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Autore: _ A r i a    03/09/2016    2 recensioni
{AyaJū | 16.400 words | Circus!AU | questa storia partecipa alla challenge D'infiniti mondi e AU indetta da AleDic sul forum di Efp}
Poi, come al solito quando doveva prendere una decisione importante, lasciò che fosse il proprio famigerato istinto a guidarlo: chiuse gli occhi per una frazione di secondo e cercò di svuotare la mente da ogni pensiero; d’impulso sentì il suo corpo muoversi in avanti, così, una volta che ebbe sollevato nuovamente le palpebre, si rese conto del perché.
In realtà ebbe bisogno di qualche secondo per mettere a fuoco ogni cosa. Quello di cui era stato certo fin da subito, quando ancora i suoi occhi erano beatamente chiusi, era il fatto che le sue labbra fossero ora premute contro qualcosa di morbido, soave, nel suo essere tanto semplice di una sensazionale dolcezza.
Zucchero filato, in effetti. Dello stesso dolce sapore, odore e colore – rosa lieve – delle labbra di Jūzō, contro le quali ora si trovava.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kirishima Ayato, Suzuya Jūzō
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Autore: _ A r i a
Titolo: Ex aequo
Fandom: Tokyo ghoul
Genere: angst, introspettivo, malinconico
Personaggi: Kirishima Ayato, Suzuya Jūzō
Rating: Verde
Note: Circus!AU / Juggler!Jūzō


Succedeva sempre così. All’improvviso, quando meno te lo aspettavi.
La polvere si alzava dalla vecchia strada battuta, annunciando l’arrivo imminente degli ennesimi forestieri.
Le carrozze della carovana avanzavano quiete, mentre sotto i teli che sormontavano la struttura in legno dei carri coperti vi era il più totale trambusto: tra gli oggetti di scena dei clown che roteavano da una parte all’altra e i latrati del cagnolino della compagnia, trovare un attimo di pace per poter riposare era davvero impossibile.
Ayato osservava quietamente la scena dalla cima di una rupe, sul suo volto perennemente indifferente quella volta era ben distinguibile un’espressione pensierosa.
Viveva in un paesino minuscolo e sperduto nel bel mezzo del nulla, nell’arida desolazione del deserto dell’America centrale; lì non giungeva mai nessuno, se non rari ‘turisti accidentali’, viaggiatori che avevano smarrito la loro rotta e si erano ritrovati a vagare, senza avere un luogo preciso in cui recarsi.
Solo che la visione che si presentava in quel momento davanti ai suoi occhi non era popolata da pochi viandanti, bensì da un’intera carovana.
Il ragazzo dai capelli bluastri si ritrovò ad accennare un lieve sorrisetto furbo, aveva già qualche idea che gli ronzava per la mente… era vero, lì non succedeva mai niente.
E se per una volta fosse arrivato finalmente il momento di cambiare?

Le carrozze arrestarono  improvvisamente, tanto che Jūzō si ritrovò a rotolare tra clave di legno e costumi sgargianti e –decisamente– ingombranti.
Tutto intorno si levò un gran polverone e il ragazzino non poté fare a meno di ritrovarsi a tossire, i polmoni pieni di chissà che cosa.
I teli che coprivano il carro gli impedivano la visuale, tuttavia riusciva a sentire più o meno nitidamente un lieve vociare, un brusio continuo che si levava nelle vicinanze, probabilmente erano accorsi sul posto già diversi curiosi, richiamati dai diversi rumori che dovevano essersi levati dalla strada.
Jūzō si destreggiò più o meno abilmente tra i bagagli della compagnia per potersi liberare dal punto in cui era rimasto intrappolato. Il risultato non fu esattamente dei migliori, considerando che arrivò sulla soglia del carro incespicando, le gambe che erano ancora rimaste incastrate in una delle funi del numero di equilibrismo.
Ciò che si parò davanti ai suoi occhi cremisi fu piuttosto sorprendente: un nugolo di persone, un’intera folla per loro, tra cui diversi bambini, che continuavano a saltare entusiasti da una parte all’altra, scivolando sotto le lunghe gonne delle madri per poi riapparire subito dopo dalla parte opposta, come se non fosse successo nulla.
L’albino si esibì in un ampio sorriso a trentadue denti, era sempre bello vedere tutto quel fermento intorno a loro. Perché in fondo era questo che faceva il circo: portava, almeno per qualche giorno, aria di festa e serenità nei cuori delle persone della città che li ospitava.
Il direttore della compagnia stava annunciando proprio in quel momento che si sarebbero fermati lì per circa un mese. Non erano però le parole dell’uomo a catalizzare così tanto l’attenzione di Jūzō sulla scena, dopotutto erano sempre le stesse, che sentiva ripetere ogni volta, di città in città. No, era qualcos’altro che attendeva: la reazione del loro uditorio, nel ricevere quelle parole. Ogni volta era differente, in fondo il piacere di scoprire un diverso tipo di esultanze era sempre più forte, aumentava con lo scorrere del tempo e di conseguenza l’accrescere dell’esperienza.
Quelli che era sempre uno spettacolo veder gioire erano, ovviamente, i bambini: le loro grida di acclamazione, i loro piccoli grandi salti spiccati verso l’alto del cielo azzurro erano la più grande soddisfazione che si potesse immaginare. I grandi mantenevano sempre una maggiore compostezza, quel decoro che si addiceva all’età adulta. Perché, poi, era difficile a dirsi: Jūzō aveva sempre trovato piuttosto ridicole quella sorta di regole non scritte, secondo le quali una volta che si cresceva non ci si poteva più comportare in un certo modo.
Era per questo che l’idea di crescere non lo faceva impazzire: trovava la vita della gran parte degli adulti che conosceva così incredibilmente vuota, buia, spenta. Lui non voleva diventare come loro… perché non poteva rimanere per sempre un po’ bambino? In fondo non gli sembrava un crimine poi così grande.
Proprio per quel motivo amava così tanto vivere con quella compagnia circense: aveva scoperto, con suo immenso piacere, che gli artisti con i quali ormai viveva stabilmente da diversi anni non erano poi così diversi da lui. Tutte le persone che lavoravano al circo erano infatti degli eterni bambini, persone che avevano preferito inseguire i loro sogni piuttosto che abbandonarsi al piatto e monotono quieto viver.
C’era anche qualcos’altro ad accumunarli: la maggior parte delle persone che lavorava come lui presso una compagnia circense non sempre aveva una storia rose e fiori da raccontare, un passato felice di cui poter andar fieri. Per esempio, chi si univa al circo era scappato di casa quando era ancora molto piccolo, esattamente come era successo.
Jūzō non parlava mai serenamente di quell’argomento e, qualora ne avesse la possibilità, preferiva sempre evitarlo.
Adesso davanti ai suoi occhi c’era una folla di persone esultanti e     bambini gioiosi e, davvero, quella era l’unica cosa che contasse sul serio, in quel momento.

Il circo aveva deciso di allestire il proprio tendone poco fuori città, fondamentalmente perché il paese era troppo piccolo per un’organizzazione del genere e, nemmeno con tutta la buona volontà del mondo, gli addetti sarebbero riusciti a far entrare tutto nella piazza principale – che era comunque di dimensioni piuttosto esigue, sebbene fosse il centro delle attività di socializzazione del luogo.
Un luogo aperto poco distante, un campo disabitato nei pressi della cittadina, a detta del direttore del circo, era il meglio che potessero desiderare.
Ayato continuava a nutrire parecchie perplessità su quella visita: perché mai un circo si sarebbe dovuto stabilire nei pressi di un villaggio piccolo come il loro? Non era forse vero che, di solito, le compagnie preferivano stabilirsi presso i grandi centri cittadini, poiché era lì che potevi aspettarti una maggiore affluenza di pubblico?
Loro erano solo un piccolo paese… d’accordo, la voce era circolata in fretta, tanto che nel giro di pochi minuti non c’era nemmeno più nessuno da avvisare. All’arrivo dei carri erano tutti là, nella piazza principale, l’intero villaggio aveva assistito all’arrivo della carovana in città. A conti fatti, gli introiti della compagnia non sarebbero stati poi dei migliori; senza contare poi il fatto che fermarsi in un luogo prevalentemente disabitato per quasi un mese continuava a sembrargli uno sproposito di tempo.
Inoltre, considerate le ristrettezze della zona, il fatto che non avessero potuto nemmeno montare il tendone nei pressi del centro cittadino, bensì si erano dovuti limitare ad occupare uno spazio disabitato poco distante, avrebbe dovuto forse far desistere gli abitanti della zona dai loro propositi di recarsi in quel luogo. Dopotutto si trattava in maggioranza di piccoli contadini, gente onesta che dedicava quasi interamente la propria giornata al lavoro nei campi.
Invece no, eccoli, erano proprio lì: persone che vedeva tutti i giorni, perfino i suoi burberi vicini di casa adesso si stavano affaccendando attorno a quella gente venuta da lontano.
Possibile che un evento del genere potesse smuovere così tanto la curiosità di quelle persone, che conosceva da una vita e sapeva essere così legate alle tradizioni e al loro quieto vivere?
Bah, in fondo parlava lui che era tra quelle stesse persone che erano accorse sul luogo. Sebbene continuasse a dire che lui non lo stava facendo per curiosità, no no. Lui era lì semplicemente perché si sarebbe divertito un mondo a ridere se qualcuno fosse caduto mentre era tutto intento nel proprio lavoro, certo.
Un merito – se uno ce ne dovesse essere – andava attribuito a quella compagnia: in poco più di un paio di ore lavorative, erano riusciti a montare su egregiamente quel tendone, un insieme vorticante di bande verticali rosse e bianche che avrebbe fatto girare la testa a chiunque. Ayato considerò che dovevano essere stati così veloci per l’esperienza: chissà quante volte erano abituati a compiere quel singolo gesto, in un anno…
Mentre rifletteva sui suoi conti, quasi non si accorse della voce possente del direttore, che ordinava ai suoi uomini di fare forza e issare su il tendone, tirando le funi che lo sorreggevano.
Dovevano essere diverse decine di persone, là sotto, se non addirittura un centinaio. Ayato ammirò la forza e la dedizione degli addetti ai lavori, dai quali, suo malgrado, non poté che rimanere affascinato.
In un paio di minuti, tutte le funi furono tirate a dovere e legate a terra con dei picchetti. Ogni cosa era al proprio posto, funzionante a dovere. Si poteva perfino tirare un sospiro di sollievo.
Poi accadde.
Alcune lamentele giunsero da sotto il tendone, borbottii profondi di quegli stessi uomini che, fino a pochi momenti fa, erano stati indaffarati con funi e martelli.
Subito li seguì una risata acuta, infantile quasi: sembrava schernire le voci brute degli altri artisti.
Fu allora che comparve: era un ragazzino dalla corporatura infinitamente minuta, la pelle pallida e alabastrina. Era privo di qualsiasi genere di muscoli, per questo pareva pressoché impossibile equipararlo agli uomini forzuti e abbronzati che Ayato aveva visto lavorare sotto il tendone, fino a pochi istanti prima.
Sorrideva in modo sciocco, librandosi a mezz’aria tutto stretto ad una fune, che sembrava essere sfuggita al montaggio di poco prima.
Ayato non riusciva a staccargli gli occhi di dosso: sebbene trovasse quel gesto piuttosto sconsiderato – e altamente folle, certo – non poteva tuttavia negare a se stesso che quel ragazzino avesse un non so che, quel fascino che ammalia e porta tutti gli spettatori a puntare lo sguardo su di sé, verso quell’unica ed eccentrica creatura da esposizione.
Il direttore del circo, al contrario, non sembrava affatto pensarla allo stesso modo di Ayato. Al contrario, non appena aveva notato il ragazzino svolazzare a mezz’aria come una bandiera, era andato su tutte le furie, il viso che era diventato paonazzo per l’ira.
Il che, se si considerava che si trattava di un ometto alto un metro e qualche guscio d’uovo, risultava una scena piuttosto comica.
Ayato si limitò a ridacchiare di sottecchi, adesso diventare il bersaglio della rabbia di quel tipo era davvero l’ultima cosa che desiderava.
Così l’uomo si limitò a marciare furente verso il ragazzo sulla fune. Si poteva quasi vedere del fumo uscirgli dalle orecchie.
«Jūzō Suzuya!» strepitò, riferendosi evidentemente al ragazzo, che stava ancora ridendo platealmente «Vedi di scendere immediatamente da lì, o giuro che ti getto in pasto alle tigri! È chiaro, signorino?»
Il giovane non riuscì a non ridere ancora di più mentre replicava:«Signorsì, signor direttore!»
Jūzō attese che la fune giungesse fino al punto più alto, dondolandosi su di essa come se fosse su un’altalena; da lì gli sembrava di poter toccare il cielo, di raggiungere l’infinito… allora, e solo allora, si lasciò cadere all’indietro, certo di non potersi spingere più in alto.
Per un momento che gli parve eterno, Ayato restò con il fiato sospeso ad osservare quel ragazzino decisamente spericolato, mentre quest’ultimo cadeva a testa in giù e addirittura in picchiata da un’altezza alquanto considerevole – saranno stati all’incirca due metri – e nel frattempo si esibiva perfino in delle capriole a mezz’aria.
Pazzo. Quel ragazzo doveva essere assolutamente, completamente e perdutamente pazzo.
Atterrò, come forse avrebbe dovuto prevedere, in piedi, a pochi passi da lui.
Jūzō gli rivolse un ampio sorriso, sembrava essere piuttosto fiero dell’acrobazia appena compiuta.
L’albino si esibì in un grande inchino, mentre nel frattempo continuava a ridacchiare sommessamente.
«Mi chiamo Jūzō Suzuya!» esclamò poco dopo, rimettendosi dritto e rivolgendosi ad Ayato.
“L’avevo intuito” pensò mestamente tra sé quest’ultimo.
Solo allora sembrò accorgersi che Jūzō era rimasto lì, in silenzio, come se fosse in attesa di qualcosa. Continuava a sorridergli, con quel suo modo di fare così infantile… forse stava aspettando che si presentasse anche lui.
«Io sono Ayato Kirishima» si affrettò ad aggiungere, sperando che quella – era proprio il caso di dirlo – pagliacciata finisse al più presto possibile.
Lo sguardo di Jūzō sembrò illuminarsi di una gioia incontenibile, quasi come se avesse appena sentito il suono più bello del mondo. Ayato invece sembrò essersi accorto solo in quel momento che gli occhi del ragazzo davanti a sé erano di un rosso intenso, sembravano fiamme che crepitavano in un caminetto.
«Ohh» soggiunse Jūzō, come meravigliato di un sincero stupore «io sono il giocoliere della compagnia!»
Quelle parole sembravano averlo riempito di orgoglio, il che fece sorridere Ayato di rinnovata sorpresa.
«Ah sì?» domandò infatti, perplesso «E dire che dal numero nel quale ti sei esibito poco fa pensavo che fossi un funambolo…»
Quell’affermazione sembrò divertire particolarmente Jūzō, che scoppiò a ridere, cristallino. Per quanto il suono della sua voce potesse sembrare infantile, il suo sorriso aveva qualcosa di genuinamente incantevole.
«Già» commentò qualcuno, avvicinandosi a loro da dietro e afferrando Jūzō per le spalle «e tra poco finirà per essere il nuovo pasto dei nostri leoni, se non vede di fare maggiore attenzione!»
Jūzō sospirò con fare teatrale, mentre si affrettava a spiegare:«Oh, andiamo, signor direttore,  la fune è solo sfuggita dal mio controllo. D’altronde, cosa vuole che faccia, se dall’altra parte mette a tirare il domatore dei leoni? Quello è tutto muscoloso, mentre io sono uno scricciolo…»
Il direttore lasciò di colpo le spalle di Jūzō e, dacché per la bassa statura del ragazzo era riuscito a tenerlo sollevato di qualche centimetro dal suolo, adesso fu costretto a non cadere con il sedere a terra.
«Va’ ad aiutare i clown a scaricare la loro roba dai carri, prima che ci ripensi» commentò il direttore, lasciandolo andare, senza però abbandonare quel suo tono un po’ burbero.
«Corro subito, signor direttore!» si affrettò a concludere Jūzō, prendendo la strada per i carri saltellando, la risata sulle sue labbra che ancora non accennava a morire.
Il direttore si esibì in un paio di rumorosi colpi di tosse, per poter richiamare l’attenzione di Ayato. Non si era nemmeno accorto di essersi distratto, lo sguardo peso a osservare la strada lungo la quale era scomparso il ragazzino.
«La prego di perdonarlo» si affrettò ad affermare l’ometto, una volta che Ayato si fu voltato nuovamente nella sua direzione, certo di aver acquisito la sua attenzione «Jūzō è un ragazzo un po’… particolare, ecco. Mi spiace se mai si sia sentito disturbato da lui, signore…»
«Nessun disturbo» tagliò corto Ayato, seccato dai modi fin troppo servizievoli dell’uomo.
«Ecco» riprese invece quello, con estremo dispiacere del blu «per sdebitarmi di questa figuraccia, mi farebbe davvero piacere invitarla allo spettacolo inaugurale di questa sera…»
«Le ripeto che non c’è nulla di cui si debba sdebitare» precisò Ayato in un sospiro, voltandosi di scatto e rivolgendo le spalle al direttore del circo, facendo per andarsene «Ad ogni modo… non so ancora se stasera ci sarò o meno. Sa com’è… il circo non mi fa poi così impazzire».
Dopodiché, Ayato si affrettò a proseguire per la sua strada, lasciando l’uomo bloccato sul posto, a mormorare parole tra loro sconnesse, troppo sbigottito per poter fare qualsiasi altra cosa.

