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Autore: ChiiCat92    23/08/2016    0 recensioni
"Gli fu chiaro dal primo istante di non essere la persona più adatta per quell'incarico.
Insomma, lui?
Certo, a ripensarci, i soldi gli facevano gola. Non che ne avesse bisogno, dal momento che lo pagavano già bene, ma rifiutare una tale somma di denaro sembrava oltremodo scortese nei confronti di chi gliel'aveva offerta.
D'altro canto, il suo naturale istinto a fiutare le truffe gli diceva che qualcosa puzzava, puzzava di morte, abbastanza da fargli storcere il naso."
[Renaj]
Genere: Angst, Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kadaj, Reno
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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21/08/2016

 

Faking It

 

Gli fu chiaro dal primo istante di non essere la persona più adatta per quell'incarico.

Insomma, lui?

Certo, a ripensarci, i soldi gli facevano gola. Non che ne avesse bisogno, dal momento che lo pagavano già bene, ma rifiutare una tale somma di denaro sembrava oltremodo scortese nei confronti di chi gliel'aveva offerta.

D'altro canto, il suo naturale istinto a fiutare le truffe gli diceva che qualcosa puzzava, puzzava di morte, abbastanza da fargli storcere il naso.

Non aveva senso pagare così tanto un pilota per una “semplice missione di recupero”.

Ammettendo che “semplice missione di recupero” fosse davvero quello che dovevano fare.

In ogni caso, nessuno sarebbe andato da nessuna parte se non avesse dato una risposta, e il fatto che la Shinra avesse espressamente – espressamente, il Signor Rufus Shinra era stato chiaro a riguardo – richiesto la sua presenza era di per sé un buon incentivo ad accettare.

Quindi se da una parte c'era il riconoscimento del suo valore e un mucchio, davvero un mucchio, di soldi, dall'altra c'era quella sensazione fastidiosa a riguardo che continuava a tormentarlo.

Quindi a conti fatti la scelta era tra il buon senso e l'istinto, e lui raramente dava ascolto al buon senso.

 

All'incirca ventiquattro ore dopo aver dato il suo consenso e aver firmato una serie di documenti che aveva, sinceramente, fatto solo finta di leggere, dal momento che la cosa più importante – la somma in denaro che sarebbe stata versata sul suo conto – era ben visibile sulla prima pagina, Reno Sinclair divenne il pilota ufficiale della missione di recupero KFF66783 e fece la conoscenza di uno Piasecki HRP Rescuer, l'elicottero da guerra più attrezzato che avesse mai visto.

Abituato a pilotare ogni genere di macchina volante, l'Harp – molto più semplice di Piasecki HRP Rescuer, e meno imbarazzante di Flying Banana come lo chiamavano gli ignoranti – non costituiva una sfida.

Una volta data un'occhiata al pannello di controllo dei due rotori dell'enorme Harp, dato una sistemata al sedile perché gli fosse confortevole raggiungere la pedaliera, e constatato che la cloche era la più comoda ed ergonomica che avesse mai tenuto tra le mani, poteva considerarsi pronto al decollo. O pronto ad accettarsi che la puzza che continuava a sentire nell'aria non fosse per lui letale, perché quella brutta sensazione non voleva saperne di lasciarlo andare.

Prima della partenza, programmata per l'alba del giorno dopo, Reno e tutta la “squadra di salvataggio” erano tenuti a rimanere nella struttura appositamente offerta dalla Shinra, dove avrebbero trovato una stanza comoda in cui passare la notte e tutti i dettagli della missione in un fascicolo stampato di fresco e aromatizzato alla menzogna.

Tanto per cominciare, rifletté Reno mentre spegneva i rotori dopo aver effettuato l'ultimo controllo, un Harp così carico non l'aveva mai visto. Il bestione era grande a sufficienza per trasportare due piloti e dieci uomini, oppure 930 kg di cargo merci, e l'equipaggio previsto della missione contava un solo pilota – lui – e solo sei soldati, tutto il resto del carico sembrava essere costituito da casse dal contenuto sconosciuto, e dubitava fortemente si trattasse di cibo o altro, visto che la missione non doveva durare più di due giorni. Per quanto i suoi compagni di avventura fossero grandi e grossi, dubitava che potessero aver bisogno di un quantitativo tale di alimenti.

Fu facile per lui arrivare alla conclusione che le casse erano piene di armi e munizioni. Strano per una missione di salvataggio portarsi dietro un'armeria del genere.

Sorvolò sul pensiero e si accese l'ultima sigaretta. Sapeva benissimo che non gli sarebbe stato consentito fumare da quel momento in poi, per cui doveva godersi quegli istanti finché poteva.

Intanto, però, con occhio critico scrutò l'hangar, e i sei uomini che gli avrebbero fatto compagnia nei successivi giorni.

Alla Shinra lavoravano persone di ogni genere, di ogni tipo, ma c'era sempre una cosa che le accomunava tutte: non erano mai persone stupide. E se Reno poteva tranquillamente dirlo di se stesso, non avrebbe potuto dirlo di quei sei.

Dal modo sguaiato in cui ridevano tra loro mostrandosi a vicenda le armi, parlando di attrezzature militare come si parlerebbe di una bella donna, era chiaro che si trattasse dei classici tutti muscoli e niente cervello.

Decisamente lontani dallo standard della Shinra, più sottile e raffinata nella scelta del personale, militare o meno.

