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Autore: Mayth    01/08/2016    2 recensioni
La vita è fottutamente difficile quando il tuo coinquilino è un fantasma con la puzza sotto il naso.
Genere: Demenziale, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Charles Xavier/Professor X, Erik Lehnsherr/Magneto, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Charles, Erik, Marvel's characters © Marvel Studios, Marvel Comics, 20th Century Fox.
NdA: Linguaggio colmo di parolacce (più o meno).

 
*
 
Scordatevi quelle case da sogno che si vedono sulle riviste. Scordatevi il portico immacolato con la sedia a dondolo e la lanterna appesa di fianco alla porta d’entrata. Scordatevi un giardino contornato da siepi ben potate, decorato con file di viole acquistate al market in fondo alla strada e una fontanella per far giocare i bambini costruita lì nel mezzo. Il campo da calcio a due passi di distanza. La scuola frequentata da brava gente. La quiete di una vita al limite della perfezione.
 
Scordatevi tutto questo e immaginate l’esatto contrario.
 
Erik tira fuori un primo scatolone dal baule della macchina e sfreccia un’occhiata ostile al condominio Loomis Place: sette piani di muri color fogna, sul retro un prato che ospita carcasse di vecchi mobili inutilizzabili e palloni sgonfi, all’interno un ascensore che il più delle volte è “guasto, se sapete ripararlo o conoscete qualcuno che lo faccia gratis, allora contattate il seguente numero”. Compie un mirabolante sforzo nel non commentare la delucidazione declamatagli da Darwin, il tassista, che molto gentilmente gli ha concesso uno sconto di cinque dollari in nome di tutte quelle volte in cui Erik si è fiondato nella sua macchina ubriaco fradicio e lo ha fatto scompisciare dalle risate.  
 
“Lehnsherr, la tua nuova casa fa veramente schifo.”
 
Schifo è un gran complimento per quel mucchio di spazzatura contornato da quattro muri e un tetto. Schifo è la più bella recensione che un qualunque essere con un naso e due occhi potesse regalare a quel buco di periferia. Schifo costa una manciata di dollari al mese, ridotti se sai per caso come aggiustare l’impianto di riscaldamento durante l’inverno.
 
Erik alza le spalle e si avvia verso il portone d’entrata. La toppa è arrugginita e gli ci vuole un po’ di tempo prima di riuscire a girare la chiave e spingersi all’interno. Alla sua destra incontra le cassette della posta, alcune così piene da sbavare fuori lettere e giornali, davanti a lui le scale e di fianco l’ascensore. Darwin gli arriva alle spalle, gli poggia di fianco la valigia e gli fa segno di muoversi a prendere gli scatoloni restanti, perché uno di loro due deve guadagnarsi la cena.
 
“Stammi bene, Lehnsherr. E ricorda—”
 
“Se ti serve un passaggio, chiama Darwin, è per un miglior viaggio.” Recita Erik passandogli le banconote, una volta finito di accatastare la sua roba all’entrata del palazzo.
 
“Esatto, amico.” Sorride Darwin. Erik lo osserva fare retromarcia, voltarsi e andare via.
 
Mentre sale le cinque rampe di scale che lo portano al suo nuovo appartamento, incontra una coppia che si bacia. Lei è spiaccicata contro la ringhiera e l’unica cosa che le impedisce di cadere e sfracellarsi al suolo sono le braccia dell’uomo che le stringono la vita. Lui non sembra far parte di quel posto. Porta un bel completo gessato e le basette, sull’anulare della mano sinistra una fede. Erik li sorpassa senza dire nulla, la ragazza gli lancia uno sguardo veloce, dopodiché ritorna ad aggredire le labbra dell’uomo.
 
Quelle scene di vita miserabile che ti spacciano nei film di Hollywood sono la pura verità, pensa.
 
Il suo appartamento fa oggettivamente cagare. Quinto piano, 13B, due locali e mezzo, vista su un ristorante cinese che lancia fuori dalla finestra ossami di anatre, il sogno americano di un polacco ebreo con la parola sfiga stampata sulla fronte. Dopo essere stato avvisato di avere solamente tre giorni di tempo per pagare l’affitto dei due mesi scorsi o per andarsene senza più farsi rivedere, Erik aveva trovato l’annuncio di questo cesso sulla Seventeenth Street — “Sono ammessi mutanti” — su uno di quei giornali che la gente utilizza per farci pisciare sopra il proprio cane. Una vera offerta per uno che è disoccupato da sessanta giorni e col cappio al collo. Quello che la gente chiama destino, Erik lo chiama: “Quando la tua vita è così miserabile che fai pena persino a quello stronzo di Dio lassù.” Perciò aveva deciso di affittare l’appartamento; perciò ora si ritrova seduto su un divano sudicio di fronte ad una televisione dei primi anni novanta, con la paura nel cuore di andare al bagno e rischiare di contrarre l’AIDS.  La cosa peggiore è la vicina di appartamento che bussa alla porta e, con una neonata fra le braccia che pompa latte da un biberon, lo avvisa di fare silenzio se non vuole ritrovarsi senza più i genitali. Erik le assicura di essere un tizio tranquillo, di quelli che non dormono, che ad una nottata trascorsa a guardare canali trash preferisce un buon libro. La ragazza — non potrà avere più di vent’anni, uno sputo più giovane di lui — non gli crede, ma perlomeno se ne va.
 
