli presto, a toccarli e a sperimentare, a cercare con tutte le sue forze di non annoiarsi. Ma non ci sarei mai riuscito, perché ero io il primo che aveva bisogno di essere consolato e non avrei mai saputo aiutare nessun altro se mi lasciavo andare in quel mare anestetico in cui sentivo di essere immerso. 

Era strano, molto strano.

Sapevo che dentro di me ci fosse qualcosa che aveva bisogno di uscire, con molta urgenza anche, ma tutto quello che provavo era impassibilità. 

E quell’impassibilità non corrispondeva a tranquillità.

Era la calma prima della tempesta. 

Mi sarei trasformato in una nave senza capitano, alla deriva e in balia del mare agitato. Non avevo molta paura di quello che sarebbe successo, ma forse avrei dovuto averne, perché non avevo idea di quello che mi avrebbe atteso. 

 

L’acqua calda fu pronta dopo qualche minuto, tempo che a me parve un’eternità, perché in quella casa rimbombava troppo forte il suo nome - che ancora non riuscivo a pronunciare, nemmeno nella mia testa - come un fantasma; era un sussurro, ma un sussurro che rimbalzava dal divano, alla sua poltrona in pelle scura, alla finestra dalla quale si affacciava spesso preso dalla noia, al suo leggìo davanti al quale suonava o componeva, alla custodia del suo violino ancora chiusa in camera sua, dove io non sarei mai entrato perché non ne avevo il coraggio. 

Non ancora.

Preparai la mia tazza e, per non spostare nulla da quel tavolo di legno, andai a raggomitolarmi sulla mia poltrona rossa, davanti alla sua. 

Lo stavo ancora aspettando? 

Quella settimana era stata troppo veloce. Le accuse nei miei confronti - avendo collaborato con un ‘impostore’ e avendo picchiato un ispettore di polizia - erano cadute dopo due giorni di carcere per mano sicuramente di Mycroft e tutto ciò mi era sembrato a posto, come ai vecchi tempi, come se da un momento all’altro lui potesse tornare dicendo che tutto fosse sistemato. Perché era quello che facevamo, ci cacciavamo nei guai fino al collo e poi toccava ad uno salvare l’altro.

Lui mi aveva salvato dal giubbotto pieno di esplosivo e io…

Sherlock!

La mia mente aveva urlato ancora, così forte da costringermi a chiudere gli occhi e a strofinarmi il viso con la mano libera. 

Era solo in quel modo orribile che sentivo pronunciare il suo nome nella mia testa, dalle mie labbra, e in nessun altro modo. 

Non era più un nome quello, era un urlo, era una parola gridata, era la mia disperazione che veniva fuori dai polmoni che bruciavano; non era più qualcosa che apparteneva a lui, ma apparteneva a me, soltanto a me perché di lui non c’era più nessuna traccia. 

Allungai la mano sul tavolino alla mia destra per prendere il cellulare e quando lo sbloccai mi resi conto che fossero appena le tre del mattino e un unico messaggio lampeggiava sullo sfondo, era da parte di Molly. Era stato inviato alle nove della sera prima e io lo avevo completamente ignorato. 

Erano ormai tre giorni - da quando ero uscito - che continuava a chiedermi di incontrarci, a chiedermi come stessi e a dire che forse dovevo uscire un po’ e quella sua strana insistenza mi aveva infastidito totalmente, portandomi all’inevitabile conclusione di evitarla. Era stato meglio Lestarde che mi aveva solo scritto “John, mi dispiace. Non so che dire.” perché era stato sincero; perché non aveva divagato e perché quelle parole sembravano esprimere la stessa paralisi che io stesso sentivo di provare sul mio corpo.

“Non so che dire”

Quelle parole per me si traducevano con: non so che provare e non so che fare. 

Era quello l’anestetico con cui sentivo d’essere stato addormentato seppur ogni tanto venissi svegliato violentemente dalla mia testa che mi riportava alla realtà per un secondo. Ma quel secondo non era abbastanza. 

Fu difficile decidersi a finire di bere per tornare a letto e fu ancora più difficile riuscire a prendere sonno. 

 

Alle otto la Signora Hudson era già nella nostra cucina a preparare la colazione per me che non avevo né voglia di alzarmi, né di mangiare e né tanto meno di osare conversare con qualcuno.

In quella settimana mi stavo trasformando in lui e nella sua voglia di socializzare pari allo zero assoluto.

“Oh John - sussurrò la donna non appena mi vide. Avevo la vestaglia addosso, sembrava fosse tutto a posto, ma probabilmente la mia faccia e la mia espressione mi tradivano - vieni qui, vieni a sederti. Sto preparando le uova e un po’ di pane tostato, hai fame vero?” Quella domanda probabilmente derivava dalla preoccupazione scaturita dal mio colorito, immaginavo fosse pallido e smorto.

Non avevo fame, affatto, ma presi posto ugualmente al tavolo, restando a fissare quei becher che erano ancora poggiati lì sopra da ormai sette giorni; immobili, così come lui li aveva lasciati. 

“No!” Urlai con un po troppa aggressività quando la Signora Hudson si avvicinò a quella stessa superficie per far spazio alla colazione, spaventandola un po’. “No” ripetei con tono più basso, molto più basso mentre lei aveva chiaramente desistito dallo spostare le cose da un’altra parte. Spostai lo sguardo. “Lasci tutto così… per favore” aggiunsi in fine, cercando di nuovo il contatto visivo con lei, ma senza poi riuscire a reggerlo per più di qualche secondo.

“Va bene, scusa” rispose mortificata, come se ci fosse effettivamente qualcosa per cui scusarsi; come se quelle cose fossero le mie e lei avesse preteso di fare qualcosa che non le spettasse di diritto. 

Avrei potuto toccarle solo io e avrei deciso io che fine avrebbero fatto. 

Per il momento, stavano benissimo lì. 

“La ringrazio” dissi alzandomi a prendere il piatto e aiutandola mentre  serviva le uova cotte a puntino.

“Non dirlo nemmeno, John - disse con tono molto serio - so di non essere la vos-” e quell’interruzione fece male come poche altre cose mi avevano ferito in quella maledetta vita. “La governante, ma penso che uno strappo alla regola si possa sempre fare.” Continuò recuperando come se nulla fosse; come se non avesse aperto una ferita profonda in me; come se non avesse lasciato cadere del sale su di un taglio fresco. “Di cosa hai bisogno, John?” Chiese apprensiva, una volta che si fu voltata a guardarmi, con la padella ancora tra le mani e il fuoco acceso. 

Avevo bisogno che tornasse, avevo bisogno di sapere che non fosse mai andato via. 

Ed era una sensazione strana, perché essendo stato per parecchio tempo a contatto con la guerra, con la morte, sapevo bene come prenderla, come accettarla per andare avanti. Quante persone mi erano morte tra le mani? Quante erano saltate in aria e quanti amici non avevo più visto tornare? 

Perché con lui doveva essere così diverso? 

Perché con lui mi sembrava di pregustare un tormento del tutto nuovo? Era angosciante. 

“Non so di cosa ho bisogno, non riesco più a capirlo.” Risposi con molta sincerità dopo un sospiro che fece scendere le mie spalle ancora più giù di quanto non lo fossero state fino a quel momento e probabilmente l'anziana donna percepì il mio sconforto, perché allungò una mano nella mia direzione, accarezzandomi una spalla.

“Vieni, andiamo a mangiare. Ti faccio compagnia io” e, nonostante fosse una cosa molto dolce da parte sua, io la trovai invasiva eccessivamente. Non volevo compagnia se l'unica che avrei voluto mi era stata sottratta.

 

 

Era passata un’altra settimana.

Un’altra settimana in cui ero stato velocemente rimandato a casa da Sarah in ambulatorio; mi era stato concesso del tempo e delle ferie per malattia, vista la situazione. Più che concesso, mi era stato fortemente consigliato.

E così non facevo altro che vagare per la casa, tra la mia stanza, il salotto e la cucina, in cerca di una pace che non riuscivo a trovare; mi sentivo come un cane in continua ricerca del posto migliore sul quale accucciarsi, ma che però, senza trovarlo, continua a girare in tondo per ore intere. 

Mi ero occupato del funerale, era qualcosa a cui avevo tenuto molto, come se quello potesse essere il filo che ancora mi avrebbe tenuto legato a lui, e ora che era passato ormai da tre giorni, non riuscivo a trovare un senso pieno alle mie giornate. 

