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Autore: Flam92    23/07/2016    0 recensioni
Anja, 27 anni, tedesca tutta d'un pezzo e ligia al dovere, ex agente dell'Interpol con alle spalle un passato torbido e sofferto.
Emilie, 25 anni, esponente di spicco delle nuove leve dello S.H.I.E.L.D., con grossi problemi di disciplina e un passato colmo di segreti.
Per un bizzarro scherzo del destino, si ritrovano catapultate l'una nella vita dell'altra, costrette dalle circostanze ad una convivenza forzata. Riusciranno a mettere da parte le loro differenze e i loro rancori, quando la situazione precipiterà e ci sarà bisogno di loro?
Genere: Azione, Demenziale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Nuovo personaggio, Sorpresa, Steve Rogers, Un po' tutti
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 2
 
I’ve given up
I’m sick of feeling
Is there nothing you can say
Take this all away
I’m suffocating
Tell me what the fuck is wrong
With me
 Given Up - Linkin Park
 
- Anja –
Triskelion – 7 Febbraio 2014
 
            Già il modo con cui Emilie era entrata in palestra – espressione severa ed austera in viso, una balestra high tech posata sulla spalla, tenuta con mano ferma - e la rassegnazione dipinta sul viso di quello che doveva essere il suo partner dicevano molto di chi – e come - fosse quella ragazza. Nick, per una volta, era stato davvero onesto: così com’era, Emilie era una belva in gabbia, pronta ad attaccare chiunque, amico o nemico che fosse Un pericolo per se stessa e per gli altri. Aveva il vuoto attorno a lei.
            Appena Emilie ne aveva varcato la soglia, infatti, l’enorme spazio adibito a palestra si era svuotato in un battito di ciglia, fatto salvo per qualche sporadico coraggioso che era rimasto sul ring, dalla parte opposta rispetto all’ingresso e alla ragazza dai capelli rossi.
            “Smettila di rognare, Mark, e mettiti in posizione maledizione!” la sentii sbottare risentita.
            Sì, Nick doveva averle dato la ferale notizia… e io avevo il primo nome sulla lista dei colloqui. Era la parte che preferivo, a dire il vero, parlare con le persone, capirle e immedesimarmi in loro, per poi farmi dire spontaneamente ciò che volevo sapere. Il difficile, nel mio mestiere, consisteva proprio nel trovare sempre nuove strategie e cavilli per arrivare al risultato senza destare sospetti. Ciascun trucco funziona una volta soltanto. Con lei sarebbe stato un testa a testa sino alla fine, ne ero certa.
            Diede uno strattone secco al braccio del collega, un’azione significativamente diversa rispetto alla cautela e alla gentilezza con le quali aveva posato la balestra al sicuro sulla rastrelliera. La mia prima ipotesi, formulata quella mattina – Dio, erano passate così poche ore da quando avevo ricevuto la bella notizia?! - fu confermata: donna portata per l’azione e preferisce lavori in solitaria, non tollera critiche sul suo operato, legittime o meno che siano.
            I due contendenti si fronteggiavano sul tatami che copriva il pavimento, girando in cerchio, le mani appena sollevate e le ginocchia leggermente piegate, pronte a scattare come molle; una persona poco esperta avrebbe dato per scontato che sarebbe stato il ragazzo a vincere, visto che la superava per altezza e stazza, per quanto lei fosse comunque più alta della media delle donne. Per esperienza, invece, io sapevo che combattimenti corpo a corpo di questo tipo spesso si risolvevano a favore del soggetto più minuto: più veloce e agile della controparte, mirava a farla stancare in modo tale da poter mettere a segno colpi di maggior precisione e usando una minor forza, arrivando così a mettere l’avversario KO con il minimo sforzo. Una buona tattica di base, certo, ma che diventava noiosamente prevedibile dopo il primo incontro. Tuttavia, la stazza maggiore garantiva colpi più potenti e quindi la relativa sicurezza di chiudere lo scontro in tempi brevi, ma io sapevo che quest’incontro non si sarebbe concluso che con la vittoria di Emilie.
            Riportai la mia attenzione sui due contendenti, richiamata dalle esclamazioni di una e dagli improperi dell’altro; come da programma, era il ragazzo quello che stava avendo la peggio.
Emilie colpiva come una Furia, assestando pugni e calci molto potenti e con precisione chirurgica. La sua tattica – sempre che quell’accozzaglia di movimenti dettati da rabbia e frustrazione si potesse definire tale - era molto improntata sull’attacco e quasi per nulla sulla difesa. Cosa questa che la mandò schiena a terra o quasi per più di un paio di volte, evidente indice che il suo compagno conosceva bene il modo con cui lei combatteva. Vediamo vediamo… spallata per sbilanciare, finta di destro, ginocchiata al lato opposto… Banale e prevedibile. Il ragazzo invece difende molto… Ah, sì, all’ennesima finta l’ha presa in contropiede e l’ha schienata. Mhmm… ne fa troppe e tutte uguali, sempre di destro e non riesce ad imporre il proprio ritmo all’avversario. È lui che detta legge, anche se è appena finito al tappeto.
            Si fermarono per qualche minuto, tamponarono via il sudore con dei piccoli asciugamani e bevvero un po’ d’acqua; dopo alcuni esercizi per sciogliere i muscoli indolenziti ripresero a darsele come se non ci fosse un domani. Sembrava di vedere un combattimento tra cani, non un incontro di lotta tra superagenti di un’organizzazione quasi segreta.
            “Maledizione… Possibile che sia un vizio? Oh, ecco di nuovo lo stesso schema: sbilanciare, fintare, attacco, attacco, finta, parata, attacco. Nemmeno ci prova a impostare qualcosa. Meno male che è una delle migliori...”, borbottai tra me e me passandomi le mani sul viso e sbuffando come una ciminiera intasata.