Erik odia la sua vita.
 
Le prime vere stranezze incominciano due settimane più tardi. Erik sopravvive di risparmi nascosti fra le pagine di vecchi calendari che ritraggono macchine, mangia ramen istantaneo sette giorni su sette e trascorre le ore a sfogliare giornali in cerca dell’illuminazione. Se fosse bravo con la chimica o conoscesse di striscio il mercato illegale, inizierebbe a spacciare metanfetamina e vivrebbe come un re, ma non è nulla di tutto questo e perciò cerca un lavoro onesto in una fabbrica in cui spaccarsi il culo. Dall’alto dei cieli sua madre deve averlo diseredato, perché non lo sta aiutando per un cazzo, e quando nel bel mezzo della notte Erik sente i cassetti della cucina aprirsi da soli e le stoviglie cadere per terra — sicuro di non aver perso alcun controllo sulle sue abilità, — quando di giorno fa così freddo che gli pare quasi di vivere in Antartide, quando il televisore non ascolta gli impulsi che Erik gli trasmette attraverso il telecomando, ecco, è quello il momento in cui si sente lo sfigato più solo al mondo.
 
A dieci anni ti dicono che le anime dei tuoi genitori veglieranno sempre su di te e ti proteggeranno. Be’, credete ad Erik mentre vi dice che non è vero nulla di tutti quei discorsi da fricchettoni colmi di compassione. Una volta che hai perso la tua famiglia, essa non esiste più. Niente più abbracci, niente più carezze, niente più “Tutto andrà bene.” Solo bollette da pagare e strane sensazioni che ti gelano il sangue.
 
La prima cosa che fa è mettere a posto le stoviglie, comprare tante coperte al mercatino dell’usato, spegnere la TV. Fa finta che non ci sia niente di strano in quel che accade a casa sua. Sono cose che succedono a tutti, si ripete prima di coricarsi. I fantasmi non esistono.
Dopodiché si reca dalla vicina rompiscatole e le chiede spiegazioni sulla dipartita di chiunque abitasse il 13B prima di lui.
 
“Il tizio che ci abitava prima?” ripete la donna mentre mastica una gomma e sua figlia le si appiccica ad una caviglia. “Nulla di speciale. Sulla sessantina, occhi incavati e pancia da birra. La moglie lo aveva buttato fuori di casa, perché lo aveva scoperto a sperperare tutti i loro soldi in locali a luci rosse. Un poveraccio, lasciamelo dire. È morto d’infarto dopo il primo mese di affitto, lo hanno trovato in mutande accasciato sul divano, col mento sporco di senape. Io l’ho visto, sai?” Strizza gli occhi, avvicinandosi ad Erik come per confidargli un segreto. “Il cadavere. Gelido come se avesse visto un fantasma.”
 
“E quelli prima di lui?” continua Erik.
 
“Nessuno è rimasto mai tanto, sai? Un anno al massimo. Scappano sempre via tutti. Secondo me sono i cinesi, la puzza che proviene da quel ristorante è puro veleno. Certi si mettevano a gridare come matti, per questo quando ti sei trasferito ti ho detto di fare silenzio. Ora ho una principessina da crescere.” Abbassa lo sguardo e sorride a sua figlia. Erik indietreggia e se ne va senza dire altro.
 
Il vero problema è, che non è questione di una notte. È una sensazione costante. Talvolta crede di essere osservato, ma quando si volta di scatto non trova nulla alle sue spalle, altre è sicuro al mille percento che qualcuno lo stia deridendo, ma non ha nessuno a cui confidare i brividi che gli attraversano le braccia e gli pare stupido mettersi a cercare nuovi appartamenti solo perché, molto probabilmente, avrà visto troppe volte le prime cinque stagioni di Supernatural.
 
Tuttavia, a nulla serve ricordarsi che ciò che è morto rimane morto. Perché, gente, un pentolino riempito d’acqua che compare improvvisamente sul fuoco non è fottutamente normale.
 
È così frustrante avere la casa infestata dai fantasmi e non credere ai fantasmi.
 
*
 
“Fantasmi, Lehnsherr?”
 