Ed era strano.

 

John, mi dispiace.

Aveva detto Greg quel giorno, posandomi una mano sulla spalla senza nemmeno riuscire a guardarmi o forse ero stato io a non riuscire ad incrociare lo sguardo di nessuno di loro. 

Condoglianze” mi aveva sussurrato qualcun altro, prima di stringermi in un forte abbraccio. Non saprei dire chi fosse, né se stesse piangendo o se sembrasse preoccupato più per me o per lui

Era stato strano, perché tutti si erano avvicinati a me come se fossi stato io a viverla fino in fondo quella perdita; come se fossi io la persona che lui aveva appena lasciato da solo, abbandonato a se stesso; come se fossi l’unica persona ad aver bisogno d’essere consolata. 

John, andiamo a casa” aveva poi detto la signora Hudson ad ormai un’ora dalla fine della funzione. Non mi ero accorto di quanto tempo avessi passato seduto su quella sedia di plastica in mezzo a quel prato verde, fermo immobile, a fissare davanti a me quella che oramai era la lapide appartenente a lui.

Era veramente a casa che ero diretto? O in quello stesso luogo vuoto, freddo e buio che avevo lasciato quella stessa mattina, vestito di nero?

Quel luogo era stato casa fino a qualche giorno prima.
Era stato il luogo dove tornavo dopo una giornata pesante; un luogo nel  quale mi rilassavo davanti al camino a leggere libri o giornali; il luogo in cui lo aspettavo sempre e il luogo dal quale partivo in sua compagnia.

Ora cosa rimaneva di quel posto, se non tutta la polvere di una vita che avrei continuato a vivere a metà?

 

Mi passai una mano sul viso, deciso ad alzarmi e ad abbandonare quei pensieri legati al funerale. Ormai non mi aiutavano più.

Nulla in quella casa in realtà mi aiutava più. 

Dovevo lasciar andare tutto.

Dovevo lasciarlo andare.

“Signora Hudson?” Urlai una volta uscito sul pianerottolo, con lo sguardo basso nell’attesa di una sua risposta che non arrivò immediatamente. 

“John, dimmi” la voce arrivò dal piano di sotto, trafelata e preoccupata. 

Lanciai un’occhiata alla porta della cucina che dava sulle scale, prima di prendere un respiro profondo e risponderle.

“Le dispiacerebbe raccogliere tutte le sue cose e metterle in delle scatole?” Non sarei stato capace di toccare mai niente io, nonostante sentivo che in qualche modo - molto profondo - quelle cose appartenessero a me e che spettasse a me dunque metterle a posto e decidere cosa farne. 

“Oh John…” disse la signora Hudson prima di iniziare a salire le scale per raggiungermi. “Vuoi davvero che lo faccia?” Chiese una volta raggiuntomi sul pianerottolo. 

“Ho bisogno che lei lo faccia. Per favore.” Risposi annuendo.

Ci avevo messo del tempo ad ammettere a me stesso che stessi cercando di aggrapparmi a tutto pur di far finta che non fosse andato via, per sempre. I suoi oggetti sparsi per la casa mi davano un senso di tranquillità e di tormento al tempo stesso e dunque non avrei potuto averli intorno per altro tempo o sarei impazzito. 

Avevo bisogno di iniziare a mettere da parte le sue cose. 

Avevo bisogno di iniziare a metterlo da parte.

“Come vuoi, caro.” Mi disse toccandomi poi un braccio, appena. 

 

 

Avevo dovuto riprendere in mano il mio lavoro dopo le due settimane totalmente libere, ma non avevo provato nessun tipo di sollievo. L’unica cosa che avevo ripreso a fare con più frequenza era uscire, ecco perché in quel momento mi trovavo a pranzo con Lestarde, il quale prontamente evitava di invitare anche Anderson e Donovan, persone che se solo avessi incrociato con lo sguardo probabilmente avrebbero preso fuoco all’istante.

Sapevo che non era tutta colpa loro, sapevo che erano stati in assoluto le vittime più deboli in quel piano ben organizzato di Moriarty, ma ciò non mi impediva di provare un senso di disgusto al solo pensare di pranzare o parlare con loro del più e del meno, facendo finta che tutto il resto non fosse mai accaduto.

“Allora, come va in ambulatorio?” Mi chiese con tono gentile e quello fu la prima domanda che non mi parve apprensiva o di cortesia, di circostanza. Sembrava sincero.

“Bene, sì.” Annuii tagliando le salsicce che avevo nel piatto. “Bene.” Ripetei quasi come per convincere più me stesso che l’uomo che avevo davanti. A quel punto sì che Greg mi osservò con un pizzico di dispiacere nello sguardo.

“Sono passate tre settimane…” continuò dopo un grande sospiro.

“Ventitré giorni.” Precisai, che era un po’ più tempo di tre settimane.

“John, come stai?” Domandò all’improvviso e questa volta il tono mi parve molto più serio e preoccupato di come me l’aveva chiesto qualche minuto fa fuori il locale, appena incontrati.

“Greg, davvero, non-”

“Far finta di nulla non servirà, specialmente a te” si azzardò ad interrompermi mentre stavo provando a far cadere il discorso. Era stato così bravo fino a quel momento a non farmi pesare tutto quello che era accaduto, così bravo a tenersi fuori e a lasciarmi spazio anche quando uscivamo a prendere qualcosa insieme, ora invece se ne usciva con quello? 

“Sai cosa? Non voglio rovinarmi la giornata. Ti dispiace?” Dissi alzando lo sguardo su di lui, sorridendo tetramente. Sapevo che quel discorso avrebbe condizionato il resto della mia giornata e quel pomeriggio avevo un turno parecchio lungo, non potevo permettermelo.

Non potevo permettermi di pensare a lui.

“Il mio intento non era quello di rovinarti la giornata, voglio solo farti sapere che hai degli amici. Sono tuo amico, che tu lo voglia ammettere oppure no. Ho avuto a che fare con Sherlock per molti anni e, credimi, lui era un amico più difficile di quanto lo possa mai essere tu!” Esclamò con una piccola risata che seguii anche io, amareggiato dal suono che aveva il suo nome pronunciato dalle labbra di qualcun altro. Era davvero così facile per gli altri dirlo? “Se non ho permesso a lui di dimenticarsene, non lo permetterò mai nemmeno a te.” Concluse guardandomi serio e io, con la testa bassa, ma lo sguardo sul suo, non dissi una parola, tornando a mangiare. 

Sapevo di avere altri amici oltre quello che mi aveva abbandonato e allora perché mi sembrava una cosa così difficile da accettare? Perché se un amico mi tendeva una mano il mio primo istinto era quello di colpirla per allontanarla? Volevo restare solo, forse. 

Solo, come mi sentivo nel mio dolore.

“Sai che non è un male chiedere aiuto, John. Vero?” Mi domandò. 

E a quelle parole mi pietrificai. Forchetta ancora a mezz’aria. 

Avevo bisogno di aiuto, lo sapevo, lo avevo saputo sin dal momento in cui mi ero accasciato tra le braccia di quella sconosciuta persona sul marciapiede, mentre tra le dita stringevo il polso senza battito del mio migliore amico. 

“Che tipo di aiuto?” Chiesi mantenendo il tono freddo e distaccato di poco prima. Non avevo assolutamente nessuna intenzione che Greg intuisse quanto avrei voluto accettare quel consiglio, anche perché non ero certo al cento per cento che lo avrei fatto.

“In centrale abbiamo degli psicoterapeuti professionisti” al sentire quelle parole sospirai sonoramente dal naso, infastidito e Lestrade palesemente se ne accorse, perché si affrettò ad aggiungere qualcosa prima che potessi dimostrarmi totalmente disinteressato a quell'offerta. “Quando perdiamo un partner o quando litighiamo con lui, ci mandano subito in terapia in coppia.” Fece una pausa lasciandomi il tempo di riflettere, smarrito, sulle parole appena ascoltate. Io di certo non sarei stato capace di andare in terapia in coppia dal momento che la mia metà mi aveva lasciato incompleto. “Per quanto il lavoro inventato da Sherlock non avesse alcun precedente, è questo che siete stati anche voi: partner.” Abbassai lo sguardo nel mio piatto, con le forchette ormai poggiate sulla ceramica bianca e lo stomaco totalmente chiuso all'improvviso. 

