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Autore: RodenJaymes    07/09/2016    11 recensioni
Fanfiction scritta per il contest "Quel semaforo rosso..." indetto dal gruppo Facebook "Takahashi Fanfiction Italia".
* * *
Un ragazzo affetto da sfortuna cronica, un obiettivo da raggiungere e una serie di semafori scoordinati cambieranno una giornata già ben poco ordinaria.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sorpresa
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Tutti i miei semafori rossi 
 

Fanfiction scritta per il contest “Quel semaforo rosso...” indetto dal gruppo Facebook “Takahashi Fanfiction Italia”.


Driiin, driiin, driiin!

Con un colpo ben assestato zittisco la sveglia, spingendola via dal comodino. Sento il rumore secco tipico di qualcosa che va in mille pezzi e capisco di averla rotta. Accidentaccio, è la decima sveglia che faccio fuori!
Impreco e mi sollevo leggermente, una mano a reggermi la testa. La stanza è ancora buia e non riesco a mettere ben a fuoco nulla. Cedo al dolce richiamo del cuscino e, ormai libero dall'incubo della sveglia, torno a spiaccicare la faccia contro il cotone morbido della federa.
Posso dormire un altro po', poco. Pochissimo. Non farò del male a nessuno, sono solo altri cinque insignificanti minuti...

«Carooo! Forza, in piedi! Il sole splende, la vita è bella e tu sei in ritardo!»

La voce di mia madre mi perfora il cervello come il più dolce dei trapani elettrici. Scosta le tende e la luce del sole mi colpisce in pieno viso ferendo gli occhi socchiusi.

«Mamma...»

Quello che dovrebbe essere un ringhio esce, in realtà, come un mugugno flebile e leggermente arrabbiato. Che palle! Perché mia madre deve sempre invadere i miei spazi e scostare quelle benedette tende?
Però, quando la parola “ritardo” riesce finalmente a insinuarsi nel mio cervello intorpidito, smetto di inveire mentalmente contro mia madre e mi alzo di scatto. Ovviamente, nel farlo, sbatto il ginocchio contro il comodino, perché le mie giornate funzionano sempre così: anche la mobilia tiene a darmi il buongiorno.

«Ha-hai detto ritardo?», dico mentre, con fatica, saltello verso la soglia della stanza, reggendomi il ginocchio.

«Sì, tesoro. Ti sei riaddormentato!», cinguetta mia madre seguendomi per il lungo corridoio. Noto che, al passaggio, spazza qui e lì, giusto per non perdere tempo. Ma dove trova tutta questa energia di prima mattina?! Sembra un incrocio fra Biancaneve ed un caterpillar! «Fai presto, però con calma!»

Mi volto giusto il tempo di dedicarle un'occhiata bieca.
Certo, madre, imparerò ad essere repentinamente calmo o pacatamente celere! Grazie. Oh, Santi Kami, lei e le sue raccomandazioni ossimoriche.
Smetto di saltellare come un cretino e comincio a dirigermi verso il bagno, se pur a passo leggermente claudicante. Sbuffo, irritato e incollerito.
Merda! Giusto oggi dovevo svegliarmi tardi?! Oggi che ho un colloquio di lavoro molto importane, quello dei miei sogni! Avevo pure messo la sveglia. L'obiettivo era arrivare molto prima, prima di tutti gli altri candidati, in modo da essere il primo. Bankotsu mi ucciderà se arriverò in ritardo... sono proprio un idiota. Beh, si sa come si dice... quando le giornate di merda si vedono dal mattino...

«Buongiorno, fratellone.»

Ecco, appunto.
Poso lo sguardo sul viso sorridente ed apparentemente innocente di mia sorella che si è appositamente piantonata davanti la porta del bagno. Ben presto, la vedo illuminarsi del suo solito sorriso sadico. Deglutisco rumorosamente e incrocio le braccia.

«Non oggi, Rin, non rompere le palle!», intimo semplicemente, burbero, e cerco di scostarla afferrandola per le spalle.

Rin punta i piedi, capricciosa come suo solito, e si divincola velocemente, piazzandosi nuovamente davanti la porta del bagno. Per evitare di farle male, la lascio andare. Incrocio nuovamente le braccia e le rivolgo quella che spero sia la più convincente fra le mie occhiate assassine.
Piccola ignobile peste.

«Fratellone, quanta fretta!», dice lei con voce melliflua e poggia le sue mani sulle mie braccia e mi conficca le unghie smaltate di rosso nella carne, come a trattenermi.

«Rin, ho un colloquio di lavoro. E sono in ritardo. E tu hai scuola!», comincio in tono vagamente petulante.

«Lo so.», dice e il suo sorriso si allarga. «Infatti, sarò breve. Ricordi quando ti sei fatto uno spinello?», aggiunge con la solita faccia da schiaffi mentre, lentamente, lascia le mie braccia facendo cadere le sue lungo i fianchi.

Alzo gli occhi al cielo e un verso che denota pura frustrazione abbandona le mie labbra. Ma merdamiseria, quante volte mi avrà ricattato con questa storia?! Accidentaccio a lei, stronza che non è altro!

«Sì, è successo tipo dieci anni fa!», sbotto e cerco nuovamente di spostarla da davanti la porta. Ma niente! Sembra fissata con la bostik colla, la dannata!