            “Chiedo scusa, ha detto qualcosa?”, mi sorprese una voce maschile alle mie spalle, a causa della quale mi voltai di scatto. Rimasi esterrefatta quando vidi a chi apparteneva.
Mi trovai davanti nientemeno che Captain America in persona. Uno dei salvatori di New York e facente parte del gruppo di supereroi noti come Avengers.
            “Signorina? Si sente bene?”
Oh, miseria, io non ero davvero rimasta basita e imbambolata davanti a lui, vero? Contegno, Anja, contegno!
“Non si preoccupi, stia tranquillo”, risposi accennando un sorriso, “Va tutto bene. Solo, mi ha sorpreso: non immaginavo che ci fosse qualcun altro con me. Non l’ho sentita arrivare.”
“Oh, beh, io…”, farfugliò Rogers un po’ impacciato, “Io non volevo certo spaventarla. Le mie scuse.”
“Nessun problema, davvero”, replicai calma, stavolta sorridendo apertamente. Grande e grosso com’era, faceva pensare ad un leone indomito, ma non appena apriva bocca dava più l’idea di un tenerissimo Labrador, tutto coccole e occhioni dolci.
            “Anja Blackwood, lieta di conoscerla”, mi presentai e allungai la mano, in attesa che lui me la stringesse. Cosa che fece e non fui sorpresa di notare che la sua stretta fosse ferma e decisa, ma delicata allo stesso tempo.
“Capitano Steven Rogers, il piacere è mio”.
Sbrigati i convenevoli ci appoggiammo entrambi alla balaustra e tornai ad osservare come si stava svolgendo l’ennesima ripresa di quella rissa da bar.
            “Mi permette una domanda indiscreta?” esordì a un certo punto.
Annuii e voltai appena la testa verso di lui, per non perdere momenti salienti dello scontro giù di sotto.
“Prego.”
“È lei la risorsa che il direttore Fury ha ingaggiato?”. Alla faccia della schiettezza e della perspicacia!
“In persona. E non vedo come questa domanda potrebbe essere indiscreta”, replicai divertita, “A proposito di questo, mi è stato detto di chiedere a lei o all’agente Hill se dovessi avere bisogno di qualcosa.”
“Certo, sono a sua disposizione. E spesso tendo a dimenticare che le donne del Ventunesimo Secolo sono… sì, ecco…”
“Più emancipate e spigliate di quanto non fossero negli Anni Quaranta?”, conclusi io per lui mentre tentavo invano di non mettermi a ridere. Era così adorabilmente retrò con quella cavalleria d’altri tempi e il sorriso timido, appena accennato.
“Sono una frana in queste cose”, ammise passandosi una mano nei corti capelli dal taglio militare, “E parlare con un esponente del gentil sesso… non è molto nelle mie corde”. Si produsse in un risolino imbarazzato e diventò rosso di colpo.
“Stia tranquillo. La verità è che spesso sono troppo diretta e questo mette a disagio i miei interlocutori. E per rispondere alla sua prossima domanda, Nick Fury mi ha chiesto di dare una solenne raddrizzata alla fanciulla dai capelli rossi laggiù che, al momento, pare aver scambiato il suo collega per un sacco da boxe.”
Rogers annuì pensoso e riprese a guardare lo scontro in palestra, mentre io facevo lo stesso.
            Ricominciai a vagliare tutte le posizioni e le tecniche che Emilie usava finchè non ebbi ben chiaro in mente lo schema con cui si destreggiava nella lotta. Il mio istruttore mi aveva insegnato che non bisognava, mai, combattere sempre nello stesso modo, perché un domani un osservatore acuto avrebbe potuto capire la sequenza dei movimenti e usarla per mettermi in difficoltà. Per questo avevo appreso diversi stili di combattimento, che andavano dalle arti marziali cinesi e giapponesi al krav maga israeliano, dalla boxe e dal muai thai alla lotta libera.
            “A cosa sta pensando?”
La voce di Rogers mi riportò di nuovo al qui e ora e gli rivolsi la mia attenzione: ormai, avevo visto e assimilato tutto ciò che mi serviva.
“A nulla di particolare”, replicai tranquilla, “Stavo osservando come combatte l’agente Barton, sia per capire come è stata addestrata, sia per avere un’idea di come e dove intervenire per correggere una serie davvero spaventosa di mancanze.”
“Mancanze?”, fece eco Rogers stupito, “I suoi superiori dicono che è uno degli elementi migliori in assoluto.”
“Ma dicono anche che è instabile, troppo irascibile, non ha autocontrollo né usa il buonsenso; inoltre ha enormi problemi con la disciplina e con il rispetto dell’autorità”, gli feci notare con calma.
            Il Capitano annuì con aria stanca e una nube di tristezza offuscò per un breve attimo il suo sguardo; si passò le mani sul viso a più riprese e tacque per un po’, perso in chissà quali pensieri.
Gli ci volle parecchio per riprendere la parola.
            “Non era così, una volta”, esordì in un sussurro e non riuscii a capire se stesse riflettendo ad alta voce o l’avesse detto a mio uso e consumo.
“Come, scusi?”. Optai per una domanda neutra, curiosa di vedere quale sarebbe stata la sua risposta.
“Qualche anno fa non era così. Era… sì, era una persona diversa. Più calma, equilibrata. Sapeva quando poteva fare di testa sua e seguire l’istinto e quando, invece, era meglio attenersi alle regole. Poi ha scoperto di non essere orfana, come invece credeva, e che i suoi genitori li aveva avuti vicini per tutta la vita senza saperlo. Da lì è peggiorata a vista d’occhio. Ogni tanto le capitavano attacchi di rabbia, ma erano episodi sporadici… Ora sono l’ordine del giorno”, sospirò sconsolato, ma non senza una lievissima punta di fastidio, tipica dell’inflessibile militare.
