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Autore: Chanel483    30/07/2016    0 recensioni
«Stiles è una voce sottile che mormora al suo orecchio.
Stiles è quello che cerca quando, durante una conversazione, si volta per trovare sostegno da parte di qualcuno, ma accanto a sé non c’è nessuno.
Stiles è la camicia a quadri ripiegata nella borsa poggiata sul sedile del passeggero.
Stiles è Scott, che ogni tanto coglie a fissare il vuoto senza un reale motivo, e quando gli chiede se vada tutto bene non sa darle una risposta.»
Stiles è stato rapito dai ghost riders, nessuno si ricorda più di lui, nemmeno Lydia.
Forse.
[Post quinta stagione | Spoiler promo sesta stagione | Stydia, what else?]
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lydia Martin, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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No, non è colpa mia.
Sì, so di essere stata io a scrivere questa roba, ma decisamente non volevo pubblicarla. Diciamo solo che qualcuno mi ha... gentilmente spronata a farlo. E sì, se ti senti tirato in causa molto probabilmente sto parlando di te.
Come vi sarà palese dopo la lettura delle prime cinque righe, la visione del trailer della sesta stagione mi ha fatto male, molto male, e nonostante sia fermamente convinta che Lydia manterrà i ricordi di Stiles, almeno in parte, mi è venuta in mente questa malsana idea. 
Mi scuso sin da subito per gli effetti collaterali che la lettura di questa fanfiction potrebbe causarvi.
Come abbiamo visto dal trailer, siamo all'inizio della sesta stagione, Stiles è stato rapito dai ghost rider e quindi ogni memoria di lui è stata cancellata dalle menti di chiunque lo abbia conosciuto, compresa Lydia.
Forse.

Centouno volte Stiles
 
Stiles.
Stiles.
Stiles.
 
Sono giorni ormai che quella parola rimbomba nella sua testa.
È come un eco che proviene da tutte le parti e le vibra dentro, fino a farle attorcigliare le viscere.
È come svegliarsi la mattina, il ritornello di una canzone particolarmente orecchiabile in mente, e continuare a pensarci ininterrottamente, per tutto il giorno.
Ha un suono strano, un'accozzaglia di consonanti e vocali senza logica, eppure sembra così familiare.
Lydia alza il volume della radio e riporta le mani sul volante, stringendolo con forza.
Spera che la musica riesca a sovrastare quel suono, ma è inutile; esso proviene da dentro la sua testa.
 
Stiles.
Stiles.
Stiles.
 
Da qualche giorno Lydia è distratta, sembra avere sempre la testa altrove. Se ne sono accorti tutti, sua madre, i suoi amici, addirittura i professori. Scott le domanda cosa succede almeno tre volte al giorno e, sebbene le piacerebbe parlarne con lui, lei per prima non ha una risposta.
Glielo domanda anche adesso, mentre le si avvicina con la fronte imperlata di sudore ed indosso la divisa bordeaux da lacrosse.
Lydia non lo ascolta, si volta verso Malia, una domanda sulla punta della lingua. Sono andate insieme a guardare gli allenamenti, a fare il tifo, ma lei non ricorda un solo secondo di ciò che hanno fatto i ragazzi in campo: "Come mai noi due siamo amiche?"
Malia sposta lo sguardo da Scott, lo fissa su Lydia. Sembra incredula, forse anche un po' offesa. Sbatte le palpebre, cerca di capire il significato di quella domanda, ma è evidente che non ci riesca: "Perché? Credevo di starti simpatica."
"Certo che mi stai simpatica." Lydia muove il capo da destra a sinistra e poi indietro, vorrebbe riordinare le parole e spiegarsi meglio, ma la sua testa è un tale groviglio di pensieri che non riesce a trovarvi un senso: "Voglio dire, come siamo diventate amiche?"
La ragazza ci pensa qualche istante, guarda Scott di traverso ma lui sembra confuso almeno quanto lei: "Ero bloccata in forma di coyote, Scott mi ha trovata e mi ha aiutato a tornare umana."
"Sì, e poi?"
"E poi sono venuta a scuola, mi hanno messa in classe con voi. Non te lo ricordi?"
"Certo che me lo ricordo, ma come è successo? Chi ci ha presentate? Perché siamo così amiche?"
"Scott mi ha..." ma Malia è titubante, aggrotta le sopracciglia, scuote la testa. Sembra sul punto di trovare la risposta al dilemma ma dura appena un istante, perché subito dopo sbatte le palpebre ed è come se l’amica non le avesse chiesto niente.
Un secondo dopo, Scott ha la mano sulla spalla di Lydia: "Ehi, sembri strana, che succede?"
 
Stiles.
Stiles.
Stiles.                                 
 
Sono in mensa, tutti riuniti attorno allo stesso tavolo. Lydia, Malia, Scott, Liam, Hayden e Mason.
Non stanno realmente mangiando, per lo più si limitano a rigirare il cibo nel piatto.
Sta succedendo qualcosa, qualcosa di grave, ma nessuno sembra in grado di spiegarsi cosa. Non è un nemico fisico quello che devono combattere questa volta, si tratta di qualcosa di intangibile, di subdolo.
"Come facciamo a sconfiggere questa... cosa se nemmeno sappiamo cosa fa?"
Malia sbuffa, digrigna i denti, si agita sulla sedia di plastica. Scott le posa una mano sulla spalla ma nemmeno questo sembra calmarla. Accanto a sé, Lydia vede le mani di Liam e Hayden intrecciarsi sotto al tavolo.
"Dobbiamo fare una ricerca" propone Mason, che sembra l’unico a non avere perso del tutto l'appetito, perché si infila in bocca una forchettata di pasta.
"Sì, e con quali elementi di partenza?" domanda la banshee, prima di sollevare gli occhi al cielo.
Digitare su Google "creature cattive e misteriose" non li aiuterebbe a muoversi di un passo dalla posizione in cui sono impantanati.
Scott le rivolge uno sguardo di disapprovazione che lei ignora, sa comunque quanto poco sopporti le frecciatine inconcludenti: "Qualcosa però sta succedendo, hai detto che lo percepisci anche tu."
"Non so cosa percepisco." Lydia si porta una mano alla fronte, la testa che minaccia ancora una volta di scoppiarle. I suoi sensi - sia quelli umani che quelli sovrannaturali - sembrano essere andati completamente in crisi.
E poi c'è quella parola, quell'unica parola, che giorno dopo giorno sembra farsi sempre più insistente nella sua testa.
Stiles, sempre e solo Stiles.
"Ma tu avevi detto..."
"Lo so cosa avevo detto!"
Lo scatto fa girare tutti nella sua direzione, ma è troppo tardi, lei è già in piedi e dà loro le spalle, diretta lontana dalla mensa, lontana dal suo branco.
 
