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Autore: roxy92    28/06/2016    1 recensioni
L'aria si era increspata lievemente e si era udito un tonfo. Sesshomaru aveva girato elegantemente il viso nella direzione che aveva percepito, appena disturbato dalla diversità di quel piccolo avvenimento così insolito rispetto ai normali giorni del Sengoku. Si era concentrato per qualche istante ma non aveva trovato nulla di interessante. Così aveva deciso di continuare il suo peregrinare come nulla fosse, disinteressato a quanto, in realtà, stesse accadendo.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Rin, Sesshoumaru
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Era una razza di demone diversa. In vita sua, Sesshomaru non aveva mai percepito un odore simile. Si trattava di una creatura sovrannaturale, senza dubbio, ma l'espressione arguta e attenta che aveva rivolto a lui, mentre lo studiava, e lo sguardo dolce, che aveva riservato alla piccola Rin, a mo' di commiato, rivelavano una vastità di sentimenti ed una leggerezza nel mostrarli che certo non erano propri dell'universo demoniaco. Non era una dea, perché un taglio sulla fronte ed un livido alla tempia ne deturpavano il viso. Semplicemente, il grande demone cane non aveva idea di cosa fosse.

Si teme ciò che non si conosce, se questo ha il potere di nuocere a qualcosa che si ama, e Sesshomaru aveva ordinato asciutto a Rin di andare da lui. Era avanzato di un passo ed aveva celato la bambina con la mano.

La straniera non aveva proferito parola né mutato il suo atteggiamento pacato. Semplicemente osservava e, nelle sue iridi scure, simili al cielo notturno quando scoppia il temporale, pareva voler capire a fondo chi le stava davanti. Dava la sgradevole impressione di riuscirci pienamente.

Aveva dita artigliate anche lei ma unghie più scure di quelle di Sesshomaru: un bianco più sporco, una neve meno candida.

Inaspettatamente, la guerriera si abbassò fino a portare il ginocchio a terra. Batté il pugno chiuso sul proprio petto. Non per un instante, tuttavia, abbassò lo sguardo. Solo tempo dopo avrebbero saputo che, per quella razza, era il saluto che un guerriero rivolge ad un combattente che gli è superiore.

Nel descriverglielo, avevano sempre anteposto un titolo onorifico ed era stato naturale, per Galen, mostrare il rispetto che gli fosse dovuto. Rispetto, però, è anche indicare chiaramente un errore, quando qualcuno lo commette.

 

“Se avessi voluto colpire, avrei già potuto farlo troppe volte, senza il vostro permesso, fuggendo indisturbata. Dovete proteggere con più attenzione ciò che amate. Questi tempi non sono sicuri.”

 

A dispetto della velocità che aveva dimostrato nell'abbattere il suo nemico, si era alzata lentamente.

Attendeva una risposta, un rimprovero. Non si stupì quando Jaken, tremante, provò ad intromettersi tra lei ed il suo padrone. Evidentemente, il piccolo demone aveva apprezzato l'aiuto ricevuto e tentava di contraccambiare. Le veniva da ridere mentre Jaken implorava il suo signore di non punire quella strana femmina.

A quella scena, Sesshomaru sembrò placarsi quasi subito. Avanzò lasciandosi Rin alle spalle. Sorpassò Jacken e si portò davanti alla straniera, che si attardava nell'attesa di un suo cenno, per alzarsi.

 

“Chi sei? E soprattutto, cosa sei?”

 

Le chiese atono.

La femmina si alzò e ripeté il proprio nome ma non rivelò quello della sua razza né il proprio rango. Spiegò che, semplicemente, non le era concesso svelarlo. Invece, volle conoscere la geografia di quel posto, chi comandasse la zona ed in che modo potesse allontanarsi senza avere grane dai vari dominatori del posto.

 

“Voglio solo andarmene. Non bramo ricchezze o potere. Non cerco lotta.”

 

Veloce, Jaken rispose gonfiando il petto che tutti quei domini appartenevano al suo signore.

 

“Voglio sperare che la vita dei tuoi amici valga almeno un lasciapassare per le tue terre.”

 

Il grande demone cane non aggiunse altro. Semplicemente, si allontanò come se non gli importasse nulla e le permise di andare via.

 

 

Andare via, si, ma andare dove? Aveva più o meno una mappa mentale del territorio e niente altro in mano. In quella zona, stando alle notizie apprese, avrebbe trovato solo poveri villaggi abitati da contadini che a malapena avevano di che mangiare ogni giorno. Lei, invece, per abbandonare quel mondo, aveva bisogno del potere di un sacerdote potente, di mistici che sicuramente non dimoravano in mezzo ai popolani. Con un po' di fortuna, avrebbe forse appreso di qualcuno abbastanza in gamba che viveva da ramingo. In questo, forse, un villaggio avrebbe potuto esserle utile: a conoscere un nome, rintracciare una persona forse più sapiente.