Annuii comprensiva, ma non replicai, anche perché non avrei saputo cosa dirgli.
            Dalla risposta del Capitano, però, avevo ricavato due informazioni alquanto preziose: la prima, che se i suoi genitori erano sempre stati vicino a lei, nascosti in bella vista, dovevano essere per forza due agenti; la seconda, che Rogers non sembrava del tutto obiettivo nel giudicarla, perché si vedeva lontano un miglio che aveva un debole per lei.
            “Permette una domanda, Capitano?”
“Prego, mi dica pure.”
“Prima che il direttore mi chiamasse per riaddestrarla, ci aveva già provato qualcun altro, che lei sappia?”
Rogers ci pensò un po’, quindi rispose: “Non lo so, penso dovrebbe domandarlo a lui direttamente.”
“La ringrazio comunque.”
            “Quindi, sì è già fatta un’idea su come combatte l’agente Barton? E di come fare per correggere i suoi difetti?”, mi domandò Rogers dopo qualche tempo passato in totale silenzio, mentre ciascuno di noi rincorreva i propri pensieri fissando punti imprecisati del muro della palestra.
            “Sì, ormai ho trovato lo schema fisso che segue e bene o male si ripete sempre allo stesso modo, ogni tanto con qualche rara eccezione.” Scossi la testa impensierita: sul quel fronte c’era una montagna infinita di lavoro da fare e, conoscendo Nick, entro breve termine avrebbe preteso dei risultati.
“Ora, faccia attenzione Capitano e la osservi bene. Le dirò quale sarà la sequenza dei colpi e come parerà gli attacchi del suo collega.”
“Ci riesce davvero?! Ma come?”, domandò il Capitano con una nota di stupore nella voce.
“Come ci riesco? Mi è stato insegnato a prestare attenzione a certi particolari… e a ragionare in modo lucido e analitico anche durante un combattimento corpo a corpo. Se si inquadra bene il proprio avversario, e si riesce a capire in quale modo combatte, neutralizzarlo diventa più semplice, perché si conoscono i punti deboli su cui far leva”, spiegai tranquillamente mentre buttavo un’occhiata di sotto. Perfetto, un altro intervallino: ciò mi permetteva di dare la piccola dimostrazione che avevo promesso a Rogers partendo proprio dall’inizio del round.
“Sono curioso di vederla all’opera, allora.”
“Aspettiamo che ricomincino, così le dimostro ciò che ho detto.”
 
            Quando ripresero a combattere diedi di gomito a Rogers e dissi: “Ora, lui attaccherà con un calcio allo stomaco; lei lo bloccherà e lui sfrutterà la cosa per atterrarla, probabilmente stordendola.” E in effetti, accadde esattamente ciò che avevo pronosticato.
“Impressionante”, mormorò Rogers a mezza voce, al che non trattenni un sorrisetto soddisfatto.
“Non è finita qui. Guardi”, proseguii, “Ora la ragazza lo butterà a terra senza complimenti, lo bloccherà e comincerà a pestarlo. Lui aspetterà che finisca e se la scrollerà di dosso, oppure la coglierà di sorpresa a metà dello sfogo.” Anche questa volta il corso degli eventi mi diede ragione.
            Rimanemmo in silenzio per un attimo e anche di sotto si concessero un momento di tregua, durante la quale cominciarono a punzecchiarsi. Il ragazzo la atterrò, fulmineo, e la inchiodò a terra sfruttando tutto il suo peso.
“Bella mossa, ragazzo”, commentai a mezza voce, “Questo vuol dire che è facile coglierla di sorpresa.”
“Pensa che Emilie attaccherà di nuovo?”, domandò Rogers.
“Senza dubbio, ma aspetterà che il compagno abbassi la guardia.”
            Circa tre secondi dopo, la Barton si rimise in piedi e tirò un potente calcio in pieno petto al collega, il quale a sua volta riprese ad attaccare. Ricominciarono a tempestarsi di colpi, Emilie sempre seguendo il suo schema collaudato. Alla fine, si ritrovarono entrambi a terra, esausti e col fiatone, pieni di sudore e lividi.
            “Direi che ho visto abbastanza”, esordii stiracchiando le braccia e ruotando le spalle indolenzite, “Capitano, potrebbe mostrarmi dove posso alloggiare, per favore? Ho assoluto bisogno di una doccia e un riposino. E anche di mangiare qualcosa, ora che ci penso.”
“Certo, mi segua”, replicò lui agguantando le mie borse prima che potessi dire “Ah” e mi fece strada per lo stretto corridoio. “C’è una stanza libera proprio accanto alla mia. Si senta libera di cercarmi a qualunque orario. Inoltre, lì vicina c’è anche una saletta adibita a mensa per gli ufficiali. Se vuole la accompagno dopo che si sarà riposata un po’.”
“La ringrazio, ma non vorrei disturbarla più del dovuto.”
“Nessun disturbo, davvero. In più, penso che lei possa davvero aiutare Emy, perciò sarò ben felice di esaudire le sue richieste.”
“Oh, beh, la ringrazio, allora. Molto obbligata.”
            Proseguimmo in silenzio lungo gli stretti corridoi per una decina di minuti, più o meno, quindi arrivammo davanti ad una porta grigia e anonima. Rogers mi diede il codice per aprirla, poi mi lasciò entrare per prima e posò i miei borsoni sulla scrivania accanto al letto, il tutto sempre sorridendo con dolcezza. Mi augurò buon riposo e si dileguò a marcia indietro, chiudendo poi la porta.