Stiles.
Stiles.
Stiles.
 
Lydia si è comprata una nuova camicia.
Non ha niente a che far con gli indumenti vezzosi che è solita indossare, si tratta di un capo in flanella, ha una fantasia a quadri blu, bianchi e neri e dei piccoli bottoni chiari. L'ha vista nella vetrina di un negozio di abbigliamento maschile, mentre faceva shopping al centro commerciale.
Non sa nemmeno lei perché l'abbia presa, non è bella, non le sta bene e le è decisamente troppo larga. Semplicemente quando i suoi occhi vi si sono posati sopra, si è resa conto di non poter vivere un istante di più senza avere quella camicia.
Da quando l’ha comprata non se ne allontana mai. La indossa quando è in casa e se la infila in borsa per uscire, quando è a letto la tiene poggiata sul comodino.
La signora Martin si è accorta del nuovo acquisto il giorno successivo, ma si è limitata ad un’occhiataccia. Avrebbe fatto volentieri un commento, ma preferisce tenerselo per sé, sa che sua figlia sta passando un periodo difficile, cerca di essere comprensiva.
Per questo ingoia domande e frecciatine come fossero acido per forse una settimana ma, alla fine, esplode.
“Si può sapere da dove arriva quella cosa?”
Lydia è seduta al tavolo della cucina, indosso solo la camicia, che le arriva fin quasi alle ginocchia, e dei calzettoni sollevati a scaldarle i polpacci, sta studiando biologia e ci mette qualche istante a capire che sua madre sta parlando con lei: “Quale cosa?”
La donna punta un dito verso l’indumento incriminato, mettendo da parte la rivista che stava sfogliando fino ad un attimo prima: “Quella camicia. È di un ragazzo?” non riesce a capire se sia più curiosa o infastidita.
Lydia abbassa per un solo secondo lo sguardo, incontra la stoffa bianca, nera e blu: “No, è mia. L’ho comprata la settimana scorsa.”
“Tu l’hai… comprata.” Natalie sembra sconvolta: “E come mai?”
“Mi piaceva.”
“Ti piaceva…”
“Mamma, non serve che tu ripeta tutto ciò che dico.”
Lydia sembra intenzionata a tornare a concentrarsi sul suo libro, ma lei non glielo permette: “Mi concederai che è un po’ strano. Non ha niente a che fare con gli abiti che metti di solito e poi ce l’hai sempre addosso da giorni ormai.”
“E allora?”
“Ti sembra il caso?”
“Non vedo cosa ci sia di male.”
“Per l’amor del cielo, lascia almeno che la lavi!”
Istintivamente, Lydia si ritrae sulla sedia, le braccia corrono a stringersi attorno al suo stesso busto in una sorta di abbraccio, quasi abbia paura che la madre possa provare a strapparle la camicia con la forza: “L’ho lavata.”
“E quando?”
“Ieri, l’ho lavata a mano.”
Natalie arriccia le labbra, incrocia le braccia. Inutile dire che non è soddisfatta della risposta. Sua figlia è sempre stata una ragazza ragionevole, attenta a certe cose, proprio non capisce perché ora faccia così. Prende un respiro profondo prima di alzarsi in piedi e, dopo appena un attimo di esitazione, le si avvicina lentamente.
“Ascolta, lo so che questo è un periodo difficile, con la fine del liceo e tutto il resto. Non pretendo nemmeno di capire tutto quel che ti succede, ma sono preoccupata; sei sempre distratta, hai un’aria deperita, e adesso si aggiunge anche questa camicia…”
“Non hai niente di cui preoccuparti.”
“Certo che ho da preoccuparmi!” la donna, che fino ad un attimo prima si era sforzata di essere comprensiva, inizia a spazientirsi e, per quanto ci provi, proprio non le riesce di controllare il tono della voce: “Hai diciotto anni e invece di uscire con i tuoi amici o pensare al viaggio dopo il diploma o al college te ne stai tutto il giorno con lo sguardo perso nel vuoto a stringerti addosso una diavolo di camicia da uomo uscita da chissà dove! Ci dormi praticamente insieme…”
“Non ci dormo insieme!”
“… perché non le metti uno dei collari di Prada e le dai un nome?!”
Natalie non ha ancora finito di parlare, ma la voce di sua figlia la costringe ad ammutolirsi: “Stiles” pronuncia la ragazza.
Lei rimane immobile, le mani ancora sollevate, prese dal gesticolare a cui si è arresa nel fervore di quella sorta di predica. Prega con tutta se stessa, tutti gli dei che mai abbia sentito nominare, di aver capito male. Non è passato molto da quando, impotente, l’ha vista portare in un ospedale psichiatrico. Non ha intenzione di rivivere nulla di simile.
Inspira prima di parlare, ma l’aria le si blocca in gola: “Come, scusa? Credo di non aver capito bene.”
“Stiles, ho detto che la camicia si chiama Stiles.”
 
Stiles.
Stiles.
Stiles.
Stiles.
 