Avevo perso il mio partner. 

“Sarò in terapia con Donovan per i prossimi mesi” disse poi all’improvviso, prendendomi totalmente alla sprovvista e invogliandomi ad alzare il capo per guardarlo in viso. “È la mia partner e ha spinto uno dei miei amici a questo. Non riesco più a fidarmi del suo giudizio, né di lei e non è semplice lavorarci insieme.” Fece una pausa per sospirare, chiaramente affranto da tutta quell’orribile situazione. 

Non mi ero fermato nemmeno un attimo a pensare come sarebbe potuto essere per due partner sul lavoro una cosa del genere. Io odiavo Donovan e Anderson perché avevo bisogno di canalizzare la mia rabbia, di proiettarla su qualcuno e loro erano stati i miei bersagli, ma di certo lo stesso non era permesso a Lestrade il quale lavorava ancora con loro a formare quella che doveva essere una squadra. Come avrebbe fatto?

“Quello che voglio dirti è che è difficile e che non si supera stando da soli. Ai nostri partner si affida la nostra fiducia, la nostra stessa vita” continuò e  a quelle parole il mio pugno si strinse un po’ di più sul manico della forchetta. Avrei affidato a lui qualsiasi cosa avessi mai amato più di me stesso nella mia vita; con lui mi sarei permesso di chiudere gli occhi, di diventare cieco, perché avrebbe guidato i miei passi e sarebbe stato la mia luce. “Affidiamo loro tanto, forse troppo, ma è il nostro lavoro. E quando spariscono… beh tutta quella fiducia e quella vita non vanno più da nessuna parte. È difficile tornare a pensare solo per noi stessi, noi che siamo tanto abituati a pensarci in due.” Dal tono basso che aveva raggiunto, capii che avesse concluso il discorso; lo capii anche da come mi sentivo: vuoto e con emozioni che mi uscivano prepotenti dal petto, ma senza andare veramente da qualche parte. 

Finivano tutte in una gigantesca cascata e si perdevano, perché dall’altro lato nessuno era pronto a prenderle. Non riuscivano ad ancorarsi a nessuno, a niente. 

E cadevano e basta. 

“Quindi pensi che mi basti andare in terapia” commentai acidamente, lasciando andare completamente le posate per unire le mani sotto il mento in un unico pugno e appoggiando i gomiti sul tavolo mentre non smettevo di fissarlo. 

“Non basta quello, ma è un inizio.” Mi disse apprensivo come poche volte l’avevo visto. Certo, all’inizio mi aveva lasciato lo spazio di cui avevo avuto bisogno, ma poi era stato capace di darmi un suggerimento quando più mi serviva, anche se al momento ero ancora incerto sul da farsi.

Non voleva essere invadente, lo leggevo dalla sua espressione mortificata, eppure non riuscivo ad apprezzare ancora quell’argomento buttato lì forzatamente. 

Sospirai allontanando il piatto da me e cominciando ad alzarmi.

“Adesso devo andare” 

“John, per-”

“No, Greg.” Lo interruppi con una mano prima che potesse aggiungere qualsiasi altra cosa. “Non preoccuparti, sto bene. Va bene.” Risposi con espressione più tranquilla possibile. Non ero arrabbiato con lui e non lo avrei allontanato, di quello poteva star sicuro, ma in quel momento avevo assolutamente bisogno di tornare a casa e trascorrere le ultime ore prima del mio turno da solo. “Ti ringrazio.” Dissi in fine per tranquillizzarlo completamente e lui parve capirmi, perché accennò un sorriso triste prima di annuire e abbassare lo sguardo nel mio piatto non completamente vuoto.

“Ci sentiamo allora?” Mi domandò e a quel punto fui io ad annuire mentre mettevo la giacca e con un gesto alzavo il colletto. 

Lo so, era probabilmente un’abitudine ridicola che avevo preso dopo averlo perso e non sapevo se fosse perché con la sua lontananza avessi iniziato ad avvertire di più il freddo, ma mi giustificavo dicendo che quella fosse una stagione molto più ventosa e piovosa di tutte quelle che avevo mai vissuto. Per quello alzavo il colletto del mio giubbotto.

Faceva freddo, molto più freddo adesso.

 

Abbandonai il locale e tornai a casa il prima possibile, dove, entrando dalla porta della cucina, rimasi fermo sull’uscio per qualche istante. 

Il tavolo era completamente sgombro.

Era ancora sgombro.

Da quando avevo chiesto alla Signora Hudson di ripulire tutte le sue cose, quel tavolo sembrava uscito da un catalogo dell’ikea. L’anziana signora aveva anche ben pensato di decorarlo con un elegante centrino e un centrotavola dal tema floreale.

Lui lo avrebbe odiato e io stavo ancora aspettando che entrasse dalla porta, sbraitando con tutti perché ci eravamo permessi di toccare le sue cose. Eppure ogni volta che tornavo a casa era tutto maledettamente al proprio posto. Era tutto in ordine. Ed era tutto sbagliato.

“Oh Dio…” sussurrai preso dallo sconforto per un momento, mentre le mie spalle si abbassavano sotto il peso invisibile della sua mancanza. Richiusi la porta dietro di me e mi ci appoggiai prima di scivolare sul pavimento con la testa tra le mani.

Stavo piangendo e, almeno per il momento, sembrava un pianto liberatorio. 

Era inutile continuare ad aspettarlo, era inutile continuare a nutrirsi di una speranza che non avrebbe portato a null'altro che illusione. E per questo piansi: perché stavo aspettando qualcuno che non sarebbe arrivato; qualcuno che forse avrei potuto salvare se solo non mi avesse tirato quel trabocchetto della chiamata. 

Lo avrei salvato se solo lui non avesse provato a salvare me.

Mi ero abbandonato al dolore che sentivo, almeno in quei quattro minuti che mi ero concesso, prima di rialzarmi per togliermi giacca e scarpe e andare a prendere posto sulla mia poltrona.

Con il gomito sinistro piantato nel bracciolo mi mantenevo la testa con la mano, mentre il mio sguardo era fisso e vuoto e perso sulla poltrona di pelle nera che mi era davanti.

Anche a lei mancava il suo padrone.

Ma avrebbe dovuto rassegnarsi. 

Tutti gli oggetti in quella casa avrebbero dovuto rassegnarsi, compreso io. 

 


 

“Perché oggi?”

La pioggia era scrosciante fuori da quell’enorme finestra, richiamando perfettamente il mio umore. Non osai abbassare gli occhi a quella domanda e nemmeno provai a nascondere il mio disagio. 

“Vuole proprio sentirmelo dire?” Domandai aggiustandomi su quella poltrona che le prime volte mi aveva accolto con una scomodità unica, molto diversa da quella che sentivo in quel momento. 

Ma il problema non era la sedia e lo sapevo bene. 

“Sono passati 18 mesi dal nostro ultimo appuntamento.” Mi rispose calma senza cambiare la sua espressione perfettamente immobile e imperturbabile. Avevo ormai smesso di cercare di leggere qualcosa dalle sue espressioni perché avevo imparato a mie spese che sarebbe stata tutta energia sprecata. 

“Lei legge i giornali?” Avrei diretto io quel dialogo, perché restare lì immobile a farmi fare domande da lei era a dir poco irritante, soprattutto in un momento delicato come quello che stavo passando. Perché non potevamo passare semplicemente alla parte in cui ragionavamo sul come superare e affrontare tutto quello? Ciò che era successo era ormai già successo. Sapevano tutti quello che era accaduto.

Salto, sangue, fine.

“A volte” mi rispose laconica. 

“E guarda la tv. Lei lo sa perché sono qui.” Conclusi smarrito per la prima volta. Perché mi stava comunicando in quel modo? Cosa cercava di dirmi in realtà? Non sarei andato lontano se non avessi iniziato a parlare come voleva lei; se avessi continuato a sfuggire da quello che mi terrorizzava fin dal primo giorno. “Sono qui perch-” e no. Quella cosa non aveva smesso di terrorizzarmi nemmeno in quel momento; nemmeno in quella teca di vetro in cui mi ero chiuso mentre fuori c’era il temporale. Quella cosa mi aveva appena soffocato la voce, chiuso la bocca e bloccato la gola.