In realtà, quella sera Ayato allo spettacolo inaugurale ci andò eccome.
Non che fosse un grande amante di quel tipo di manifestazioni o cose del genere, di certo quello non poteva negarlo a se stesso.
Un altro pensiero che preferiva smentire categoricamente nella propria mente era che, se adesso si trovava lì, era unicamente nella vana speranza di incontrare nuovamente lo sguardo di fiammelle danzanti del ragazzino di quel pomeriggio.
Forse, però, non era così bravo a mentirsi.
Gli spalti per gli spettatori erano sorprendentemente pieni; molte persone erano accorse dai paesini circostanti, incuriositi da quella novità. Ayato continuava a non riuscire a giustificarsi tutto quell’interesse, ma dettagli. 
Doveva ammetterlo, tutti gli artisti erano piuttosto bravi: i trapezisti sembravano letteralmente volare in aria, erano così eterei che quasi era difficoltoso ritenerli reali, i clown erano quasi divertenti – andava detto, Ayato non era affatto un appassionato del divertimento e c’erano davvero poche cose al mondo in grado di strappargli una risata; oltretutto, una parte di sé gli ricordava ogni volta con sfacciata prepotenza che gli uomini non erano soliti abbandonarsi facilmente alle risa, pertanto cercava sempre di trattenersi, nemmeno con troppi sforzi, dal ridere – e aveva osservato con malcelato interesse le ballerine del varietà, nei loro abiti succinti. Uno scandalo, per le donne del luogo, abituate ai maglioncini cuciti a mano con i ferri da calza e le gonne lunghe fino a terra.
Cielo, in che diavolo di posto viveva? Sembrava di essere sempre in convento…
Ci aveva pensato spesso, ad andarsene da lì. Gli sarebbe piaciuto partire e viaggiare, vedere le grandi città e conoscere la gente che vi abitava. Per questo era un po’ invidioso della vita di quegli artisti del circo – sebbene, orgoglioso com’era, non lo avrebbe mai ammesso – poiché loro viaggiavano sempre, in continuazione e in questo modo, passando da una grande città all’altra, potevano visitare quasi tutto il mondo.
Ad ogni modo, tra numeri di tigri e prestigiatori comparsi – era il caso di dirlo – dal nulla, quando ad entrare in scena fu Jūzō, l’attenzione di tutti i presenti si concentrò su di lui.
Sembrava essere un animale da palcoscenico, nato per avere su di sé gli occhi della gente: una contraddizione vivente, con quel fisico troppo esile, la pelle perfino pallida e le occhiaie violacee, che scavavano il volto scarno; i capelli erano così chiari da sembrare quasi bianchi… in lui c’era qualcosa di etereo, che cozzava e strideva con l’ambiente circostante, in una sorta di lotta continua.
L’abbigliamento era quantomai stravagante: una camicia bianca fin troppo grande per lui, dalle maniche arrotolate fino ai gomiti, lasciava scoperti gli avambracci nivei, mentre i pantaloni scuri, alquanto larghi, erano tenuti su da delle bretelle rosse a pois gialli e anche questi ultimi erano avvolti verso l’alto, così da mostrare le gambe magre e spoglie dal ginocchio in giù; i piedi erano scalzi, al che Ayato si chiese tra sé se il ragazzino provasse dolore per questo – rimproverandosi subito dopo, considerando che non trovava ragione per preoccuparsi di qualcuno che non conosceva affatto.
Come gli aveva accennato quel pomeriggio, Jūzō era un giocoliere: il suo numero non era particolarmente spettacolare, giacché per circa due o tre minuti non cambiava mai tipo di esibizione, né saltava in cerchi di fuoco o roba del genere; no, per attirare l’attenzione di tutto il pubblico su di sé gli bastava muoversi su un piccolo monociclo piuttosto sgangherato, seguendo il percorso circolare del tendone, lanciando delle sferette colorate a formare un cerchio per aria e riprendendole al volo. La vera bravura stava nel complicare il numero man mano che il tempo scorreva: aggiungeva palline pescandone delle altre dalle tasche dei pantaloni, aumentava la velocità del monociclo o del movimento delle sfere; arrivato al culmine dell’esibizione, si era messo persino a pedalare con le mani, mentre continuava a far circolare le palline gambe all’aria, muovendole con piccoli colpi dei piedi.
Il fatto che tutto il numero dovesse svolgersi in rigoroso equilibrio per tutto il tempo non faceva che complicare ancora di più le cose, tuttavia ovviamente non accennò nemmeno una volta ad un qualche segno di cedimento.
La folla era in visibilio, mai si sarebbero immaginati di vedere una cosa del genere. Erano tutti in piedi sugli spalti, le labbra che si muovevano in esclamazioni di gioia: alla fine si era dovuto alzare pure Ayato, aveva capito che se voleva vedere qualcosa quello era l’unico metodo.
Oltretutto, c’era qualcosa di ancor più fantastico: per tutto il tempo dell’esibizione Jūzō aveva continuato a sorridere tranquillamente, come se non fosse affatto sotto sforzo, incantando così tutto il pubblico nella sua arte di strada.
Alla fine del numero era saltato abilmente giù dal monociclo, esibendosi in un salto carpiato triplo piuttosto ben riuscito; atterrato – prevedibilmente – in piedi, si era destreggiato in un ampio inchino, prendendosi così tutti i meritati applausi scroscianti del pubblico.
Ovviamente, anche Ayato aveva applaudito: inutile dire che il ragazzino lo avesse sorpreso in positivo, stregandolo del tutto. Quando Jūzō si era rimesso dritto per bene, Ayato aveva cercato di guardarlo negli occhi, tuttavia aveva trovato quelle iridi sanguigne così sorprendentemente vitree, come se fossero puntate altrove.
Così come era apparso, in un refolo di vento leggero, se ne era tornato dietro le quinte, a bordo del suo monociclo ammaccato. Ayato lo aveva osservato uscire fino a che non era scomparso, nel buio della notte, per poi tornare a seguire lo spettacolo – e negando a se stesso di non trovarlo più così interessante o che avrebbe preferito se in scena ci fosse stato ancora l’albino.
Era stato bravo, certamente, forse addirittura il migliore della serata, poiché suscitare interesse e acclamazione con così poco, come aveva fatto lui, non era affatto un gioco da ragazzi; tuttavia lo spettacolo andava avanti, allo stesso modo delle vite di tutte le persone lì presenti, compresa quella del ragazzo dai capelli bluastri. Non poteva certo continuare a pensare in eterno a una sciocchezza del genere, non aveva assolutamente alcun senso.
Così incrociò le braccia al petto e si concentrò sull’esibizione successiva, cercando di convincere il proprio inconscio che si stesse divertendo.
I numeri avevano preso a susseguirsi molto più lentamente e Ayato quasi non vedeva l’ora che tutto fosse finito. Magari poteva andarsene, solo che non voleva che i suoi compaesani pensassero qualcosa di male su di sé. Ci mancava solo quella e poi, davvero, non gli sarebbe mancato più nulla.
Doveva ammettere però che le esibizioni successive non erano state poi così eclatanti: forse era lui che esagerava, tuttavia gli era sembrato quasi che la vera stella di quella compagnia fosse proprio Jūzō. Era giovane, frizzante e innovativo, nei suoi numeri c’era qualcosa che agli altri mancava – magari un tocco di follia, chissà.
Ogni tanto si convinceva a concedere qualche sporadico applauso, più che altro perché non voleva sembrare un essere apatico e scontroso più del solito, anche se forse sarebbe stato più corretto dire più di quanto già non fosse.
Quando lo spettacolo giunse al termine quasi non gli sembrò vero: il domatore dei leoni aveva appena finito il suo numero e tutti erano in piedi ad applaudire, anche se non sembravano avere lo stesso fervore che pareva averli pervasi durante l’esibizione di Jūzō. Da dietro il tendone del circo apparve il direttore del circo, che annunciò che lo spettacolo era finito, premurandosi di augurare una buona notte a tutti e di invitare i presenti a tornare la sera successiva, magari portando anche degli amici.
Come serata inaugurale sembrava essere andata particolarmente bene, il che, considerati i tempi che correvano, non poteva essere che un bene. Ayato si chiese quanto avessero guadagnato: facendo un calcolo approssimativo, conoscendo il prezzo dei biglietti e immaginando più o meno quale fosse stato il numero dei presenti, ci mancò poco che lanciasse un’esclamazione di sorpresa ben poco garbata nel capacitarsi del risultato. E non aveva incluso nel conto cibarie e bevande varie.
Prima di uscire, preferì aspettare almeno un po’ prima, così che la folla potesse defluire a dovere e non rimanere invece schiacciato nella calca; sarebbe stata una situazione decisamente sciocca e considerando che gli abitanti del suo paese continuavano a concentrarsi in massa verso l’uscita, non poté che constatare per l’ennesima volta la loro stoltezza. Sempre a seguire gli altri, sempre ad emulare. Il punto era: perché omologarsi, quando avevi un’alternativa più vantaggiosa a portata di mano?
Era più o meno lo stesso ragionamento che faceva quando valutava tra sé l’ipotesi di andarsene da quel villaggio. Avrebbe potuto farlo, chiaramente, così come chiunque altro; solo che di lì non se ne andava mai nessuno. E forse, in fondo, era diventato come tutti gli altri e aveva paura di andarsene, solo che quello che lui temeva non era tanto il cambiamento in sé – cosa che, invece, i suoi conterranei ritenevano aberrante a prescindere – quanto piuttosto l’idea di ciò che quelle malelingue avrebbero potuto dire e pensare su di lui.
L’idea di essersi rammollito così tanto, al punto di lasciarsi influenzare dal pensiero di persone che per lui valevano meno di zero, lo disturbava discretamente: a forza di stare con quella gente aveva finito per diventare come loro, ciò che per anni aveva temuto maggiormente e per il quale aveva sempre lottato, pur di far sì che non si avverasse.
Quando il tendone si fu, a suo dire, sufficientemente svuotato, si affrettò a raggiungere a sua volta l’uscita, con un sospiro stanco.
L’aria della notte lo accolse quasi come un sollievo, non si era reso conto che nel tendone fosse così caldo; fuori era già molto buio, se non fosse stato per la luce che proveniva dall’arena del circo che aveva appena lasciato non avrebbe visto un bel nulla neppure ad un palmo dal suo naso.
Non avrebbe saputo dire per quale ragione, poco dopo, si sentì quasi in dovere di spostare lo sguardo di lato; forse una pura casualità, oppure – sebbene si rifiutasse fermamente di credere in certe cose – si trattò più semplicemente del destino.
In quella notte senza luna, le uniche luci del circo illuminavano a malapena un piccolo spicchio dello spiazzo erboso lì a fianco.
Jūzō era là, il monociclo abbandonato stancamente a terra e i piedi scalzi immersi completamente tra i ciuffi umidi di rugiada.
Stranamente, sembrava esausto, come se la tensione dell’esibizione e la stanchezza che derivava dal suo numero lo avessero travolto tutte insieme solo adesso, una volta che ogni cosa era terminata e non c’era più nulla a preservarlo dagli acciacchi del mondo.
Era qualcosa che lo rendeva sorprendentemente… umano, ecco. Le perle di sudore sulla sua fronte, oppure la camicia tutta impolverata e anche un po’ sporca di polvere contribuivano a renderlo un po’ più vero, a far capire che lui era lì, che anche lui provava sentimenti come la stanchezza o il dolore.
Anche lui era vivo, in fondo. Durante lo spettacolo di quella sera o quando lo aveva visto per la prima volta, nel pomeriggio, mentre si era dondolato su quella fune sembrava quasi divino, come se nulla potesse scalfirlo e fosse estraneo alla realtà. Adesso, invece, gli appariva nell’oscurità della notte nella sua mera essenza.
In un certo senso, era quasi una visione deludente.
Nonostante la stanchezza del momento, Jūzō si era sforzato di racimolare le ultime forze che gli erano rimaste per accennare un sorriso in direzione di Ayato. Aveva cercato di spiare le reazioni del ragazzo, durante la propria esibizione e notare il suo sorriso era stato molto incoraggiante.
A Jūzō non sarebbe dispiaciuto poter scambiare qualche parola con quel misterioso ragazzo… non aveva mai nessuno con cui chiacchierare, in fondo: la gente vedeva bene di tenersi alla larga da lui, forse reputandolo troppo strano.
Provò a muovere la mano in un gesto di saluto in direzione del giovane dai capelli bluastri, rimanendo tuttavia deluso. Ayato non accennò minimamente ad avvicinarsi a lui, voltandosi di scatto e procedendo per la sua strada senza incertezze, non voltandosi mai.
Subito il sorriso morì sulle labbra di Jūzō: per un momento troppo lungo aveva osato sperare che il ragazzo sarebbe andato da lui e l’avrebbe salutato, complimentandosi vivamente per lo spettacolo.
Però non lo aveva fatto.
L’albino sospirò mestamente, spostando lo sguardo verso il cielo buio. Avrebbe dovuto aspettarselo, chi mai avrebbe potuto trarre piacere dal conversare con un reietto come lui? Oh, lungi da sé l’idea di commiserarsi, solo che, come al solito, si ritrovava lì a rimproverarsi un errore che aveva di nuovo ingenuamente commesso.
La speranza era un lusso che non poteva concedersi.