Il luogo è silenzioso e, come così raramente accade in quell’ultimo periodo, c’è silenzio anche nella testa di Lydia.
Sono lei, Malia e Hayden, Scott e Liam hanno una riunione con la squadra di lacrosse, o qualcosa del genere, e Mason è andato con loro, hanno promesso di raggiungerle più tardi in biblioteca. Hayden non è male, non si tratta certo della ragazza più simpatica o amichevole della scuola, ma è sveglia ed ha coraggio, qualità che Lydia apprezza anche di più. In definitiva, passare del tempo con lei può definirsi piacevole.
Malia sbuffa, distraendola dai suoi pensieri, e lei volta lo sguardo appena in tempo per vederla far ricadere la testa in avanti, fino a schiacciare il viso contro le pagine del libro di algebra.
Sorride, quasi intenerita, e si sporge verso di lei: “Che succede? Cosa non capisci?”
La ragazza solleva la testa e la guarda, prima di indicare con un cenno vago delle dita l’intera pagina che ha davanti: “Questo.”
Hayden lancia loro un’occhiata divertita, ma dopo essersi accertata che non si tratti di nulla di grave, torna ai suoi compiti, mentre Lydia prende il quaderno di Malia, per controllare l’esercizio che sta tentando di svolgere.
Impiega appena una manciata di secondi per individuare l’errore e glielo indica, prima di tirarci su una riga e scrivere il risultato corretto: “Quindi qui viene 6x, qui 2x e il risultato dovrebbe essere… due, giusto?”
Malia controlla sul libro, ancora dubbiosa – d’altronde non è mai stata una cima in matematica – ma subito si ritrova ad annuire: “Sì, hai ragione.”
Soddisfatta, Lydia le riconsegna il quaderno, prima di incrociare le braccia sopra il tavolo. Ha appena qualche secondo per gustarsi la piacevole sensazione di un problema algebrico risolto, poi intercetta lo sguardo dubbioso dell’amica.
La ragazza solleva il quaderno, lo volta nella sua direzione e con la punta mangiucchiata della penna le indica ciò che lei stessa ha scritto: “‘Stiles’? Il risultato è ‘Stiles’? Che cosa vuol dire?”
Lydia sgrana gli occhi verdi e si ritrae di scatto, quasi fosse stata scottata. Abbassa lo sguardo, nella borsa poggiata a terra, riesce ad intravedere il lembo di della stoffa a quadri. Vorrebbe dire qualcosa, elaborare una scusa, ma le parole le restano incastrate in gola, gli occhi iniziano a pizzicarle.
Hayden solleva lo sguardo dai suoi libri, cercando di capire di cosa le due stiano parlando. Posa lo sguardo sulla pagina ricoperta di numeri e finalmente coglie quale sia il problema: “‘Stiles’? Come quello degli One Direction?”
“Quello non è con la Y?”
Ma Lydia già non le ascolta più, la sua testa è di nuovo in fiamme.
Afferra i suoi libri, quanto più in fretta possibile e scatta in piedi, facendo cadere a terra la sedia, il cui tonfo rimbomba per la biblioteca silenziosa. Una matita rotola giù da tavolo ma lei la ignora, concentrata a cercare di afferrare tra le dita tremanti la camicia che tiene in borsa. Quando ci riesce il contatto con la flanella le dona il sollievo necessario per ricominciare quantomeno a respirare.
“Lydia? Lydia, stai bene? È morto qualcuno?”
“No, io… io devo andare.”
“Ma no, aspetta” Malia si alza, allungando la mano verso il suo braccio, ma le sue dita finiscono per stringere l’aria: “Dove stai andando? E cosa vuol dire ‘Stiles’?”
La ragazza urla, ma Lydia se ne è già andata.
 
Stiles.
Stiles.
Stiles.
Stiles.
 
Lydia è crollata senza nemmeno accorgersene.
È raggomitolata sul divano nel salotto di casa McCall, Malia dorme appoggiata alla sua coscia e la testa di Mason, seduto a gambe distese sul tappeto, è all’altezza del suo stomaco, abbandonata sui cuscini. I fogli che stava leggendo prima di addormentarsi, giacciono ora sul parquet.
È più mattina che notte e tutti dormono ormai da un pezzo.
Qualsiasi studente del liceo approfitterebbe dei sabato sera per uscire con gli amici, bere e ballare, ma loro sempre più spesso finiscono per rinchiudersi da qualche parte e gettarsi in assurde quanto inconcludenti ricerche.
Esseri sovrannaturali, forze oscure, assassini senza scrupoli.
Quella notte non è diversa.
La casa è silenziosa, Melissa si trova al lavoro, la luce delle abatjour illumina fiocamente il branco, sdraiato alla meno peggio nel salotto. Liam russa piano, ma altre a questo, non un suono disturba la stanza quieta.
Poi Lydia inizia ad urlare.
Accade di colpo, un secondo prima è placidamente sdraiata, palpebre serrate e labbra dischiuse, quello dopo è seduta con gli occhi sgranati, a strillare con tutto il fiato che ha in gola.
Gli altri si muovono come fossero un solo individuo, si svegliano all’unisono, hanno bisogno giusto del tempo per comprendere cosa stia accadendo che le sono attorno.
“Che succede? Chi è morto?”
Scott le passa un braccio attorno alle spalle, cerca di tenerla sollevata in modo che riesca a respirare, e le accarezza gentilmente un braccio: “Tranquilla, tranquilla, è solo un incubo” le sussurra, anche a favore degli altri, spaventati forse più di lei. Ha visto troppe volte la banshee in azione ed è certo che quella non sia una premonizione di morte né niente del genere.
Lydia, in quel momento, è solo una ragazza spaventata.
Lei trema, gli occhi traboccanti di lacrime, e quando tenta di fornire delle spiegazione, di elaborare una frase di senso compiuto, si ritrova a balbettare un nome: “Stiles…”
Gli altri si guardano, confusi: “Parli della soluzione del problema di algebra? L’ho consegnato alla prof ma lei ci ha fatto sopra un grosso segno rosso, penso fosse sbagliato” azzarda Malia con voce assonnata, strofinandosi il viso.
“La cosa?” chiede Liam.
“È quello che ha scritto l’altro giorno, correggendo il compito di Malia” gli spiega Hayden.
“Stiles…”
Scott stringe appena la presa sulle sue spalle: “Sì, abbiamo capito. Ma che cos’è? Un nome? Si tratta di un ragazzo?”
Lydia si prende la testa tra le mani e inizia a scuoterla, senza smettere un istante di mugugnare frasi senza senso. Cosa è Stiles? È un nome certo, ma il nome di chi esattamente? E perché da settimane ormai ce l’ha in testa? Perché non riesce a non pensarci?
Ha scelto di non parlarne con loro prima per non allarmarli, è già abbastanza difficile fronteggiare una minaccia senza volto, non devono sopportare anche le sue strane visioni.
È rimasta in silenzio per quanto più tempo ha potuto, ma ormai non può più nascondersi.
Calde lacrime strabordano oltre le sue ciglia e le scivolano sulle guance, per poi confluire in un’unica scia appena sotto il mento. La cosa che più non sopporta, è che nemmeno sa perché stia piangendo.
“Stiles è…”
Sono tutti in attesa, la osservano senza capire, nella speranza che ancora una volta lei possa fornirgli una risposta in grado di dare un senso ad ogni cosa, eppure non lo fa.
“Sì, Lydia?” la incoraggia Scott, vedendo che non sembra intenzionata a concludere la frase.
Lydia si lascia sfuggire un singhiozzo, un secondo prima di nascondere il viso nella spalla dell’amico: “Non lo so, io non lo so.”
 