«Ecco, sì, ma si dà il caso io abbia ancora le foto.», dice lei osservandosi le unghie, come se stesse parlando del tempo. Come se io non fossi in ritardo e rischiassi di perdere l'occasione della mia vita. «Scommetto che mamma non sarebbe contenta di sapere che il suo Yashino ha fumato in casa con quel tonto di Ban mentre la sua secondogenita, di soli dieci anni, guardava la scena... terrorizzata... impaurita... atterrrrrita...»

Schiocco la lingua e inarco le sopracciglia, scettico, mentre vedo Rin portarsi le mani al viso, teatralmente, dando sfogo ad un'espressione spaventata. Credo di riuscire ad intravedere delle finte lacrime...
Vorrei strozzarla.
Rin è sempre stata una cazzo di ricattatrice, fin dalla tenera età. E fumando quella dannata canna, le ho inconsapevolmente offerto materiale per innumerevoli anni, firmando la mia schiavitù.
Però, dovete capirmi! Insomma, diciassette anni, adolescenza, un amico deficiente come Bankotsu... potevo mai riflettere, potevo mai aspettarmi che la tenera sorellina di dieci anni mi scattasse delle foto e mi ricattasse?
Oh, ma certo che potevo. Maledetta Rin! Sto scontando ancora quella canna, persino oggi!
Mi riprometto sempre di frugare nella sua camera e distruggere quelle foto ma non sono mai riuscito a trovarle. Per tutto l'oro che le fruttano, credo le abbia nascoste su per il culo. Come minimo.
Mi passo una mano sul viso, esasperato, e comincio a battere un piede contro il pavimento, impaziente. Devo levarmela dalle scatole e ho un solo ed unico modo per farlo.

«Quanto vuoi?», le chiedo immediatamente.

Rin assume un finto broncio che conosco bene. Comincia a calciare leggermente con un piede mentre inclina la testa di lato.

«Che brutta idea che hai di me, fratellone. Non voglio mica soldi...»

«Rin, sbrigati, sto perdendo la pazienza!», le urlo puntandole un indice a poca distanza dal naso.

«Voglio il tuo sostegno quando proporrò a mamma di andare in vacanza con Sesshomaru!», sbotta, piagnucolosa.

Sgrano gli occhi e aggrotto le sopracciglia. Ah, quel ragazzino borioso ed inquietante, grigio, freddo e impalato!
Ma cosa ci troverà mai un vulcano come Rin in quel ghiacciolino impettito? No, mai, non farò quel che mi chiede. Quello lì mi sta sul cazzo dalla prima volta che l'ho visto, non appoggerò mia sorella in questa storia. Tremo al solo pensiero di questi due, soli, in una baita di montagna. Cavolo, no!
Sono io l'uomo di casa e lei va protetta. Se lo scorda.

«Ma assolutamente no!», urlo, incollerito. «E adesso, dannazione, spostati!»

Rin, colta di sorpresa dal mio rifiuto, rimane a bocca spalancata e senza parole. Distratta com'è in questo momento, riesco finalmente a spingerla via. Poggio la mano sulla maniglia della porta e mi sembra quasi di sentire applausi di trionfo da parte di un pubblico immaginario.
Mi fiondo in bagno a velocità disarmante e la faccia arrabbiata di mia sorella è l'ultima cosa che vedo.
Tiro un sospiro di sollievo mentre sento bussare ripetutamente alla porta.
Rin sta dando il peggio di sé ma, maledizione, sono in ritardo ed oggi non ho intenzione di scendere a compromessi! Non voglio che sia la mia solita giornata di merda, dovrebbe essere una giornata fortunata! Tuttavia, so bene che la buona sorte mi odia, dunque sarò io a dover fare in modo che oggi tutto vada per il verso giusto; a partire da quell'impiastro di Rin.
Dopo cinque minuti scarsi, esco dalla doccia e mi asciugo velocemente. L'unica cosa che riesco a trovare per coprirmi è un asciugamano con le giraffe – dove cazzo è finito il mio accappatoio?! – e quando apro la porta, trovo mia sorella ancora piazzata lì.
Ci scambiamo un'occhiata prima che io cominci a correre e lei mi venga dietro. Questa storia deve assolutamente finire. Aiutato da non so quale Kami, riesco ad entrare nella mia stanza e chiudo la porta a chiave.
Anche questa volta, Rin rimane fuori. Miei dei, mi sembra di stare in uno di quegli stupidi video giochi in cui aggiri il boss principale perché non vuoi averci a che fare. Osservo l'orologio a muro e sbuffo sonoramente. Sono le sette e mezza ed io devo essere al colloquio per le dieci e riuscire ad evitare tutti gli altri candidati che si presenteranno. Considerando che devo andare a piedi, dal momento che il mio unico mezzo di trasporto è dal meccanico... sì, posso ancora farcela.
Mi vesto velocemente e mi ringrazio mille volte per aver preparato la sera prima il completo da indossare. Do uno sguardo alla mia figura riflessa nello specchio e sospiro. Camicia dentro i pantaloni, capelli a posto, scarpe – quelle buone. Sì, va tutto bene! No... c'è qualcosa che manca... qualcosa... cazzo! Sgrano gli occhi e mi precipito alla porta. Tolgo le mandate, la apro e trovo ciò che mi serve... fra le mani del mio peggiore incubo!

«Sssstai cercando questa?**», chiede Rin con una vocetta irritante mentre sventola davanti ai miei occhi la cravatta scura.