« Ehi! » nonostante il richiamo fosse di certo rivolto a lui, Reno fece finta di non sentire. Rimase nel suo angolo, di fianco all'Harp, fumando la sua sigaretta. « Tu! Rosso! » a quel punto non poté che alzare gli occhi verso gli uomini.

Storse appena il naso. Dalle facce da stupidi di quelli di fianco a quello che l'aveva chiamato, intuì che non lo aspettava niente di buono.

« Perché non vieni a sederti accanto a noi, eh? »

No grazie, sto bene dove sto. Ma si tenne bene dall'esprimere a parole l'annoiato pensiero. I bulletti da quarta elementare come quelli non gli andavano a genio.

« Lascialo stare, non vedi come se ne sta tutto impettito, nella sua giacchetta. »

Incalzò un secondo uomo, seduto di fianco al primo, facendo finta, con la sua faccia da prendere a schiaffi, di afferrarsi il colletto di un'invisibile giacca.

Gli altri scoppiarono a ridere come se avesse appena raccontato la più divertente delle barzellette.

Tu sarai il primo a vomitare al decollo.

Gli venne automatico sorridere al pensiero e scuotere la testa, cosa che non piacque molto agli uomini, in particolare al primo, che forse si sentì offeso nel suo orgoglio da scimmione, o qualcosa di simile.

« Cos'hai tanto da sorridere, eh? »

Di nuovo, fece semplicemente finta di non aver sentito, tutto intento a guardare la sigaretta consumarsi tra le dita macchiate di nicotina.

« Guarda che Gus sta parlando con te! » incalzò quello al fianco del primo, che poi ricevette un'occhiataccia del suddetto Gus. « Guarda che il sergente Gus sta parlando con te! »

Ah perfetto, uno stupido sergente.

Ormai spenta, Reno gettò quel che rimase della sigaretta a terra e la schiacciò con un piede, disgustato dal fatto che non si era potuto godere in santa pace quell'ultima tirata e non solo.

Senza aggiungere un'altra parola, né degnare di uno sguardo i soldati e il sergente, il ragazzo volse le spalle e si avviò verso la sua stanza, ben deciso a non spiccicare una parola diversa da “roger” riguardo l'autorizzazione al decollo.

 

La stanza che gli avevano dato aveva tutto il sapore del lusso, il che stupì abbastanza Reno da chiedersi perché avessero ritenuto così importante dargli, per una sola notte, una vera e propria camera d'albergo a cinque stelle.

Ma essendo un lavoro pagato così bene, non avrebbe dovuto aspettarsi fin dall'inizio di essere trattato con i guanti bianchi?

Qualcosa gli diceva che no, non avrebbe dovuto, e quel puzzo che aveva nel naso non ne voleva sapere. Rendeva quasi insopportabile stare in quel posto.

Era come se sotto le lenzuola candide del grande letto matrimoniale, nascosto sotto il materasso, ci fosse qualcosa di marcio che stava lentamente andando in putrefazione.

Sulla scrivania giaceva il fascicolo con i particolari della missione. Lo prese e si buttò a peso morto sul letto, dopo essersi sfilato malamente le scarpe.

Si sentiva già stanco e ancora la missione non era cominciata.

Sfogliando le prime pagine non lesse nulla di rilevante o che già non sapesse, solo dettagli tecnici e numeri di cui poteva benissimo fare a meno.

Era tutto talmente chiaro da esserlo troppo.

Alle 03:30 am un gruppo di tecnici addetti alla costruzione del nuovo reattore Mako all'interno del Cratere Nord avevano inviato un segnale di SOS. Nessun rapporto era stato fatto a riguardo, né i computer avevano inviato ulteriori dettagli, perciò il segnale era stato classificato come errore del sistema.

Alle 03:45 am un nuovo segnale, accompagnato da una disturbata registrazione audio, era stato nuovamente inserito tra gli errori del sistema.

Alle 04:00 am l'ultimo contatto.

Poi il nulla.

Una centinaio di persone, tra tecnici, meccanici e personale della manutenzione si erano zittiti all'unisono e nello stesso istante. Non un messaggio, non una comunicazione radio o telefono, non un movimento.

Ogni tentativo di mettersi in contatto era finito con un l'assordante susseguirsi delle scariche statiche della radio.

Sembrava non esserci più nessuno, sembrava non esserci stato mai nessuno.

Questo era accaduto quarantotto ore prima che a Reno venisse richiesto di essere il pilota che avrebbe portato i militari sul luogo. Il che rendeva il tutto ancor più surreale.

Sul fascicolo era scritto che la loro era una missione di recupero, non soccorso, non salvataggio, recupero. Quindi voleva dire che qualcosa doveva essere recuperato. Ed era probabile che fosse quel qualcosa che alle 03:30 am aveva fatto inviare ai tecnici il primo SOS.

Doveva essere prezioso, questo qualcosa da recuperare, per spingere la Shinra a spendere tutti quei soldi per pagare la spedizione e sei soldati specializzati nell'uso di armi pesanti.

Oppure, cosa che Reno cominciava a sospettare, quella non era una missione di recupero, ma di guerra, e quel qualcosa da recuperare era qualcosa da distruggere.

A quel punto non rimaneva che chiedersi se sei uomini, seppur armati fino ai denti, sarebbero riusciti da soli là dove un centinaio di persone avevano fallito. Certo non erano persone addestrate e capace di gestire una crisi, si trattava di civili, probabilmente del tutto incapaci anche solo di difendere se stessi, ma questo non toglieva il fatto che la superiorità numerica fosse un fattore trascurabile.