Al sorgere di un nuovo giorno, il sole trovò Ayato ben avvolto tra le lenzuola del suo letto, ma sveglio.
Il ragazzo non riusciva a darsi pace. Perché la sera precedente se ne era andato in quel modo? Superbia? O forse, più semplicemente, codardia?
Codardia, poi… continuava a chiedere cosa mai avesse potuto smuovere in lui un sentimento del genere. Lui che era abituato a infischiarsene degli altri, lui che non si era mai legato a nessuno… come poteva, adesso, divenire un codardo al cospetto di qualcuno di cui conosceva appena il nome?
Non aveva mai dovuto rendere conto a nessuno per quel che faceva e credeva che nemmeno adesso ci fosse motivo per cambiare la maniera in cui si approcciava alle persone. In fondo, perché mai sarebbe dovuto cambiare? Se lui era in un determinato modo, era giusto che le persone avessero ben presente fin da subito con chi avrebbero avuto a che fare, tanto per potersi rendere conto se fossero davvero interessati a quella conoscenza o meno.
Almeno così riceveva fin da subito la percezione di chi fosse davvero intenzionato a legarsi a lui o meno. O forse no? Chi desiderava trarlo in inganno avrebbe potuto farlo facilmente lo stesso, fingere di tenere a lui ma indossando abili maschere.
E di Jūzō, allora? Lo conosceva appena… cosa diavolo doveva pensarne?
Non si era mai fidato così di una persona, di primo acchito. Subito dopo averlo conosciuto, quel pomeriggio… cosa aveva provato? Non lo sapeva nemmeno lui.
Curiosità, certamente. D’altronde, trovandosi di fronte a qualcuno di così stravagante e differente rispetto a se stesso, sarebbe stato impossibile aspettarsi qualcosa di diverso. Anche ammirazione, però: era indubbiamente un ragazzo fuori dal comune, dall’indiscutibile talento, oltre ad avere come un’aura magnetica attorno a sé, che induceva gli occhi di tutti a voltarsi verso il suo corpo minuto ogni volta che attraversava una qualsivoglia strada.
Era sempre solare, pronto a donare a chiunque il suo sorriso, che manteneva ancora quel certo qualcosa di infantile, un velo leggero e fresco d’ingenuità. Inoltre, in un certo senso Ayato sapeva d’invidiarlo un po’: aveva una vita libera da tutti quei dogmi, nei quali invece lui era ormai abituato a vivere, sebbene con tutte le ristrettezze e le insoddisfazioni del caso.
Dannazione, dannazione…!
Ayato non era solito immergersi in quelle riflessioni pseudo-profonde, alla stessa stregua di una ragazzina in piena crisi ormonale. E detestava abbassarsi a fare una figura tanto ridicola, sul serio.
Scalciò via la coperta con furia, così che finisse miseramente dalla parte opposta del letto. Aveva bisogno di camminare, di schiarirsi un po’ le idee… e di un buon bourbon, forse.
   
Scherzo del destino? Coincidenza?
Neppure lui sapeva come chiamare quella situazione a dir poco assurda.
Aveva camminato a lungo, sotto il sole dei canyon, torrido già dalle prime ore del mattino, fino a non sentire più i piedi.
Le gambe andavano da sole, a briglia sciolta, senza che la mente riuscisse a concepire razionalmente lungo quale percorso si stesse avviando.
A dir la verità, non riusciva a concentrarsi proprio su un bel niente, nemmeno su quei fantomatici pensieri che tanto avrebbe voluto rendere meno gravosi, proprio grazie a quella passeggiata.
Invece no, niente da fare, sentiva sussurrare dentro di sé, quasi con un certo cipiglio soddisfatto e maligno, la propria coscienza.
Oh, che andasse al diavolo, anche quella! Adesso sentiva perfino le voci nella testa, perfetto.
Fatto sta che non riuscì a rendersi conto di dove stesse andando fino a che non ci si ritrovò davanti, anzi… dentro.
Mentre camminava fu costretto ad arrestarsi improvvisamente, visto che davanti a sé trovò un ostacolo piuttosto invalicabile a sbarrargli la strada.
Si sentì sbalzato all’indietro, come se all’improvviso si fosse ritrovato a dover nuotare immerso in un mare di gelatina. Una sensazione quantomai singolare, certamente.
Scosse un paio di volte la testa, cercando di risvegliarsi da quella sorta di stato ipnotico nel quale era caduto vittima, che lo portava ad avanzare senza sosta, cosicché nemmeno lui avesse il tempo di rendersi conto del luogo in cui si stava recando.
Si massaggiò appena una tempia, cercando di rilassare la parte colpita, ora tesa e dolorante.
O meglio, in realtà quello che sentiva non era un dolore così acuto… particolare che lo portò a riflettere sul fatto che, magari, la superficie che aveva urtato non era poi tanto dura.
Cercò di rimettere a fuoco ciò che lo circondava, anche se questo gli comportò qualche sforzo in più del dovuto. Strizzò le palpebre con decisione, e quello che trovò davanti a sé furono miriadi di bande verticali bianche e rosse.
Il tendone del circo?
Se di scherzo del destino o coincidenza che fosse Ayato non lo aveva capito, fatto sta che ritenne quel ‘caso’ piuttosto infausto.
Come era possibile, lui cercava di stare lontano da lì e il fato ce lo portava? Sempre che fosse giusto definirlo fato, certo… era ancora indeciso se si potesse parlare di malasorte o istinto, eppure nessuna delle due possibilità – chissà perché – sembrava incoraggiarlo più di tanto.
Sospirò, in modo vagamente mesto. Ormai era lì e l’unica cosa che potesse fare, che gli piacesse o meno, era darsi una mossa.
Come si suol dire, “quando si è in ballo, bisogna ballare”.
Ayato girò intorno al tendone, finché non individuò un’intercapedine tra due lembi del telo. Ne scostò piano uno, spiando appena da dietro di esso la scena che si presentava adesso davanti ai suoi occhi.
Incredibile ma vero, Jūzō era lì.
In quel momento, Ayato si sarebbe voluto dare ben volentieri un pugno in faccia: non era possibile che si trattasse di una semplice coincidenza, che avesse fatto tutta quella strada senza nemmeno rendersi conto di dove andava e che lui adesso fosse proprio in quel luogo, sotto il suo sguardo meravigliato.
Si stava allenando in un nuovo numero, che molto probabilmente aveva intenzione di sfoggiare nello spettacolo di quella sera: si muoveva – come al solito – in bilico, stavolta tuttavia si trovava su una palla multicolore, a spicchi verdi, gialli, rossi e blu, dalle notevoli dimensioni. I piedi si spostavano agili, come se sapessero già esattamente quali fossero le mosse giuste da utilizzare. Tra le mani teneva dei birilli di legno, che stava facendo roteare in senso circolare a mezz’aria.
In sostanza, il numero non era molto diverso da quello della sera precedente, se non che a variare erano i mezzi di esecuzione – la palla e i birilli, al posto del monociclo e le sferette.
Ayato si chiese se ci fossero delle differenze, magari quel grosso e variopinto pallone di plastica non consentiva la stessa stabilità di un monociclo… anche se, in tutta sincerità, credeva che non ci sarebbe stata poi molta differenza, poiché una persona che non era abituata a quel genere di cose – tipo lui, in effetti – sarebbe caduto da entrambi, mentre uno bravo come Jūzō, che lo faceva per mestiere, probabilmente non avrebbe avvertito grandi differenze tra i due casi.
Ultimamente rifletteva molto più spesso, valutò tra sé… e decise che, ovviamente, avrebbe fatto ricadere tutte le colpe di quell’inspiegabile evento su quel piccoletto dai capelli chiari, certo.
Era ancora beatamente perso tra i suoi pensieri, quando, dall’esterno del tendone, provenne un ruggito roboante, appartenente senza dubbio a un leone. Preso alla sprovvista, Ayato si ritrovò a sobbalzare sul posto.     A Jūzō invece, sfortunatamente, le cose andarono un po’ peggio: il rumore improvviso aveva finito irrimediabilmente per distrarlo, così che nemmeno si era accorto di aver messo un piede in fallo. Subito aveva perso l’equilibrio e tutti i suoi tentativi di ristabilirlo – compreso agitare spasmodicamente i piedi sulla superficie liscissime della palla – si erano rivelati mestamente vani; così, di lì a poco, il giocoliere era finito prono, il corpo disteso tutto lungo in terra.
«Ahi…» aveva commentato poco dopo, piuttosto dolorante e con la faccia ancora premuta contro il suolo.
Ayato, d’altro canto, si stava sforzando per non scoppiare a ridere: dopo che Jūzō era caduto, i birilli gli erano finiti uno dietro l’altro in testa, mentre la palla era rimbalzata verso l’alto, per poi cominciare a rotolare lungo tutta l’arena sabbiosa e circolare.
Alla fine, però, non era più riuscito a trattenersi, scoppiando in una risata sincera, dal tono forse un po’ profondo.
Si rese conto che era da parecchio tempo che non rideva così, genuinamente. Corrucciò le sopracciglia, cercando di calmare le risa. Era una situazione così inaspettata, non sapeva come approcciarsi con essa.
Nell’udire qualcuno ridere, nel frattempo, Jūzō aveva cercato di rimettersi su per bene, puntellando i palmi delle mani a terra. Cavolo, che figuraccia: lui era un giocoliere, non era cadere così scioccamente ciò in cui consistevano i suoi numeri. Non era un pagliaccio, quando si esibiva la gente rimaneva a bocca aperta, meravigliata, non rideva.
Era piuttosto l’istituzione del circo in sé che faceva ridere la gente. Ad ogni modo, quando si era accorto che l’altra persona presente sotto il tendone era Ayato gli era sfuggito un sorriso.
Lo aveva fatto ridere! Cielo, per poco non si era messo a saltellare per la contentezza.
Aveva quasi sofferto, la sera precedente, quando lo aveva visto andarsene senza nemmeno guardarlo, per poi ricordarsi che lui era noto a tutti per non provare dolore. Però era tornato, il che lo rendeva immensamente entusiasta. Vederlo tuttavia adesso così accigliato lo fece sentire quasi in dovere di farlo sorridere di nuovo: dopotutto, la sua risata era così melodiosa.
«Ahh, Ayato» aveva esclamato, chiudendo gli occhi ed esibendosi nel suo più ampio sorriso «buongiorno!»
Il ragazzo, ancora sulla soglia, sorrise incoraggiante.«Buongiorno a te, Jūzō» replicò, cominciando ad avvicinarsi a lui «serve una mano?»
«Oh, no, affatto!» si era affrettato a rispondere il diretto interessato, balzando subito in piedi, con l’unica conseguenza di ritrovarsi a incespicare maggiormente tra i suoi stessi passi e per poco non ritrovarsi a cadere di nuovo.
Che roba era quella? Vertigini? Forse non avrebbe dovuto rimettersi in piedi così frettolosamente…
Fortuna volle che, in un battito di ciglia, Ayato fosse al suo fianco, pronto a sorreggerlo.
Gli avvolse un braccio intorno alla vita e a quel gesto Jūzō sobbalzò appena, mentre avvertiva un accenno di rossore imporporargli le guance.
«Te l’avevo detto che ti serviva una mano» lo riprese Ayato, osservandolo con un certo cipiglio severo.
Per tutta risposta, ricevette una linguaccia da parte dell’artista.
Ayato roteò gli occhi, sentendosi vagamente esasperato. Alla fine però, sospirando profondamente si decise a precisare:«Ehi… a parte gli scherzi, stai bene?»
«Tutto a posto» mormorò Jūzō, in un sorriso forse un po’ troppo stanco «ho solo bisogno di riposo, credo.»
«Certo» consentì l’altro, stringendo un po’ di più la presa del braccio attorno ai fianchi del giovane «Ti accompagno fuori di qui, allora.»
«O–okay…» balbettò Jūzō, lasciandosi aiutare dall’altro, mentre con incedere un po’ zoppicante si avviava verso l’uscita del tendone.