Abbassai lo sguardo sul pavimento cercando di riprendere il controllo del mio corpo, ma non fu semplice e probabilmente la donna se ne accorse, perché si sporse verso di me prendendo la parola.

“Cosa è successo, John?” E chiusi gli occhi ancora.

Salto, sangue, fine.

Era veramente accaduto solo quello? No. Sentivo la sua voce all’orecchio e “Nessuno avrebbe potuto essere così intelligente” diceva e la mia era pronta a rispondere che lui avrebbe potuto, lui poteva già perché lui era-

“Sherl-” provai a dire, ma un grugnito strano fu tutto quello che venne fuori. 

Addio John” aveva detto e no, il salto e il sangue, non erano tutto.

Ricordare quelle parole mi aveva fatto attraversare tutto di nuovo: la frustrazione nel sentirmi impotente, la paura di perderlo e la rabbia di non essere riuscito a salvarlo come avrei dovuto, come mi spettava. 

“Deve riuscire a dirlo” sussurrò con tono più morbido e forse fu quello a darmi il coraggio, abbastanza da riuscire a dirlo tutto d’un fiato.

“Il mio migliore amico, Sherlock Holmes, è morto.”

Pronunciare il suo nome mi aveva fatto più male di quanto pensassi e il ricordo di quegli ultimi istanti mi aveva colpito al centro del petto come un pugno sferrato perfettamente e all’improvviso.

 

“Ok stai zitto adesso, Sherlock. Zitto. La prima volta che ci siamo incontrati- la prima volta che ci siamo incontrati, tu sapevi tutto su mia sorella, giusto?”

Lui sapeva tutto perché aveva letto qualsiasi cosa in un secondo, una capacità che avrei voluto avere anche io e magari avrei intuito come aiutarlo. Lo avrei salvato e lui sarebbe ancora qui. 

Nessuno può essere così intelligente” lui sì. Tu sì. Era così intelligente e anche se non lo fosse stato quanto o come lo immaginavo, io sarei stato dalla sua parte comunque perché era importante e lo sarebbe stato nonostante tutto quello che avrebbero mai potuto inventare sul suo conto.

Tieni gli occhi fissi su di me. Per favore, lo faresti per me?” Avrei fatto non solo quello, ma molto di più. Sarei morto al posto suo se me lo avesse chiesto o saremmo morti insieme. 

Sì, perché ero pronto a morire, ero sempre stato pronto a morire fin da quando mi ero ritrovato a servire il mio paese nei posti più impensabili ai confini del mondo, eppure mai ero stato pronto come in quei due anni con lui. Ero pronto a morire quando voleva farci saltare tutti in aria sparando a quella giacca piena di esplosivo nella piscina ed ero pronto a saltare da quel palazzo con lui. 

E forse, in un certo senso, il volo lo avevo fatto anche io.

Era volato giù e qualcosa di me era morto con lui quando aveva toccato il suolo.

Questa chiamata è il mio biglietto. È questo quello che fanno le persone, no? Lasciano un biglietto.” No, no. No. 

No, non farlo. SHERLOCK!

E lo aveva fatto anche se il mio cuore stava urlando al posto della mia gola;

si era lanciato anche se ogni parte di me stava pregando affinché non lo facesse. Lo aveva fatto e probabilmente non aveva pensato minimamente che potesse distruggermi in quel modo.

L’uomo più intelligente del mondo non aveva immaginato che potessi tenerci a lui più di quanto pensasse, più di quanto avesse calcolato.

Quanto mi aveva distrutto non si poteva ormai più calcolare.

“Ci sono cose che avrebbe voluto dire ma che non ha detto? La psicoterapeuta mi richiamò violentemente al presente con quella domanda a cui io richiusi gli occhi prima di trovare il coraggio di parlare.

 dissi in un sospiro sofferto, come se metà delle cose che avrei voluto dire fossero già venute fuori. Il solo fatto di ammettere d'aver qualcosa da dire, per me era stato un enorme passo che aveva richiesto un enorme sforzo.

Le dica ora continuò, ma a quel punto scossi la testa. Non sarei riuscito ad andare avanti con quella seduta, non quel giorno, non dicendo le cose che avrei voluto dire ma che non avevo avuto il tempo di pronunciare. 

“No, mi dispiace. Non ci riesco.” Riuscii a dire con il nodo alla gola che diventava sempre più prepotente, minacciando di non farmi parlare mai più per il resto dei giorni che avrei trascorso senza di lui.

“Che cosa le dispiace?” Continuò in un vano tentativo di tenermi allenato alla parola. Peccato che qualcosa in me si rifiutasse completamente di collaborare. Abbassai lo sguardo sul tappeto che c’era tra le nostre poltrone, cercando di concentrarmi il più possibile sul rumore della pioggia che ancora batteva sulle grandi finestre.

Avrebbero dovuto dare l’impressione al paziente di non soffocare probabilmente, ecco perché erano state messe lì ed ecco perché le poltrone gli erano di fianco e non davanti o di spalle. 

Dovevano rassicurare, dovevano simboleggiare la fuga, la possibilità di fuga. 

Mi ridussi a quelle piccole, poche, povere deduzioni che il mio cervello era in grado di fare - mai quanto quelle brillanti, ricche e corrette del mio partner - pur di non pensare. 

“Ha detto che le dispiace, giusto?” A quel punto annuii come un bambino al quale è stato chiesto almeno un cenno se proprio avesse voluto continuare a fare i capricci stando in silenzio. Sguardo basso. 

“Cosa le dispiace, John?” Aprii la bocca per parlare ma i polmoni si svuotarono troppo in fretta d’aria e dalle mie labbra non uscì mezza frase. Ero arrabbiato? Sì e probabilmente lo ero perché non riuscivo a parlare, non riuscivo a muovermi quando tutto quello che avrei desiderato fare era andare avanti, fare qualcosa.

“Mi dispiace…” ripetei, cercando poi le parole per completare quel pensiero. “…di non- io non posso dirle se non a lui.” Arrivai alla fine di quella frase senza fiato, con la gola chiusa in un nodo così stretto che rischiava di soffocarmi e con le lacrime agli occhi. 

Non avevo avuto tempo.

Non mi aveva dato tempo

Non me ne aveva concesso nemmeno un poco. 

O forse ero stato io a pensare d’aver avuto tutto il tempo del mondo? O forse ero stato io a pensare che avrei potuto dirgli tutto più avanti? O forse ero stato io a pensare che, magari, quello che avevo da dire nemmeno lo avrebbe toccato così tanto e forse ci sarei rimasto male, punto dalla sua freddezza sul mio vivo, sul mio punto più caldo. 

Almeno in quel momento mi avrebbe concesso di romanzare (era quello che mi accusava di fare durante la descrizione dei casi sul mio blog) l’addio? Almeno in quel momento mi avrebbe ascoltato senza dir nulla?

Mi aveva dato il tempo solo di urlare il suo nome nel tono più disperato che mi fossi mai sentito pronunciare, perché probabilmente non ero stato mai più disperato di come lo ero stato in quel momento.

“Deve dirgliele allora. Non crede anche lei?” Mi scappò un sorriso nervoso mentre, di nuovo, ero perso a fissare gli occhi nel vuoto. Come avrei potuto dirgliele quelle cose adesso? Ora che non c’era più.

Ora che mi aveva tolto ogni possibilità di parlargli. 

Ora che mi aveva tolto ogni possibilità di essere ascoltato.

Avevo assoluta urgenza che lui mi ascoltasse, sentivo il bisogno fisico che lui lo facesse. 

“Da quant’è che non passa a trovarlo al cimitero, John?” E lì mi trattenni dal mostrare un’espressione distrutta, devastata e spaventata.

Perché no, io non avevo bisogno di andare al cimitero per ‘trovarlo’, perché mi bastava aprire la porta dell’appartamento per sentirlo prepotentemente impregnato in ogni angolo di quella maledettissima casa; mi sarebbe bastato aprire la porta della sua stanza per ritrovare tutte le cose che aveva tolto da mezzo la signora Hudson sotto mia richiesta e, sotto mio comando, non ne aveva più fatto parola. Anche il violino con la sua custodia erano spariti accanto alla finestra del salone e nel notarlo il mio cuore si era rimpicciolito di qualche taglia. Lo avevo sentito il mio dolore dopo aver notato quella piccola, ma indispensabile mancanza. 