Sei armati contro cento disarmati.

« Sarà. »

Disse ad alta voce, mentre chiudeva il fascicolo, stanco di essere assillato da quei pensieri, stanco solo anche all'idea di averci pensato.

Tanto, lui veniva pagato solo per pilotare l'elicottero fino al Cratere Nord e poi di nuovo indietro, a prescindere dal carico, dall'equipaggio e dalla missione.

Tutto quello che sarebbe successo a terra non era di sua competenza. E con un po' di fortuna non sarebbe mai dovuto neanche scendere dal bel sedile di pelle dell'Harp se non per godersi il panorama. Con un po' di fortuna, appunto.

 

Quando la sveglia suonò all'alba, Reno era già in piedi, e aveva controllato due volte l'attrezzatura che gli avevano dato in dotazione.

Avrebbero potuto dire qualsiasi cosa di lui, della sua pigrizia, del suo essere sciatto, ma non sulla sua professionalità sul lavoro. Era bravo in quello che faceva perché lo faceva bene.

Tirati sulla testa i suoi occhiali da aviatore portafortuna, si guardò allo specchio con un mezzo sorriso.

« Come sempre, bellissimo. »

Mormorò alla sua immagine riflessa, che sembrò gradire il complimento.

I capelli rossi, indomabili anche se li teneva legati in una coda, avevano il loro perché e in combinazione con il blu brillante dei suoi occhi gli garantivano un fascino irresistibile.

Avesse potuto, avrebbe fatto l'amore con se stesso.

Ma in ogni caso, non era questo il momento di pensarci. Aveva un lavoro da portare a termine, alla fine del quale, con tutti i soldi a gonfiare il suo conto in banca, avrebbe potuto passare il resto della vita a fantasticare su quei pensieri.

Infilò il Rod nella fondina, l'unica arma di cui aveva bisogno, e si avviò verso l'hangar.

Gli prudevano le mani al pensiero di mettersi alla guida dell'Harp, e non solo perché gli capitava raramente di pilotare un gioiellino del genere, ma anche perché era curioso di vedere quale di quegli omaccioni nel vano posteriore avrebbe dado di stomaco per primo. Aveva già il suo favorito, ma non voleva sbilanciarsi troppo.

Mentre percorreva il corridoio sentì il bip bip bip delle sveglie dei soldati, il fruscio delle lenzuola che venivano scostate e i mugugni di chi era abituato per dovere a svegliare prima il corpo del cervello.

Il tonfo di stivali con la suola rinforzata accompagnò l'uscita dei soldati quando Reno era salito ormai sull'Harp e aveva cominciato a fare i primi controlli di routine.

Desiderava fortemente un caffè e una sigaretta, soprattutto quando i soldati, con le loro risate a mezza bocca e i loro sputacchi di catarro sul pavimento non salirono a bordo dell'elicottero.

« Buongiorno rosso, sei pronto per il viaggio, eh? »

Fece pragmaticamente finta di non aver sentito, d'altronde aveva indosso le cuffie, ed era davvero concentrato a controllare la funzionalità delle due palle e del piatto oscillante.

Si sollevarono altre risate quando qualcuno commentò che non sembrava granché competente a far alzare in volo il Flying Banana, e se l'insulto alla sua persona era perdonabile, quello all'Harp no.

« Qui Piasecki HRP Rescuer, chiedo il permesso per il decollo, passo. »

Comunicò via radio, dopo di che fece scattare la leva d'accensione, e sperò bastasse a far capire agli uomini che dovevano sistemare i loro culi sui sedili e allacciare le cinture se non volevano trasformarsi in palline da flipper.

Probabilmente arrivò loro il messaggio quando i due rotori dell'Harp si attivarono e le pale cominciarono a girare.

« Permesso accordato Piasecki HRP Rescuer. »

« Roger. »

Quanto avrebbe voluto poter vedere cosa succedeva dietro, o anche solo poter sentire i gemiti nauseati dei delicati stomaci dei sei uomini quando, con uno scossone del tutto voluto, fece sollevare l'elicottero da terra.

 

Reno masticava il bastoncino ormai consunto di un lecca-lecca.

Il Cratere Nord era, senza troppi giri di parole, un enorme buco nel terreno. Dal diametro di un centinaio di chilometri, era diventato un nodo energetico di particolare interesse per la Shinra.

Con l'aumento della popolazione e la continua richiesta di energia si era rivelata quasi necessaria la costruzione di un nuovo reattore Mako.

E perché non nel Cratere Nord, il punto più lontano, più dimenticato, più nascosto sulla faccia di Gaia?

La zona di per sé costituiva un perfetto baluardo naturale, protetto in ogni direzione dall'avvallamento del terreno.

Peccato che quest'isolamento naturale, e le temperature vicine allo zero quasi tutto l'anno – considerando la vicinanza con il Polo Nord – rendevano il Cratere Nord irraggiungibile per i nemici e inagibile per gli amici.

I forti venti freddi in quota avevano reso difficile l'atterraggio persino per un pilota esperto come lui.

Appoggiato alla paratia dell'elicottero osservava come i soldati toglievano i coperchi delle casse caricate sull'Harp.

Come aveva ipotizzato erano piene di armi, armi che si divisero con mormorii per una volta fin troppo seri.

Non riuscì a capire che cosa si stavano dicendo, ma per lui bastò il solo vedere come si passavano l'un l'altro le cartucce per i fucili.