Dio, la gentilezza di quest’uomo era incredibile.
 
- Emilie -
 
8 Febbraio 2014
 
            Quella mattina mi svegliai volutamente tardi. Se dovevo starmene rinchiusa al Triskelion, quantomeno volevo godermi la non-esattamente-meritata vacanza impostami da Fury.
Per una volta decisi di non recarmi in palestra per un allenamento, ma di andarmene dritta in piscina. Non amavo troppo passare il tempo a fare vasche su vasche in un ambiente che puzzava di cloro in maniera quasi nauseante, ma lo S.H.I.E.L.D. non si faceva mancare nulla e aveva installato una vasca con idromassaggio.
            Lo spogliatoio era vuoto, ed indossai con la dovuta calma il costume sportivo: il pezzo sopra era costituito da un top blu elettrico con le spalline che sul retro si incrociavano, mentre la parte inferiore consisteva in un paio di culottes dello stesso colore. Mi diressi alla mini palestra della piscina, un mero stanzino con pavimento antiscivolo utilizzato per gli esercizi di stretching pre-nuotata.
            Dopo una ventina di minuti, indossai la cuffia e mi tuffai nella vasca sul lato destro della piscina olimpionica; percorsi i primi cinquanta metri a stile libero, con calma – a quell’ora, le undici del mattino, la piscina era semideserta e potevo prendermi tutto il tempo che volevo senza intralciare eventuali rompipalle che nuotassero a tutta velocità -, quindi tornai indietro nuotando a dorso con la sola spinta delle gambe, in modo tale da permettere all’acqua di cullarmi. Chiusi gli occhi, rilassandomi per qualche istante. Quando tornai al punto di partenza, iniziai a fare alcune vasche a stile e delfino, finchè non decisi che mi stavo decisamente rompendo troppo le palle e che meritavo un po’ di idromassaggio.
            Immergermi in quell’acqua ribollente e schiumosa mi diede un senso di pace totale. Sistemai l’asciugamano sul bordo della piscina per rendere più morbido l’appoggio e reclinai la testa all’indietro, persa nel piacere dei getti ad alta pressione che massaggiavano il mio corpo, lenendo i lividi comparsi dopo lo scontro con Mark e, lo ammetto, anche le ferite dell’orgoglio.
            Scacciai subito quella considerazione: stavo vivendo uno dei miei pochi attimi di totale relax e non volevo assolutamente rovinarlo e mandarlo in fumo. Iniziai quindi a canticchiare ‘Don’t Cry’ dei Guns’n’Roses, che da sempre aveva la strabiliante capacità di calmarmi. Poi, semplicemente, la mia mente iniziò a vagare a caso, soffermandosi su tutto e niente allo stesso tempo: il rumore dell’idromassaggio a contrasto col quasi totale silenzio del resto della piscina; il ricordo di quella volta in cui io e Mark eravamo in missione sotto copertura e ci eravamo confidati sentimenti che, per parte mia almeno, appartenevano ormai ad un passato davvero troppo lontano; alla mattina precedente, quando avevo ucciso senza pietà quel bastardo che non voleva parlare, alla soddisfazione con cui avevo colpito la tempia, togliendogli la vita; ai bei paesaggi dei luoghi in cui ero stata spedita in missione, messi a contrasto con la morte che veniva seminata in quei posti; al giorno in cui, avrò avuto otto anni, lo Zio Logan mi aveva comprato un cucciolo di Malinois, che fu più tardi un fedele compagno in alcune missioni, ed un amico insostituibile.
            Quando finalmente mi riscossi da tutti quei ricordi, scoprii di essere leggermente assonnata oltre che tremendamente affamata – avevo praticamente saltato la colazione quella mattina, limitandomi a bere un succo di frutta. Buttai uno sguardo all’orologio a parete: era l’una passata. Sgattaiolai in doccia veloce come un furetto, rischiando di scivolare almeno due volte sul pavimento bagnato, mi fonai alla bell’e meglio quei dannati capelli che, in ogni caso, non avrebbero preso una piega decente nemmeno a chiederglielo in ginocchio, e mi fiondai in mensa.
            Gettai uno sguardo veloce e mi risolsi a prendere un piatto di vitello tonnato. Anzi, riflettendoci su un istante, due piatti di vitello tonnato. Arraffai quante più patatine fritte riuscii a far stare sul vassoio e trotterellai felice del mio bottino verso uno dei pochi tavoli isolati e liberi.
            Mi abbuffai di patatine, usando le mani e cacciandone in bocca anche quattro o cinque alla volta. Potrei divorare una mucca intera e avere ancora posto per un vitello, se dessi retta al mio stomaco. Quando ne avevo mangiate già più di un quarto, mi diedi un attimo di tregua e passai al vitello tonnato, piegando le fettine finchè non diventavano sufficientemente piccole per essere mangiate senza correre il pericolo di strozzarmi. Finii il primo piatto, e almeno metà delle patatine, quando realizzai che non avevo preso il pane: la scarpetta era d’obbligo! Rimediata la mia mancanza, tornai a concentrarmi sul cibo, questa volta comportandomi da persona normale e civile.
            Non notai, però, una chioma rossa quanto la mia che si muoveva fra la calca di agenti intenti a consumare un lauto pranzo.
Insomma, mi stavo finalmente godendo il secondo piatto di vitello tonnato, quand’ecco che mia madre arrivò e rovinò tutto: grazie karma, davvero! Me lo meritavo proprio!
            “Emilie, dobbiamo parlare.” Esordì con tono piatto. Stava sicuramente trattenendo la rabbia perché notai che faceva respiri controllati e il viso era completamente impassibile.
“Starei mangiando, nel caso non l’avessi notato”, ribattei piccata.