«Sto bene, te l’ho detto» ripeté Jūzō, per quella che gli parve essere la milionesima volta.
Chino su una botte, piena fino all’orlo di acqua fresca e cristallina, ne raccolse tra le mani un po’ per l’ennesima volta, per poi portarsela al viso e strofinare quest’ultimo con vigore.
Sentì lentamente risvegliarsi i propri sensi, non aveva realizzato che potessero essere così intorpiditi. La sua unica preoccupazione, tuttavia, era un’altra. Percepiva lo sguardo penetrante di Ayato perfino in quella posizione, riusciva quasi a sentirlo trapassargli la schiena e immergersi nel suo corpo.
Come diavolo erano finiti in quella situazione? Ah, già: tutto perché era così incapace da non saper stare in piedi su una palla di gomma. Oh, bene.
Il ragazzo al suo fianco non sembrava possedere affatto la sua calma, anzi, non faceva che agitare i piedi sul posto e sbuffare sonoramente – e, sinceramente, Jūzō non lo invidiava affatto.
«Sembri un cavallo imbizzarrito» commentò ridacchiando, con evidente riferimento all’inquietudine dell’altro.
«Non stai affatto bene!» sbottò Ayato, sollevando le braccia verso il cielo in un impeto d’ira «Sei quasi svenuto, poco fa, non vedo come potresti stare bene!»
Jūzō alzò lo sguardo, le mani strette con decisione intorno al bordo della botte. Sospirò profondamente, come se stesse scacciando via un brutto pensiero. Una volta che sembrò aver sgomberato la propria mente, si voltò verso l’altro, poggiandogli le mani sulle spalle.
«Ayato» lo richiamò, cercando di rimanere quanto più serio la sua natura giocosa gli potesse concedere di essere «ascoltami. Sto bene, okay? Mi alleno tutti i giorni per gli spettacoli e questa non è certo la prima né tantomeno l’ultima volta che cado durante le prove. È normale che sia così. Però va tutto bene, te l’assicuro.»
Era buffo. Ayato era certamente un ragazzo dall’animo facilmente surriscaldabile, tuttavia preferiva sempre tenersi alla larga da situazioni in cui perdere la calma era cosa da poco: generalmente prediligeva piuttosto non tirare troppo la corda. Soprattutto, non era certamente sua abitudine preoccuparsi così tanto per qualcuno che aveva appena conosciuto, per non dire che non si interessava mai di ciò che succedeva alle persone che lo circondavano. Non gliene importava niente, semplicemente. Jūzō, al contrario, era sempre giocoso, nessuno lo prendeva mai sul serio – cosa che non succedeva neanche ai clown, volendo essere onesti – per questo era tanto difficile immaginarlo serio, come invece era in quel momento.
Probabilmente, nessuno dei due si era mai ritrovato in una situazione del genere, tanto paradossale da risultare nel complesso quasi poco credibile.
Non appena aveva sentito le dita ossute del ragazzo stringersi sulle sue spalle, Ayato aveva avvertito un brivido correre lungo tutta la sua schiena, sentendosi immensamente sciocco per questo.
Che gli succedeva? Perché sembrava essere divenuto all’improvviso incapace di controllare le proprie emozioni?
Chiuse per un attimo gli occhi, stringendo forte le palpebre. Doveva calmarsi… in fondo aveva ragione Jūzō, non era successo niente.
Smettila di fare la ragazzina e comportati da vero uomo, su.
«Okay» ammise, riaprendo gli occhi e annuendo appena.
Per un attimo fu quasi tentato di aggiungere uno ‘scusa’, magari sussurrato a mezza voce, tuttavia all’ultimo si decise a lasciar perdere, valutando che se aveva deciso davvero di comportarsi da uomo allora le scuse non sarebbero state necessarie.
E poi di cosa avrebbe dovuto scusarsi? Di essersi preoccupato per lui?
No, stava sbagliando di nuovo.
Da quando in qua convincersi che tutto stesse andando per il verso giusto era diventato così complicato?
Andava bene così, davvero. Doveva smetterla di preoccuparsi per certe cose inutili.
«Bene!» trillò Jūzō. Anche lui sembrava essere ritornato al suo solito atteggiamento, solare e sempre sorridente, con quel pizzico di infantilità, così opposto al carattere cupo e schivo di Ayato.
«Però promettimi che ti terrai per un po’ alla larga da quel tendone. Fa veramente caldo, là sotto, rischieresti di sentirti di nuovo male» aggiunse tuttavia Ayato, in un impeto di protezione. Maledizione, tanti bei discorsi per niente.
«E va bene» acconsentì  Jūzō, sentendosene quasi in dovere «ma allora adesso che faccio?»
«Vieni con me» gli propose prontamente Ayato «ci sarebbe proprio un posto dove vorrei portarti.»

Ayato si era incamminato lungo il campo sterrato, subito seguito da Jūzō, che a quanto pareva non faticava affatto nel procedere con il suo stesso passo. Mentre avanzavano, piccole nuvolette di polvere si alzavano da sotto i loro piedi, assumendo un’apparenza piuttosto soffice.
Non appena avevano cominciato a camminare, Jūzō si era quasi sentito intimorito: poiché non aveva avvertito il direttore che si sarebbe allontanato, temeva infatti che quest’ultimo potesse infuriarsi con lui quando sarebbe tornato; ben presto tuttavia aveva abbandonato quei timori, pensando che piuttosto che rimanere ad allenarsi avrebbe preferito di gran lunga fare due passi insieme ad Ayato.
Trovava che il giovane fosse quanto di più vicino ad un amico avesse mai avuto in vita sua: ritrovandosi a dover spostarsi di continuo, aveva sempre cercato di non dover mai legarsi a nessuno, così che poi né lui né un suo eventuale amico avrebbero dovuto patire per la separazione al momento della partenza. In fondo, quella era la vita di Jūzō: lavorando con una compagnia circense, sapeva che dopo un determinato periodo di tempo si sarebbero spostati di nuovo, per questo era anche inutile cercare di stabilire dei legami che tanto, presto o tardi, non avrebbero fatto altro che spezzarsi, una volta che lui fosse ripartito con la compagnia.
Di abbandonare il circo pur di avere degli amici non se ne parlava: quella era la sua vita, Jūzō non riusciva a figurarsi una vita che non comprendesse quel lavoro, giacché era perfettamente conscio di essere bravo, di riuscire – e anche bene – in quel che faceva. Pertanto, perché mai avrebbe dovuto rivoluzionare in un tal modo la sua vita, se le sue attuali abitudini avevano più lati positivi che negativi?
In fin dei conti, se era sempre così solo un po’ se l’era anche cercata: non aveva mai palesato prima di allora la volontà di affezionarsi a un singolo essere umano, semplicemente perché mai ne aveva sentito la necessità.
Con Ayato, invece, era stato tutto diverso: anzitutto si trattava di qualcosa che era capitato, nessuno dei due aveva cercato quel legame con intenzioni specifiche, era successo così, punto e basta. Certo, erano ancora ben lontani dal potersi definire amici, piuttosto sarebbe stato più corretto parlar di loro come ‘due anime sole, che nel tumulto del mondo avevano finito per incontrarsi, trovandosi per tutto ciò che avevano in comune e ciò che invece non condividevano’.
Perché sì, ad una prima occhiata potevano sembrare quanto di più diverso l’uno dall’altro, eppure anche loro avevano dei punti d’incontro, a partire proprio dal fatto che fossero entrambi soli al mondo, oppure per via della loro passione per i viaggi perché, alla fine, per quanto due persone possano essere differenti tra loro, non potranno andare mai e poi mai d’accordo, se non hanno nemmeno qualcosa in comune.
Jūzō lanciò un’occhiata fugace al ragazzo accanto a sé: si guardava intorno con aria sicura, osservando i carri della compagnia e lo steccato che avevano approntato per i cavalli.
«Un lavoro notevole, se penso che è stato tutto sistemato in poche ore» valutò il ragazzo del luogo, con una certa punta di ammirazione nella voce «forza dell’abitudine?»
«Anche» Jūzō fece una ruota, poggiando stabilmente le mani sul suolo rovente, per poi tirarsi di nuovo su prima di continuare «ma anche gioco di squadra. Il circo stesso è tutto un gran lavoro di gruppo: ‘se anche solo un membro della compagnia non presta il proprio contributo, il meccanismo non funziona a dovere, come una macchina non oliata’. O almeno, questo è quanto dice il nostro direttore.»
«Ahh» commentò Ayato, ironico «in effetti mi sembrava strano che delle parole del genere potessero venire da te.»
Jūzō sogghignò senza malizia, bensì solo di genuina ingenuità, affrettandosi a provocarlo:«Cosa c’è, non mi ritieni forse all’altezza di certi pensieri profondi?»
«No, affatto» rispose l’altro, sorridendo trionfante notando di essere riuscito per una volta l’espressione perennemente ilare dal volto del giocoliere «piuttosto non trovo che siano parole che possano essere uscite dalla tua bocca. D’accordo, potrò anche conoscerti da poco, tuttavia non mi sembri affatto un esperto di ingranaggi, oliature di meccanismi e quant’altro.»
Gli angoli delle labbra dell’albino tornarono a incurvarsi all’insù, mentre quest’ultimo si lasciava sfuggire un sospiro di sollievo.
«Per fortuna» commentò infatti «allora forse non sono messo poi così male.»
Ayato sorrise, senza però aggiungere altro.
Man mano che parlavano, non avevano smesso di camminare, lasciandosi alle spalle la compagnia e ritrovandosi invece ora sempre più tra le rocce dei canyon, tanto che Jūzō procedeva ormai con la punta del naso sempre rivolta verso l’alto. Ayato non riusciva a staccare gli occhi dal volto dell’altro, che in quella posizione trovava ancor più curioso del solito.
No, no, si rimproverò il ragazzo dai capelli bluastri, costringendosi a spostare lo sguardo altrove. Si era detto che avrebbe smesso di essere debole, d’altronde, no?
Cercò di concentrarsi piuttosto sulle meraviglie naturali che lo circondavano: era da parecchio tempo che non si recava presso i canyon, eppure la loro magnificenza era sempre immutabile nel tempo, picchi e strapiombi rocciosi parevano a tratti persino capaci di soffocarlo, tanto erano imponenti.
A volte si dimenticava delle bellezze naturali del luogo in cui abitava; grazie al cielo, ora ce le aveva proprio davanti agli occhi – che il merito fosse di Jūzō era secondario.
O forse non era poi così secondario. Non del tutto, perlomeno.
Di certo, non poteva negare a se stesso che, fin dal suo arrivo, quel ragazzino gracile e minuto avesse letteralmente rivoluzionato la sua vita, portando Ayato a mettere in discussione aspetti della propria esistenza che mai e poi mai avrebbe immaginato di dover rivalutare.
Il ragazzo dai capelli bluastri sospirò, chiudendo per un momento gli occhi, c’era così tanta pace lì, sarebbero potuti rimanerci per sempre, soltanto lui e Jūzō. Diede un calcio nella polvere, colpendo dei sassi. Rimase in attesa di sentirli rimbalzare al suolo, senza però mai percepire il rumore desiderato.
Uno. Due. Tre.
Ayato aprì di scatto gli occhi, fermando Jūzō prima che potesse avvenire l’inevitabile.
«Attento!» lo mise in guardia, afferrandolo di scatto per un braccio.
Lo attirò subitò verso di sì, terrorizzato al pensiero che, se solo avesse indugiato anche solo per un altro attimo sarebbe potuto essere stato troppo tardi per entrambi.
Jūzō si ritrovò d’improvviso a piroettare verso Ayato che, al contatto improvviso con il suo corpo, non seppe reggere l’impatto e si ritrovò a cadere all’indietro, atterrando al suolo.
Jūzō gli precipitò addosso, finendo tra le sue braccia.
“Almeno qualcuno è finito contro qualcosa di più morbido della roccia dura, spigolosa e rovente” valutò tra sé Ayato.
Lanciò uno sguardo a Jūzō e dovette impegnarsi per sopprimere l’istinto di strangolarlo: il ragazzo infatti aveva gli occhi chiusi, pertanto se Ayato non avesse lanciato quei sassi si sarebbero ritrovati con ogni probabilità a caracollare giù per quel dirupo.
«Perché hai gli occhi chiusi?!» sbottò, irato.
Jūzō sollevò subito le palpebre, replicando prontamente:«Perché li avevi chiusi anche tu! Sei stato tu a propormi di fare un giro, pensavo che sapessi dove mi stavi portando».
Ayato alzò gli occhi al cielo, sbuffando sonoramente, così da ricordare di nuovo a Jūzō un cavallo piuttosto infuriato. Poco dopo tuttavia il giocoliere si sentì afferrare per i fianchi, mentre l’altro gli faceva ruotare il busto; ben presto Jūzō si ritrovò davanti lo spettacolo di uno dei canyon più profondi che avesse mai visto in vita sua – no, in realtà quello era proprio il primo in assoluto che vedeva.
Capì ben presto tuttavia che non era la veduta spettacolare del paesaggio ciò che Ayato desiderava mostrargli: sotto di loro, infatti, si estendeva un dirupo alto diverse centinaia di metri.
In pratica, se Ayato non se ne fosse accorto, sarebbero finiti entrambi con il cranio frantumato diverse miglia più in basso.
«D’accordo, ho capito, ci hai salvato la vita» ammise Jūzō «però adesso non aspettarti da me riconoscenza eterna o roba del genere, okay?»
«In realtà non era a quello che miravo» puntualizzò Ayato di rimando «anche perché, se devo essere sincero, mi aspettavo già che non mi avresti rivolto alcun segno di gratitudine.»
«E allora quale sarebbe il punto?» sbottò l’albino, lasciandosi sfuggire un sospiro profondo.
«Forse solo metterti davanti alla realtà dei fatti» replicò Ayato, stavolta lasciando spiazzato Jūzō.
Il ragazzo dagli occhi rubizzi tornò a voltarsi verso le rocce davanti a loro, la fronte e l’espressione tutta corrucciata. D’accordo, non avrebbe dovuto chiudere gli occhi, dopotutto era stato Ayato a invitarlo a fare quei quattro passi e di certo quest’ultimo non gli aveva mai detto di abbassare le palpebre.
E va bene, forse –ma solo forse– il suo era stato un gesto un po’ incosciente, anche se non gli riusciva proprio facile ammetterlo.
Solo che… perché lo aveva fatto?
L’unica risposta plausibile che al momento gli sovveniva alla mente era che lui si fidasse di Ayato.
Che cosa? Lui si fidava di qualcuno?
E da quando in qua succedeva una cosa del genere, visto che non si era mai comportato così con nessuno prima di allora?
La verità era che stava cercando di fidarsi di Ayato: cercare di avere un amico implicava anche il fatto che dovessi riporre le proprie aspettative in qualcun altro che non fosse se stessi, a quanto pareva.
«Forse sto cercando di fidarmi di te così tanto da metterti in mano la mia vita anche quando cammini ad occhi chiusi» ammise Jūzō, lasciandosi un sorriso limpido come acqua di fonte.
A quell’affermazione, Ayato si ritrovò a ridacchiare sommessamente, mentre con una mano arruffava i capelli dell’altro.
«Ecco, ci voleva così tanto?» commentò ironico, facendo scoppiare a ridere anche lo stesso Jūzō.
«La fai troppo complicata!» l’ammonì l’altro, strizzando gli occhi nel vano tentativo di riuscire a smettere di ridere.
Ayato poggiò la testa sulla spalla di Jūzō, sorridendo di sottecchi. Si sentiva così in pace, in quel momento.
Sentì la propria mente svuotarsi, i pensieri di colpo tacersi tutti insieme… e fu come essere liberi, dopo un tempo che gli era parso infinito.
Soffiava una brezza leggera ma egualmente torrida, mentre un avvoltoio sorvolava la valle di polvere, rovi e cactus.
«Vuoi tornare indietro?» si costrinse a chiedere a Jūzō Ayato, sebbene lui stesso riuscisse a percepire l’incertezza nella propria voce.
«No. Non ancora, perlomeno. Mi piace stare qui» ammise il giocoliere, sorprendendo l’altro e non poco.
Rimasero seduti su quello sperone di roccia fino a perdere la cognizione del tempo, che scorreva intorno a loro senza nemmeno che i due ragazzi avessero la possibilità di accorgersi di ciò. Quando il sole guadagnò esattamente il centro del cielo e si posizionò a sud, segnando la venuta del mezzodì, ogni cosa intorno a loro era diventata così insopportabilmente calda che i giovani furono  costretti ad andarsene, sebbene non per loro spontanea volontà.
Camminarono a ritroso lungo la strada percorsa precedentemente all’andata. Di tanto in tanto, Jūzō si voltava a lanciare qualche sguardo di sottecchi al ragazzo di fianco a sé.
Gli venne incredibilmente spontaneo allungare la propria mano verso quella di Ayato, per poi stringerle lievemente tra loro. Accorgendosi di quel gesto, il giovane dai capelli bluastri si voltò subito verso l’altro, fissandolo con un’evidente espressione interrogativa dipinta in volto.
Da Jūzō, tuttavia, ricevette in risposta solo un sorriso di straordinaria ampiezza; era così coinvolgente che, dal canto suo, Ayato non poté che rivolgergliene uno a sua volta, lieve.
Sotto la luce di quel sole cocente, Ayato si accorse di una cosa che non aveva mai notato fino a quel momento: la pelle candida di Jūzō era percorsa da del sottile filo rosso in più punti, molti dei quali erano coperti dagli abiti del giovane. Era una delle più curiose bizzarrie in cui si fosse imbattuto nella sua vita – inutile dire che gran parte di quelle stranezze fossero da attribuire proprio a Jūzō.
In un moto di curiosità, così estranea a sé, che non seppe mettere a tacere, non riuscì a non chiedere al giovane:«Cos’è quello?»
«Uhm?» Jūzō si era voltato subito verso di lui, convinto di avere una tarantola velenosa o chissà cos’altro addosso, tuttavia seguendo la direzione dello sguardo di Ayato, si era reso conto ben presto che il giovane stava osservando le sue cuciture.
«Ohh, queste dici?» aveva domandato infatti, accarezzandosi con nonchalance un braccio, ricco di punti di sutura rossi «Sono cuciture. Spesso, durante le prove per gli spettacoli, come tu stesso hai potuto vedere poco fa, mi capita di infortunarmi. In caso di ferite un po’ più gravi, non c’è niente che un po’ di filo e un buon ago cauterizzato non possano mettere a posto».
Ayato fissò a dir poco sbigottito il ragazzo accanto a sé; quando fu di nuovo sul punto di parlare, fu ancora una volta Jūzō a riprendere il discorso.
«Stai per dirmi che questa è una cosa che fa parecchio male, vero?» lo aveva anticipato infatti, togliendo letteralmente le parole di bocca ad Ayato «Beh, la verità è che a me non fa affatto male, non percepisco il dolore. Forse è solo questione di abitudine, non so; ad ogni modo, ho imparato piuttosto in fretta che la compagnia con cui viaggio non è dotata di chissà quali ricchezze –come la maggior parte delle compagnie circensi, d’altronde. Perciò, se vuoi rimanere a bordo e non essere buttato giù da un carro in corsa, ti conviene stare zitto e arrangiarti, senza lamentarti. Così, ognuno si arrangia nel modo che può e questo è il mio, ecco».
Ayato era rimasto in silenzio, completamente zittito dalle parole dell’altro: per quanto certamente i metodi di medicazione dell’altro potessero apparirgli cruenti, non poteva controbattere in alcun modo. Quello era il modo in cui Jūzō era cresciuto, tra povertà e spirito di sopravvivenza, mentre lui aveva sempre avuto ogni genere di agio, medicinali, pasti caldi, un letto in cui dormire e una casa dove abitare. Jūzō nemmeno ce l’aveva, una casa; non che fosse colpa sua, ovviamente: la sorte ci mette davanti alla nostra via e da lì, poi, ognuno ha la propria strada da percorrere. Se a Jūzō era capitato quel destino, di certo nessuno di loro due poteva farci niente.
Forse doveva fare come il giocoliere, arrendersi all’evidenza e accettare la realtà dei fatti così com’era.
Peccato che Ayato non fosse mai stato un tipo arrendevole.