« A cosa servono quelle? »

La sua voce interruppe il borbottio sommesso dei soldati.

« Cosa, eh? » Reno si ritrovò ad alzare gli occhi al cielo, ma tornò a indicare con il bastoncino del lecca-lecca le munizioni e le armi che avevano tra le mani. « Per sparare. »

« Questo lo so, grazie. » fu la sua acida risposta. Il fatto di avere sei fucili potenzialmente puntati addosso non lo intimidiva più di tanto. « Ma a cosa servono se una missione di recupero? »

La risposta che gli arrivò fu solo una bassa, nervosa risata, la risata di chi sa ma non può dire.

Cosa esattamente la Shinra aveva dimenticato di scrivere nel suo fascicolo?

Stava per aggiungere qualcosa ma il sergente lo zittì con un gesto della mano.

« Tu vedi solo di rimanere qui e di riportarci indietro, e di smetterla di fare domande pericolose, eh? »

Detto ciò, inserì la sicura del suo fucile e se lo sistemò a tracolla.

« Come vuole, sergente. »

E si strinse nelle spalle, fingendo disinteresse, mentre i suoi occhi analizzavano in silenzio ogni parte della tenuta dei soldati.

Avevano tutti almeno tre armi da fuoco di diverso calibro.

A qualsiasi cosa stessero dando la caccia, doveva essere grosso.

« Rimaniamo in contatto radio. » disse il tenente, una volta pronto, con i suoi uomini alle spalle che fremevano e saltellavano per l'adrenalina che cominciava a scorrere nei loro corpi. « Tra massimo tre o quattro ore saremo di ritorno, eh. »

« E nel mentre che aspetto il vostro ritorno cosa faccio, eh? »

Ricalcò volutamente il tono di voce dell'uomo, ma era stupido almeno tanto quanto era bravo ad usare il fucile, altrimenti non si sarebbe spiegato come fosse riuscito a diventare sergente, o come riuscisse a non spararsi sui piedi ogni volta che puliva la pistola.

Nessuno gli rispose, e lui si rassegnò alle lunghe ore di noiosa attesa che lo aspettavano.

 

Freddo. Un freddo tale che Reno si era dovuto chiudere all'interno della cabina di pilotaggio dell'Harp. Il vento sbatteva i fiocchi di neve con violenza contro i vetri.

Non si vedeva ad un palmo dal naso e dato che la ricezione radio era pessima non aveva colto bene l'ultima trasmissione. L'alternativa era tra “ sono frutti corti” e “ sono fritti scotti”.

Non appena quella tempesta di neve si fosse calmata avrebbe chiamato per chiedere delucidazioni al riguardo, per il momento si godeva il calduccio del suo elicottero, immaginando quei sei idioti là fuori a congelarsi.

Aveva ancora qualche lecca-lecca da mangiucchiare per annientare il bisogno di una sigaretta, e la comodità del sedile dell'Harp scioglieva il resto della tensione che sentiva addosso.

Perché per qualche motivo, da quando le trasmissioni radio si erano fatte più sparute e distorte, una strana sensazione aveva cominciato a fargli formicolare la nuca e provocargli la pelle d'oca.

Unito a quel puzzo di cui era intriso l'elicottero, che no, non dipendeva dall'abbondante produzione di sudore salato dei soldati ma da quello che la Shinra aveva omesso, la sensazione si era fatta insopportabile.

Benché fosse comodo, con le gambe stese sul cockpit e le braccia incrociate dietro la testa, non riusciva a mantenere la posizione per più di qualche minuto.

« Datti pace, Reno. »

Accusò se stesso mentre tornava con le gambe a terra.

Il fischio del vento attutiva qualsiasi altro rumore, il bianco abbacinante della neve rendeva tutto sfocato e invisibile.

Il mondo era stato cancellato, frammentato in una miriade di particelle lattee.

Vista, udito, tatto, persino olfatto e gusto, ogni senso poteva essere confuso distorto. Avrebbe potuto giurare di vedere una sagoma nera, là fuori, nel turbinio dei fiocchi di neve. Avrebbe potuto giurare di aver sentito passi in avvicinamento. Avrebbe potuto giurare di percepire sul collo il fiato caldo di un respiro leggero.

Ma battendo le palpebre e strizzando gli occhi appariva chiaro che oltre il muro dell'Harp c'era solo neve. Tendendo l'orecchio sentiva solo lo sbattere continuo, irascibile del vento contro la paratia. La pelle d'oca veniva probabilmente da quello spiffero d'aria fredda che continuava a soffiargli sul collo.

Era tutto spiegabile con le ferree leggi della logica e del ragionamento cosciente. Se solo qualcosa che andava al di là di quel ragionamento non avesse continuato a fargli tenere la schiena dritta e a far risultare il sedile di pelle come imbottito di puntine da disegno invisibili che lo costringevano a muoversi di continuo.

C'è qualcosa che non va, continuava a risuonargli nella mente, un mormorio in loop infinito che cominciava a dargli sui nervi.

Ne ebbe abbastanza. Abbastanza del silenzio, abbastanza della neve, abbastanza dell'attesa.

Afferrò la radio.

« Qui Harp per sergente Gus, mi ricevi, passo. » quando lasciò andare il pulsante, le scariche statiche della radio gli fecero girare la testa per un momento. « Sergente Gus, mi ricevi, passo. » provò ancora. E ancora, e ancora. Per quarantacinque minuti non fece altro che provare, e ricevette in cambio solo lo scrosciare e lo scrocchiare delle scariche, unito con il fischio del vento, e l'inevitabilità del silenzio.