Le ombre lunghe della sera iniziavano a disegnare contorni sfumati delle cose sulla terra più bruna. Sospirò. Non percepiva in alcun modo la presenza di suoi simili. Solo anime umane, tormentate, bisognose di aiuto. Portò il cappuccio a copertura della fronte e dei capelli. Per via del suo aspetto, aveva tratti diversissimi da quelli nipponici ma, forse, avrebbe potuto far credere di essere una occidentale. I suoi capelli biondi e gli occhi azzurri la favorivano. Per quanto poteva, provò a mutare il suo aspetto demoniaco in umano. Sospirò e si avviò all'entrata di quell'agglomerato di povere capanne. Come si aspettava, gli uomini che rientravano dal lavoro nei campi, diffidenti, stanchi e col volto sfatto, erano la parte migliore del comitato di benvenuto. Nel suo giapponese stentato, abbruttito dall'accento spigoloso della sua lingua natale, chiese di poter parlare col capo villaggio. Mentre la fissavano, iniziò a chiedersi chi avrebbe potuto fingere di essere per non spaventarli. Ci pensò qualche istante, poi tentò di affidarsi ai ricordi della sua vita passata, quando era ancora una celebrante di altri culti ed altri misteri, ma pur sempre qualcuno in contatto con ciò che occhio umano non vede ne percepisce.

Entrata in una casa appena più grande delle misere capanne che costituivano il villaggio, si sfilò il cappello e disse il proprio nome.

 

“Non sono nata in questa terra ma il dolore delle anime di tutti gli uomini è sempre uguale, in tutti i continenti, presso tutte le genti. Qui qualcuno sta male ed ha bisogno del mio aiuto. Lo sento gridare e non posso ignorare il suo richiamo. Permettetemi di guarirlo, in modo che il suo grido cessi e, con il suo, anche il mio.”

 

L'anziana sacerdotessa, che faceva anche le veci di capo-villaggio, intuì immediatamente di aver davanti qualcuno di speciale. Lo vedeva dal portamento, dalla sicurezza, dalle significato delle sue parole. Un demone non si cura del dolore umano. Una persona nata in campagna non è così solenne.

 

“Da dove vieni, Galen? Sembri umana ma una donna normale non girerebbe mai sola poco prima della notte.”

 

La giovane sorrise e mostrò denti bianchissimi, una corolla di perle ad illuminare il viso pallido.

 

“Anche una semplice donna può imparare a difendersi col giusto allenamento e non tutte le donne sono così fortunate da avere un uomo che le protegga.”

 

L'anziana donna rise di quella risposta pronta, poi tornò a fissarla con sguardo attento.

 

“Che ne sai di chi sta male in questo villaggio? Sei forse una indovina?”

 

Fu Galen, allora, a ridere della battuta dell'avversaria.

 

“Non so come si chiamano quelli come me, in questa terra. Posso sbagliare su molte cose, ma non su questo. Qui qualcuno sta male ed io posso aiutarlo. Ci siete forse riuscita, voi, onorata sacerdotessa?”

 

La venerabile accusò il colpo. Ferita un po' nell'orgoglio, nonostante l'ora tarda volle vedere subito di cosa fosse capace la straniera.

 

“Se davvero sei in grado di percepire che qualcuno sta male, sarai anche perfettamente in grado di trovarlo da te. Non è molto grande questo villaggio.”

 

Galen annuì. Ormai era notte e non le dava fastidio il sole. Calò il cappuccio sulle spalle e si diresse verso la porta.

 

“Vogliate farmi il piacere di accompagnarmi, onorata signora. Non vorrei correre il rischio di disturbare la persona sbagliata.”

 

Detto ciò, porse il braccio all'altra. Stava diventando interessante cercare di capire chi, in quel duello di risposte piccate mascherate di buone maniere, l'avrebbe spuntata.

 

 

 

La luna era alta e le stelle trapuntavano il cielo con il luccicare di mille diamanti. Rin dormiva ed il suo respiro calmo e regolare era rilassante. Jaken sonnecchiava appoggiando il mento sul petto, il fedele Nintojo sempre stretto tra le corte braccia.

Il signore dell'Ovest era assorto. Aveva percepito altri con lo stesso odore di quella strana ragazza, altri della stessa razza. Gli sembrava che iridi scure come quelle della straniera lo spiassero da lontano, analizzando ogni suo movimento. Quell'incontro non gli era piaciuto per niente.