Porca miseria, mi serve quella cravatta! Devo far bella figura, essere presentabile, dare buona impressione di me. Voglio quel cazzo di impiego e Bankotsu non ha fatto altro che dirmi che la cravatta è importantissima, che è praticamente tutto. 
Mi avvicino minacciosamente a mia sorella, un passo dopo l'altro, con lentezza studiata, come se stessi avendo a che fare con una cerva impaurita, pronta a scappare.

«Rin, dammi quella cravatta. Subito. Porco cazzo, smettila di fare la bambina!»

«Aiutami ad andare in vacanza con Sesshomaru!», urla, perentoria, il tono di voce talmente capriccioso e la cravatta ben stretta fra le sue mani.

Non cede mica, la ragazzina! Giuro, giuro, giuro sui Kami che se non otterrò questo maledetto lavoro, chiuderò lei in collegio e pesterò questo maledetto Sesshomaru. Lo giuro.
In pochi ultimi passi ricopro completamente la distanza fra me e Rin e riesco ad afferrare la cravatta che lei, però, non molla. Siamo viso a viso, fronte contro fronte. E potrei anche ridere per la stupidità della faccenda, se solo non fossi incazzato nero.
Il tempo scorre ed io sono bloccato qui, con Rin. Ma chi me lo fa fare?
Mi ero ripromesso che oggi non sarebbe stata la solita giornata, che sarebbe stata diversa. Migliore. Fortunata.
Bene.
Lascio la cravatta e mia sorella cade rovinosamente seduta, sbattendo il sedere per terra. E ben le sta! Sono stanco e dannatamente in ritardo!
Comincio a dirigermi verso la cucina, come se niente fosse, fintamente noncurante.

«Inuyasha! Dirò tutto alla mamma, tutto quanto!», comincia lei, furiosa, mentre si massaggia il sedere dolorante.

«Sai una cosa? Lo dico io, alla mamma. Ho ventisette anni, porca miseria, mi sono rotto di questa storia!», bercio contro Rin.

Lei mi fissa ad occhi spalancati e cerca di fermarmi ma mi divincolo velocemente.

«Inuyasha, non lo fare! Aspetta!»

Non l'ascolto neanche. Afferro mia madre per le spalle e la guardo negli occhi mentre lei, con in mano un mestolo, sbatte le palpebre un paio di volte, sinceramente confusa.

«Mamma. A diciassette anni ho fumato una canna in questa casa.», confesso. Lei aggrotta le sopracciglia, comincia a balbettare qualcosa ma non le do il tempo di replicare. «E Rin è una stronzetta ricattatrice. Volevo tu lo sapessi.», dico tutto d'un fiato.

Mentre mia madre rimane in trance catalettica e mia sorella sprigiona rabbia da ogni poro, afferro un toast, la carpetta con dentro i progetti e mi fiondo letteralmente verso la porta di casa.
Affronto con equilibrio precario le tre rampe di scale imprecando contro il costruttore del palazzo che ha deciso di non inserire un'ascensore.
Sì, tutto sembra contro di me, ma no, cazzo! Io farò quel colloquio.
Dopo aver rischiato di inciampare nei miei stessi piedi tipo venti volte, arrivo sano e salvo nel cortile del palazzo.

«Ehi, Inuyasha! Sei un tonto!», sento urlare mia sorella.

Mi volto e la trovo affacciata al balcone che dà sul cortile dello stabile in cui abitiamo. Sta sventolando la cravatta che mi ha impunemente rubato, come fosse un trofeo. È ancora in pigiama, i capelli sciolti e arruffati. Sbuffo. Ma ha un minimo di decenza, quella ragazzina?!

«Rin! Torna dentro e vestiti!», le ordino mentre corro sul posto, impaziente.

Faccio per voltarmi e ricominciare la mia disperata corsa contro il tempo ma la sua voce stridula mi richiama ancora.

«Tonto, Yasha, tonto! Ho perso quelle foto anni fa! E adesso, mamma sa della canna! Hai fatto tutto da solo!», urla ancora.

E anche nel punto in cui mi trovo, distante da lei, posso scorgere quel sorriso birichino e soddisfatto nascere sul suo viso.
Spalanco la bocca e sbianco mentre vedo anche mia madre uscire in balcone e salutarmi lievemente con un gesto della mano.
Quella piccola peste! Mi ha ricattato per anni senza avere più il materiale! Che idiota sono stato, che idiota. Volevo fosse una giornata diversa? Seh.

«Dannata che non sei altro! Quando torno a casa, ti faccio vedere!», urlo, incollerito, e ricomincio a correre.

«Corri, Yasha! Corri, Yasha! Corri!», mi canzona Rin cantilendando quelle due parole senza sosta.

«Buona fortuna, tesoro!», urla mia madre a sua volta e non è neanche arrabbiata.