“Quindi?”, inarcò leggermente un sopracciglio, “Devo forse prendere appuntamento per discutere con mia figlia? Nick...”
“Oh certo! Ora che ti fa comodo sono tua figlia!” la interruppi sbottando e lasciando cadere le posate. “E dimmi, dove sei stata in più di vent’anni della mia vita? Sapevi esattamente dov’ero, e per citare qualcuno a caso, non avevi certo bisogno di un appuntamento per vedermi!”
            Non era facile lasciare Natasha Romanoff senza parole, ma per qualche istante ci riuscii. Ripresi a mangiare senza più degnarla di uno sguardo. Purtroppo durò poco, perché mammina riprese a tediarmi.
“Nick mi ha detto che ti manda a riaddestrarti. Non è sceso particolarmente nei dettagli, mi ha solo riferito che hai fatto fuori un bersaglio molto, molto importante. Di nuovo. Diamine Emilie, almeno guardami mentre ti parlo!”
Oh sì, era decisamente fuori di sé se interrompeva la ramanzina perché non la stavo guardando. Alzai leggermente gli occhi, ma quando riprese a parlare tornai a concentrarmi sul pranzo. Quel vitello era dannatamente sublime!
            “Dimmi, perché mai non rispetti un accidente degli ordini che ti vengono impartiti? Non ti sembra di avere superato l’età della ribellione già da un pezzo? Sei una persona adulta, Emilie, assumiti qualche responsabilità e dai retta ai tuoi superiori!” sbottò tutto d’un fiato, quasi stesse leggendo un testo in cui avessero rimosso la punteggiatura.
“Sai benissimo perché: è colpa tua, e di Clint, se ho dato di matto! Chi è che non si assume le proprie responsabilità adesso?!”, sbottai, dando definitivamente fuori di matto.
“Emilie..” provò a interrompermi mia madre.
“No, NATASHA, adesso tu ascolti me, per una buona volta! Hai una vaga idea di come mi sia sentita per tre quarti della mia vita?! Ti metti il cuore in pace se i tuoi genitori sono morti, ma non quando nessuno ti dice chi erano. Sono stata affidata a Logan che, va bene tutto, è l’uomo più simpatico dell’Universo finchè non si incazza -non so se mi spiego- ma non è esattamente il genere di famiglia in cui una bambina orfana possa crescere bene. Per carità, sono forte e son sempre stata un maschiaccio, quindi mi andava anche bene prendere lezioni di combattimento e tiro con l’arco, usare armi da fuoco e quant’altro potesse rendersi utile per un combattimento. Mi ha insegnato che qualsiasi cosa si può trasformare in un’arma, non a giocare con le bambole come ogni altra bambina sulla faccia della Terra! Finchè, un bel giorno, mi rifilò allo S.H.I.E.L.D. perché mi addestrasse, e nonostante fosse sempre stato burbero, è un burbero onesto: mi disse che ci sarebbe sempre stato, che non avrebbe mai creduto che si sarebbe, un giorno, affezionato a me tanto da detestare l’accordo preso al mio affidamento, e che mi bastava un colpo di telefono e avrebbe fatto di tutto per raggiungermi nel più breve tempo possibile. Ed è stato così. Ma la sai una cosa? Avreste dovuto esserci voi al suo posto! E questo mi manda in bestia!”
Mi fermai, ansante perché avevo sciorinato quel bel discorsetto quasi tutto d’un fiato. Ce l’avevo a morte con Natasha e Clint – non riuscivo proprio a considerarli i miei genitori – per quello che mi avevano fatto. E dire che ammiravo le loro gesta ed imprese eroiche…
            “Questo non giustifica affatto il tuo comportamento sconsiderato degli ultimi due anni. Eri una delle migliori, possibile che scoprire una cosa che avrebbe dovuto renderti felice ti abbia quasi trasformata in una fuorilegge? Finirai per avere un tappeto di cadaveri intorno, prima di morire tu stessa per i tuoi errori e le azioni sfrontate, se non ti rimetti in riga. E quello che più mi fa arrabbiare, e mi delude, è sapere che Nick ha chiamato una risorsa esterna di cui non vuole svelarmi l’identità, non ancora perlomeno, perché non sei in grado di darti una regolata! Nel KGB, e non solo, saresti già stata liquidata dai tuoi stessi compagni, cosa che non è ancora successa in parte grazie a me e tuo padre! Te ne rendi conto o no?!”
            Wow, emozionante, ma no, niente senso di colpa nei vostri confronti, mi spiace.
“Oh quindi è questo il problema con te! Miss-perfezione-sono-brava-solo-io non accetta che una risorsa esterna raddrizzi sua figlia, la quale ha smarrito la retta via che si era immaginata per lei! Ci han già provato, ma tu, né tanto meno l’uomo da cui ho ereditato la mia infallibile mira, avete mosso un solo dito. Cos’è? Eravate troppo coinvolti emotivamente?” scoppiai a ridere in modo sadico.
            Avevo persino dimenticato il mio pranzo, ma quella discussione si stava ribaltando a mio favore. Ora avevo io il coltello dalla parte del manico e, pur sentendo fra le mie risate le deboli intimazioni a non dare nell’occhio perché “Ci stanno guardando tutti”, mi fermai solo perché ero rimasta senza fiato.