 

“Questi non sono tempi sicuri.”

 

Le parole di quella femmina suonavano foriere di sventura. Guardò Rin, nuovamente. Stando al resoconto di Jaken, la bambina ed il piccolo demone avevano rischiato moltissimo in sua assenza. Erano stati attaccati e non avrebbero avuto la men che minima possibilità di difendersi. Galen era stata la loro salvezza. Eppure, il cadavere dell'uomo che li aveva assaliti, di cui restavano le ceneri, era di sicuro di un simile di quella straniera. L'aveva lasciata andare perché era in debito: la vita di Rin valeva senza dubbio il permesso di poter lasciare i suoi domini, per una volta.

Nonostante sembrasse impassibile come al solito, in realtà Sesshomaru era teso, corrucciato nel percepire ogni minuscolo cambiamento nell'ambiente. L'aria era pesante ed inquieta. Se ne rese conto all'improvviso. Non era una mera impressione. Iridi azzurre, per davvero, lo seguivano nella penombra. Finalmente, era stato in grado di individuarle, anche se solo per un istante. Un milionesimo di secondo, in cui la morsa del presentimento che gli annodava le viscere aveva preso forma nello sguardo furtivo di un nemico.

Istintivamente, estrasse Bakusaiga. Le ciglia abbassate, un ringhio silenzioso che non emetteva suono gli deformava il perfetto viso millenario. Si inoltrò lentamente nella foresta, mentre le fronde nere delle piante lo inghiottivano coi loro tentacoli di liquida tenebra. Un incantesimo era stato lanciato e lo faceva arrabbiare. Impugnò saldo l'elsa. Il suo sangue demoniaco pulsava vorticoso nelle vene. Si girò di scatto quando un ramoscello si crinò leggermente, alle sue spalle. Il signore dell'ovest aveva individuato la sua preda. Iridi azzurre lo aspettavano al di là della foresta e nelle mani avevano una spada. Fu il cozzare delle armi a destare Ha-Un.

 

Percorsero pochi metri e Galen si bloccò, con un movimento fluido e deciso.

 

“E' qui.”

 

Affermò sicura, lasciando lentamente il braccio della donna e dirigendosi verso una casupola piccola esattamente come le altre.

Forse fu il modo di porsi, del tutto diverso da quello della ragazzina orgogliosa di poco prima, ma la sacerdotessa ebbe l'impressione di avere dinnanzi un'altra persona. Non erano certo le vesti sporche e logore, tipiche di chi viaggia troppo. C'era dell'altro. Era come se, per Galen, ogni cosa fosse improvvisamente diventata superflua, tutto, eccetto l'anima che la chiamava, al di la di quella porta. Non poteva trattarsi di una dea, c'erano troppe imperfezioni in lei. Tuttavia, traspariva la dignità solenne che non appartiene certo ad un figlio del popolo. Se può una principessa essere riconosciuta non dalle sue vesti ma dalla dignità dei suoi gesti, allora Galen lo era, sicuramente.

 

Finalmente lo vedeva. Finalmente aveva di fronte quel bastardo. Da quanto lo spiava? Da quanto il suo lurido sguardo era puntato a nuocere la sua protetta? Con rabbia ferina sferrò un altro colpo. Gli artigli della sua mano sinistra grondavano sangue mentre nella destra brandiva la spada. Non era stato troppo difficile. Dopo neppure un'ora era riuscito ad aver ragione del suo nemico.

Possibile fosse un essere così inferiore ad essere stato capace di spiarlo tanto a lungo? Se lo chiedeva con sospetto mentre studiava l'uomo pallido dal braccio sanguinante che. Come unica arma, aveva i suoi occhi azzurri e taglienti.

 

Galen oltrepassò il piccolo ingresso. C'erano poche stanze in quella casa e ne raggiunse una buia. Nell'angolo, sotto la finestra, si rannicchiava una donna emaciata. La poveretta dondolava avanti ed indietro. Fissava ora il soffitto, ora la luna, spesso il vuoto.

Aveva perso marito e figlio in guerra. Il dolore, inesorabile, l'aveva scaraventata nella follia.

Parve non curarsi della donna bianca e dorata che avanzava verso di lei. Fosse stata anche l'angelo della morte, non le importava.

 

“Non c'è niente da rubare. Nulla qua….”

 

Ripeté due o tre volte, dondolandosi più velocemente ed accostando maggiormente il mento alla ginocchia. Il viso era solcato di rughe precoci ed, osservandola, Galen sentì vivo su di lei l'odore putrescente della violenza.