Il tempo, quale sorprendente e affascinante creatura. Ha un modo di scorrere davvero singolare: quando ci si annoia, o si è immersi sempre nella stessa, monotona routine, sembra sabbia che si è sedimentata sulle pareti di una clessidra, senza più scivolare dalla parte opposta; se invece ci si sta divertendo, oppure in compagnia di persone apprezzabili, allora inizia – malignamente – a correre, neanche ci fosse del vento di bora a sospingerlo, con la sua tipica impetuosa insistenza.
Questo era all’incirca, secondo il modestissimo parere di Ayato, ciò che sembrava stesse accadendo nella propria vita.
Per anni era rimasto a fissare con espressione statica gli orologi sparsi in giro un po’ per tutto il suo villaggio – nel soggiorno della propria casa, sul campanile della chiesa, dietro il bancone della drogheria – nell’attesa che accadesse qualcosa di esaltante, pronto a irrompere con violenza nel suo quieto vivere per sconvolgerlo completamente.
In effetti, finalmente qualcosa del genere era successo sul serio: con tutto lo scalpore che aveva generato l’arrivo del circo nelle vicinanze, non poteva di certo negare che le proprie abitudini, come d’altronde quelle di tutta la cittadinanza, fossero radicalmente cambiate.
Capitava frequentemente che la popolazione locale si recasse ad assistere agli spettacoli serali. Ayato, ovviamente – o forse sarebbe più corretto dire scioccamente – non se ne perdeva nemmeno uno. Cercava di sedersi sempre in una delle ultime file, per non dare troppo nell’occhio, su quelle vecchie panche di legno cigolante e traballante.
Jūzō lo sorprendeva sempre, esibendosi in numeri sempre più complessi. Quando era davanti al pubblico, sembrava ancor più estroverso del solito: le sue esibizioni non fallivano mai, diversamente che in prova, inoltre quel sorriso luminoso riusciva sempre a stregare tutti – e in modo particolare Ayato.
In effetti, Jūzō gli aveva spiegato la sua contorta teoria, una volta, secondo la quale le cadute delle prove erano, per così dire, ‘preparatorie’: sosteneva infatti che tutti gli artisti – o meglio, tutte le persone dotate di raziocinio – imparassero dai propri errori, pertanto cadere nelle prove lo aiutava a comprendere quali fossero le mosse da non ripetere, così da garantirsi la stabilità durante gli spettacoli.
Ayato non era propriamente d’accordo con quei metodi, tuttavia Jūzō aveva ben pensato di ignorarlo bellamente; così continuava a nascondere ferite ed ematomi sotto strati e strati dei suoi vestiti troppo grandi, un po’ di cipria dove serviva, il solito sorriso accattivante e voilà, il gioco era fatto. La magia del circo era anche quella, aveva detto una volta a un Ayato piuttosto infuriato: lo spettacolo andava avanti, nonostante tutto.
In tutto ciò, il tempo continuava a scorrere sempre più velocemente, prendendosi beffa di loro. Così, prima che potessero accorgersene, erano già giunti alla metà del mese che la compagnia si era riservata di rimanere lì.
Ayato continuava a non perdersi nemmeno uno spettacolo – per quanto buona parte delle esibizioni, tranne quella di Jūzō e poche altre, rimanessero sempre monotonamente invariate – così, con il passare del tempo, lui e Jūzō avevano cominciato ad adottare come abitudine quella di incontrarsi ogni sera, dopo lo spettacolo, per fare quattro passi insieme e chiacchierare un po’.
«Ormai questo circo si basa quasi esclusivamente sulle tue finanze» commentò Jūzō, indicando il torso di una pannocchia che Ayato aveva spolpato mentre assisteva allo spettacolo di quella sera.
Il diretto interessato aveva sbuffato sonoramente, facendo ridacchiare il giocoliere, per poi affrettarsi a replicare:«Hey, che ci posso fare io se il cibo da bancarella è sempre così tremendamente delizioso?!»
Quell’affermazione non aveva fatto altro che far aumentare le risate di Jūzō, che aveva colpito scherzosamente la spalla dell’altro, mentre continuavano a camminare beatamente.
Ogni sera si recavano presso degli olmi, poco distanti dalle tende – costituite da pelli di vari animali – dove dormivano i membri della compagnia. Là, avvolti nel buio e protetti dalle folte fronde di quegli alberi, sembrava loro di essere assolutamente invincibili.
Al sopraggiungere delle tenebre calava sempre un venticello fresco, ristoratore delle fatiche compiute nell’arsura del giorno; in quei momenti, sembrava che ogni cosa fosse possibile.
Una volta giunti a destinazione, Jūzō si era messo a saltellare, le braccia tese verso l’alto, nel tentativo di afferrare uno dei rami più bassi, che sapeva per esperienza essere abbastanza resistente da sorreggere il suo esile peso; quando vi era riuscito, non aveva esitato oltre a lasciar dondolare le proprie gambe all’indietro, rimanendo sospeso a mezz’aria.
Ayato, dal canto suo, s’era invece fatto d’improvviso più taciturno. Forse, ragionò Jūzō, era stato rapito dai suoi soliti mille pensieri, così ecco che ora vi stava sprofondando sempre di più. Beh, non aveva tutti i torti: l’aria mite e pacata, indulgente quasi, della sera, era un ottimo stimolo alla riflessione, tanto che quasi la induceva.
Di solito, arrivati a quel punto, Jūzō ne approfittava sempre per chiedere all’altro come fosse andata, a suo giudizio, la propria esibizione, durante lo spettacolo della sera. Solo che, in quell’occasione, il giocoliere non riusciva a convincersi a parlare: magari Ayato stava vivendo un momento tutto suo, pertanto non sapeva se parlandogli o, più in generale, interrompendolo nei suoi ragionamenti, avrebbe potuto urtare la sua sensibilità.
Che strano: Jūzō non era mai stato solito occuparsi di quei pensieri. Non che fosse così totalmente privo di sensibilità, solo che, in effetti,  i sentimenti altrui erano qualcosa di cui non si era mai occupato, perlomeno non prima di allora.
Sorprendentemente, tuttavia, Ayato lo stupì ancora una volta, prendendo parola di sua spontanea iniziativa.
«Sei stato stupefacente, stasera. Magistrale, sul serio» aveva commentato, con una convinzione invidiabile.
Certo, Ayato non era affatto uno di quei ragazzi che se ne stanno in un angolo, tutti sulle loro. Al contrario: Jūzō aveva imparato in brevissimo tempo quanto fosse irritabile, scontroso, irascibile, riottoso e perennemente nervoso. Aveva più giornate no che sì, inutile negarlo; insomma, con un caratterino del genere era impossibile non notarlo.
Più che altro, ciò di cui Jūzō non riusciva proprio a capacitarsi era il fatto che Ayato non fosse un tipo dai facili sentimentalismi – anzi, li odiava, letteralmente.
Ecco perché, adesso, non riuscisse proprio a comprendere quell’uscita del ragazzo.
«Ohh» aveva infatti gongolato Jūzō, di lì a poco «non immaginavo che fossi un tipo che si lascia andare facilmente ai complimenti!»
Con una breve rincorsa e spiccando un buon salto, Jūzō era riuscito ad atterrare seduto sul ramo, con una lieve torsione del busto.
“Gliel’avevo detto che secondo me doveva fare il funambolo” valutò tra sé Ayato.
Nel frattempo, Jūzō aveva reclinato il torace all’indietro, mettendosi a dondolare a mezz’aria, con la testa all’ingiù. Mossa decisamente pericolosa e sconsiderata, certo, peccato che a lui sembrava riuscire alla perfezione.
«In effetti no, non sono affatto un tipo dal facile plauso» aveva ammesso poco dopo Ayato «diciamo però che, quando qualcuno si merita sul serio degli elogi, non esito due volte a farglieli».
Era vero, quella sera si sentiva particolarmente ben più strano del solito, ecco perché era rimasto in silenzio a quel modo; oltretutto, gli occhi rossi come sangue liquido di Jūzō non facevano che mandarlo – per un motivo che non riusciva a spiegarsi nemmeno lui – ancor più in confusione.
Chissà, magari era tutta colpa della brezza leggera notturna, oppure di qualcosa di strano che aveva bevuto – anche se riteneva quest’ultima possibilità fortemente improbabile, visto che l’ultima cosa che ricordasse di aver bevuto era un’aranciata fortemente analcolica.
Tuttavia, nonostante tutto, ad Ayato sembrava che quella sera avesse qualcosa di diverso da tutte le altre, dal modo in cui il vento gli faceva ondeggiare i vestiti sulla pelle, fino ad arrivare all’odore dolciastro che velava l’aria, dal momento che quella sera sembrava essere ben più intenso del solito.
Non riusciva a distogliere lo sguardo da Jūzō, da quel suo corpo riverso in una posizione tanto innaturale e da quei suoi occhi rossi. Si era concentrato sul viso, chiedendosi se al tatto fosse morbido come velluto – giacché così gli appariva – e osservando intensamente le sue labbra sottili, quasi trasparenti, di un rosa pesca velato. Non riusciva a fare a meno di domandarsi se avessero lo stesso sapore dello zucchero filato, che offrivano alle bancarelle all’ingresso del circo, oppure dei lecca-lecca che tanto Jūzō sembrava amare.
Aveva avvicinato una mano verso il volto del giocoliere, accarezzando lievemente una guancia, che aveva scoperto essere effettivamente di una stupefacente morbidezza; subito, a quel lieve contatto, la parte sfiorata era arrossita di sorpresa, forse imbarazzo.
Data l’altezza – piuttosto considerabile – del ramo su cui Jūzō era seduto e quei pochi centimetri in più che Ayato aveva sull’altro giovane, in quel momento si trovavano con le facce a poca distanza l’una dall’altra, le labbra che per la prima volta si trovavano sullo stesso piano.
Si dice che, prima di un momento cruciale nella vita, per un attimo davanti ai nostri occhi cali un velo d’oscurità, oltre il quale non abbiamo nessuna possibilità di vedere; in effetti, in quell’istante non vide altro che buio, tanto che all’inizio temette di essere sul punto di svenire.
Poi, come al solito quando doveva prendere una decisione importante, lasciò che fosse il proprio famigerato istinto a guidarlo: chiuse gli occhi per una frazione di secondo e cercò di svuotare la mente da ogni pensiero; d’impulso sentì il suo corpo muoversi in avanti, così, una volta che ebbe sollevato nuovamente le palpebre, si rese conto del perché.
In realtà ebbe bisogno di qualche secondo per mettere a fuoco ogni cosa. Quello di cui era stato certo fin da subito, quando ancora i suoi occhi erano beatamente chiusi, era il fatto che le sue labbra fossero ora premute contro qualcosa di morbido, soave, nel suo essere tanto semplice di una sensazionale dolcezza.
Zucchero filato, in effetti. Dello stesso dolce sapore, odore e colore – rosa lieve – delle labbra di Jūzō, contro le quali ora si trovava.
Se fosse stato il ragazzo a baciarlo, probabilmente, si sarebbe distaccato senza troppe cerimonie, per nulla invaso dalle preoccupazioni di aver ferito i sentimenti dell’altro, giusto per preservare quel minimo di orgoglio che gli rimaneva e non vedersi costretto, al contrario, a dover ammettere che, in fondo, era piaciuto anche a lui.
Però la situazione era diversa. Era stato Ayato a baciarlo, non certo  Jūzō. Istinto o meno, la situazione era quella, non c’era modo di rivoltarla.
Sulle labbra di Jūzō salì un mugolio leggero, che più che di disgusto sembrava essere di piacere.
«Shh» lo zittì Ayato, leccandogli le labbra e stringendogli intensamente i capelli con una mano «non dirmi che non ti piace».
Jūzō aveva socchiuso gli occhi, lasciando ad Ayato facile interpretazione di quell’espressione rapita dalla voluttà, così il giovane aveva ripreso a baciarlo, senza indugiare oltre, le labbra del giocoliere che cercavano di imitare e assecondare i movimenti impazienti dell’altro.
Era come assistere alla nascita di una stella, pensò tra sé Jūzō, i sensi totalmente rapiti da quelle scariche di passione: una luce chiara che di colpo diviene sempre più forte, fino al punto in cui esplode, in una miriade di piccole scintille.