Stiles.
Stiles.
Stiles.
Stiles.
 
Lydia è seduta al centro del suo letto, attorno a lei, sparsi sulle lenzuola lilla, almeno una decina tra libri, quaderni e dizionari.
Ha deciso di provare per lo meno a concentrarsi sulla scuola, soprattutto perché, secondo quanto i professori hanno detto a sua madre durante i colloqui della settimana scorsa, la sua media solitamente impeccabile è calata nell’ultimo mese. Certo non si tratta di nulla di grave, ma è comunque importante che i suoi voti restino alti per tutto l’anno se vuole entrare in un buon college. Così venerdì è andata a parlare con il professore di letteratura, chiedendogli di poter fare qualcosa per alzare il voto dell’ultima verifica, e lui le ha assegnato come compito a casa per lunedì un commento di almeno cinque pagine sull’Amleto.
È questo il motivo per cui da quasi due giorni Lydia è praticamente barricata in casa. Ha avvisato il branco di non cercarla per un po’, spento il telefono, indossato la sua camicia, recuperato qualsiasi libro possa aiutarla ed acceso il computer.
Irraggiungibile è in effetti l’aggettivo che meglio potrebbe descriverla al momento.
Sta andando bene, giunta all’ora di cena della domenica il lavoro è quasi perfetto, necessita solo di qualche aggiustamento ed un paio di riletture, nulla che non possa sistemare in meno di un’ora.
Si accinge a ricontrollare per la prima volta quanto scritto, quando qualcuno bussa delicatamente alla porta della sua stanza.
“Avanti.”
La testa di Natalie Martin fa capolino dalla porta socchiusa e la donna rivolge un sorriso gentile alla figlia: “Tutto bene tesoro? È tutto il giorno che studi, noi sei stanca?”
Lydia stacca lo sguardo dallo schermo del suo pc appena il tempo necessario per lanciarle un’occhiata: “No mamma, è tutto a posto.”
Ma la donna non sembra convinta, apre del tutto l’uscio e si muove verso il letto, sino ad arrivare abbastanza vicino per poterle carezzare i capelli fulvi: “Andiamo, stacca per un po’. Vieni giù con me a mangiare qualcosa, puoi ricominciare dopo cena.”
“Grazie, non ho fame” risponde lei scuotendo la testa, gli occhi nuovamente fissi sullo schermo.
“Andiamo, devi mangiare qualcosa.”
“Ho mangiato.”
“E quando? Non sei scesa neanche per pranzo.”
Lydia non apre bocca ma con un gesto della mano indica vagamente in direzione della scrivania.
Natalie, lasciandosi sfuggire un verso scocciato per la poca collaborazione della figlia, vi si avvicina ed inevitabilmente lo sguardo le cade sul cestino li affianco, pieno fino all’orlo di involucri arancioni. Confusa, allunga una mano e ne prende uno, nella speranza di capirci qualcosa. Ci impiega qualche istante, ma quando finalmente giunge all’ovvia conclusione, non può che voltarsi per guardare la figlia esterrefatta.
“Reese’s?”
“Ah-ah” annuisce Lydia.
La donna sposta ancora lo sguardo verso il cestino; ci saranno almeno una trentina di cartacce: “È questo quello che hai mangiato?”
“Già.”
“Solo questo da… beh, l’ultimo pasto che abbiamo fatto insieme è stato…”
“Venerdì sera.”
“Hai mangiato solo merendine da venerdì sera ad adesso?!”
“Mi andavano mamma.”
“Si può sapere dove le hai prese?”
Finalmente Lydia torna a guardarla, pare scocciata, più di quanto in realtà non sembri ragionevole essere: “Ne avevo voglia e mi sono fermata a comprarle al supermercato, venerdì prima di tornare a casa. Ora hai finito con l’interrogatorio?”
Evidentemente, no: “Ma da quando ti piacciono i Reese’s?”
“Stiles li…” ma si blocca di colpo, rendendosi conto che non ha idea di come proseguire la frase.
Stiles non può avere nulla a che fare con la sua improvvisa voglia di Reese’s perché Stiles non esiste, è solo un nome nella sua mente, una voce fastidiosa che non smette un istante di sussurrarle all’orecchio.
D’un tratto il compito che sta scrivendo perde di importanza, così come sua madre che ancora le chiede spiegazioni, la sua media scolastica, il college che frequenterà il prossimo anno.
Può sentire chiaramente gli occhi inumidirsi ma non vuole piangere, non finché non riuscirà a capire perché reagisce così ogni volta che si ritrova, involontariamente, a pronunciare quella parola, o anche solo perché questo accada. Per la millesima volta si domanda come quel nome si sia insinuato nel suo subconscio e per la millesima volta si trova costretta ad ammettere di non avere una risposta.
Questo le fa paura e, per qualche assurdo motivo, anche se in parte minore, la fa allo stesso tempo sentire tranquilla, come se quella parola fosse diventata ormai familiare quanto la camicia che anche in quel momento indossa.
Sua madre l’ha presa per le spalle e la sta scuotendo appena, pregandola di darle spiegazioni, domandandole chi sia questo Stiles che continua a nominare. Lydia, prima di cercare nuovamente il suo sguardo, trova la forza per ricacciare indietro le lacrime e prendere un respiro profondo.
“Va bene, andiamo a mangiare qualcosa.”
“No, adesso mi spieghi…”
“Mamma davvero, è tutto a posto. Cosa ne dici di ordinare una pizza? Possiamo mangiarla riguardando una puntata di Sex and the City.”
Natalie non è una stupida, non bastano poche parole gentili per convincerla di qualcosa di tanto palesemente assurdo, ma d’altronde è una madre, e tutto ciò che desidera è sapere che sua figlia sta bene.
Forse, anche a costo di credere ad una palese bugia.
“Va bene, andiamo ad ordinarla.”
Avrebbe ancora decine di domande da porle, ma ha paura di conoscere le risposte.
 