Azazel spara fuori una risata gutturale e batte le mani sul bancone. I dettagli di Azazel sono che somiglia ad un diavolo e sparisce e riappare in una nuvola di zolfo. Sa sempre quando ci sarà una sparatoria tra bande e dove. Non è suo amico, ma possiede la bettola “mutants only” in cui Erik passa la maggior parte del tempo.
 
“Dico così per dire.” Sorseggia Erik. “Ma dimmi tu se è normale che la televisione sia costantemente impostata sulle repliche di Downton Abbey e che io non possa mai vedere Top Gear.”
 
Azazel è troppo occupato a ridere per commentare ed Erik è troppo occupato a schiaffeggiarsi mentalmente per rispondere a quell’affronto. Resta il fatto che sono passate due settimane, tre giorni e ventidue ore da quando si sono fatti vivi “gli amici immaginari di Casa Lehnsherr” e la situazione è pura tristezza.
 
“Ascolta me, compagno,” dice Azazel. “Smettila di farti di cose strane e inizia a costruirti una vita, o credo che finirai a pulire la cacca dei piccioni dai parabrezza dei ricconi col culo d’oro.”
 
Erik trova leggermente spassoso che Azazel senta il bisogno di sottolineare quanto poco valga la sua vita. Grazie tante, non lo aveva proprio capito quando il sesto datore di lavoro gli aveva risposto con un “No, la ringraziamo, ma cerchiamo personale con qualifiche differenti.” Per ripicca Erik non paga nemmeno la birra e se ne esce più irritato di prima.
 
Una volta giunto a casa trova il tavolo della cucina sottosopra. Dice: “Merda”, ma non fa un passo per rimetterlo a posto. Si chiede se esistano davvero i Ghostbusters o se siano un’invenzione cinematografica. Tanto per saziare la propria curiosità, cerca su internet. Trova:
 
A tutti coloro che credono di essere infestati dai fantasmi: Attenzione!
 
L’annuncio continua: “Strani rumori? Oggetti che si muovono da soli? Buchi nel soffitto o nel pavimento? Rubinetti che si aprono e chiudono ad intermittenza? Se siete stati vittime di almeno una parte di questi avvenimenti, probabilmente il vostro vicino di casa è un mutante! Se desiderate prendere parte a un’azione legale collettiva contro i mutanti, contattate il seguente numero.”
Erik chiude di scatto il computer.
 
“Chiunque tu sia, sappi di essere una stramaledetta testa di cazzo.” Dice al vuoto cosmico intorno a sé. Resta in silenzio un attimo per ascoltare, ma nessuno o nulla risponde. Col passo di uno che ha dovuto sopportare sulla propria pelle ogni male mai accaduto dallo spostamento del primo organismo sulla terra ferma, Erik si dirige in bagno. Si spoglia, lanciando T-Shirt e jeans in un angolo, fregandosene altamente dello sporco che incrosta il pavimento. Si guarda allo specchio: due occhiaie enormi gli contornano gli occhi, i capelli sparano in tutte le direzioni, il suo riflesso gli ricorda la caricatura di un soldato appena tornato dalla guerra. Sbuffa e s’infila dietro le tendine di plastica bianca della doccia. Fa partire l’acqua calda ed esce bollente. Oramai del tutto irritato, se ne sbatte della sua vicina di casa e attacca con Stairway to heaven, aggiungendo qua e là: “Tornatene a casa tua, maledetto fantasma. Torna all’inferno, maledetto figlio di puttana.” Si ammutolisce, però, quando percepisce la maniglia della porta del bagno abbassarsi. Se c’è stato rumore, allora è stato ammutolito dall’acqua sparata dall’erogatore. Erik continua a canticchiare piano, sebbene la sua attenzione sia tutta rivolta a quel che sta succedendo oltre le tendine bianche.
Attende. Nulla si muove se non l’acqua che gli scivola addosso e finisce nello scarico. Crede di esserselo immaginato, anche se sa di non averlo immaginato. Sta quasi per voltarsi di nuovo contro il muro e darsi per matto, quando un rumore che pare quello di un dito che striscia su una superficie umida satura la stanza. Lo scatto elegante con cui Erik apre completamente le tendine fa inzuppare il pavimento.
 
È così che la scena s’immobilizza.
 
Davanti ad Erik c’è un ragazzo proteso oltre il lavandino, il dito schiacciato contro lo specchio appannato. La sua bocca è spalancata, gli occhi sgranati lo guardano come se non si fosse aspettato di vederlo. Erik ha la sensazione di essere di troppo nel suo stesso bagno, poi sposta lo sguardo dal ragazzo a quello che stava scrivendo sullo specchio. Le parole gocciolanti recitano: “La testa di cazzo sei t—”
 
Passano due minuti interi prima che Erik fiati: “E tu chi cazzo sei.”
 
  
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