Dopo quella volta, la loro ‘tradizione’ variò non poco: tutte le sere, infatti, continuavano ad incontrarsi sotto quell’olmo dopo ogni spettacolo, solo che non era parlare la loro attività principale.
Ogni scusa, ogni momento di vuoto, ogni attimo in cui per qualsiasi ragione rimanevano da soli, era buona per cercarsi e trovarsi, labbra che sera dopo sera diventavano più audaci, sapevano esattamente dove andare a soffermarsi per scaturire eccitazione o dolore, a loro piacimento.
Non era sadismo, quello, quanto piuttosto una naturale attrazione fisica, che li portava – in un certo qual modo – a ‘studiarsi’ vicendevolmente.
E se le mani di Ayato scivolavano di tanto in tanto sotto la sua camicia candida, sul suo torace esile, Jūzō lo lasciava fare lo stesso, le gote che s’imporporavano per quell’improvviso contatto più approfondito.
Ad ogni modo, non erano mai andati oltre  quello. E forse sì, Jūzō aveva paura che Ayato lo trovasse ripugnante o qualcosa del genere – oppure, molto più semplicemente, aveva paura che lo avrebbe lasciato dopo essere andato a letto con lui e quella era l’ultima cosa al mondo che Jūzō desiderava, sul serio.
Perché , per quanto assurdo potesse sembrare, lui che non aveva mai provato nessun genere di sentimento per un qualsiasi essere umano prima di allora, adesso sentiva di essersi irrimediabilmente innamorato di Ayato.
Come si fa a capire se si è innamorati, quando non hai mai provato un’emozione tanto forte in vita tua?
Beh… amare è qualcosa che succede, non la puoi comandare con la bacchetta magica. Arriva sempre quando meno te l’aspetti, mentre sei tutto concentrato su ciò che fai per vivere, talmente tanto da non avere più la percezione del mondo che scorre intorno a te. Ed è vero quel luogo comune sulle ‘farfalle nello stomaco’, perché ogni volta che Jūzō vedeva Ayato sentiva il fruscio di mille battiti d’ali, dentro di sé.
Dormire era diventata un’impresa, non faceva che pensare a lui – ecco perché poi alle prove era sempre così fiacco, anche se alla fine le sue esibizioni non ne avevano risentito più di tanto, visto che s’impegnava ad essere sempre perfetto per non deludere Ayato. E se non lo vedeva nei suoi sogni, allora restava sveglio per ore ed ore, intento a fissare l’apice della sua tenda, i pensieri che inesorabilmente volavano al ragazzo dai capelli bluastri.
Sentiva di riuscire ad esprimere se stesso solo quando era con lui, nei momenti in cui Ayato lo teneva ben stretto tra le sue braccia e sembrava quasi che non lo volesse lasciare più. Allora Jūzō si sentiva incredibilmente protetto, come se finalmente avesse trovato il suo posto nell’universo, una cometa che dopo milioni di anni esaurisce finalmente il suo giro.
Ed era tutto perfetto, davvero.
Ayato, dal canto suo, trovava in Jūzō una fonte di sollievo ineguagliabile. Per anni aveva dovuto soffocare una parte di sé, certo che mai nessuno l’avrebbe accettata; con l’arrivo del giovane giocoliere, tuttavia, ogni cosa era cambiata, visto che insieme a lui riusciva a sentirsi libero, finalmente.
Contemporaneamente al sopraggiungere di quel senso di sollievo, tuttavia, anche i vecchi fantasmi erano tornati a tormentarlo: se da una parte era lieto di essere con Jūzō, dall’altra viveva nell’incessante timore che qualcuno potesse vederli, in quelle notti trascorse avvinghiati l’uno all’altro, con le schiene che strofinavano contro la corteccia dell’albero.
L’idea che uno dei suoi paesani scoprisse che era solito riservare quel genere di attenzioni ad una persona del suo stesso sesso, oltretutto uno dei gitani arrivati in paese con la compagnia del circo, lo infastidiva non poco. Ayato non ci avrebbe messo due minuti a buttare ogni riguardo all’aria, se solo fosse stato certo che questo non avrebbe in alcun modo le cose.
In una grande città la cosa non avrebbe fatto scalpore, lì invece sarebbe volata di bocca in bocca e addio onorata reputazione che aveva faticato a costruirsi in tutti quegli anni.
E non non si sarebbe fatto tutti quei problemi, se solo la partenza del circo fosse stata più lontana.
Qualora Jūzō fosse rimasto con lui, Ayato non si sarebbe preoccupato così tanto di quella situazione: con lui al suo fianco ogni difficoltà sarebbe stata un gioco da ragazzi, assolutamente. Tuttavia dubitava che Jūzō avrebbe acconsentito a lasciare il circo pur di rimanere con lui: era pur sempre la sua casa, quella.
Doveva comunque tentare: se ci fosse stata anche solo una possibilità di convincere Jūzō a rimanere con sé, lui l’avrebbe trovata, ne era certo.
Spostò le labbra sul collo del giocoliere, disegnando una scia umida e piacevole, su quella pelle che sapeva fosse sempre più martoriata dalle prove durissime.
Perché continuare a martoriarti così, Jūzō? Perché non preferisci rimanere a vivere con me, in pace e tranquillità, per sempre?
«Domani partiamo per Portland» la voce di Jūzō gli giunge alle orecchie bassa, ovattata, come se il rumore fosse attutito da batuffoli di cotone, posti a decorare gli angoli delle labbra morbide e vellutate del ragazzo.
Per Ayato fu come una doccia fredda, un fulmine a ciel sereno che lo aveva colpito direttamente al petto: d’accordo, sapeva che la loro partenza sarebbe stata imminente, tuttavia non si aspettava che fosse così vicina. Oltretutto preferiva non tenere il conto dei giorni – temeva che se lo avesse fatto ogni momento passato con Jūzō gli sarebbe sembrato irrimediabilmente artificioso – e quando era con lui perdeva la cognizione d’ogni cosa, compreso ovviamente lo scorrere del tempo. Forse perché, in fondo, era ciò che desiderava, perdersi con Jūzō in un vortice senza tempo e senza spazio, da cui nessuno dei due potesse uscire e dove ogni preoccupazione era vana. Un mondo tutto loro, come due innamorati che si rispettino, insomma.
«Come?» aveva domandato infatti, allontanando le labbra dal suo collo e sollevando lo sguardo, per poterlo fissare negli occhi.
Jūzō notò subito quanto fosse sbiancato, sebbene intorno a loro la notte fosse buia come non mai.
«Sai perfettamente di cosa parlo, Ayato» aveva ribattuto, passandosi una mano tra i capelli con aria frustrata.
Il diretto interessato lo aveva osservato, occhi blu scuri quanto quella stessa notte che si tuffavano in quel mare rosso sangue, nel quale – adesso come sempre – sarebbe voluto ben volentieri sprofondare. Sì, lui, quello dall’irremovibile testardaggine e incapace di provare amore o compassione per qualcuno, aveva perso la testa per l’anima sola al mondo di quel ragazzo dai capelli chiari, che sembravano esser fatti di luce. Ed era vero, dannazione, aveva paura.
Paura di perderlo per sempre, di lasciarlo fuggire eternamente, come sabbia che scivola via tra le dita, un refolo di vento in una giornata afosa, così bello che vorresti tenerlo per sempre con te ma troppo effimero per lasciare che ciò accada.
Ultimamente si stava lasciando andare a quei ‘sentimentalismi’ che tanto a lungo aveva odiato; che fosse dunque vero che l’amore, in un modo o nell’altro, ti cambia?
«Verrò anch’io» aveva affermato alla fine, la conclusione più sensata e razionale che fosse riuscito a trovare nella sua testa.
Jūzō l0 aveva fissato a lungo, interdetto.
Certo, neanche lui voleva lasciare Ayato, solo che non riusciva a vedere vie d’uscita percorribili. Avrebbe dato tutto l’oro del mondo pur di restare con il ragazzo, solo che non voleva neanche abbandonare la compagnia, l’unica famiglia che avesse mai avuto. Forse lui e Ayato, in un lontano futuro, si sarebbero potuti considerare a loro volta una famiglia a tutti gli effetti, solo che ci sarebbe voluto del tempo prima che Jūzō si fosse abituato ad una vita sedentaria. E gli sarebbe servito un lavoro, accidenti – solo che non riusciva ad immaginarsi di potersi adoperare in nient’altro che non fossero le sue attuali mansioni da circense. Oltretutto, Ayato sembrava temere continuamente che qualcuno li vedesse mentre erano insieme, tanto che ogni volta prima di baciarlo controllava che non ci fosse nessuno in giro, anche se continuavano ad appartarsi in luoghi lontani dagli occhi di chiunque. Se avesse continuato a comportarsi così anche una volta che Jūzō fosse rimasto a vivere con lui, come avrebbero potuto mai vivere tranquillamente una loro ipotetica relazione?
«Ah, sì?» gli aveva domandato allora il giocoliere, accigliato e affranto «E cosa penseresti di fare, se venissi con noi? L’acrobata? Il mago? L’equilibrista?»
«Non lo so» aveva sbottato Ayato, mestamente «però qualcosa da fare riuscirei pur sempre a trovarla, no? Magari potrei dare una mano a montare e smontare il tendone, quando la compagnia arriva in un posto o riparte alla volta di un altro. Non si direbbe ma in estate anche io mi occupo della mietitura nei campi, qualche muscolo ce l’ho—»
«Ayato» Jūzō aveva sospirato, sentendosi come se stesse parlando con qualcuno molto più piccolo di lui «per questo genere di attività non abbiamo problemi, la manodopera non manca di certo: tutti noi artisti ci occupiamo di sistemare il tendone, sia quando arriviamo in una città che quando ce ne andiamo. È una nostra tradizione, lo hai visto anche tu, quando siamo arrivati qui. Noi in questo modo ci divertiamo… e poi pensa, ci siamo conosciuti proprio in quel momento!»
«Ma hai detto che andrete a Portland» insisté Ayato, incaponendosi testardamente sulla questione «Pensaci, Jūzō, quella sì che è una grande città. Una volta lì potremmo cercare un altro lavoro e poi non so, vedere come va. Se a fine mese avremo racimolato un gruzzoletto considerevole potremo anche considerare di fermarci a vivere lì: i primi mesi potremmo andare avanti con dei lavori saltuari, alloggiando negli ostelli e mangiando quello che riusciamo a trovare. Sarebbe una soluzione ottimale».
Jūzō si morse un labbro. Certo che Ayato, a differenza sua, aveva pensato proprio ad ogni cosa, eh? E a dir la verità la soluzione che gli stava proponendo era senza dubbio perfetta, se solo non fosse stato per un piccolo dettaglio.
«Dimentichi una cosa» Jūzō espirò di nuovo, sentendosi sfiancato da quella discussione «questa compagnia è la mia famiglia: credi davvero che potrei abbandonarla così, come se niente fosse?»
«Ovviamente no» aveva replicato Ayato, prendendogli il volto tra le proprie mani «però anche io e te potremmo essere una famiglia, insieme, no?»
Jūzō si morse il labbro, combattuto. Certo che sarebbero potuti essere una famiglia, loro due… e lui avrebbe voluto tanto esserlo, sul serio, solo che la paura di perdere tutto di nuovo lo terrorizzava da morire. Non voleva rimanere di nuovo solo, non ora che finalmente aveva trovato delle persone pronte a volergli bene lo stesso, nonostante tutte le sue stranezze. Se per una sciocchezza qualsiasi si fosse ritrovato ad essere abbandonato da Ayato – un litigio scaturito da un motivo futile, ad esempio – sarebbe stato di nuovo solo e in quel caso Jūzō non avrebbe avuto davvero la benché minima idea di che cosa fare.
Il giocoliere si lasciò scivolare giù lungo tutta la corteccia dell’albero, fino a ritrovarsi seduto a terra, stringendosi al petto le gambe esili e coperte di lividi e graffi, dovuti agli intensivi allenamenti a cui il direttore del circo lo sottoponeva, in vista di ogni nuovo spettacolo. Certo, la sua non era la famiglia più affettuosa e caritatevole del mondo, però erano gli unici che si fossero mai premurati di averlo con sé e di farlo sentire ‘a casa’, in qualche modo.
«Tu non capisci» aveva mormorato, rivolgendosi ad Ayato, mentre scuoteva la testa con vigore.
«Ah, certo, non capisco» sbottò invece Ayato, tirando un calcio tra gli steli d’erba per la rabbia «perché io non capisco mai, no? Io sarei disposto a buttare tutta la mia vita alle ortiche pur di stare con te e tu non—»
«Ti sei mai chiesto come sono entrato a far parte di questa compagnia?» Jūzō si strinse la testa tra le mani, sentendosi d’improvviso più vecchio di cent’anni.
In quell’istante Ayato si bloccò di colpo, come ammutolito da quelle parole. Subito il suo sguardo tornò a puntarsi in direzione di Jūzō, ogni traccia del rancore di poco prima svanito di colpo.
Incoraggiato dal silenzio dell’altro, Jūzō iniziò a raccontare, sentendosi man a mano che procedeva nel suo discorso sempre più libero di un peso che per tanti, troppi anni aveva continuato a custodire silenziosamente dentro di sé.
«Sono orfano dalla nascita. Ho sempre sospettato che i miei genitori mi avessero abbandonato per povertà, non avendo soldi a sufficienza per poter mantenere un figlio. Ad ogni modo, non li ho mai conosciuti. Mi hanno abbandonato sul ciglio di una strada, in una notte troppo fredda di dicembre. Rimasi per ore ad aspettare che qualcuno mi venisse a salvare – ero un bambino in fasce, dormivo in una culla. In effetti una persona la mia culla la prese, solo che credo fosse quanto di peggiore potesse capitarmi. Era una folle, pazza, psicopatica donna, che traeva piacere dal torturarmi. La vita lì era un inferno, avrei di gran lunga preferito morire…»
Piccole lacrime cominciarono a formarsi agli angoli delle cornee di Jūzō, la voce sempre più incerta mentre proseguiva nel suo racconto.
« Jūzō—» cercò di fermarlo Ayato, il cuore straziato nel vederlo continuare a soffrire in quel modo.
«No, aspetta, fammi finire» Jūzō fermò Ayato, alzando a mezz’aria una mano dal palmo spalancato «ti prego, Ayato, non mi interrompere, altrimenti non so se riuscirei a dire tutto fino in fondo. Lo so che è difficile da credere, dopotutto una storia così dolorosa e strappalacrime sembra un racconto per un romanzo, piuttosto che la realtà, però per quanto assurdo possa sembrare è così e ti giuro che non ti mentirei mai, per nessuna ragione al mondo. Comunque, il suo metodo di tortura preferito erano le tenaglie. Quegli arnesi maledetti hanno lasciato segni indelebili sul mio corpo, ancora oggi ne porto le cicatrici».
A quelle parole, il giovane giocoliere stese le braccia davanti a sé, così che l’altro potesse osservarle a sua discrezione. Subito Ayato s’inginocchiò di fronte a lui, scostando delicatamente il tessuto morbido delle maniche della camicia di Jūzō dai suoi avambracci, tutto pieno di premure. Quello che vi trovò gli raggelò il sangue nelle vene: una miriade di segni a forma di piccole mezzelune, cicatrici inflitte con crudeltà su quella carne. Ayato sentì nuovamente la rabbia ribollire dentro di sé: sia per il fatto che un trattamento del genere fosse stato inflitto a un innocente come Jūzō , che per non essersi accorto prima che quel ragazzo si trovasse in una situazione traumatica come quella.
«Non crucciarti» riprese Jūzō, quasi leggendo nella mente di Ayato «non potevi saperlo. Dopotutto, negli anni ho imparato a nascondere al meglio la cosa: sai, così riesco ad evitare un sacco di domande spiacevoli in merito – parlare di questa storia non mi fa mai impazzire di gioia, credo che si veda bene. Comunque, col tempo ho scoperto che alla luce del sole si crea una sorta di illusione ottica con i fili delle cuciture, ecco perché non lo avevi notato prima. Fatto sta che un giorno riuscii a liberarmi: la catena a cui mi teneva legato era sciolta – non ho la più pallida idea del perché, forse la sorte ha deciso di arridermi – per cui riuscii a scappare in un pertugio sotterraneo, di notte, mentre la mia carceriera dormiva. Ero gravemente ferito, però la necessità di fuggire da lì era talmente forte che il dolore quasi non lo sentivo; ne andava della mia sopravvivenza, dopotutto. Fortuna volle che mi trovassi nelle vicinanze di una ferrovia: mi sono buttato sul primo treno che è passato, incurante di quale fosse la sua destinazione. Lì ho incontrato la mia compagnia – che al tempo si muoveva clandestinamente via treno, non avendo ancora le possibilità economiche per poter acquistare i carri coperti, con i quali invece adesso ci spostiamo. Loro si sono presi cura di me fin dal primo istante in cui mi hanno incontrato, medicando le mie ferite, senza chiedere né pretendere niente in cambio. Ecco perché sono come una famiglia, per me. Da allora mi sono unito a loro come giocoliere, senza mai lasciarli, nemmeno per una volta, in ogni evenienza. Capisci adesso perché per me sia così inimmaginabile l’idea di lasciarli così, di punto in bianco?»
Jūzō fece una lunga pausa, riprendendo faticosamente fiato. Quel racconto era stato estenuante per lui, certamente fisicamente ma soprattutto psicologicamente.
Ayato ne approfittò per sedersi dietro di lui, appoggiando la propria schiena contro il tronco dell’albero e stringendosi invece quella di Jūzō al petto. Era incredibilmente rassicurante, tenerselo così vicino.
«Certo che ti capisco» aveva ammesso, ancora sconvolto da quel fiume in piena di rivelazioni, mentre gli sistemava una ciocca di capelli chiari dietro l’orecchio, cercando di rassicurarlo «e te l’ho detto, so quanto questo circo significhi per te. Però Jūzō pensaci, anche io voglio stare con te, tenerti stretto stretto quando hai paura per poterti rincuorare da ogni tuo timore e medicare tutte le tue ferite. Anche io potrei essere la tua famiglia. Ti prego, fidati di me, ti assicuro che non ti lascerei mai, per nulla al mondo…»
È difficile per Jūzō ammetterlo a sé stesso, tuttavia quelle che Ayato gli ha rivolto sono esattamente le parole che avrebbe voluto sentirsi dire. Solo che sarebbe stato in grado di mantenere la parola data, nonostante tutto?
«E io mi fido di te, Ayato» si affrettò a replicare Jūzō, sempre più sconsolato «però io non lo so se ci riesco a lasciarli così. È tutto talmente dannatamente difficile…»
«Però può essere incredibilmente facile, se lo vuoi» aveva ribattuto Ayato, scivolando via da dietro la schiena del ragazzo e portandosi nuovamente davanti a lui, inginocchiandosi frontalmente dinanzi a Jūzō, tra le sue gambe «devi solo avere fiducia in noi… e poi vedrai che il resto verrà da sé».
Detto questo, Ayato aveva preso ancora una volta il volto di Jūzō tra le proprie mani, avvicinandolo sempre di più a sé, fino a che non se l’era ritrovato a pochi millimetri di distanza. Allora aveva lasciato posare le proprie labbra su quelle di Jūzō, esattamente come la prima volta, in modo che sembrasse la cosa più semplice e naturale del mondo.
Il giovane giocoliere non oppose resistenza, come ogni altra volta. Quella situazione fece sentire Ayato autorizzato ad andare oltre, le labbra che si facevano più languide mentre la lingua scivolava nella bocca dell’altro e le mani correvano ad accarezzare la sua pelle nuda, sotto i vestiti.
Così lo avrebbe convinto senza dubbio, ne era assolutamente certo.
Peccato che, ancora una volta, Jūzō non sembrasse essere del suo stesso avviso.
«Ayato, Ayato, Ayato, a–aspetta…» aveva farfugliato, già in preda ai fumi del piacere «n–non sono ancora pronto per questo…»
«Se non riesco a convincerti con le parole, allora dovrò farlo con i fatti» era stata l’obiezione dell’altro, mentre si avvicinava ancora di più a lui, per potergli andare a leccare la zona dietro l’orecchio, con l’intento di fargli perdere anche l’ultimo briciolo di lucidità rimasto, certo che poi persuaderlo alle sue intenzioni sarebbe stato un giochetto da niente.
«Ho bisogno di riflettere sulla tua proposta» aveva sospirato Jūzō, scivolando di lato per sottrarsi alle attenzioni di Ayato «e così non mi aiuti a pensare, affatto».
«Beh, puoi sempre pensare dopo e lasciarti andare alle mie attenzioni adesso» perseverò ancora Ayato, ostinatamente certo che la sua fosse la scelta migliore.
«Ti prego» lo aveva implorato allora Jūzō, letteralmente sfinito dopo tutto quello che era accaduto «ho bisogno di rimanere un po’ da solo, adesso. Sono certo che dopo una buona nottata di sonno saprò esattamente quello che dovrò fare?»
«Davvero stai preferendo delle persone a cui non importa niente se ti riempi di lividi per prepararti per i loro stupidi spettacoli a me?» aveva sbottato Ayato, alzandosi in piedi, la voce al limite della collera.
«Non è questo quello che ho detto, ti ho solo chiesto una notte di tempo per pensarci. E comunque non parlare così di loro, non dopo quello che ti ho detto stasera» aveva ribadito Jūzō, la voce pericolosamente incrinata per via delle lacrime «per favore, Ayato…»
Il ragazzo dai capelli blu aveva sospirato pesantemente. Non gli stava dicendo di no, quella di Jūzō era una richiesta di avere solo un po’ più tempo per pensarci. E Ayato non poteva certo negargliela, dopotutto se era così sicuro che la propria fosse la soluzione migliore allora non aveva nulla di cui temere, di certo ci sarebbe arrivato anche Jūzō.
«E va bene» aveva sospirato infine, allungando una mano verso di lui per poterlo aiutare a rialzarsi «adesso coraggio, reggiti a me, così ti tiro su e puoi andare a dormire».
«In realtà penso che resterò qui ancora per un po’. Sai, questo silenzio mi concilia i pensieri. Tu intanto vai, ti assicuro che tra poco andrò a dormire nella mia tenda anche io» aveva concluso Jūzō, sforzandosi di apparire quanto più convincente e sicuro di sé possibile.
L’altro aveva annuito, senza aggiungere altro.
«Allora buonanotte, Ayato»lo aveva salutato il giocoliere, stringendosi nuovamente con le braccia le gambe al petto.
«Buonanotte, Jūzō» aveva risposto Ayato, voltandosi e cominciando ad avviarsi lungo la via del ritorno.
“Non voltarti” si ammonì mentalmente, continuando a camminare di gran carriera sulla propria strada, passi svelti e sicuri che si succedevano uno dietro l’altro “o finirai per dimostrare quanto la tua mente sia debole”.
Il suo incedere spedito fu tuttavia arrestato dalla voce di Jūzō, nel silenzio della notte ridotta quasi ad un sussurro.
«Ayato» aveva mormorato infatti, il tono pregno di impellenza impossibile da non notare.
E l’interpellato, volente o nolente, non aveva potuto far altro che voltarsi in direzione di quella voce, in barba all’orgoglio.
«Grazie per essere rimasto ad ascoltarmi, stasera. Non avevo mai raccontato a nessuno quello che ho detto a te» ammise infatti Jūzō, la voce incrinata e rotta in più punti.
Per un momento interminabile Ayato era rimasto lì, sospeso in quell’attimo eterno, nel più totale silenzio, incapace di replicare in alcun modo a quelle parole. Non aveva fatto altro che fissare il ragazzo albino, ancora seduto a terra, almeno finché quella vista non era diventata infinitamente dolorosa: tra le ciglia del giovane giocoliere infatti si ostinavano a voler rimanere impigliati dei piccoli accenni di lacrime cristalline.
Quello sguardo, sempre così ridente e solare, era ora spento e cupo; una vera pugnalata dritta al cuore per uno come Ayato, che di quegli occhi rossi allegri si era innamorato, tanto che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vederli illuminarsi di gioia ancora una volta.
Tuttavia si era voltato, senza aggiungere altro e riprendendo a camminare per la sua strada, mentre il suo corpo veniva man mano inghiottito dalle tenebre della notte.
E Jūzō rimase lì inerme, a fissare gli ultimi brandelli dei suoi abiti che sparivano nel nulla, come refoli di vento impossibili da catturare.