Stiles.
Stiles.
Stiles.
Stiles.
 
Ora di storia, il professore gira tra i banchi gli con occhietti minuscoli, da topo, nascosti dietro spessi occhiali di corno. Sta consegnando i test svolti la settimana precedente e sembra avere un commento sgradevole quasi per tutti, ma è solo quando si accosta alla sedia di Lydia che sfoggia un'occhiata indignata. "Signorina Martin, mi farebbe la decenza di spiegarmi cosa significhi 'Stiles'?"
La ragazza, che quasi non lo stava ascoltando, sobbalza nell'udire quella parola: "Stiles? Cosa... cosa c'entra Stiles?"
"Me lo spieghi lei, sono abbastanza certo che non si tratti di uno degli uomini che hanno firmato la Dichiarazione di Indipendenza né della data in cui essa è stata siglata. Stiles d'altronde, non è nemmeno il nome del primo presidente degli Stati Uniti d'America."
Incredula, Lydia abbassa lo sguardo sul compito che il professore le ha lasciato scivolare sul banco. Ci mette un attimo a comprendere cosa stia accadendo, a decifrare le lettere scritte in quella grafia ordinata che le appartiene, ma quando ci riesce si sente mancare.
Stiles. Stiles. Stiles. Stiles. Stiles.
Non c'è scritto null'altro su quel dannatissimo foglio.
Scatta in piedi, le ginocchia che tremano come fossero fatte di gelatina e gli occhi lucidi.
Non capisce cosa succeda, ma sa che nulla di tutto ciò è normale. Ha paura, dannatamente paura, d’altronde l'ultima volta che le è accaduto qualcosa del genere ha continuato a disegnare alberi e scrivere cose assurde per mesi, fino a quando...
Allison.
No, non vuole pensarci, non può pensarci.
La voce del professore chiama il suo nome, le chiede di rimettersi a sedere, le dice che non si tratta di uno scherzo divertente, ma Lydia non ascolta, perché il ronzio nella sua testa è ricominciato e lei se la aprirebbe in due a colpi d'ascia pur di farla smettere.
Stiles. Stiles. Stiles.
Scappa via, tra le urla del professore e i commenti increduli dei suoi compagni.
Non si guarda indietro.
Inizia a correre solo quando sente la porta delle classe sbattere alle sue spalle.
Non sa dove, ma corre.
 
Stiles.
Stiles.
Stiles.
Stiles.
Stiles.
 
“Ho fatto una ricerca” annuncia Mason, raggiungendoli al tavolo nel giardino della scuola.
Le giornate si fanno sempre più lunghe, la primavera ha scaldato l’aria e come ovvio tutti gli studenti ne approfittano per mangiare all’aperto, cercando di non pensare a come questo sia un chiaro segno dell’avvicinarsi del termine della scuola e quindi degli esami di fine anno.
Hayden si sposta per fargli posto, osservando l’alta pila di fogli che il ragazzo piazza al centro del tavolo: “Un ricerca su… cosa?” domanda, dando voce ai pensieri di tutti.
Mason sembra quasi offeso per la poca perspicacia degli amici: “Ma su Stiles, mi sembra ovvio, no?”
All’udire quel suono, Lydia sente chiaramente le viscere serrate in una morsa insopportabile. Chiude gli occhi un secondo, stringendo le dita attorno al bordo della panca su cui è seduta, ha bisogno di percepire qualcosa di solido, qualcosa che riesca a tenerla ancorata a terra.
È come essere sulle montagne russe, un istante prima di gettarsi in una folle discesa, sente il sudore addensarsi sui palmi, un buco aprirsi nel suo stomaco.
Scott si accorge subito che qualcosa non va, non ha nemmeno bisogno di chiederle per capire. La sua mano scivola sul suo ginocchio e stringe appena, in un gesto gentile, spontaneo e nient’affatto fastidioso.
Si aggrappa a quel contatto Lydia per non lasciarsi inghiottire dalla sua mente. Vuole rimanere lì, essere presente, ascoltare quello che Mason ha scoperto, ma le ginocchia le tremano, ha di nuovo voglia di scappare.
Mason però, al contrario di Scott, sembra non essersi accorto delle sue condizioni: “C’è un allenatore di rugby che si chiama Stiles e un’attrice, Julia Stiles, recita in Dexter. C’è anche un verbo latino, stĭlo, che al congiuntivo presente fa stĭles alla seconda persona…”
Ha indubbiamente fatto un buon lavoro, il ragazzo ci sa fare con questo genere di cose. Ha un elenco di persone famose che si chiamano Stiles e decine di traduzioni in lingue straniere. Nomina addirittura una compagnia chiamata così.
Lydia cerca di ascoltare, si concentra sulla sua voce, sul palmo di Scott poggiato sul suo ginocchio, sul mantenere il respiro regolare, nonostante sia difficile. Nulla di ciò che dice Mason le sembra minimamente familiare, non saprebbe spiegare il perché ma ha la certezza che tutte le informazioni trovate dal ragazzo non abbiano nulla a che fare con il suo Stiles, con quello nella sua testa.
Aspetta comunque che finisca di parlare, lascia che allarghi il plico di fogli sul tavolo mentre indica questo o quel punto della sua ricerca per avvalorare ciò che dice. Lo ascolta comunque con attenzione, cercando di non essere prevenuta, anche se sa, nel profondo, che tutto quello è solo una grande perdita di tempo.
Il ragazzo impiega forse una decina di minuti ad elencare tutto ciò che ha trovato e, alla fine, giunto all’ultimo foglio, sembra quasi afflosciarsi sulla panca mentre riprende fiato. Ha finito, glielo si legge in volto che ha fatto tutto il possibile, che spera di essersi reso utile. Gli sguardi di tutti i presenti, lentamente, si spostano da lui a Lydia in attesa di un verdetto.
Desidera con tutte le sue forze avere qualcosa di incoraggiante da dire, così tanto in effetti che per un momento pensa di mentire. Potrebbe fingere di aver percepito qualcosa mentre Mason parlava, avrebbe l’imbarazzo della scelta in effetti, sa che una falsa pista sarebbe comunque meglio per gli altri che rimanere impotenti.
Però non lo fa, perché non può mentire, non a loro.
Semplicemente, scuote la testa.
E gli altri capiscono.
 
