La
tavola calda “Serpico” era stata sempre
lì. Francisco Plascencia
non ricordava nella sua vita di aver mai voltato l’angolo tra
via
De Amicis e Pellico senza che i suoi occhi si posassero
sull’insegna
rossa posta su un’asta perpendicolare al marciapiede.
In quel
pomeriggio di novembre il vento, antipatico e freddo, si scagliava
con gelida precisione contro il capo di Francisco che, fiutando aria
di pioggia, decise che un bel caffè caldo corretto con
qualche
goccia di grappa, non gli avrebbe fatto male.
Stranamente quel
giorno “Serpico” brulicava di avventori, non che ce
ne volessero
poi molti per occupare i sei tavolini graziosi ma un po’
appiccicosi che c’erano nel locale.
Il tavolino migliore era
quello posto in fondo alla sala, quello meno esposto agli spifferi e
alle correnti ogni volta che la porta veniva aperta. Solitamente era
il primo su cui si appollaiava la gente in attesa del proprio panino
o dolce, ma quel pomeriggio, stranamente, c’era solo un uomo
ben
vestito nascosto dal suo giornale. Sedeva rilassato con una tazza
fumante di cioccolata calda di fronte a sé.
Non gli dispiacerà
se mi siedo al suo tavolo, penso Francisco, dopotutto non sono un
impertinente ficcanaso, voglio solo bermi il mio caffè
corretto.
Convintosi, si diresse a passo deciso verso il tavolino
e si sedette dicendo “Permette?” senza neanche
aspettare una
risposta.
L’uomo scostò il giornale dal volto per vedere chi
si
fosse seduto al suo tavolo.