Il giorno successivo era quello della partenza.
Gli uomini avevano lavorato al fine di smontare il tendone e recuperare tutti gli attrezzi di scena già a partire dalle prime luci dell’alba. Non avrebbero lasciato alcuna traccia del loro passaggio lì, sebbene si fossero fermati per un intero mese i loro ricordi sarebbero stati invisibili, come spiriti di un’esistenza incontrovertibile.
Jūzō non aveva chiuso occhio per tutta la notte, continuando ad arrovellarsi sulla proposta che aveva ricevuto da Ayato la sera precedente. Più spremeva le meningi, nel vano tentativo di raggiungere una decisione, più sentiva di essere vicino alla soluzione di quel rompicapo che di colpo la sua vita era diventata.
Certamente la proposta di Ayato era ben più che allettante: trascorrere un’esistenza insieme, lontano dai pericoli che la vita perennemente precaria del circo gli imponeva sarebbe stato senza dubbio un agio gradito. Magari un giorno lui ed Ayato avrebbero potuto litigare e smettere di andare d’accordo, questo era quasi pressoché inevitabile – già adesso capitava spesso che avessero dei piccoli diverbi, bastava pensare a quant’era successo la sera precedente – probabilmente tuttavia a quel punto non avrebbero fatto che separarsi e proseguire ognuno per la sua strada.
Sarebbe stato quasi indolore e Jūzō avrebbe forse potuto trovare un lavoro migliore e più dignitoso dell’essere il giocoliere di una compagnia circense di seconda mano.
Tutto perfetto, insomma. O almeno, così sarebbe potuto sembrare, se non per quel piccolo dettaglio.
Il circo era sempre stata la sua famiglia, gli aveva dato di che vivere in un periodo in cui nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato su di lui. Che razza di riconoscenza sarebbe stata la sua, se li avesse davvero abbandonati così, di punto in bianco, dal giorno alla notte?
Ed era vero, Jūzō aveva paura di lasciarli. Erano un po’ la sua famiglia, dopotutto. Inoltre, che futuro avrebbe potuto mai avere al di fuori di quel circo, lui che oltre al giocoliere non sapeva fare nessun altro ‘lavoro’?
Come se non bastasse, c’era da considerare anche la questione Ayato. Quel ragazzo era una vera e propria mina vagante, capace di scoppiare da un momento all’altro. Irascibile e spesso nervoso, che cosa sarebbe successo se, dopo un litigio un po’ troppo violento, avesse deciso che loro due non erano adatti a stare insieme? L’avrebbe abbandonato di colpo? Jūzō non era affatto sicuro di riuscire a sopravvivere da solo, in una città grande e sconosciuta come Portland, qualora Ayato avesse deciso di lasciarlo.
Il giocoliere fissò l’orizzonte, il sole chiaro e giallastro che faceva capolino da dietro le creste infuocate del Grand Canyon, mentre ormai tutti i loro attrezzi erano stati caricati sulle varie carrozze della carovana, che spiccavano in primo piano dinanzi a quello spettacolo naturale, schierate e pronte a partire.
E Jūzō seppe esattamente cosa fare.      
 