Fu in quel preciso istante che capii che non sarebbe più tornato e che non avrebbe più suonato per me e, cosa più importante, che io non mi sarei mai più seduto su quella mia poltrona come l’uomo che ero stato in sua compagnia.

Lui non c’era più e una parte di me era andata via con lui.

Fine. 

E non sapevo se fosse un male o un bene, magari se mezza parte di me era andata via avrei sofferto a metà? Non si diceva a giudicare dallo stato in cui ero, seduto ora su quella poltrona davanti la mia psicoterapeuta. 

“Da un po’” dissi laconico sempre senza guardarla. Rimase in silenzio un attimo prima di chiedermi altro. 

“E vorrebbe andarci?” 

“Mi farebbe stare meglio?” Chiesi io, stanco di ricevere tutte quelle domande solo per faticare a cercare la risposta. 

“Questo deve dirmelo lei.” 

Alzai lo sguardo su di lei che già mi stava osservando. Era pena quella che leggevo nei suoi occhi? No, era impossibile, una psicoterapeuta come lei sarebbe rimasta il più neutrale possibile davanti a qualsiasi paziente. Allora da dove veniva quel sentimento di essere compatito? 

Veniva tutto da me, forse. La parte di me che se n’era andata con lui era lontana ormai e mi guardava con occhi pieni di dispiacere perché non avevo potuto seguirli, perché ero ormai condannato ad una vita da vivere a metà. 

“È difficile tornare a pensare solo per noi stessi, noi che siamo tanto abituati a pensarci in due” aveva detto Greg qualche giorno fa e aveva avuto ragione e lo avevo capito solo in quel momento, in quell’esatto momento in cui soffrivo per quella maledetta lontananza che sentivo non solo di Sherlock, ma anche del me stesso che ero in sua presenza. 

Un uomo migliore, un uomo più vivo, un uomo meno solo. 

“Forse sì.” 

 

Erano passate altre due settimane ed erano state molto difficili.

Avevo preso appuntamento con Ella altre quattro volte, durante le quali avevo cominciato a parlare di qualcosa che in realtà non riguardava lui in sé, quanto piuttosto quello che io sarei diventato da quel momento in poi e avevo cominciato con il pensare di cambiare casa. 

Mi ci erano voluti cinque giorni per trovare un altro appartamento, mi era bastato chiedere alle persone giuste e andare a ritirare tutti gli assegni che il lavoro mi aveva fruttato.

Ero riuscito a trovare un appartamento più in periferia, questa volta non avrei sopportato di essere al centro di Londra e rassegnarmi al fatto di non poterla più vivere né respirare come ero solito fare in sua compagnia.

Un giorno però, quando le parole della mia psicoterapeuta erano arrivate troppo in profondità per continuare a far finta di niente, decisi di recarmi al cimitero.

Mi ero trovato un giorno dopo in taxi con la Signora Hudson che aveva acconsentito ad accompagnarmi a trovarlo.

“Ci sono tutte le sue cose…” cominciò piano, con lo sguardo perso nel vuoto mentre io cercavo di concentrarmi sugli alberi che sfrecciavano fuori da quel finestrino. 

Cercavo sempre di lasciar andare la mia mente verso altre cose quando si trattava di pensare a lui. Provavo a distrarmi perché fino all’ultimo istante avrei cercato di concentrarmi su altro, fino a che non sarebbe stato inevitabile. 

“Tutte quelle sue attrezzature scientifiche.” Continuò persa probabilmente tra tutte le cose che le avevo gentilmente chiesto di togliere da mezzo, di allontanare dalla mia vista senza che io me ne accorgessi.

“Ho lasciato tutto negli scatoloni. Non so cosa farne adesso.” Mi stava chiedendo cosa fare? Non ne avevo assolutamente nessuna idea. Non li avrei certo portati via nella nuova casa con me. 

“Tenga tutto lì. Nella sua stanza andrà benissimo.” Anche da lì avrei sentito i richiami dei suoi oggetti, avrei sentito il fantasma della sua voce e mi avrebbe fatto male nello stesso modo. 

Ormai non sapevo più se era meglio poggiarci sopra lo sguardo e ricordare che lui non ci fosse più oppure non vedere tutto quel disordine e pensare, inevitabilmente, che mancasse qualcosa.

Quel posto lo avrei più chiamato casa? Forse mai e forse nemmeno la nuova abitazione avrebbe avuto più quel nome. 

La mi casa non c’era più.

“Come vuoi, John.” Mi disse con un piccolo sorriso triste, senza aggiungere più niente. 

 

“Pensavo di portare il tutto ad una scuola” disse all’improvviso, dopo un lungo periodo di tempo in silenzio in piedi davanti alla sua tomba. Immediatamente collegai il discorso a quello che avevamo cominciato in macchina. Certo, magari sarebbe servito molto di più donare quelle cose alla scienza piuttosto che lasciare che diventassero oggetti di culto per un altarino che avrei voluto tenere con me per sempre.  “Lo faresti?” 

“Non posso tornare all’appartamento di nuovo. Non in questo momento.” Dissi con voce così distaccata che addirittura la Signora Hudson si avvicinò per prendermi sottobraccio, commossa probabilmente dalla mia palpabile difficoltà nel ricordare cosa avevo lasciato indietro.

Avevo lasciato quella poltrona.

Avevo lasciato il 221b. 

Avevo perso lui.

Avevo perso tutto.

“Sono arrabbiato.” Avevo detto con una semplicità non da me. 

La verità era che dopo tutte le sedute con Ella quella cosa l’avevo capita, non dalla prima volta in cui mi ero seduto su quella poltrona, ma certamente poi l’avevo capita.

Ero anche arrabbiato con lui oltre a sentirne terribilmente la sua mancanza.

“Va tutto bene, John. non c’è niente di strano nel sentirsi così.” Fece una pausa per accarezzarmi prima di voltarsi a guardare la pietra nera sulla quale spiccava lucente il nome dorato. “Tutti quei segni sulla mia tavola, la confusione, sparare all’una e mezzo del mattino…”

“Già” dissi ammettendo senza problemi quanto in realtà tutto quello mi mancasse e quanto il nuovo appartamento fosse l’ambiente più sterile nel quale io avessi mai vissuto. Così pulito, così bianco. Era troppo o troppo poco.

“I campioni insanguinati nel frigo, immagina di avere cibo e cadaveri insieme!” Continuò con tono disgustato. Forse per lei era stato tutto un po' traumatico il tutto, mentre per me era qualcosa di affascinante; una caratteristica di pochi - anzi forse di nessuno. 

“Sì…” e tutto quello, per quanto strambo fosse, mi mancava da morire. 

“E i litigi! Era così irritante con quel suo comportamento da irresponsabile!” La signora Hudson ormai stava scuotendo il mio braccio per la rabbia quasi fossi l’oggetto sul quale scaricare tutta quella rabbia e quella frustrazione, emozioni che sapevo d’avere anche io nascoste da qualche parte, ma al momento non erano ancora così esplicite. Erano ancora troppo nascoste dal dolore che provavo.

“Ascolti, in realtà non sono così arrabbiato, va bene?” Le dissi, toccandole gentilmente la mano che aveva ancora poggiato sul mio avambraccio. 

“Ok, ti lascio da solo per… lo sai.” Riuscì a dire prima che la sua voce venisse strozzata dal pianto. 

La vidi andare via, incerta sulle sue gambe secche e non più così svelte. Mi assicurai che fosse abbastanza lontana prima di ritagliare il primo e probabilmente ultimo momento di piena intimità con quella persona che ormai non c’era più. 

Ed era difficile anche solo pensare di parlargli. Eppure il discorso lo avevo pronunciato nella testa la notte prima, così tante volte che potevo dire d’averlo praticamente imparato a memoria. 

Non ero bravo in quel genere di cose e arrivare lì per improvvisare sarebbe stato un disastro.

“Ok” potevo essere pronto. “Tu una volta mi dicesti che non eri un eroe. Ci sono stati momenti in cui ho pensato non fossi nemmeno un umano - confessai con sincerità. - Ma lascia che ti dica una cosa, tu eri l’uomo migliore e l’essere umano più umano che io abbia mai conosciuto e nessuno potrà mai convincermi che tu mi abbia detto una bugia. Ecco, questo.” Conclusi con molta difficoltà, mentre cercavo di non lasciarmi trascinare troppo dall’emozione. Quella che stavo dicendo era una cosa importante, della massima importanza che probabilmente non avrei ripetuto mai più e quindi dovevo dire tutto fino alla fine, senza interruzioni e senza esitazione. 