Stiles.
Stiles.
Stiles.
Stiles.
Stiles.
 
Scott ha proposto di vederla come una vacanza, ma per quanto ci si impegni a Lydia non risulta troppo facile.
Malia è più brava, per tutto il viaggio è rimasta sui sedili posteriori, a sgranocchiare patatine con i piedi nudi fuori dal finestrino, nonostante Lydia le abbia chiesto almeno venti volte di non farlo.
Hanno sprecato mesi a cercare una sistemazione che potesse soddisfare tutti e forse, finalmente, ci sono riusciti. Non è necessario che vadano tutti e tre nello stesso college, ma nemmeno vogliono essere troppo lontani tra di loro o da Beacon Hills.
Certo, rimarranno Liam e gli altri, ma le emergenze possono sempre accadere.
Per farlo Lydia ha dovuto dire addio a Yale e a Princeton, ma è una rinuncia che si è sentita pronta a fare pur di stare vicina al suo branco. Non ha avuto bisogno di rifletterci più di un pomeriggio in realtà, più difficile è stato comunicare la scelta a sua madre, ma questa è un’altra storia.
E poi lei è Lydia Martin, non ha necessariamente bisogno di frequentare un’università così prestigiosa per vincere una Medaglia Fields.
Alla fine lo hanno trovato, un ottimo college, a meno di cinque ore di macchina dalla loro città, con rinomati corsi di matematica e veterinaria.
Malia non ha ancora deciso cosa vuole fare, sostiene di desiderare proseguire gli studi, ma al contrario di Lydia e Scott non ha ancora mandato alcuna richiesta per iscriversi, né lì né altrove. Forse, ha detto più di una volta, si prenderà un anno sabbatico, per poter capire cosa vuole fare davvero nella sua vita. L’unica certezza è che andrà a vivere vicino agli altri due, può trovarsi un lavoro o frequentare dei corsi, in ogni caso non si allontanerebbe da loro nemmeno se la pagassero.
Scott sposta lo sguardo sul navigatore e si ritrova a sorridere, lanciando uno sguardo a Malia che ha appena aperto un pacco di biscotti – comparso probabilmente del nulla – e ne sta prendendo una manciata – nessuno ancora ha ben capito dove metta tutto il cibo spazzatura che ingurgita: “Manca meno di mezzora, siamo quasi arrivati” informa le altre due.
Anche Lydia sorride, stringendo maggiormente il volante tra le mani curate.
È emozionata in un modo a cui non è abituata. Andare a visitare il college, vedere qualche appartamento, iniziare a conoscere la zona. Sa che quello, insieme alla richiesta di iscrizione che ha mandato ormai da mesi, è il primo passo verso la sua nuova vita, e non può immaginare persone con le quali preferirebbe condividere quell’esperienza.
Eppure c’è qualcosa.
Nulla di fisico, solo una sensazione, che la tormenta da quando quella mattina, poco dopo l’alba, è passata a prendere Malia e Scott. Non saprebbe spiegare di cosa si tratti, sa che non è ansia, né tristezza o paura, sembra quasi… quasi malinconia, ma la parte razionale del suo cervello sa che non ha nessun senso.
Di cosa dovrebbe avere malinconia?
Controlla il percorso che sta seguendo sul navigatore, anche se sa di non poter sbagliare poiché la strada è tutta dritta per ancora diversi chilometri, ma sente il bisogno di tenersi occupata. Ha paura di ricominciare a pensare.
Ma non si possono fermare i pensieri, e Lydia lo sa troppo bene.
“È tutto a posto?”
Lydia ama e odia infinitamente il modo in cui Scott sembri in grado di cogliere ogni minimo cambiamento nel suo umore.
“Sì, va tutto bene.”
In un attimo Malia si sporge dal sedile posteriore ed il suo viso si piazza tra quelli dei due amici: “Cosa succede?” domanda, mentre tuffa nuovamente la mano nel pacco di biscotti.
E Lydia non vorrebbe rispondere, per un attimo ci prova davvero. Si morde le labbra, allontana i capelli dal viso e tamburella le unghie contro il volante, cercando di non cedere. Però si tratta di Malia e Scott, esiste un numero molto limitato di bugie che è in grado di dire loro: “Non sembra anche a voi come se… non vi sembra che manchi qualcosa?”
I due si lanciano uno sguardo, non sembrano preoccupati, solo un po’ confusi. A parlare, dopo un istante, è ancora lei: “In che senso? Hai dimenticato qualcosa a casa?”
“No, intendo che…” Lydia si blocca, sbuffa, scuote la testa. Non sopporta di non essere in grado di trasformare i suoi pensieri in frasi di senso compiuto: “Sono felice, ma allo stesso tempo provo un po’ di malinconia. Come se mancasse qualcosa.”
“O qualcuno.”
Ed è Scott, che solitamente non può dirsi troppo perspicace, che con due semplici parole regala un senso ai pensieri che sfrecciano per la sua mente a velocità folle.
È quella la malinconia, è che in quella macchina non dovrebbero essere solo in tre.
Malia al contrario ha uno sguardo confuso, non sembra aver capito, così Scott si volta verso di lei, per metterla al corrente di quanto hanno appena realizzato: “Abbiamo sempre pensato che saremmo andati al college con Allison, Kira, addirittura con Jackson forse e…”
“Stiles.”
Il nome sfugge dalle labbra di Lydia prima che lei possa rifletterci. Quando sente quel suono vorrebbe rimangiarselo, ma ormai è troppo tardi.
Malia e Scott la fissano come se fosse pazza, e forse pazza lo è davvero, in che altro modo si potrebbe definire un individuo che parla continuamente di qualcosa – qualcuno – che non esiste?
Lydia chiude un istante gli occhi, solo un istante, poi torna a guardare la strada. Ha di nuovo voglia di piangere o forse di urlare, non saprebbe dirlo con certezza, ma sa di non potersi permettere una crisi isterica in quel momento. Prende tre respiri profondi, apprezzando con ogni parte di sé il fatto che gli altri due restino in silenzio, senza metterle pressione, in attesa che lei si senta pronta per parlare.
“Scusate, non so perché l’ho detto.”
Scott scuote la testa, le tocca appena la spalla: “Non devi scusarti, sappiamo che non… non è una cosa che puoi controllare.”
Ma lei si agita sul sedile, se c’è una cosa che non sopporta e non avere il pieno controllo di ciò che le succede: “Dovrei riuscirci. Abbiamo passato settimane a cercare di capire cosa significhi ‘Stiles’ e non vuol dire niente, dovrei smetterla.”
“Mica lo fai apposta” è il diplomatico commento di Malia: “Se fossi tu a dirlo ti direi che sei matta ma lo sappiamo che sono i tuoi… beh i tuoi poteri.”
Lydia lo sa che ha ragione, ma nonostante questo sbuffa lo stesso, non per ciò che ha detto ma perché la situazione si fa sempre più ingestibile: “Ma di solito servono a qualcosa. Ci danno degli indizi, delle piste da seguire, ci fanno anche solo trovare cadaveri! Questa volta invece…”
Non vuole scoraggiarsi, non in quel momento, non durante una giornata che dovrebbe essere così positiva, ma non è facile. Malia e Scott la capiscono, non hanno bisogno di altre spiegazioni e questo è bellissimo, ma d’altra parte vorrebbe che non ce ne fosse bisogno.
“Lydia, non importa. Non devi fartene una colpa.”
Lei scuote la testa, stringe il volante così forte da conficcare le unghie nella rivestitura in pelle: “Vorrei solo sapere cosa diavolo significhi ‘Stiles’.”
 