Non lo ricevevano, ovvio, ma doveva essere colpa della neve. Poteva aver compromesso l'antenna trasmittente, stava di certo interferendo con il segnale.

Doveva solo aspettare che si calmasse.

Riattaccò la radio e tornò a poggiare le gambe sul cockpit, la schiena contro il sedile, le braccia dietro la testa, nella posizione più comoda, che non era mai stata così scomoda.

Aspettare. Solo quello.

Chiuse gli occhi. Immaginò la squadra che irrompeva nel complesso, sorprendendo i tecnici e gli operai al lavoro come sempre.

L'SOS era stato un errore del sistema, non erano stati in grado di mettersi in contatto con la compagnia a causa del maltempo. C'era stato un equivoco. Stavano tutti bene.

Anche se il tanfo di marcio, truffa e morte impregnava ormai ogni cosa.

 

La lancetta dei secondi toccò il 12, terminando il giro, senza fermarsi raggiunse l'1, poi il 2, nella sua personale, inesorabile corsa per raggiungere ancora una volta il 12.

La lancetta dei minuti si mosse in avanti con un leggero scatto, mentre quella delle ore rimase fissa sul 2.

Le 02:01 pm, secondo l'orologio analogico da polso.

Le 14:05, secondo quello digitale dell'Harp.

Due ore in ritardo, secondo quello che aveva detto il sergente.

La tempesta si era placata, lasciando davanti al muso dell'elicottero un tappeto bianco brillante sotto la luce del sole che filtrava tra i brandelli di nuvole scure.

La radio, lasciata accesa nella speranza che qualcuno si mettesse in contatto, continuava con il suo concerto di scariche statiche, e con il suo desolante silenzio.

Reno tamburellò con il piede sul pavimento metallico. Il tap tap tap rimbombò come un tuono nel vuoto dell'elicottero.

Gli occhi scivolarono nuovamente sull'orologio.

14:07.

Strinse i pugni tanto che le unghie si conficcarono nei palmi.

Un ultimo tentativo, avrebbe fatto un ultimo tentativo, poi si sarebbe messo in contatto con la Shinra perché gli dicessero come doveva comportarsi.

Ironico, normalmente provava fastidio, nausea persino, alla sola idea di dipendere dalle decisioni di qualcun altro, di dover sottostare al volere dei suoi superiori. Ora avrebbe dato qualsiasi cosa per sentire la voce di uno chiunque degli uomini della compagnia impartirgli degli ordini.

Strano come l'illusione della libertà svanisca in mancanza di un sistema organizzato di regole ed equilibri.

Nello stesso istante in cui afferrò la radio, le scariche statiche si interruppero. C'era qualcuno dall'altra parte che respirava affannosamente alla radio.

« Sergente? » quasi strillò Reno, le mani che gli tremavano intorno al piccolo dispositivo. « Sergente ti ricevo! Parla! Ti ricevo! »

« Aiuto. » il cuore gli sprofondò sotto i piedi, per poi tornare a salire e mancare la cavità toracica: ebbe come l'impressione che si fosse conficcato come una scheggia in gola e che lì avesse intenzione di rimanere. « Per favore...aiuto. »

Quella non era la voce del sergente, neanche lontanamente.

Era la voce di un ragazzino, tremante, sull'orlo di una crisi di pianto. Sussurrata come se fosse nascosto da qualche parte e non volesse farsi sentire.

« Chi sei? Dove hai trovato la radio? Dove sono i soldati? »

« Ti prego, aiutami. » implorò il ragazzino. Reno riuscì a figurarselo nella mente. Piccolo, sperduto, le mani strette intorno alla radio. Quanti anni poteva avere? Non più di quattordici a giudicare dalla voce. « Sono...sono tutti morti. Per favore, per favore. »

Poi lacrime, un fiotto, che lui poté vedere colare su un viso troppo giovane, troppo spaventato.

Il respiro si fece grosso, la testa prese a girargli.

Cosa ci faceva un ragazzino in un impianto in via di costruzione come quello? Cosa ci faceva nel Cratere Nord? Era il figlio di uno dei tecnici? C'erano città o villaggi nei dintorni di cui lui non sapeva nulla?

Che cosa voleva dire che erano tutti morti?

« Devi dirmi dove sei. » sentì dall'altra parte il lento singhiozzare spaventato del ragazzino. « Non posso venire al prenderti se non so dove sei! »

Ci fu un attimo di silenzio in cui Reno temette che la comunicazione sarebbe caduta di nuovo, almeno finché non sentì il ragazzino tirare su col naso e rispondere:

« Nel settore otto... »

Poi un suono acuto disturbò la trasmissione e costrinse Reno e spegnere la radio prima di rimanere assordato.

Le orecchie gli fischiavano ancora quando riaccese la radio.

« Ci sei ancora? Ehi?! »

Ma in risposta ricevette solo l'ormai familiare frizzare delle scariche statiche.

Alzò gli occhi sulla bianca distesa di neve fuori dall'Harp. In lontananza poteva scorgere l'impianto in via di costruzione. Contro il cielo scuro si stagliava la forma a imbuto del reattore non completato.

Spense la radio e si alzò.

Il cuore ancora in gola non voleva saperne di rallentare i battiti. All'improvviso tutto quello che aveva attorno era come una giostra da cui voleva scendere, da cui voleva assolutamente scendere.