Qualcuno si era anche approfittato di lei.

 

“Non c'è niente da rubare qui. Hanno già preso tutto. Qui non c'è niente...”

 

Galen sedette vicino a lei. L'odore della donna, delle sue lacrime, del suo dolore, della scarsa igiene, iniziava seriamente a disgustarla. Tuttavia, sorrise delicata ed allargò le braccia, come chi aspetta di accogliere qualcuno che gli corre incontro e sa che lo farà barcollare per l'irruenza del gesto.

 

“Se invece tu potessi vedere quanto c'è ancora qui, da far crescere e mostrare alla gente ed al mondo!”

 

La poveretta non le disse nulla. Era troppo spezzata anche per curarsi del senso di quelle parole, anche per urlare per quella mano artigliata che le sì posava sopra il cuore e pareva carpirne ogni battito. Fu come una scarica elettrica che la stesse sconquassando. Avrebbe voluto urlare tanto era il terrore. Invece era bloccata. Quegli occhi azzurri la stavano ammaliando, ghermendola a forza. Era paura, terrore quello che provava. In un certo senso, però, c'era anche sollievo: sarebbe stata la fine di tutto.

 

“Tu vivrai.”

 

La scossa cessò e due braccia salde la strinsero con forza.

 

“Tu vivrai.”

 

Era come se nuova linfa iniziasse a scorrere nello stelo di un fiore appassito. La donna si aggrappò alla straniera, che non era più una straniera ma una sorella. Calde lacrime iniziarono a scendere dai suoi occhi asciutti. Non ricordava nemmeno più cosa significasse provare pace.

Sesshomaru fissava il suo nemico. Era attratto soprattutto dal suo sguardo. Aveva visto troppe poche volte occhi come quelli. Invece di temere che potessero rubargli l'anima, li fissava apertamente. Fu questo il suo sbaglio. All'improvviso, si accorse che Bakusaiga, tra le sue dita, tremava.

Una goccia di sudore scese dalla fronte lungo la tempia, mentre il suo avversario aveva mutato espressione. Rideva, un sorriso che non prometteva nulla di buono. Sesshomaru tentò di riprendere il controllo della propria arma ed una leggera scossa gli scorse nelle vene. L'inquietudine, inesorabile, cedeva il passo alla paura. Non era la spada a non rispondergli più ma il suo stesso arto che tremava. Il grande demone aveva perso il controllo della propria mano ed iniziava a muoversi contro la sua volontà persino il braccio. Presto non sarebbe più stato in grado di aver ragione del proprio corpo. Con un ultimo barlume di lucidità, mentre le gambe ancora gli rispondevano, scattò per colpire col braccio sinistro il proprio nemico. Quel bastardo aveva sostituito la sua espressione compiaciuta con un sorriso sadico, l'aria di chi avrebbe infierito per il semplice gusto di recar dolore. Il suo avversario gli aveva bloccato il polso sospeso a mezz'aria, a pochi centimetri dal proprio viso.

 

“Ci sono creature, nella notte, che neppure un demone potente come te dovrebbe mai sfidare.”

 

Gli gracchiò beffardo, davanti alla faccia. Senza fatica, aveva in qualche modo imbrigliato il signore dell'ovest, il cui corpo, ora, era sotto il suo controllo. Lo sguardo gli si illuminò di un bagliore sinistro.

 

“Sai quanto il tuo corpo può resistere al tuo stesso veleno?”

 

Sesshomaru ringhiò mentre il suo braccio si levava lentamente in aria, come se non gli appartenesse. Intuiva benissimo ciò che stava per accadere e più del terrore lo faceva infuriare la vergogna. Essere sopraffatto così, da un guerriero senza titolo, di cui non si sapeva neppure il nome. La sua anima era talmente tesa da essere quasi sul punto di gridare. Fu un ringhio ferino quello che Rin udì.

 

Galen ci era riuscita in fretta. Non era difficile curare l'anima di una mortale. Era certa che con quel gesto si sarebbe guadagnata la fiducia della sacerdotessa a capo di quel villaggio ed avrebbe potuto iniziare la sua ricerca di informazioni per rientrare nel proprio mondo. Stava uscendo, sollevata, quando quel latrato ferino nella foresta ed il grido di quella bambina le gelarono il sangue nelle vene. Rin non aveva solo paura. Provava terrore. Era terrorizzata all'idea di perdere ciò che più amasse. Galen deglutì. Non voleva credere di aver percepito uno della propria razza a macchinare una cosa del genere.

 

 

 

  
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