Emetto un suono basso e roco, seccato. Mi volto e comincio definitivamente a correre verso la strada. Qualche minuto ad un ritmo sostenuto e già credo di stare per sputare un polmone. Comincio ad ansimare ma continuo comunque a correre come un forsennato. Rischio un paio di volte di scontrarmi con qualcuno. Un uomo lo becco, ci diamo una spallata. Urlo delle scuse, distrattamente. Non importa, devo arrivare, devo. Ho bisogno di questo lavoro.
Rifletto che di questo passo, arriverò sudato al colloquio, accidenti. Beh, non posso farci nulla, devo correre. Con un gesto frettoloso, scosto la manica della giacca quel tanto che mi permette di scorgere l'orologio che porto al polso. Sono le otto e venti.
Okay, posso ancora farcela, posso ancora farcela! Certo, ho perso quell'ampio vantaggio che potevo avere... quanti candidati saranno arrivati già? Dieci? Quindici? Ma... sarà realmente arrivato qualcuno? Oh, non importa! Io ce la farò.
Sospiro mentre comincio a sentire la fatica della corsa.
Mi ero ripromesso che questa giornata sarebbe stata differente. Certo, pensandoci, fino ad ora non è stata diversa per niente. Mi sono svegliato tardi, ho sbattuto contro il comodino, Rin mi ha fatto fesso...
Ma ho ancora delle ore per cambiarla, per far in modo che sia realmente diversa, per volgerla a mio favore. Devo essere fortunato, per una volta.
Kami, per piacere, fatemi fare questo colloquio! Datemi un segno, un indizio! Datemi una sacrosanta e sempre gradita botta di culo!
Arrivo al solito incrocio e la “valle dei semafori rossi” si mostra davanti ai miei occhi in tutta la sua magnificenza. Seh, magnificenza si fa per dire.
“La valle dei semafori rossi” è il modo in cui ho ribattezzato una serie di sette semafori, posti uno dopo l'altro, che permettono di attraversare, passando da un marciapiede al successivo. Tuttavia, i semafori non sono mai coordinati fra loro. Quando uno è verde, il successivo è rosso e così via. A causa di questi semafori disorganizzati, ho sempre fatto tardi alla maggior parte delle occasioni importanti che hanno costellato la mia vita: esami, appuntamenti, cerimonia del diploma.
Osservo il primo semaforo, con apprensione, ed è... rosso. Ovviamente. Questo mi farà arrivare ancor più in ritardo. Grazie, vita.

«Ma vaffanculo!», sbotto a denti stretti e mi rassegno al fatto che questa giornata non può cambiare, neanche con tutta la buona volontà del mondo.

Ad un tratto, il miracolo. Mi stropiccio gli occhi, credo addirittura di sognare. Il semaforo cambia colore; il cremisi portatore di ritardo cambia in verde! Verde “speranza”, verde “probabilmente riuscirai ad arrivare a destinazione”... verde “datti una mossa”!
Mi riscuoto e comincio a correre, sfreccio davanti le macchine ferme, la cartellina con i progetti ben stretta al petto. Arrivato al marciapiede successivo mi fermo, pronto ad aspettare il nuovo semaforo, e mi stupisco di trovarlo di nuovo verde. È verde anche il successivo e quello dopo ancora. I semafori si sono finalmente coordinati! Eccolo, il mio segno, il mio indizio! Eccola, la mia tanto agognata botta di culo!
Con il sorriso più grande che io abbia mai fatto, ricomincio a correre. Passo il secondo semaforo, il terzo, il quarto. Verde, tutti i semafori segnano il verde. Ho deciso, è il mio nuovo colore preferito!
Sento il cuore rimbombarmi nelle orecchie e prego che le gambe non cedano proprio adesso. Ho ancora un sacco di strada da fare.
Verde, continuo a vedere verde. Finalmente. Sapevo che oggi sarebbe stato differente, dovevo solo crederci di più. Farò quel colloquio, otterrò il lavoro...

«Attenzione!»

Rosso. Davanti a me, adesso, vedo chiaramente il rosso. Cosa?!
Un motore di grossa cilindrata sta per venirmi addosso; non so come, non so perché, riesce a fermarsi a pochi centimetri da me, prima di investirmi. Io, letteralmente colto di sorpresa, balzo indietro. Nel modo di muovermi, inciampo nei miei stessi piedi e cado rovinosamente a terra, picchiando il sedere contro il duro asfalto.

«Ouch...», borbotto portandomi una mano alla testa.

Mi sento indolenzito, mi fa male il culo e ho un dolore sordo alla caviglia sinistra. E sono in ritardo! Preferirei svenire, addormentarmi; invece sono ancora qui, vigile, sveglio, incazzato. E tutti mi stanno fissando e stanno per venirmi addosso, per chiedermi come sto. 
No, pietà. Ma perché a me? Ma cosa ho fatto di male in questa vita?! Cazzo! Avevo chiesto una giornata diversa ma diversa in positivo. Non volevo mica morire!

«Dannato semaforo rosso! Dannato, dannato!», comincio ad urlare, inveendo contro quell'oggetto che sembra mi fissi, nella sua completa apatia di essere inanimato. «Bella botta di culo, davvero! Grazie! Era questo, il vostro segno?! Era questo?! Bravi, grazie!», bercio poi furibondo, rivolgendo gli occhi al cielo, contro gli dei, contro la sorte avversa.

Cerco di alzarmi, stizzito. Devo recuperare la cartellina, devo andare a quel colloquio. Cascasse il mondo, io farò quel colloquio.

«Non dovrebbe alzarsi...», mormora un uomo nerboruto, avvicinandosi, e cerca di trattenermi, di farmi rimanere col culo sull'asfalto.

«Non mi tocchi, lasciatemi stare.», intimo, infastidito.

«Permesso! Permesso, fatemi passare.», dice una voce ovattata.

Scorgo il motociclista che cerca di farsi strada fra la piccola calca che mi ha accerchiato, neanche fossi un cazzo di fenomeno da baraccone.
Riesce a raggiungermi e io lo fisso, astioso. È anche colpa di questo cazzone se adesso mi trovo qui, così!

«Fate come dice, lasciatelo stare. State indietro.», dice, autoritario, con quella voce camuffata a causa del grosso casco nero, rinforzato, che indossa.