Mi tenni l’addome: “Sai, la cosa divertente è che non capisci che se ho dato di matto non è poi tutta mia la colpa, ma anche – soprattutto – vostra! Vedremo, se mi darò una regolata. Ad ogni modo sappi che ce l’ho a morte con entrambi per avermi abbandonata in maniera vigliacca, senza lasciare nemmeno un messaggio, affidandomi ad un uomo che non era adatto a farmi da padre ma che si è sforzato all’inverosimile per crescermi e non gettarmi nel primo canale di scolo, come fossi spazzatura. E avete avuto persino il coraggio di credere che sarei stata felice di scoprire che i miei genitori non erano morti! Oh, avrei anche potuto, non fosse per il fatto che lavoriamo per le stesse persone e chissà quante volte vi avrò intravisti qui in giro, ma non avete mai provato a parlarmi, a cercarmi, a dirmi “Ehi, siamo i tuoi genitori ma è un segreto, quindi non dirlo a nessuno: considerala una missione top secret!”. Sarei stata meglio a non saperlo, di avere voi come genitori!”
            Avevo alzato involontariamente il tono della voce, arrivando ad urlare, ma me ne resi conto solo quando Natasha, ancora seduta di fronte a me, che ormai ero in piedi e con le mani che prudevano, aveva sgranato gli occhi e portato una mano alla bocca. Lanciai uno sguardo di fuoco intorno a noi: tutti stavano trattenendo il fiato, quasi che potessi ammazzarli se solo avessero respirato o fatto una qualsiasi mossa. Basso profilo, eh? Beh, non oggi. Karma, me ne devi due!
Mi lisciai la maglietta, agguantai il vassoio con ciò che restava del mio pranzo – le patatine ormai dovevano essersi raffreddate, dannazione! – e con aplomb inglese esordii: “Ora andrò in camera mia, finirò di pranzare e nessuno verrà a disturbarmi, chiaro Natasha? Ad ogni modo, è stato un piacere.”
            Le voltai le spalle e me ne andai, gli occhi di tutti puntati addosso.
Arrivata in camera mia, appoggiai il vassoio sulla scrivani ingombra di carte, mi presi il volto fra le mani e scoppiai in un pianto dirotto: rabbia e dolore, e una furia cieca per tutto quello che avevo passato nei miei venticinque anni per colpa delle due persone che, più di tutte, avrebbero dovuto starmi vicino ed amarmi.
 
            Quando mi fui ripresa, finii il cibo avanzato e chiamai Zio Logan.
Guarda un po’ chi si fa risentire!” rispose squillante la voce baritonale all’altro capo del cellulare. “Allora, come è andata la missione in Medio Oriente?Ma perché diavolo deve sempre porre le domande scomode al telefono?
“Diciamo che poteva andare meglio.” risposi vaga, massaggiandomi il collo teso.
In che senso? Emy, non ne avrai mica combinata una delle tue, voglio sperare.” Ecco, questa era la parte in cui Logan interpretava il genitore apprensivo. Il che, in effetti, era particolarmente ironico, considerato come tutto era iniziato…
“Oh, andiamo, tanto quello non avrebbe parlato comunque! Ad ogni modo...”
Ne hai ammazzato un altro?!” sbottò, interrompendomi.
“Sorvolando sul fatto che, come tuo solito, mi hai interrotta, sì l’ho fatto fuori, perché, come già det..” “Oh ma dannazione Emilie! Dacci un taglio!E due. Alla terza gli avrei fatto la pelle, sicuro come l’oro.
            Giurai di aver sentito in sottofondo quello che sembrava il rumore di lame sguainate e conficcate da qualche parte. Sfruttai quell’informazione a mio favore: “Non mi sembra di essere l’unica con lo scazzo facile. Era il tavolo, quel rumore di legno infranto?”, ghignai divertita.
Veramente, una sedia.” Attimi di silenzio – in cui, lo ammetto, godetti come un riccio per il mio trionfo. Prima che potessi continuare, però, Logan aggiunse: “Certo è che aver avuto me come esempio da seguire non può averti fatto bene più di un tot. Ti serve qualcosa? O hai chiamato solo per dirmi che la missione è fallita?
“Non credere che i miei genitori biologici avrebbero fatto di meglio.”, lo consolai: di certo non era colpa sua se scazzavo ogni due per tre, visto che i miei –e il mio capo- ci avevano messo il carico da undici. “Comunque, no, veramente non volevo nemmeno parlartene al telefono. Il motivo per cui ti ho chiamato è sapere se sei nei paraggi per farci una bevuta al solito pub irlandese all’angolo.”
Alle nove?” propose senza esitazioni.
“Andata.”
             Chiusi la telefonata e, lanciando in giro i vestiti, andai a farmi una doccia fredda. Uscii avvolgendomi nell’accappatoio, prima di stendermi sul letto a rilassarmi.
 
            Mi riscossi balzando a sedere all’improvviso, svegliata dalla vibrazione del cellulare lasciato sul comodino. Ma porca puttana, che infarto! Agguantai – reprimendo l’istinto di lanciarlo e contare poi in quanti pezzi si sarebbe sfracellato- quell’aggeggio infernale col cuore che batteva impazzito, rimbombandomi nelle orecchie e in gola. Guardai fisso il numero sul display: era Logan.
            “È mezz’ora che ti aspetto davanti al pub. Al freddo. Dove cazzo sei finita?!” mi urlò in orecchio, fracassandomi il timpano. Buttai uno sguardo all’orologio del telefono, quindi alla sveglia sul comodino. Le nove e trenta. Merda!
“Dammi cinque minuti”.
             Gli sbattei il telefono in faccia, prima di lanciarmelo alle spalle sul materasso, saltare fuori dall’asciugamano – dannazione avevo dormito praticamente tutto il pomeriggio!-, fiondarmi a recuperare le prime cose a caso dall’armadio – jeans neri, maglia grigio antracite con un drago sul davanti, anfibi militari -, scattare fino al bagno per vestirmi e dare una parvenza di ordine in quella specie di nido per aquile che erano i miei capelli, recuperare al volo il giubbotto di pelle, la borsa con soldi, documenti e chiavi, infilarci il cellulare e correre fuori dal Triskelion. Nemmeno in missione mi ero mai vestita tanto in fretta.