Sono tutti morti.

Chi li ha uccisi, Reno?

La cosa a cui davano la caccia.

La cosa che siamo venuti a recuperare.

Sono tutti morti.

E lui stava per andare nel posto dove tutto era successo.

 

C'era qualcosa di sbagliato nell'avanzare di corsa nella neve fresca con un paio di stivali di due numeri più grandi, con solo un Rod in pugno e una pistola infilata nell'elastico dei pantaloni.

In due cose era bravo: pilotare gli elicotteri e i combattimenti corpo a corpo, l'uso di fucili pesanti e in generale di armi dal grosso calibro non faceva per lui. Non aveva neanche idea di come caricarlo uno di quegli affari.

Ma era comunque sbagliato, era tutto sbagliato.

Era sbagliato che fosse sceso dall'Harp abbandonando la sicurezza della cabina di pilotaggio con quell'attrezzatura raffazzonata.

Era sbagliato che corresse nella neve verso la recinzione che circondava il complesso del reattore.

Era sbagliato che il suo unico pensiero fosse quel ragazzino in lacrime, e non la cosa che l'aveva fatto piangere. E aveva ucciso i sei soldati addestrati e armati che erano stati mandati lì appositamente per distruggerla.

Tutto, tutto sbagliato.

Eppure, come sempre, Reno non dava ascolto al buon senso, ma all'istinto.

Le impronte dei soldati erano state ormai coperte dalla nevicata. Ogni traccia della loro esistenza sembrava essere stata cancellata.

Se non ci fosse stato l'Harp ad attenderlo alle sue spalle tutto avrebbe assunto l'assurda sfumatura di un incubo.

Forse di lì a poco si sarebbe risvegliato nel suo letto, prima di partire per la missione, o meglio, prima di accettare di farne parte.

Lui era solo un pilota, non un soldato. Sì, un pilota Turk, ma questo non aggiungeva poi molto.

Siamo Turk. Noi portiamo a termine la missione. A qualunque costo.

Respirò a fondo e superò il cancello, spalancato, che delimitava l'ingresso alla struttura.

Gru ferme, ruspe, attrezzi da lavoro: tutto era immobile, in attesa, come se da un momento all'altro gli operai sarebbero tornati ad utilizzarli. Eppure, la patina di neve che copriva il tutto lasciava intendere che era passato un po' dall'ultima volta che era successo.

La guardiola all'ingresso era vuota, la sedia rovesciata. Reno finse di non vedere le macchie di rosso nascoste sotto il bianco della neve.

Le nuvole che ingombravano il cielo non promettevano niente di buono. Avrebbe potuto cominciare a nevicare da un momento all'altro.

Ancora una volta ignorò il buon senso, e proseguì verso l'ingresso.

Dei tredici settori di cui sarebbe dovuto essere composto il complesso del reattore, solo sette erano stati completati, e l'ottavo era in via di costruzione.

Il grosso imbuto da cui sarebbe fuoriuscito il Mako e i collegamenti elettrici stranamente non erano stati ultimati: di solito erano la prima cosa ad essere costruiti, in modo che potessero cominciare l'estrazione di energia dal Lifestream mentre si terminava la costruzione delle parti meno importanti dell'impianto.

Entrò dalla porta principale per cercare una cartina del dannato impianto per poter raggiungere il settore otto.

Non appena fu dentro dovette trattenersi dal vomitare.

Il pavimento era coperto di sangue rappreso, e di corpi gonfi d'aria da cui esalava un puzzo di carne morte che faceva girare la testa.

Tutti indossavano camici e guanti da lavoro. Sembravano essere stati sorpresi mentre svolgevano le loro normali mansioni. Sembravano essere morti senza accorgersi che stava succedendo.

Sconvolto, Reno non si soffermò a controllare i corpi, i segni degli squarci che la maggior parte aveva sul collo, si affrettò, anzi, a superarli. Come se allontanarsene potesse togliergli dagli occhi quelle immagini. Ormai erano impresse nelle pupille.

Come se non bastasse la confusione di sangue e corpi, il pavimento era impregnato di calcestruzzo, cemento, attrezzi da lavoro caduti e lì rimasti, polvere e cavi elettrici ondeggianti. Una parte del soffitto in un corridoio, non ancora terminato, era crollata, e la neve si era ammonticchiata sul pavimento in corrispondenza dell'apertura.

Benché non fosse mai stato all'interno di una struttura simile, quel posto sembrava lontano dall'essere un complesso per l'estrazione del Mako.

Ovunque guardasse c'erano solo laboratori, con vetri spaccati e alambicchi rovesciati. Grossi tubi pieni di denso liquido verde erano addossati alle pareti, qualcuno, ancora pieno, lasciava intravedere che ci fosse qualcosa al suo interno.

La Shinra non aveva intenzione di costruire un reattore Mako, quello era un laboratorio. Ecco perché nulla di quello che avrebbe dovuto essere già pronto e funzionante lo era.

Reno staccò la radio dalla cintura e provò ad accenderla, nella speranza che il ragazzino avesse ancora con sé quella del sergente.

Avrebbe pensato dopo a tutto il resto, adesso la sua attenzione doveva essere solo per lui.

Non poteva dirsi un tipo empatico, né altruista, ma sperò che non gli fosse successo niente, che ci fosse ancora tempo.

Il sudore gli aveva ormai inzuppato la camicia, incollandola sulla schiena. Gli occhi blu correvano da un lato all'altro, cercando in ogni corridoio, in ogni stanza, un cenno della cosa, o del ragazzino.