E la gente indietreggia davvero; nonostante la sua stazza non proprio imponente – è oggettivamente basso – incute comunque un certo timore.
Il motociclista s'inginocchia accanto a me, il grosso giubbotto di pelle e gli anfibi pesanti che scricchiolano ad ogni suo movimento. Tenta di afferrarmi un polso con una mano guantata ma io mi tiro indietro, infuriato.

«Tu, dannato! Guarda cosa hai combinato! Grandissimo stronzo!», sbotto, profondamente indignato.

La verità è che ho bisogno di un viso, di qualcuno di animato con cui prendermela. Mi ha quasi investito, la colpa non è solo del semaforo, non è mia. È anche assolutamente sua!
Il motociclista non si scompone ai miei insulti. Alza la visiera scura del casco e svela due occhi grigi, limpidi. Due occhi che mi danno i brividi. Mi ricordano qualcosa... Mi osserva per una frazione di secondo, poi scorgo le sue sopracciglia aggrottarsi. Porta le mani guantate al casco e se lo sfila con un movimento tanto repentino quanto aggraziato. E non posso credere a quel che vedono i miei occhi. Quel casco, che sembra più insondabile della maschera di Darth Vader**, svela il viso di una bellissima ragazza. Pelle diafana, occhi grandi e grigi e una cascata di capelli indomabili e neri a incorniciarle il viso. La ragazza resta a guardarmi, le sopracciglia aggrottate, pensierosa. Io rimango per un attimo stupito, interdetto, e così i presenti intorno a me. Aggrotto le sopracciglia anch'io e comincio a grattarmi la nuca, dubbioso.
Quel viso... quel viso è... miei dei, vi prego, no! È proprio lei! È quella stronza di Kagome Higurashi!

«Inuyasha! Inuyasha Taisho!», dice all'improvviso lei, illuminandosi e battendosi una mano sulla fronte, come se avesse ricordato il mio nome all'improvviso. «Kami-sama, non posso crederci! Ti ricordi di me?», mi chiede sporgendosi leggermente in avanti.

Tsk! E come posso dimenticarmela?! Alle medie, lei e i suoi amichetti non facevano altro che darmi il tormento.
Era una teppistella irrecuperabile e sempre pronta a rompere le scatole al prossimo. Quante ne ha combinate, insieme alla sua banda di idioti!
La odiavo a morte. E, adesso che ci ripenso, la odio ancora. Il mio sguardo si sofferma su quel giubbotto di pelle dall'aria pesante e spessa e penso che non mi sembra cambiata per nulla. Sembra sempre la solita ragazzina stupida e frivola, con quell'aria sempre sicura di sé. Ed io, con lei, non voglio avere nulla a che fare.
Sono passati alcuni minuti e non ho ancora risposto alla sua domanda; storco la bocca e mi volto velocemente in un'altra direzione.

«No, mi spiace. Non mi ricordo di te.», dico, il tono più ostile di quanto non vorrei.

Sto per alzarmi ma la ragazza mi pone entrambe le mani sulle spalle e tenta di tenermi giù. Mi rivolge un sorriso aperto ed incoraggiante e io inarco un sopracciglio. Ma porca miseria, ma proprio lei doveva quasi investirmi? Ribadisco, volevo una giornata diversa ma non così.
Che vita di merda, persino i miei desideri vengono distorti e mi si ritorcono contro. Io e i Kami, io e il destino, io e la vita... abbiamo dei problemi di comunicazione. Sicuro.

«Sono Kagome! Kagome Higurashi! Andavamo alle medie insieme.», mi dice e mi prende il viso fra le mani. Mi scruta a fondo, con occhio critico, e non ho la più pallida idea di cosa stia facendo. Ad un certo punto, prende nuovamente il mio polso fra le mani e comincia a controllare il mio battito. «Non posso credere che non ti ricordi di me. Allora, come stai?»

La guardo in cagnesco e sottraggo il mio polso dalla sua presa. Quanto è cretina!

«Ma come ti sembra che io stia?!», le urlo, infuriato.

Non rispondo più di me; credo che questa caduta, con annessa coincidenza spiacevole, abbia dato il colpo di grazia alla mia psiche già provata.
Kagome non si scompone, stringe semplicemente le labbra e si alza in piedi. Sia io che i presenti la scrutiamo cercando di capire quale sarà la sua prossima mossa.

«Lo aiuti ad alzarsi in piedi.», ordina all'uomo nerboruto di poco prima e il suo tono è di nuovo aspro e mi ricorda quello della teppista delle medie.

L'uomo obbedisce immediatamente e comincia a mettermi le mani sotto le ascelle, tentando di sollevarmi. Io mi irrigidisco e lo scosto, contrariato, riuscendo ad alzarmi da solo. Tuttavia, una volta in piedi, la caviglia sinistra comincia a dolermi e mi accascio nuovamente in ginocchio circondando con una mano la parte lesa.

«Ti fa male la caviglia.», dice Kagome e non ha l'aria d'essere una domanda.

«Signorina, forse dovremmo chiamare un'ambulanza!», fa notare qualcuno fra la piccola folla, un'anziana dalla voce gracchiante.

«No! Nessuna ambulanza! Sto bene!», dico immediatamente, frettoloso.