Stiles.
Stiles.
Stiles.
Stiles.
Stiles.
 
La musica alta le rimbomba nei timpani e Lydia si domanda perché per così tanto tempo non abbia frequentato posti del genere.
È piacevole perché il rumore non la fa pensare e quello è un lusso che purtroppo non può permettersi spesso.
Nessuna voce risuona nella sua testa.
Nessun nome.
Solo i bassi che la fanno tremare fuori e dentro.
Un ragazzo le si avvicina. Lydia non lo capisce subito in quella massa di corpi che si sfiora e si muove all’unisono. All’inizio pensa che quei tocchi siano casuali, ma quando lui le piazza le mani suoi fianchi e le si stringe contro non può più ignorare la sua presenza.
Impiega qualche istante per capire come si sente a riguardo.
È strano, sono mesi ormai che non ha praticamente contatti con suoi coetanei al di fuori del branco. Le capita certo di chiacchierare con qualche compagno di scuola, studiare insieme, ma nulla di più. Ormai Scott, Malia, Liam, Hayden e Mason non sono solo il suo branco, sono i suoi migliori amici, la sua famiglia, il suo tutto.
Il ragazzo muove i palmi sui suoi fianchi e lei si rende conto che il contatto non è spiacevole, anzi. Così si rigira nella sua presa per guardarlo in faccia e ne rimane piacevolmente sorpresa. È esattamente il suo tipo, alto, muscoloso, mascella squadrata e capelli fluenti.
Se avesse potuto vederla in quel momento, la Lydia di un paio d’anni prima le avrebbe battuto il cinque.
Lydia sa che se mai si ritroverà a raccontare quella storia parlerà di una poetica fusione di anime, di un scintilla implacabile, ma la realtà è che nemmeno mezzora dopo – dopo avergli detto il suo nome, di avere più di diciotto anni e poco altro – la sua schiena cozza contro i sedili di un’automobile che non è la sua, e la bocca del ragazzo è sulle sue labbra, le sue mani sotto la sua maglia, nei suoi pantaloni.
È piacevole e non solo per il suo personale appagamento sessuale.
È piacevole avere qualcuno che la tocchi, che la stringa. Qualcuno che la avvicini senza le mille implicazioni che di solito ha fare la conoscenza di una banshee.
Le sue labbra si spostano a baciarle il collo e Lydia affonda le dita tra i suoi capelli chiari. Dalle sue labbra sfugge un mugolio appagato.
“Stiles” sussurra al suo orecchio.
Ci mette un secondo per realizzare quanto ha pronunciato, e subito desidera scomparire. Si immobilizza, trattiene il fiato, ma pochi istanti dopo si rende conto che lui non ha fatto una piega. È impossibile che non l’abbia sentita, ha parlato a pochi centimetri dal suo timpano, ma semplicemente non sembra importargli.
Lentamente, Lydia riesce a rilassarsi di nuovo, si concentra sui movimenti del ragazzo, sul piacere che lui le sta donando, ed il vuoto che aveva iniziato ad allargarsi nel suo stomaco si rimpicciolisce lentamente, sino a scomparire del tutto, permettendole di tornare partecipe al momento.
Vorrebbe dire che passato quello tutto torna alla normalità, ma ancora molte volte quella notte Lydia pronuncia quel nome, Stiles, di cui ancora non conosce il significato.
Lui non è offeso, forse non la sta ascoltando, sicuramente non si aspetta molto di più dalla sveltina in macchina con una sconosciuta.
Lydia si sente quasi in colpa, non perché provi chissà quale rispetto per lui ma perché detesterebbe essere trattata a quel modo.
Eppure non riesce a trattenersi.
E “Stiles” lo urla anche dopo, quando il ragazzo si fa spazio dentro di lei.
 