Le nove in punto. Ayato era a conoscenza del fatto che il circo sarebbe partito dalla piazza centrale del loro piccolo paese proprio a quell’ora, la stessa di quand’erano arrivati, ormai la bellezza di un mese prima.
Lui però non era lì; come a voler onorare una sorta di tradizione non scritta, infatti, si era abbarbicato nuovamente sulla punta del crinale di roccia rossa del Grand Canyon da cui aveva visto per la prima volta la carovana del circo giungere in quel luogo.
Sapeva che, qualora Jūzō avesse deciso di rimanere con lui, avrebbe saputo dove andarlo a cercare. Sperava solo che non avrebbe percepito la sua assenza come un presagio negativo, poiché tutto era, fuorché quello.
“Capirà, vedrai” s’incoraggiò da solo, certo che il giovane giocoliere avrebbe colto quel suo messaggio.
Certo, la sera precedente non si era affatto comportato bene con lui: l’aveva abbandonato così, su due piedi, senza nemmeno aggiungere una parola.
Era un vigliacco, dannazione!
Nel momento del bisogno aveva lasciato che Jūzō si ritrovasse completamente alla deriva, solo e senza alcun genere di aiuto per riuscire a sottrarsi da una situazione di forte disagio emotivo come lo era stata quella per lui.
Lo aveva deluso e forse adesso Jūzō ce l’aveva – in maniera del tutto sensata, a dir la verità – con lui. Quel suo sciocco comportamento infantile gli aveva fatto perdere un sacco di punti in quanto a fiducia da parte dell’amico.
E tutto questo perché? Solo per essere uno sciocco, così ostinatamente influenzato da quel suo dilagante orgoglio?
“Pazienza” si era magramente consolato Ayato “almeno così imparerò a comportarmi come un cretino al momento sbagliato”.
Forse stava sbagliando tutto: lasciandolo da solo, dapprima la sera precedente e poi adesso, era probabile che stesse passando a Jūzō il messaggio sbagliato, ossia che non gliene importasse niente di lui, apparenza fittizia e piuttosto poco realistica.
A quel punto Ayato sarebbe corso volentieri giù per quella scarpata per presentarsi in piazza e fermare la carovana prima che potesse essere troppo tardi, impedire a Jūzō di partire e dimostrargli quanto contasse davvero per lui.
Peccato che, ancora una volta, il suo stupido orgoglio gli stesse impedendo di muoversi da quel crinale roccioso. “Lascia perdere” gli diceva la sua mente “dove pensi di andare e, soprattutto, cosa diavolo risolveresti, facendo così? Magari Jūzō si sentirebbe ancor più costretto a rifiutare, al che non faresti altro che metterti doppiamente in ridicolo davanti a tutto il tuo paese”.
Ecco perché se ne stava rimanendo lì seduto, ogni suo muscolo immobilizzato dalla desolante paura dell’insuccesso.
Un condor spiccò il volo, dapprima alto nel cielo e poi sempre più giù, volando in picchiata verso la valle, gli occhi da predatore scintillanti e le grandi ali che si dispiegavano, mentre continuava con ritmo inesorabile a cadere giù nel vuoto, attratto da chissà quale preda.
Circolava aria non più torrida e rovente come quella di agosto, bensì più fresca, resa respirabile dalle brezze leggere di settembre.
Incredibile, il circo si stava portando via con sé un intero mese, carico dei mille ricordi che quell’esperienza aveva lasciato ad Ayato.
Non avrebbe mai potuto dimenticare le emozioni che aveva provato in quei giorni, bene o male che fosse andata.
Si era reso conto che fosse troppo tardi per tentare qualsiasi cosa quando l’odore acre della polvere si era sollevata nel vento e gli era penetrata nelle narici.
Centinaia e centinaia di metri sotto di sé, infatti, il terreno brullo e rossastro dell’unica strada di accesso al suo paese aveva preso a vibrare intensamente, sotto il battito frenetico delle ruote dei carri e lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli.
Peccato che, stavolta, quella carovana non si stesse dirigendo verso la sua cittadina, bensì si stesse allontanando da quest’ultima.
Jūzō non si vedeva da nessuna parte, il che diede ad Ayato la certezza di averlo perso.
Il giovane giocoliere si trovava infatti su uno di quei carri coperti, al sicuro da tutto, tutti ed il resto del mondo. Aveva ritenuto infatti che restare con quella compagnia, che in un modo un po’ contorto era la sua ‘famiglia’, fosse la scelta giusta, piuttosto che rischiare di restare deluso e bruciato da quel fuoco di passione che lo attirava invece verso Ayato.
Si era alzato in piedi, in un impeto di rabbia e frustrazione, gli stivali che scalpitavano a terra tra quelle sabbie rocciose e dalle sfumature ossidiate così come adesso gli zoccoli dei cavalli stavano calpestando il terreno, parecchio più in basso.
Era furioso. E anche ferito, forse, al pensiero che Jūzō non l’avesse preferito a quella compagnia.
Stupido orgoglioso. Non è forse vero che, in amore, c’è sempre qualcuno che finisce per farsi più male?
Non avrebbe mai dovuto innamorarsi di Jūzō, anzi forse non avrebbe proprio dovuto mai innamorarsi. Quella follia non aveva fatto altro che portargli guai e dolori, a quanto pareva.
Non aveva mai lasciato che i propri sentimenti prendessero il sopravvento sulla razionalità e per una volta che invece provava a fidarsi, ecco come veniva ripagato.
Era stato uno sciocco, certamente. Non avrebbe dovuto lasciarsi coinvolgere così tanto. Se solo fosse rimasto impassibile come suo solito, forse allora l’esito sarebbe stato differente.
No, non era quello il rimpianto giusto. La verità era che, se solo non fosse stato così orgoglioso ed egoista, forse Jūzō sarebbe rimasto con lui, senza andarsene mai più via.
Dio, che stupido che era stato.
Purtroppo, tuttavia, restare a piangere adesso sul latte versato non avrebbe in alcun modo cambiato la realtà dei fatti.
Ayato scrollò le spalle, stringendosi le braccia al petto e restando a osservare a lungo l’orizzonte, anche dopo che i carri erano scomparsi oltre quest’ultimo, restando immobile a fissare la persona che più di tutte aveva amato nella sua vita andarsene per sempre, lasciandogli un vuoto dentro che – il giovane dai capelli bluastri lo sapeva già – nessuno sarebbe mai e poi mai riuscito a colmare.




*Note dell’autrice*

Vedere questa fanfiction giungere finalmente al termine mi rende estremamente soddisfatta.
Va considerata che ho iniziato la sua stesura all’incirca verso la metà di luglio, procedendo tra fasi alterne di intensi periodi di creatività, in cui riuscivo a buttar giù anche cinque pagine al giorno per diversi giorni consecutivi, fino ad arrivare invece a dei lunghi momenti di pausa, che potevano durare anche delle intere settimane, in cui vedermi scrivere qualcosa su queste pagine di Word era letteralmente impossibile.
Eppure stasera, perfettamente in linea con la mia tabella di marcia degli impegni, sono finalmente riuscita a concluderla, nella sua spaventosa lunghezza di quasi 16.400 parole e la bellezza di 33 pagine Word {e a tal proposito ne approfitto per scusarmi sinceramente con tutti i lettori che decideranno di arrivare fino alla fine di questa odissea letteraria ( ; ´Д` ) }
Ad ogni modo, credo che quest’idea mi frullasse per la mente addirittura da molti mesi fa, l’unico problema è che sono riuscita a metterla per iscritto solo adesso sia perché sono stata per molto tempo impegnata a definirne la trama, sia perché durante questi mesi molti impegni (più comunemente denominati ‘scuola’) mi hanno tenuta lontana dalla tastiera, permettendomi di realizzare questo mio lavoro soltanto adesso.
Considerando quanto io ami le AU ho pensato bene dunque di cogliere la palla al balzo, mettendomi a lavorare su questa storia. Per la collocazione temporale, va immaginata una cornice ambientata negli ultimi anni dell’800 (ecco spiegate le gonne larghe e gli abiti che lasciano ben poco spazio all’immaginazione) mentre i luoghi sono chiaramente le zone rurali dell’America settentrionale di quell’epoca. Non chiedetemi perché, quando ho immaginato l’AU l’ho vista lì.
Quanto ai personaggi… okay, lo ammetto, l’AyaJū (scusate per lo shipname orrendo) è il mio guilty pleasure.
{Ma non era la KageKi quello?}
Va bene, facciamo che l’AyaJū è uno dei miei guilty pleasure, perlomeno in fatto di ship. Fondamentalmente perché sono una di quelle coppie talmente agli antipodi che potrebbero quasi funzionare se forse – e sottolineo forse 
entrambi s’impegnassero a raggiungere il fine comune, che sarebbe quello di far stare in piedi la loro relazione. Cosa che non avviene nella mia fanfic, ovviamente.
Per la prima volta in vita mia temo di essere andata troppo ooc con i personaggi, anche se ho cercato per quanto potessi di giustificare alcuni comportamenti che sarebbero potuti risultare un po’ ‘sospetti’. Non so se ci sono sempre riuscita, fatto sta che il risultato finale è questo. Ho dovuto considerare anche che l’ambientazione che, rispetto ai giorni nostri, è antecedente di ben un secolo. Comunque, nel caso in cui i caratteri continuassero a sembrarvi troppo sconvolti nonostante queste doverose premesse, non esitate a farmelo notare, così che io possa aggiungere la nota opportuna.
E dire che io sono quella rinomata per essere sempre ic con i personaggi… okay che Tokyo ghoul è un’opera che comunque conosco da meno tempo di altre, però insomma, spero di non aver combinato un completo disastro.
Scusate un attimo… *chiude la finestra* ecco, così va decisamente meglio. Dovete sapere infatti che in questi giorni nella mia città si stanno svolgendo i tradizionali festeggiamenti, perciò capita che il corteo medievale ti passi sotto casa, con problemi di confusione e cianciare delle persone che lo seguono annessi e connessi. Sigh, a me la vita è male.
Volevo fare un’ultima precisazione in merito al titolo: visto che vado al classico (anzi, fatemi gli in bocca al lupo che quest’anno comincio il quinto, con tanto di maturità a giugno. Yeah) ormai sono irrimediabilmente traviata, tanto che ho finito per dare un titolo in latino alla shot. Letteralmente starebbe a significare ‘lo stesso’, ‘egualmente’, il che indica la condizione di Ayato e Jūzō: due persone incredibilmente diverse, anche se una volta che finiscono per innamorarsi scoprono di avere innumerevoli lati in comune. Mi sento intelligente, ahahah.
Riguardo invece al finale, è quanto di più melodrammatico ci si potesse aspettare, anche se quando si tratta di un’amante dell’angst come me non si può mai dire mai (avrei anche potuto farli morire, per intenderci). D’altronde, è difficile immaginarsi il lieto fine con una coppia come questa. Oltretutto Jūzō è in assoluto il mio personaggio preferito di tutto Tokyo ghoul, quindi potrete ben immaginare la mia felicità nell’avere finalmente l’occasione di poter scrivere su di lui.
Comunque, sono estremamente lieta di essere riuscita a pubblicare questa mia seconda fanfiction sul fandom di Tokyo ghoul: amo l’anime e soprattutto il manga, mi rimprovero di essermi preclusa fino ad ora la possibilità di postare anche in questa sezione. Mi riprometto di essere più presente, d’ora in poi, soprattutto visto che ho già avuto un’idea per un’altra AU, sempre su Ayato e Jūzō, stavolta ambientata durante la seconda guerra mondiale… per il momento per ora preferisco non parlarne per scaramanzia, diciamo così.
Niente, ringrazio chiunque abbia letto e quei pochi che saranno arrivati fin qui, chiunque inserirà questa storia tra le preferite o le ricordate. Inoltre una speciale menzione d’onore va ad Ange, alla quale questa storia sarà dedicata – qualora dovesse apprezzarla – e a Seth, la giudice del contest a cui ho recentemente partecipato, tra l’altro con la mia prima fanfiction su Tokyo ghoul, che mi è valsa il terzo posto e la ringrazio ancora una volta per lo splendido lavoro compiuto. So che anche lei ama Jūzō, spero che le sia piaciuto anche in questa veste inedita. A proposito: con chiunque parlo di Tokyo ghoul mi sento dire che il loro personaggio preferito è Jūzō, solo che questa sezione è tristemente povera di fanfiction su di lui. Francamente da giorni continuo a chiedermi il perché di questa cosa, tuttavia non riesco a trovare una risposta. Ahh, pazienza.

Mi auguro che la storia vi sia piaciuta e spero di potervi risentire presto

Aria
   
 
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