La radio frizzava, nessun segnale.

Che genere di ricerche effettuavano in quel laboratorio segreto? Che cosa sperimentavano, che cosa stavano creando?

Per un attimo gli sembrò di vedere muoversi qualcosa all'interno di uno dei tubi pieni di liquido verde ancora integri.

Poi un urlo, acuto e terrorizzato, lo inchiodò sul posto. All'improvviso sentì i piedi immersi nel cemento.

Era una voce acuta. Doveva essere il ragazzino.

Obbligò se stesso a muoversi, anche se le gambe non ne volevano sapere di collaborare, e corse, corse con tutto il fiato che aveva, nella direzione dell'urlo.

Quasi rischiò di scivolare in una pozza di neve sciolta. No, non neve, troppo rosso, troppo denso: sangue, sangue fresco.

I sei soldati giacevano sgozzati sul pavimento, gli occhi spalancati per la sorpresa.

Non avevano sparato neanche un colpo di fucile. Non si erano difesi.

Erano morti così, anche loro senza accorgersi di stare morendo, presi alla sprovvista da qualcosa che li aveva spenti di colpo.

Il taglio netto sulle loro gole era preciso, pulito, fatto da mani esperte. Era quasi un'opera d'arte.

Distolse lo sguardo da quello spettacolo solo quando percepì un movimento con la coda dell'occhio.

Non ci pensò due volte ad attivare il Rod.

Non avrebbe permesso alla cosa che aveva sorpreso i soldati di fare lo stesso con lui.

Si avvicinò pian piano, quasi trattenendo il fiato, i passi calcolati e posati sul linoleum lordo di sangue.

Sotto ad una scrivania. Dietro un mobile rovesciato. Nulla.

Un fruscio alle sue spalle.

Si volse, pronto a colpire con tutte le sue forze con il Rod.

Solo per miracolo riuscì a fermarsi in tempo per non colpirlo, e l'aver trattenuto il movimento fece gemere di dolore l'avambraccio.

Il ragazzino era anche più piccolo di quanto lasciasse intendere la sua voce alla radio.

Era minuto, basso, gli arrivava appena al petto. I grandi, enormi occhi verdi lo guardavano con orrore misto a sorpresa, e le sopracciglia aggrottate aumentavano in lui la sensazione di avere davanti solo un bambino. Le piccole labbra, schiuse come un bocciolo di rosa al mattino, tremavano appena.

Reno non ebbe il tempo di dire o fare qualcosa, perché il ragazzino si gettò su di lui, abbracciandolo alla vita, la testolina dai capelli meravigliosamente argentei premuta contro il suo petto.

Il suo singhiozzare scomposto e disperato non diede adito a nessun ripensamento. Reno rinfoderò il Rod e prese ad accarezzargli la testa, mentre con l'altra mano gli accarezzava le spalle tremanti.

Non si accorse di stare sussurrando “va tutto bene” all'orecchio del ragazzino, sconvolto com'era dalla sua apparizione.

Solo pochi istanti dopo alzò lo sguardo su di lui, nei grandi occhi verdi poté intravedere tutto l'orrore di cui era stato testimone.

« Sei venuto a salvarmi. »

Sussurrò, con una tale vocetta infantile e sottile che Reno sentì stringersi il cuore.

« Sì. Però adesso dobbiamo andare, mh. È pericoloso rimanere qui. »

Il piccolo annuì, mesto, e lui gli asciugò gli occhi con un dito, provando a sorridergli per farlo sorridere.

Era poco più di un bambino, ed era spaventato, solo, finito lì per chissà quale ragione, per chissà quale colpo di sfortuna.

Avrebbe avuto tempo di fargli tutte le domande del caso quando sarebbero stati al sicuro. Ne aveva davvero parecchie di domande da fare. Soprattutto al suo capo.

Ma adesso era imperativo andarsene.

Con una mano riprese il Rod, mentre intrecciò le dita dell'altra alla manina piccola e magra del ragazzino.

« Andiamo. »

Gli intimò, sottovoce.

Non sapeva ancora dove si trovasse la cosa, non sapeva quanto fosse grande, non sapeva quanto fosse aggressiva, veloce, intelligente. Sapeva solo che aveva ucciso tutto il personale che lavorava alla costruzione del reattore Mako, e la squadra di soldati partiti con lui. E questo bastava e avanzava come incentivo per allontanarsi di lì il più velocemente possibile.

« Non guardare a terra, ti guido io, okay? » il piccolo annuì forte, e tiro su la testa, in tempo per non accorgersi di aver appena messo il piede in una pozza di sangue che schizzò sui pantaloni neri che indossava. Nonostante fosse ricoperto di sangue, Reno era quasi sicuro che non fosse suo. Ad una rapida occhiata non sembrava ferito, ma avrebbe avuto modo di controllarlo meglio una volta tornati sull'Harp. « Come ti chiami? »

« Kadaj. »

Pigolò il ragazzino, gli occhi pieni di lacrime fissi sul soffitto.

Povero bambino, si ritrovò a pensare, starà morendo di paura.

Superarono i corpi senza vita dei soldati, e corsero in direzione dell'uscita. I passi risuonavano seccamente nell'ambiente vuoto. Sembravano i rintocchi di una campana a morto.

Don don don don don.

« Aspetta. »

Kadaj si fermò all'improvviso, tirandolo appena indietro.