Proprio com’era la mia lealtà nei suoi confronti anche oltre la morte. 

Probabilmente mi sarei dovuto allontanare in quel momento e cercare conforto o distrazione altrove e invece qualcosa mi spinse a toccare quella pietra lucida e scura, proprio come avrei voluto fare con lui. Avrei voluto averlo davanti per toccarlo, per abbracciarlo, per sentirlo vicino.

“Ero così solo e ti devo davvero tanto.” E questo non era programmato, questo non faceva parte del discorso programmato, questo era il cuore che prendeva il sopravvento una volta e per tutte perché probabilmente aveva capito che quello sarebbe stato l’ultimo momento in cui avrebbe potuto concedersi di parlare. 

Provai ad allontanarmi da quel punto dopo quelle parole, ma qualcosa mi tirò ancora una volta indietro. 

Ero io e avevo altro da dire. Avevo ancora la speranza e la disperazione. 

“Ma ti prego, c’è ancora una cosa. Un’ultima cosa, un ultimo miracolo, Sherlock, per me.” Perché magari se avessi pronunciato il suo nome senza paura mi avrebbe ascoltato; perché magari se avessi chiesto quella cosa per me, lui l’avrebbe fatta. Non c’era cosa al mondo che lui non avrebbe fatto se io gliel’avessi chiesta. 

E ora gliela stavo chiedendo. 

“Non essere- morto.” E quella parola ancora faceva male, ancora era troppo per me. Ci volle un attimo perché il mio cuore cominciasse a battere più veloce e perché le lacrime mi arrivassero agli occhi. 

Serrai forte le labbra e poi trovai il coraggio di continuare, perché quella richiesta era ancora più importante di tutte quelle che avevo fatto prima.

Qui avevo ancora dalla mia parte il John che non aveva accettato tutto quello.

“Potresti farlo, solo per me? Ti prego.” Per me lo avrebbe fatto ed era l’ultima chance che avessi. “Smettila, ferma tutto questo!” Dissi a bassa voce, ma con il cuore che urlava forte. 

Eppure ero un illuso.

Chiedere, davanti alla sua tomba, a lui di tornare era qualcosa che nemmeno per me sarebbe mai riuscito a fare. 

Ero stanco, pieno ancora di una speranza vana e mi sentivo sul fondo di un pozzo: senza via d'uscita e troppo lontano dal bordo. 

Mi concessi qualche secondo di completo sconforto prima di ricompormi, nascondendomi dietro la maschera del soldato che ero. 

Il momento di disperarmi era concluso, il tempo di ammettere quanto fossi distrutto e quanto sperassi che, almeno per me, lui tornasse indietro era finito.

Avrei dovuto ricominciare da lì e lo avrei fatto.

 

 

Non ero stato molto bravo a ricominciare, non quanto avrei voluto almeno.  Mi ero licenziato dal vecchio posto di lavoro quando Sarah aveva iniziato a diventare troppo apprensiva nei miei confronti. Continuava a chiedermi come stessi, se era tutto a posto e se c’era qualcosa che potesse fare per me.

No, non c’era niente che potesse fare se non lasciarmi andare via da lì.

E così avevo cambiato ambulatorio, ne avevo scelto uno più vicino alla casa nuova che alla vecchia.

Erano settimane ormai che non passavo per Baker Street ed ero sicuro che ne sarebbero passate tante altre prima che avessi il coraggio di farlo. L’idea di passare sotto quella finestra o di incontrare la signora Hudson da qualche parte, quasi mi spaventava. Non avrei saputo cosa dire né come fingere che quella nuova casa non fosse vuota e un disastro. Ecco perché avevo anche smesso di chiamarla per sentire come stesse.

Arrivato a casa, posai la nuova bottiglia di whiskey in quello spazio che sembrava una credenza e poi, sospirando, mi lasciai andare sul divano.

Il mio rapporto con lui era cambiato adesso, lo sentivo. Non mi mancava più, ma c’era qualcos’altro sotto; qualcosa che non riuscivo ancora a decifrare e intanto bevevo, affogando tutto nell’alcol.

D’un tratto il cellulare mi vibrò in tasca per un messaggio.

Dr. Watson, sono Mary Morstan, l'infermiera dell'ambulatorio, 

volevo solo chiederle se fosse disponibile domani per coprire il turno di Evans. 

La ringrazio, buona giornata!

Lei sì che era gentile, era nuova e non mi ricordava nulla del passato. Con lei e quel nuovo ambiente lavorativo tutto era più leggero, era più illuminato, un posto dove mi era possibile ricominciare, ricostruire. Lì ero chi potevo essere, perché nessuno aveva letto il mio blog, nessuno prendeva in giro "Sherlock Holmes", nessuno pronunciava il suo nome e né tantomeno lo accostava con il mio. E nonostante ciò fosse un bene, a me mancava da morire che qualcuno pronunciasse i nostri nomi vicini per introdurci. 

Mi mancava il modo in cui mi introduceva lui; amico o collega non si era mai capito veramente o almeno io non avevo mai capito davvero quale dei due preferisse. 

Io avrei preferito migliore amico o qualcos'altro. 

Eravamo sempre stati poco chiari sul nostro rapporto e per sempre lo sarei stato anche io ora che era andato via, senza lasciarmi nessuna spiegazione a riguardo.

Avevo perso un amico, un collega, un migliore amico e molto di più. 

 

 

“John?” Bussarono alla porta due volte prima che la testa bionda dell’infermiera potesse far capolino mentre io completavo la scrittura di una cartella. 

“Mary, dimmi” risposi prima di voltarmi per guardarla. 

“Volevo solo sapere se dopo il turno, beh ecco, sì, se ti andasse di unirti a noi. Usciamo a prendere qualcosa da bere, nulla di troppo impegnativo, ma comunque- se non ti va posso capirlo.” La sua voce sembrava molto più sottile del solito e il suo viso era leggermente più imporporato di quando era entrata accompagnando il paziente poco prima. Per quanto altro tempo avrei fatto finta che non le interessassi? Forse era giunto il momento di ricominciare davvero, di andare avanti nonostante tutto e di provare a ricreare una rete di conoscenze oltre quella che ormai ritenevo vecchia.

Io e Lestrade non ci sentivamo più così spesso e Molly aveva smesso di mandarmi messaggi che avrei volontariamente evitato.

Adesso ero io a dovermi convincere d’andare avanti. Dopo più di cinque mesi dalla scomparsa del mio migliore amico, potevo anche decidermi, giusto?

“Ma certo, perché no? Mi piacerebbe molto.” E fu allora che il suo viso si illuminò più di quanto non l’avessi mai visto, dandomi così conferma di quello che avevo pensato fino a quel momento: le interessavo.

 

Ne fu prova anche il bacio che ci scambiammo appena usciti dal pub all’angolo.

“S-scusa, io-” stava sorridendo nonostante si stesse allontanando da me. La sua mano era ancora poggiata sulla mia spalla e la mia era ancora sul suo fianco. Anche io stavo sorridendo come lei e mi era difficile capire se fosse per quello che avevo bevuto o se era per la sua sola presenza.

Ero pronto?

“Non farlo” sorrisi scuotendo la testa e chinandomi di nuovo su di lei per baciarla. E lo feci. Le presi il viso tra le mani e la baciai ancora.

Era una piacevole sensazione quella che provavo e mi sarei aggrappato ad essa quanto più potevo.

Non andammo a letto insieme quella notte, fui abbastanza lucido da chiamarle un taxi, cosa che poi feci anche io per tornare a casa.

Aprii la porta e la sua assenza mi invase.

Mi sentii in difetto all’istante: perché, anche se avevo cambiato casa, lui mi mancava? Erano settimane che ero riuscito ad accantonare il pensiero, perché doveva tornare proprio ora che stavo ricominciando a trovare un minimo di felicità? Non so con quale forza riuscii a mettermi a letto, piuttosto che in salotto a bere ancora.

 

 

Con Mary il rapporto era andato a gonfie vele, nonostante non fosse partito con passione e velocità, né con elettricità o attrazione fisica profonda. Era una persona che mi faceva stare bene, tranquilla e non pretendeva nulla di esagerato da me, ecco perché forse mi sentivo a mio agio con lei, perché dopo tutto il dramma vissuto, dopo aver corso dietro Sherlock Holmes per anni, ora era giunto il tempo per me di rallentare e per lei sembrava valerne la pena.