Non ho intenzione di passare una giornata in ospedale, ho un colloquio da fare. Maledizione, maledizione, maledizione! Non se ne parla neanche, nessuna ambulanza. Io sto benissimo. Ho perso fin troppo tempo. 
Qualcuno cerca di ribattere ma vedo Kagome alzare un dito con il suo solito fare autoritario e i brusii che ci circondando si zittiscono immediatamente.

«Non c'è bisogno di nessuna ambulanza.», afferma Kagome.

Oh, finalmente Higurashi ha detto qualcosa di pertinente, qualcosa di giusto in un'esistenza di stupide cazzate. Magari, adesso, la odio un po' meno.
Con una buona dose di fatica, riesco nuovamente ad alzarmi. Questa volta, mi mantengo in piedi, tenendo leggermente sollevato il piede incriminato e attento a non esercitarvi sopra alcun peso.

«Non ce n'è bisogno perché sarò io a portarlo all'ospedale.», aggiunge quella grandissima stronza di Kagome Higurashi.

Ho cambiato idea. Sì. La odio tanto. Tantissimo. Magari, in un'altra occasione, avrei anche potuto far finta di essere gentile e riconoscente. Ma non oggi.

«Non ho bisogno di andare in ospedale.», dico e cerco di mantenere un tono di voce pacato. Dagli sguardi spaventati dei presenti, capisco che non ci sono riuscito. «Non ho tempo. Ho... un colloquio. È importante.»

Kagome schiocca la lingua e incrocia le braccia. Il suo viso candido e ovale si macchia di un sorrisetto che mi riporta alla mente brutti ricordi.

«Inuyasha, sei sempre il solito.», dice e socchiude gli occhi grigi. «Sempre ligio al dovere! Non ti importa nient'altro. Hai bisogno di andare in ospedale, quantomeno per un controllo blando, giusto per scrupolo. Fidati.»

«Senti, tu!», comincio e lei rimane assolutamente impassibile davanti al mio tono alterato e aspro. Per un attimo, mi ricorda quel cretino di Sesshomaru e questo me la fa odiare ancora di più. «Io devo andare!»

«Stiamo bloccando il traffico.», mi fa notare lei, ignorandomi completamente e indicando le macchine ferme dietro di noi. E solo ora sento i colpi di clacson e alcune lamentele urlate. «E hai bisogno di essere portato in ospedale ed è mio dovere accompagnarti. Faremo prestissimo. Se non lo fai, chiamerò l'ambulanza e anche la polizia. E giuro che così, sì, perderai moltissimo tempo.»

Eccola, quell'aria da “so tutto io”, da quella che comanda. Quell'aria da dura. Sì, non mi sbagliavo, è sempre la solita rozza teppista. Tuttavia, capisco che mi ha in pugno e lo capisce anche lei, lo noto dal sorriso che fa quando le lancio un'occhiata bieca, carica di astio.
Si avvicina e piazza il suo casco nero sopra la mia testa, così, senza preavviso.

«Si può sapere che fai?!», chiedo e, adesso, anche io sembro Darth Vader.

«Signori, non c'è più niente da guardare.», urla Kagome alla folla che ancora, imperterrita, è rimasta intorno a noi. «Lo spettacolo è finito. Rompete le righe. Grazie dell'aiuto.», dice congedandoli.

Mentre la gente comincia, pian piano, a spostarsi, Kagome raccoglie la mia cartellina e me la spiaccica letteralmente contro il petto. Io la afferro e la tengo stretta. Non si è neanche aperta, fortunatamente. La ragazza sale nuovamente sulla moto e mi fa segno di fare lo stesso. Seriamente?! Devo salire sopra una motocicletta con questa pazza che ho rivisto dopo anni? Certo. Ho capito in che modo vuole farmi finire in ospedale. Tutto chiaro.

«Beh? Che fai lì, impalato?», mi chiede e curva un angolo della bocca all'insù. Sto per dire qualcosa ma il suo sbuffare mi blocca e la guardo in cagnesco. «Poche chiacchiere dolcezza, sali o puoi dire addio al tuo prezioso colloquio.»

Mi cruccio e vorrei dirle che a quel cacchio di colloquio, forse, posso dire già addio. Sospiro pesantemente, improvvisamente arrendevole; mi avvicino alla grossa moto, un bel modello imponente e tirato a lucido, e salgo con non poca diffidenza. Adesso lei è senza casco, i capelli neri che le cadono ribelli sulla schiena. Come cacchio mi sono cacciato in questa situazione? Dannata sfortuna e dannato semaforo. E dannata lei.
Kagome aziona il motore e la motocicletta comincia a rombare, vibra potentemente sotto di me. Una roba così bella nelle mani di questa ragazza! Tsk!

«Sei in condizioni tali che ti permettono di affrontare il trasporto in moto, altrimenti avrei chiamato l'ambulanza io stessa, puoi stare tranquillo. Comunque, se dovesse girarti la testa, cosa che dubito, dimmelo subito.», si raccomanda, le mani ben piantate sul manubrio. Ma cos'è questo tono sicuro e autoritario? Mamma mia, quant'è saccente! «Adesso, stringiti a me. Forte.»

Circondo la sua vita esile con le braccia e la stringo in un abbraccio goffo, la mia preziosa cartellina incastrata fermamente fra la sua schiena e il mio addome. Questo contatto, se pur leggero e appena accennato, mi sembra talmente strano che non posso fare a meno di sentirmi imbarazzato.

«Sì, ma non te ne approfittare.»

Capendo a cosa Kagome si stia riferendo, sbuffo sonoramente, stizzito. Che noia, questa ragazza!