Stiles.
Stiles.
Stiles.
Stiles.
Stiles.
 
Lo sportello del bagagliaio si chiude con un tonfo sordo che fa quasi sobbalzare Lydia, nonostante sia stata lei a sbatterlo.
È mattina presto, il sole illumina da poco Beacon Hills e le strade sono ancora deserte. L’aria è immobile, non si ode un suono.
Sua madre se ne sta sul vialetto di casa, indosso la camicia da notte coperta da una vestaglia fiorata lunga fino ai piedi. Ha i capelli in disordine ed indosso nemmeno un filo di trucco. Per qualche motivo sente che è così che vorrà ricordarla nei mesi che passerà lontano.
Natalie le si avvicina, tende le braccia e se la stringe al petto: “Sicura che non vuoi che ti accompagni?” le domanda, per quella che sembra essere la centesima volta solo nell’ultima ora.
Lydia annuisce, baciandole la guancia: “Tranquilla mamma, andrà tutto bene.”
E lo crede davvero. Questa volta, sa che tutto andrà bene.
“Come preferisci allora” concede la donna, allontanandole una ciocca di capelli dal viso: “Passi a prendere Scott e Malia?”
“Sì, mi stanno aspettando.”
“Nell’appartamento è tutto a posto?”
“Non lo so, lo scopriremo una volta arrivati.”
“E a Malia hanno dato la conferma per il lavoro?”
“Mamma?”
“Sì?”
“Stai tranquilla.”
Natalie tenta un sorriso e annuisce, la guarda e sembra commossa, come se rischiasse di scoppiare in lacrime da un momento all’altro. Però non lo fa, la stringe di nuovo: “Ti voglio bene.”
“Te ne voglio anch’io.”
È già al volante della sua macchina Lydia, quando sua madre la prega di chiamarla appena arrivata. Le promette che lo farà, le manda un bacio dal finestrino abbassato ed infine mette in moto.
Una parte di lei ha paura, ma sa che è giusto così, perché d’altronde si sente così leggera, libera, come mai le è successo in vita sua. Ama Beacon Hills, è la sua casa, la città per cui si è battuta per anni e a cui sente che alla fine farà ritorno, ma è giunto il momento di andare avanti, di iniziare un nuovo capitolo.
È stato un anno strano quello.
Mentre i loro compagni si concentravano unicamente sugli esami finali e le ammissioni ai vari college, lei, Malia e Scott sono stati impegnati a fronteggiare un nemico invisibile.
Non sono mai giunti a capo di quel mistero. Hanno sprecato notti insonni, weekend interi chiusi in casa, ma alla fine hanno dovuto arrendersi all’evidenza: non avevano alcun indizio su cui lavorare.
Poi però tutto è passato.
Non sanno come né perché ma tutte le cose strane che sono accadute per settimane e li hanno costretti a mettersi in allarme sono scomparse.
Niente più urla, niente più fenomeni anormali, niente più sensi sovrannaturali all’erta.
Non hanno mai scoperto cosa “Stiles” significasse.
Per Mason è stato così difficile arrendersi che Lydia ne è rimasta quasi commossa vedendo con quanto impegno cercava di aiutarla.
Dopo i primi mesi, Malia ha addirittura iniziando a farci su qualche battuta, definendo Stiles, pur di non nominarlo, “la soluzione al suo compito di algebra”, quasi fosse un nome in codice. Dopo qualche volta, Lydia è riuscita addirittura a sorridere sentendoglielo dire.
Di quell’assurda esperienza, ormai solo un sussurro nella sua testa è rimasto.
Stiles è una voce sottile che mormora al suo orecchio.
Stiles è quello che cerca quando, durante una conversazione, si volta per trovare sostegno da parte di qualcuno, ma accanto a sé non c’è nessuno.
Stiles è la camicia a quadri ripiegata nella borsa poggiata sul sedile del passeggero.
Stiles è Scott, che ogni tanto coglie a fissare il vuoto senza un reale motivo, e quando gli chiede se vada tutto bene non sa darle una risposta.
Anche Lydia ha smesso di domandarsi chi Stiles sia o perché quel nome sia incastrato nella sua mente. Lo ha accettato ormai, gli occhi non le si riempiono nemmeno più di lacrime quando lo pronuncia ad alta voce per sbaglio.
Stiles è la sua perenne compagnia, un’ombra silenziosa che la segue ovunque vada. La tiene al sicuro, la culla nel suo confortevole abbraccio.
Stiles le dona la familiarità di un vecchio amico ed il brivido di un nuovo amore.
Alla fine, anche dopo tanti mesi, anche se non ha una spiegazione logica, sente di esserci affezionata.
Perché è sempre lui.
Sempre Stiles.
Stiles.
Stiles.
Lydia inchioda di colpo.
Il suo corpo rimbalza in avanti, trattenuto a stento dalla cintura.
Sbatte di nuovo contro il sedile, dalle sue labbra scappa un verso strano, a metà tra un singhiozzo ed un sospiro.
Ha gli occhi sgranati, le mani serrate attorno al volante.
Tutto diventa buio e di colpo luminoso.
Si sente cadere nel vuoto e tornare in piedi.
Morire e rinascere insieme.
Perché ora sa.
 
Stiles!







P.S.: Sì, sono davvero centouno volte Stiles, non mi fidavo di Word, così le ho contate.
  
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