« Che c'è? Non c'è tempo! »

Lui però scosse la testa, e puntò i piedi. La sua presa era ferrea, e all'improvviso Reno non riuscì a contrastare la sua forza.

Eppure sembrava essere così debole.

« Il sangue. »

Reno aggrottò le sopracciglia, perplesso. Guardandosi intorno era abbastanza ovvio che ci fosse del sangue. Tutto l'ingresso sembrava schizzato di vernice rosse, il pavimento, il soffitto. Gli squarci sulle gole degli operai erano tutti all'altezza della carotide. Dovevano essersi trasformati in fontanelle umane nel giro di pochi istanti.

« Se non l'avessi detto non ci avrei fatto caso. » gli rispose, ironico. « C'è sangue dappertutto, per questo dobbiamo andarcene! Quel mostro potrebbe essere qui da un momento all'altro. »

« Mostro? »

Stavolta fu Kadaj a guardarlo perplesso, la testolina piegata di lato in un'espressione a metà tra l'infantile e l'animalesco.

Tutto d'un tratto gli sembrava diverso. Ora che lo guardava bene, gli occhi verdi avevano qualcosa di strano, la pupilla sembrava essere troppo sottile. I vestiti che indossava erano troppo grandi per lui, sembrava aver preso la prima cosa che aveva trovato ed essersela messa addosso, ed era scalzo.

« Sì. » rispose Reno. Per qualche ragione gli si strinse lo stomaco in una morsa. Paura. Era paura. « L'essere che ha ucciso tutti. Potrebbe saltarci addosso e uccidere anche noi, dobbiamo andare adesso. »

Kadaj alzò la testa, i capelli argentei scivolarono su un lato. Il suo visetto smunto e giovane non ispirava più alcuna tenerezza.

Le labbra, quelle belle, delicate labbra rosa, si tesero in un sorriso storto, carico di maliziosa aspettativa.

« Sono stato io ad uccidere tutti. »

Prima ancora di poter alzare la spalla e caricare un colpo con il Rod, o prendere la pistola dalla cintura e sparare, Reno vide lo scintillio di una lama.

Per una volta essere così devoto al suo istinto lo aiutò ad evitare quel primo colpo, che gli aprì un taglio profondo su una guancia.

La mano del ragazzino era ancora artigliata alla propria, e per quanto tirasse e provasse a divincolarsi la presa era salda, come acciaio.

Riuscì a vedere Kadaj sorridere prima che il coltello che aveva in mano disegnasse taglio netto sulla sua gola.

Il sangue sgorgò subito, come acqua da un tubo rotto, e Reno portò le mani – entrambe libere adesso – alla gola nel pallido, vano tentativo di fermare l'emorragia.

Il martellare del cuore nelle tempie era orribilmente in sincrono con la velocità del flusso in uscita. Ad ogni battito un fiotto si rovesciava fuori. Ben presto le dita divennero viscide, scivolose, in bocca sentiva un orribile sapore amaro che aveva un solo nome.

Stava annegando in un mare rosso, caldo, poteva vedersi riflesso negli occhi del ragazzino. Come tutti gli altri, gli occhi sbarrati dalla sorpresa, la bocca ancora aperta per cercare di catturare l'ultimo respiro, l'ultimo alito di una vita ormai persa.

Kadaj si fletté sulle ginocchia, l'espressione infantile abbandonata ormai per rivelare una maschera di fredda ostilità.

Quel viso, adesso, non sembrava essere stato fatto per esprimere emozioni. Era come un'immobile statua.

Frugò nelle tasche della sua giacca, trovò uno dei lecca-lecca rimastogli, lo scartò per metterlo in bocca, come se fingere di essere un bambino alla lunga avesse convinto anche lui. Gli prese il portafogli, studiò la sua carta d'identità con curiosità non del tutto dissimile a quella degli scienziati che osservano un organismo al microscopio. Poi lo gettò, si accasciò nella pozza del suo stesso sangue con un orribile suono di risucchio.

Le sue piccole fredde dita incontrarono la radio agganciata alla cintura.

Reno avrebbe voluto poter fermare quel piccolo mostro, avrebbe voluto anche solo alzare una mano, ma tutto quello che poté fare fu assistere inerme mentre lui faceva scattare l'interruttore sulla frequenza dedicata alle emergenze.

Per parlare, Kadaj dovette smettere di succhiare il lecca-lecca. Labbra e lingua erano diventate rosse, rosso sangue.

« Aiuto. » pianse alla radio non appena si udì il click di contatto avvenuto. Ma se la sua voce risultava pietosa e dolorosamente reale, il suo volto era inespressivo. I suoi occhi avevano pupille da rettile. « Per favore...aiuto. »

L'ultima cosa che Reno vide prima che l'oscurità lo avvolgesse del tutto e spegnesse per sempre i suoi occhi blu, fu il sorriso di Kadaj, le sue labbra chiuse intorno al lecca-lecca, e sentì la sua voce scongiurare.

« Settore otto...vi prego, fate presto. »

 

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The Corner 

Sì, in effetti questa cosa sembrava partita,
almeno nella mia testa,
con qualcosa di più di un semplice incontro tra Reno e Kadaj 
però di contro è anche la prima che scrivo a riguardo.
Per ora mi sono tenuta sul "vago",
ispirata mortalmente dal film Alien - Scontro Finale.
Arriverà qualcosa di più prelibato,
Fan Numero 1, accontentati dell'antipasto 

Chii

   
 
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