«Fhé! Figurati quanto me ne importa, di approfittarmene!», le faccio notare.

Kagome scoppia a ridere e mi accorgo di apprezzare quel suono che, immediatamente, si mescola al rombo della motocicletta in partenza.

* * *
Arrivati proprio davanti l'entrata del più grande ospedale di Tokyo, Kagome Higurashi, con una manovra da manuale, fluida e precisa, posteggia la moto in un angolo che mi sembra sia riservato al personale. Sempre ad infrangere le regole, questa qui!
Comunque sia, guida bene – non l'avrei mai detto – ed io sono ancora vivo. Almeno questo.

Kagome smonta dalla motocicletta e, con lo stesso preavviso di quando me l'ha fatto indossare, mi sfila il casco.

«Guarda che ho ancora le capacità motorie.», le dico, stizzito, e faccio per scendere dalla moto.

Kagome ridacchia e mi ferma nuovamente, sempre con quella sua aria saccente. Miei dei, come fa ad essermi così antipatica pur senza parlare?

«So bene che hai ancora le tue capacità motorie e mi fa molto piacere.», dice e mi dà un buffetto sulla guancia. Che cos'è tutta questa confidenza?! «Tuttavia, non scendere dalla moto. È un ordine. BARELLA POSTAZIONE A12!»

«Cos-»

Non ho alcun tempo di replica. A quell'ordine dispotico, vedo subito accorrere due tizi completamente vestiti di verde – due infermieri – che trascinano una barella. Il primo è alto e slanciato, i tratti del viso sono delicati, femminei. Il secondo, invece, è più muscoloso e mascolino. È calvo e ha un'espressione talmente annoiata che mi sento stanco per lui. I due mi afferrano, sollevandomi senza sforzo, e il mio cervello ci mette un po' prima di realizzare cosa sta succedendo.

«Ehi! Ehi!», protesto mentre vengo posizionato sulla barella, come se fossi una bambola di pezza e non un uomo maturo e abbastanza nerboruto.«Higurashi, mi spieghi?!», urlo quasi, lanciandole un'occhiata assassina. Lei mi ignora, ovviamente. Manco a dirlo.

«Sshh, calmo tesorino. Tranquillo.», mi sussurra l'infermiere femmineo e prende a carezzarmi la guancia con un atteggiamento languido che mi turba. «Bellezza, facciamo un calmante?», chiede poi rivolgendosi a Kagome.

Calmante?! Cosa?! Ma neanche per idea! Comincio a dimenarmi ma quelli mi circondano con delle cinghie, come se fossi un pazzo. Maledizione! Sapevo che non dovevo fidarmi di Higurashi!
Cominciano a spingere la barella ed entriamo all'interno dell'ospedale. Le forti luci a neon mi costringono a strizzare gli occhi.

«Sì, Jakotsu, mi sembra una buona idea. Pare tremendamente agitato.», dice il tipo pelato e rivolge anche lui lo sguardo verso Kagome. «Dottoressa Higurashi?», chiede, come ad aver conferma.

Improvvisamente, smetto di dimenarmi e spalanco la bocca. Dottoressa? Ma chi? Higurashi? No, non posso crederci.
Kagome sogghigna e per un attimo temo il peggio. Poi, con mio grande sollievo, scuote la testa.

«No, Renkotsu, tutto sotto controllo.», dice con voce ferma, oserei dire professionale. «Portatelo vicino lo sportello informazioni.»

I due annuiscono e mi vedo trascinare verso un bancone al di là del quale stanno diverse infermiere.
Higurashi, un medico. E chi l'avrebbe mai detto? A vederla, non avrei mai pensato fosse finita qui, così. Lei ad aiutare gli altri... credo proprio che sia assurdo. Ecco perché mi scrutava in quel modo, perché aveva tentato di sentire il mio battito, perché aveva capito subito cosa avessi, perché mi aveva rassicurato sulla validità del trasporto in moto. Quel suo modo professionale di agire...
Ed ecco perché aveva posteggiato in quell'angolo riservato. Nessuna voglia di ribellione dunque...
Vedo Kagome avvicinarsi al banco informazioni mentre i due infermieri rimangono al mio fianco, senza parlare.

«Sango bella!», chiama Kagome appoggiandosi al banco.

Una ragazza dai lunghi capelli castani, anch'essa vestita di verde, le regala un sorriso e si sporge in avanti. Sembra dannatamente gentile, sicuramente più di Higurashi.

«Ehi, Gome! Cosa posso fare per te?», chiede la ragazza con un sorriso dolcissimo.

Rabbrividisco a quel soprannome. Quell'orribile nomignolo; era così che la chiamava quel suo stupido gruppetto di amici. Aggrotto le sopracciglia e sbuffo, preso da una collera improvvisa nutrita da ricordi passati. E vorrei ardentemente essere da qualche altra parte.

«Ascolta, il mio amico ha avuto un problema...», dice e mi indica, volgendosi leggermente verso di me. Vedo la ragazza di nome Sango lanciarmi un'occhiata perplessa e io storco la bocca alla definizione “amico”. «Devo visitarlo velocemente. Puoi evitare di mandarmi gente alla 4 finché non ho finito con lui? Vi sono altre undici stanze. Ti prego.», supplica con voce leziosa.

Kagome sta supplicando? Per far un favore a me? Un ghigno nasce sul mio viso, senza che possa impedirmelo. Avrei pagato per sentirla supplicare, dodici anni fa.
Sango mi scruta per un attimo poi il suo sguardo si posa nuovamente su Kagome. E sorride.