Nonostante ormai facessimo coppia fissa da mesi, non le avevo ancora chiesto di venire ad abitare da me; forse non ero ancora pronto per quello. 

Ero semplicemente in casa, seduto ad attendere che arrivasse per poter uscire insieme quel pomeriggio, ma quando bussarono alla porta mi trovai davanti l’ultima persona che avrei immaginato.

“Greg, ciao!” Esclamai sorpreso di vederlo lì.

“John” un cenno del capo e un sorriso leggero. “Posso? Ho portato questo per te.” Disse allungandomi una scatola che presi solo dopo qualche secondo che ero rimasto a fissarla. Poi mi sforzai di sorridere spostandomi dalla porta per farlo accomodare dentro.

“È un piacere vederti” dissi.

“Anche per me.” Rispose prendendo posto sulla poltrona davanti le finestre. “Allora, tutto bene?” Domandò guardandomi apprensivo e io, seduto ora sul divano, intrecciai le mani nervoso prima di rispondere.

“Sì, tutto bene.” Con Mary stava andando tutto bene e la mia vita aveva smesso di sembrarmi vuota e senza motivo. “Molto meglio.” Aggiunsi, dal momento che probabilmente era proprio in quel modo che Greg mi ricordava: perso completamente. 

Ma mi ero ripreso, se così si poteva dire. 

E non ne volevo assolutamente parlare, così… “cosa c’è lì dentro?” Chiesi indicandola con il dito prima di tornare a guardarlo. 

“Oh beh, lì ci sono alcune cose del mio ufficio. Cose di Sherlock, per essere precisi. Magari avrei dovuto buttarle, ma non-”

“No, no va bene.” E forse stavo mentendo, perché delle sue cose non ero mai riuscito a liberarmi veramente, costringendo la Signora Hudson a farlo per me.

Probabilmente Greg pensava che ne valesse la pena lasciarle a me. Si alzò dal suo posto per andare ad aprire la scatola quasi divertito. 

“C’è della roba che non ero sicuro avrei dovuto tenere io.” Disse prendendo la prima cosa sul cumulo di oggetti. “Ti ricordi il video messaggio che ha fatto per il tuo compleanno? Praticamente ho dovuto minacciarlo.” Sorrisi. Sì che me lo ricordavo, pur di non venire ad una serata tra amici si era inventato un caso che nemmeno esisteva e alla fine mi aveva confessato che semplicemente non voleva stare in mezzo ad altra gente e che mi avrebbe offerto una cena come regalo. Peccato che me la offrì il giorno dopo, sulla scena di un crimine. “Questa è la versione inedita. È abbastanza divertente!” Mi disse con un sorriso e dovetti prendere il cd dalle sue mani prima di rigirarlo tra le mie e rispondergli.

“Oh, Okay.” Dissi solo, con lo sguardo basso. Un video di Sherlock? Sarei riuscito a guardarlo? 

“Forse avrei dovuto buttarlo…” si affrettò a dire Greg, probabilmente spinto dall’espressione che avevo disegnata sul viso: per niente rilassata o divertita quanto la sua.

“Non preoccuparti, va bene così. Probabilmente non lo guarderò nemmeno.” Sorrisi cercando di non farlo sentire ancora più in colpa di quanto non si sentisse già a giudicare dal suo viso.

Certo, avrei potuto non guardarlo, avrei potuto seppellire quel cd in qualsiasi angolo della casa, ma non appena Greg mi salutò e uscì, io tornai nel salone con ancora il pensiero di uno Sherlock vivo il giorno nel mio compleanno. 

Avrebbe sorriso, avrebbe parlato, forse lo avrei sentito infastidito.

Lo avrei risentito. 

Non sarei riuscito a vedere niente senza bere qualcosa di forte che tenesse a bada le emozioni, così mi preparai un bicchiere di scotch e, dopo averci girato un po’ intorno, provando a desistere da guardare quel video, cedetti e misi play.

Con le luci così? Okay” la sua voce e il primo sorso vennero insieme. “Cosa vuoi che faccia alla fine? Dovrei- non so, sorridere e fare l’occhiolino? A volte lo faccio, non so nemmeno perché: Pare che alla gente piaccia, mi umanizza forse.” Voltò le spalle alla telecamera prima di allontanarsi di qualche metro. 

Va bene!” Era Lestrade a parlare questa volta, probabilmente irritato dopo aver provato in tutti i modi a convincerlo a fare quel maledettissimo video che ora avrei dovuto tenere io per il resto della vita. 

Ripetimi perché lo sto facendo.” 

Perché mancherai alla cena!

Ovvio che mancherò alla cena, ci saranno delle persone. Come può John fare una cena di compleanno? Tutti i suoi amici lo odiano!” Sorrisi. Aveva ragione, tutti i miei amici mi odiavano, ecco perché si erano ammazzati senza darmi la possibilità di salvarli o di seguirli. 

Mi odiavano perché tutto quello che mi avevano dato era stato un messaggio di addio al telefono e niente più. 

I miei amici mi odiavano. Quindi Sherlock mi odiava e io odiavo lui.

Ero arrabbiato con lui, solo che ero stato troppo dispiaciuto per ammetterlo fino a quel momento in cui lo stavo guardando e l’unica cosa che avrei voluto fare  era prenderlo a pugni.

Ora che il dispiacere sembrava svanito, ora che ero stato costretto ad abbandonare casa, ora che non avevo più la vita che ero stato così fortunato a trovare, ero la persona più arrabbiata del mondo. 

Non mi aveva lasciato indietro, non lo aveva fatto.

Non poteva averlo fatto veramente. 

E invece… 

Quindi sì, ancora una volta aveva ragione Sherlock Holmes: i miei amici mi odiavano.

Basta guardarli in faccia. Ho scritto un saggio sull’odio represso basato sulla vicinanza grazie ai suoi amici.” Continuò e sorrisi più amaramente di prima. “Riflettendoci, non era certo il miglior regalo che potessi fargli.” Fece una pausa e io rimasi a guardarlo. “Ripetimi qual era la mia scusa…

Avevi delle cose da fare.

Oh sì, giusto, delle cose

Magari vuoi spiegare…

Oh no, solo le bugie hanno i dettagli.” Chiusi gli occhi sconfortato da quelle parole. Quante bugie erano state dette su di lui dopo la sua morte? E quante su di me. I giornali avevano banchettato per un bel po’ inventandosi i dettagli più sconvolgenti.

Niente di quello era vero.

Nulla.

Ok, ho solo bisogno di un attimo per decidere cosa fare.

“Ti dico io quello che puoi fare: smettila di essere morto.” Dissi irritato prima di buttare giù un altro sorso. 

Ok!” E non ero pazzo, mi parve di percepirla come una risposta a ciò che avevo detto. 

O forse lo ero, pazzo. 

Ciao John - mi sorride - mi dispiace di non essere lì in questo momento. Sono veramente impegnato. Comunque, altri cento di questi giorni! Oh e non ti preoccupare. Sarò di nuovo con te molto presto!” Non ci saremo visti presto, né molto presto. 

Non ci saremo visti più. 

Solo il campanello riuscì a risvegliarmi da quei pensieri e da quella tristezza che sentivo risalire a galla. Maledetto lui, i suoi video e Lestrade. 

“M-mary” salutai con espressione sorpresa. 

Avevo completamente dimenticato che la stessi aspettando.

Naturale, perché ogni volta che c’è Sherlock, non c’è più nessuno. Era così quando era in vita e sarebbe stato così anche ora che non c’era più. 

“Allora, un bel gelato ci attende!” Esclamò sorridente, stringendosi nelle spalle. Poi mi guardò meglio in faccia e aggiunse subito “tutto bene? È successo qualcosa?” Chiese preoccupata. 

Non ce l’avrei fatta a reggere anche lei preoccupata per me. Io per lei ero una persona normale, che stava bene e che non aveva subito niente se non le atrocità della guerra, ma quella era acqua passata. 

“In realtà, scusa. Mi ero completamente dimenticato dell’uscita… sono in perdonabile, davvero.” Dissi senza nemmeno cercare di nascondere il mio sconforto.

“John, tranquillo. È successo qualcosa di grave?” Mi ripeté, posando una mano sulla mia spalla mentre con il suo sguardo cercava i miei occhi che provavano a non staccarsi da terra.