 
            Raggiunsi il pub col fiato corto, e notai un parecchio scazzato Logan che teneva le mani serrate a pugno e avrebbe potuto trucidarmi con un solo sguardo. E quando aveva quella faccia, meglio tenere un profilo bassissimo –quasi rasoterra- e girare largo. Molto largo.
            “Scusa, mi ero addormentata.”
Gli aprii la porta del pub, lasciandolo entrare per primo. Forse, in un luogo pubblico, avrebbe evitato di sfogare la sua ira. Forse. Diciamo che si sarebbe trattenuto almeno un pochino. “Ho anche saltato la cena.”, confessai, con lo stomaco attanagliato da crampi di fame.
Logan mi lanciò un’occhiata di fuoco, ma era troppo impegnato a far sloggiare un paio di ubriaconi dal tavolo che occupavamo di solito, in posizione strategica vicino alla porta d’ingresso e alla vetrata.
“Non so come sia possibile, ma dopo averti parlato mi sono fatta una doccia e sono crollata sul letto.” Continuai a giustificarmi, vedendo che la sua espressione restava dura. Sospirò, accendendosi l’immancabile sigaro, suo personale marchio di fabbrica.
            “Lascia stare, lo sai che sono impulsivo. E poi nell’attesa ho… raddrizzato due ladruncoli da quattro soldi.” Sorrise e inarcò divertito il sopracciglio, sicuramente soddisfatto di sè. Risi sommessamente e mi preparai per la parte difficile della serata: fargli un resoconto spannometrico dei casini saltati fuori negli ultimi due giorni. Mi diedi forza ordinando un paio di Sambuche - miglior calmante dal 2005! Lo Zio, per contro, si era fatto portare un’intera bottiglia di Jack Daniel’s, e quasi mi sputò in faccia una poderosa sorsata quando gli dissi che Fury aveva intenzione di riaddestrarmi.
“Riaddestrarti?!? Sul serio?! Non gli è bastata la prima volta? E poi, più che di addestramento, hai bisogni di disciplina – e non fare quella faccia, sai che ho ragione-, ma dubito ci sia qualche psicologo abbastanza coraggioso, o pazzo, o senza nulla da perdere da accettare te come paziente. Gli faresti stracciare la laurea.”
            Tirai giù un sorso dalla bottiglia di Jack prima di ribattere: “Chiunque mi appiopperà, filerà via a gambe levate. E comunque sai che odio a morte gli psicologi e li ritengo inutili: perché dovrei pagare per sfogarmi con qualcuno?” alzai braccia e occhi al cielo, quindi attirai l’attenzione del cameriere e mi feci portare la terza Sambuca con ghiaccio della serata.
            La porta del pub si aprì ed entrò una donna –molto alta- con la classica aria di superiorità, ma non del tipo ce-l’ho-solo-io-guardate-quanto-sono-figa; no, questa era piuttosto il genere di donna che sapeva di poter fare quello che voleva. Che era abituata a farsi rispettare.
Mi diede immediatamente sui nervi.
“Ma tu guarda ‘sta qui!” esclamai.
“Chi?” chiese Logan.
Dato che mi ero messa in posizione favorevole per vedere sia la porta che il bancone e, ovviamente, l’interno del pub, lo Zio, seduto di fronte a me, dava le spalle alla sala.
“Niente, una che è appena entrata”, svicolai.
            Ovviamente lui si voltò in cerca della fantomatica donna. La notò subito, ma come dargli torto: indossava dei blue-jeans aderenti, un vistoso maglione nero a pois bianchi, stivali alti di cuoio color carbone, e si era appena tolta un giubbotto da aviatore grigio fumo. In quel preciso istante stava scuotendo i capelli mossi e scuri, che le arrivavano ai fianchi, facendo gli occhi dolci al cameriere mentre indicava il bancone, al quale prese posto poco dopo. Aveva un passo indubbiamente marziale, da poliziotto, ma al tempo stesso femminile ed elegante, con tutto quell’ancheggiare.
            “Che dire, è uno schianto”, si lasciò sfuggire Logan.
“Scusa?!”. Alzai un po’ troppo la voce e i vicini si voltarono. Anche la donna si era voltata, piantandomi uno sguardo glaciale addosso, manco le avessi detto in faccia che mi pareva una puttana o una dominatrice di terz’ordine.
“Dico solo quello che penso. E ha gli occhi di tutti puntati addosso, te ne sei resa conto?”. Tornò a voltarsi con molta poca nonchalance per fissarla. Mi sporsi a prenderlo per il bavero del giubbotto di pelle da motociclista, dato che a parole non voleva saperne di rimettersi composto.
“Sono tornati tutti a fissarsi i bicchieri, idiota di un boscaiolo, girati o finirai per fare un figura di merda!”, sibilai.
“Sempre se non la stiamo già facendo entrambi…”, ribattè fissandomi con un ghigno divertito.
            Rimasi ferma un istante, quindi realizzai di essermi praticamente sdraiata sul tavolo per prendergli il giaccone, tenendo le gambe piegate così che i piedi sventolavano all’aria.
Avvampai, lanciai uno sguardo in giro – ci stavano fissando tutti -, mi diedi una sistemata e tornai a studiare la donna. Ovviamente, ci fissava anche lei e sembrava divertita dalla scena.
Oh, sì, vedrai se mi alzo a spaccarti la faccia quanto ti divertirai!
            Ordinai due Vodka, rigorosamente lisce, che tracannai a velocità disumana e senza fare una piega. L’eredità genetica dei Romanoff, pensai con amarezza.