“Nulla, è solo un brutto momento. Ti dispiace se rimandiamo?” Chiesi. A quelle parole lei si rabbuiò. 

“Se ne parlassi con me, magari…” ma magari niente. Lei non mi avrebbe certo aiutato, non mi avrebbe certo capito e in quel momento mi urgeva solitudine. 

Ecco perché non chiamavo più la Signora Hudson o perché non mi facevo più sentire da Molly, Greg e perché non osavo più passare per Backer Street. Pensarlo e poi riprendersi, tornare a fare ciò che andava fatto, era sempre più difficile. 

“Mary, davvero. Ti ringrazio, ma no.” La mia risposta fu forse eccessivamente brusca, perché lei si allontanò subito, lasciandomi andare.

“Va bene, allora facciamo che quando stai meglio mi chiami, ok?” Fece un passo indietro ora con espressione più delusa che arrabbiata. “Buon pomeriggio John.” Salutò prima di andarsene e io non mi disturbai a rispondere, chiudendo semplicemente la porta davanti a me. 

Era orribile quello che mi aveva fatto ed era per quello che lo odiavo. Ero arrabbiato con lui, preso alla sprovvista da un sentimento troppo forte nei suoi confronti che ora, senza di lui, non sarei più riuscito a metabolizzare e odiavo anche me per quello. Il sentirmi vittima di qualcosa più grande di me non mi aiutava, la sua lontananza non mi aiutava.  

Tornai in salone e velocemente rimisi il cd nella scatola, senza nemmeno guardare cos’altro ci fosse. Avrei nascosto quella roba sotto il letto e non l’avrei più tirata fuori, non ne avrei più parlato.

E se lo avessi fatto davvero, magari avrei sbagliato.

Nel momento in cui chiusi la scatola sentii di non aver ancora chiuso tutto quello che avevo in sospeso con lui; non avrei messo sotto chiave anche i miei sentimenti, la mia rabbia, come avrei potuto fare con quegli oggetti. Con la mia mente e le mie emozioni era molto più difficile e dovevo smettere di chiudere quella mia scatola che continuava a straripare di cose, di pensieri, di sentimenti ogni volta che provavo a sedermici sopra per chiuderla a forza. 

Presi quella scatola, mettendola sotto il braccio e poi corsi fuori in strada per recuperare Mary che era appena arrivata alla fine della strada.

“Mary! Aspetta” urlai e per fortuna si voltò, ancora con quello sguardo un po’ triste dipinto sul viso.

“John, che-”

“Hai ragione. Ne devo parlare.” Dissi come se sapesse già di cosa, ma non ne aveva idea. Se proprio avessi dovuto aprire quel vaso di Pandora, lo avrei fatto con lei al mio fianco, senza paura e non da solo.
Ero stanco di essere solo e arrabbiato. 

Mi guardò e probabilmente vide la mia espressione intristirsi un po’, perché mi si avvicinò e accarezzò subito la mia guancia che, trascurata com’era, stava già lasciando crescere la barba corta. 

“Andiamo” disse con dolcezza, prendendomi sotto braccio e conducendomi al bar più vicino.
 


 

“Certo che doveva essere un tipo strano” scherzò prima di bere di nuovo. Avevamo la scatola aperta davanti a noi e già le avevo raccontato della maschera gialla e della locomotiva nera.

“Sì che lo era, questi invece erano i suoi cerotti alla nicotina. Quando era molto concentrato su un caso spesso li usava, una volta lo trovai con ben sei cerotti sulle braccia e in completo silenzio seduto al centro del salone.” Qualsiasi cosa raccontassi non era facile, anche se probabilmente non stavo dando a vedere nulla, stavo avendo problemi a formulare quelle frasi senza che la voce mi tremasse un po’.

“E questo? Un cellulare rubato alla sua ragazza per caso?” Sorrise prendendo in mano il cellulare rosa. Primo caso.

Il mio cuore perse un battito al ricordo.

“No, lui… le ragazze non erano precisamente la sua area.” Quasi mi sfuggì un sorriso nel citare le sue stesse parole. A quel punto Mary mi guardò per un attimo molto più preoccupata di prima, poi cambiò espressione cercando di alleggerire l’atmosfera.

“Oh era per questo che viveva con te allora?” Rise girandosi il telefono tra le mani. “C’è qualcosa che dovrei sapere, John Watson?” Risi anche io. 

Non c’era nulla che dovesse sapere e non c’era niente che dovessi sapere io, ormai. Quindi di cosa avrei mai potuto parlare? 

“Nulla. Solo che questo fu il nostro primo caso, insieme intendo. Prima di me ne aveva già risolti un’infinità suppongo.” Risposi cercando di sorridere più rilassato.

“Il primo, davvero? Sono curiosa di sentirlo!” Esclamò prima di appoggiarsi con entrambi i gomiti sul tavolo pronta ad ascoltare.

“Beh…”

“John, voglio che tu sappia che sono molto contenta per questo.” Disse interrompendo il discorso. “Io… mi dispiace, non immaginavo che potessi star male per questo, non ne avevo assolutamente idea, ma sono contenta che tu me lo abbia raccontato.” Mi prese la mano e cominciò ad accarezzarla.

“Mi sento meglio ora che te l’ho raccontato ad essere sincero…” confessai coprendo la sua mano con la mia. 

“Puoi raccontarmi quello che vuoi, quando vuoi. Va bene? Ma tu promettimi che non mi taglierai fuori mai più.” A quelle parole lei parve più autoritaria di come non l’avevo mai vista prima d’ora.

“Promesso.”

Fu in quel giorno che lei lo conobbe. 


 

Al secondo anniversario della morte di Sherlock ero più pronto. 

Non ero più solo e non ero più arrabbiato. 

Se il mio distacco da lui era cominciato con dispiacere, per poi lasciar uscire la rabbia, ora la rabbia era sparita e il dispiacere era tornato. Ma quello era onnipresente, era sul fondo e non svaniva. Con una mancanza impari a viverci, ma non ti abitui mai. 

E così avevo fatto io. 

Grazie a Mary avevo accettato di sentire la mancanza di qualcuno per il resto della vita, ma senza più sentirmi solo né abbandonato. 

Aveva ben pensato di accompagnarmi al cimitero, per la prima volta dopo molto tempo.

“Vai prima tu, ti raggiungo tra poco.” Disse spingendomi avanti e restando poi sul posto, con le mani intrecciate, ben coperte dai guanti. Con un cenno accolsi la sua proposta e mi avvicinai per primo alla tomba scura. 

Era sempre un colpo al cuore, un pugno nello stomaco, un nodo alla gola.

E non sarebbe mai cambiato, non l’avrei mai accettato al punto di non provare più niente quando lo pensavo o quando mi recavo lì.

“Mi dispiace” sussurrai con voce tremante e le lacrime già agli occhi. E un po’ mi sentivo in colpa, perché il cimitero era l’unico luogo in cui potevo parlargli davvero, l’unico luogo in culto in cui avrei potuto piangerlo o pregare per lui e invece mi ci ero tenuto a debita distanza per quasi un anno e mezzo. 

Rimasi poi in silenzio, con la mente totalmente vuota e lo sguardo fisso sul marmo scuro prima che Mary potesse avvicinarsi e prendermi la mano per stringerla forte. 

C’era e sarebbe stata accanto a me adesso. 


Rimanemmo davanti a quella tomba, mano nella mano.

E quello non era altro che l’inizio, perché lo avrei ritrovato.

E avrei avuto voglia di ammazzarlo di nuovo, per davvero.








Angolo della scrittrice: 
Questa è decisamente la OS che avevo in mente sin dall
inizio, prima ancora di scrivere Us. e averla completata oggi mi riempie veramente di gioia. Ci ho messo tantissimo, ma ad ogni frase era un parto e quindi è venuta su nel tempo di qualche mese... 
Mi mancava troppo tutto il dolore di John nel passaggio dalla S2 alla S3 e secondo me andava raccontato, in un modo o nell
altro.  Ma niente, possiamo dire almeno di essercelo risparmiato se fosse stato effettivamente così doloroso (o magari i Mofftis hanno lasciato a John la privacy durante il lutto <3).

Ancora una volta vi ringrazio tantissimo per aver letto, davvero. 

 



 

  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Novizia_Ood