            Continuai a parlare con lo Zio Logan, passando ad argomenti più leggeri, sempre tenendo d’occhio la sconosciuta, che non mi convinceva neanche un po’. Innanzitutto, perché era una menosa del cazzo, poi perché beveva più di un uomo – sarà stata almeno al settimo bicchiere in quaranta minuti-, e poi perché continuava a girarsi. Certo, essere all’angolo del bancone a tre lati del pub le dava una buona visuale dell’ambiente interno –anche se da lì vedeva Logan di spalle - ma poteva benissimo concentrarsi su altri soggetti. Come, ad esempio, su uno qualunque dei tizi con la bava alla bocca che cercavano di rimorchiarla.           
            “Comunque quella continua a fissarmi!” sbottai, leggermente brilla. Avevo mischiato e bevuto parecchio, quella sera, e iniziavo a risentire degli effetti dell’alcool.
“Ma piantala! Tu e le tue fisime da spia!”. Lanciai un’occhiataccia al mio compagno di bevute, poi fermai il cameriere, che ormai era abituato ai miei ritmi e non si stupiva più di quanto riuscissi a trangugiare, purchè avessi del cibo.
“Portami dei nachos e un Long Island. Vedi di fare in fretta.”
            Quando il cameriere si fu allontanato, Logan si sporse verso di me, con un’espressione un po’ stranita in viso: “Prima hai cenato con una baffa di costolette annegata nella salsa barbecue, con le patate sommerse di maionese o ketchup. Poi hai ordinato le mozzarelline impanate, una piadina cotto e formaggio e altre patatine da dividere. E adesso pure i nachos?! Non ti pare di stare esagerando? Sul serio, Emy, devi dirmi dove nascondi tutto quel cibo, prima o poi. Per non parlare di quanto stai bevendo stasera!”, mi bacchettò bonario.
“Senti, zietto caro, sono adulta e vaccinata, e credo che nemmeno uno della tua età abbia il diritto di dirmi quanto posso o non posso mangiare. In più sono nervosa, anzi decisamente incazzata, e ho voglia di bere per calmarmi i nervi; e se voglio mantenere un minimo di contegno, sai benissimo che mi conviene mangiare. Quindi non rompere le palle.” Logan fece un gesto vago con la mano e diede un sorso alla bottiglia di whiskey. Da che pulpito viene la predica, tra l’altro.
            Poco dopo, i nachos ormai erano spariti nei nostri stomaci – sì, Logan mi ruba il cibo!; la tizia che mi fissava si alzò, pagò le consumazioni e se ne andò con tutta la flemma del mondo. Prima di varcare la porta, però, si fermò con la scusa di indossare il giubbotto, fissandoci molto-poco-antisgamo. Quindi fece per uscire, ma uno dei tizi di cui prima si scapicollò per tenerle la porta, sbavandole dietro in maniera tremendamente indecente.
            “Ma quanto se la tira quella!”
“Ne ha tutti motivi.”, se ne uscì Zio Logan, candido come un cucciolo di foca, beccandosi un pugno in piena faccia. Il suo setto nasale scricchiolò.
“Ma sei deficiente o cosa?!”, sbraitò tenendosi il naso. Poco dopo smise di sanguinare e la cartilagine tornò intatta.
“No, sono solo un po’ ubriaca.”, risposi gongolando. Ero decisamente fuori se, primo, mi arrischiavo a mollare un pugno in faccia a Logan senza un motivo più che valido e, secondo, se gongolavo sapendo di essere decisamente sbronza.
“Ti riporto al Triskelion.”, disse lapidario.
“No!”
 Piantai il broncio e mi misi a braccia conserte. Non mi sarei mossa di lì.
“Ti do due possibilità, Emilie: o mi segui di tua spontanea volontà fuori di qui, o ti ci porto in braccio. Scegli. Hai giusto il tempo che mi serve per pagare.”
Sbuffai.
            Poco dopo Logan tornò chiudendo la giacca di pelle sopra la camicia di flanella a quadri rossi e bianchi, altro suo marchio di fabbrica.
“Sai che quella roba è passata di moda da un pezzo?”. Alludevo alla camicia da boscaiolo.
“Bene, questo significa che ti porto in braccio.”
Mi agguantò senza darmi la possibilità di provare a difendermi. Si muoveva in maniera estremamente veloce, pur essendo un omone grande, grosso e muscoloso. Mi issò su una spalla, e presi a martellargli di pugni la schiena possente e il petto di calci, anche se questi sembravano fargli il solletico. “Mettimi giù, Zio Logan!” iniziai ad urlare e imprecare, strascicando le parole di tanto in tanto.
“Tranquilli, è ubriaca. La porto a casa: sono davvero suo zio”, lo sentii dare spiegazioni a chissacchì, poi uscì dal pub e si incamminò nel gelo della serata con me a rimorchio.
 
            Dovevo essermi assopita, durante il tragitto, perché quando riaprii gli occhi vidi pareti grigie e luci al neon mi ferirono la vista, poi realizzai che Logan mi stava scortando nella mia stanza,  più precisamente fino al bagno. Come mi ebbe messa giù, un conato mi raggiunse e vomitai nel lavandino. Mi pulii la bocca tossendo, cercando di guardare in tralice Logan, che non ne voleva sapere di stare fermo: nulla si voleva fermare in quella piccola stanza.
            “Ti gira la testa?”, chiese. La sua voce mi arrivava lontana.
Vomitai di nuovo, aggrappandomi mollemente al lavandino. Mi sentivo le gambe di pasta frolla e la testa spaccata in due. Di nuovo fui sollevata da terra, più dolcemente e in una posizione più comoda questa volta.
Venni adagiata sul letto e crollai nell’oblio mentre qualcuno mi toglieva le scarpe.
  
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