«Ohh, grazie Sango bella!», esulta Kagome e si sporge più che può per riuscire a lasciarle un bacio sulla guancia. Higurashi affettuosa? Queste scoperte mi sconvolgono. «Portatelo alla 4, sono di turno lì, al pronto soccorso.», dice poi ai due infermieri.

Jakotsu e Renkotsu annuiscono e la barella comincia a muoversi velocemente. Notando i miei occhi sbarrati e le mie sopracciglia perennemente aggrottate, l'infermiere Jakotsu mi regala un'altra inquietante carezza.

«Non preoccuparti, tesorino, non ti succederà nulla.», mi rassicura, come se fossi un bambino. «E poi, Gome è un angelo. Sei in buonissime mani. Ma... voi siete amici, vi conoscete già. Che te le dico a fare?», si chiede e poi ridacchia.

Un angelo. Seh. E che me lo dice a fare?

* * *
Sono chiuso in questa stanza bianca da ben dieci minuti. Quei due tipi mi hanno steso sul lettino presente e mi hanno scaricato qui. Sto giocando con un abbassalingua e mi sto irritando terribilmente. Più penso al colloquio, più la rabbia sale. Chissà cosa avrà fatto Bankotsu...
Mi tiro improvvisamente a sedere e sgrano gli occhi. Bankotsu! Merda! Non sa che fine io abbia fatto, sarà furioso! Mi tasto le tasche dei pantaloni e trovo il cellulare. Si è spento. Premo il tasto di accensione e sto qui, così, in trepidante attesa. Oh, per favore, fa' che non sia scarico... Fortunatamente, si accende. Lo spegnimento dev'essere dovuto alla botta. Merdamiseria.Venti chiamate perse. Guardo l'orario sul display e il mio cuore perde un battito. Sono le undici e un quarto. I colloqui sono già belli che cominciati. Mesto ed intristito, compongo il numero di Bankotsu ma, mentre lo faccio, mi arriva proprio una sua chiamata. Sospiro e chiudo gli occhi, abbandonandomi completamente contro il lettino.

«Pronto.», sussurro, rassegnato.

«Inuyasha. Amico. Dove cazzo sei?!», il tono è calmo ma sento che sta trattenendo a stento la stizza nella voce. «Hai la cartella, hai i progetti, hai tutto. Mi spieghi cosa diavolo stai facendo?»

Sospiro e mi porto una mano alla testa. La sua voce comprensibilmente arrabbiata mi stordisce, mi confonde e mi fa sentire terribilmente in colpa.

«Ban, mi dispiace tanto. Io... ho avuto una specie di incidente... sono... sono in ospedale, ecco.», bofonchio a bassa voce, vergognoso. Quel cazzo di semaforo rosso, maledetto. Maledetto.

«Oh, Kami-sama! Ti sei rotto qualcosa?! Ti vengo a recuperare. Tu e la tua sfortuna!», lo sento dire tutto d'un fiato.

«No, ehi, Ban... non ce n'è bisogno. Tu rimani lì, magari riesci a ricavare qualc-»

Non riesco a proseguire il mio discorso poiché il telefono mi viene letteralmente strappato dalle mani. Kagome è accanto al lettino e sobbalzo, colto di sorpresa, dal momento che non l'ho sentita arrivare. Indossa un camice bianco, i capelli sono legati in una coda alta e stringe al petto la mia cartellina. Oh, aspetta. Sì, è proprio la mia cartellina! Cerco di afferrarla ma lei si allontana e io sbuffo, spazientito. Kagome armeggia con il telefono e mi sembra di vederle inserire il vivavoce.

«Ciao, tipo con cui parla Inuyasha. Sono Kagome.», dice, allegra.

Incrocio le braccia e le rivolgo un'occhiata truce. No, ma prego. Fa' pure.

«Inuyasha, bastardo. Allora eri con una donna!», sento urlare Bankotsu.

«No, Inuyasha è in ospedale ed io sono il suo medico.», afferma Kagome e rieccolo, quel tono serio e professionale. «Il tuo amico è stato vittima di una caduta, un quasi incidente. Mi accingo a visitarlo anche se posso dirti, già da ora, che non ha riportato nessun danno grave e/o permanente. Ti esorto, inoltre, a restare con il culo piantonato su quella sedia o, comunque, dovunque tu sia. Inuyasha farà quel colloquio. Cordiali saluti e, mi raccomando, non muoverti!», e riattacca.

Guardo Kagome ad occhi sbarrati mentre lei, con tutta calma, viene verso di me, si siede ai piedi del lettino e mi restituisce cellulare e cartellina. Ha detto un sacco di balle a Bankotsu e solo per farlo stare zitto. La solita dispotica. Recupero le mie cose e le lancio l'ennesima occhiataccia mentre lei mi dedica semplicemente un sorriso davanti al quale rimango un attimo bloccato.

«Allora, Inuyasha. Come ti senti?», mi chiede, banalmente.

Si alza, si avvicina velocemente e si siede di nuovo, al mio fianco, sul bordo del lettino. Mi prende il viso fra le mani e lo avvicina al suo. Trattengo il respiro, imbarazzato, mentre lei gira il mio viso in più direzioni e mi osserva da vicino. Estrae una specie di penna dalla tasca del camice che si rivela una sorta di lampadina. Mi punta la lucetta sugli occhi, alla ricerca solo lei sa di cosa.

«B-bene.», rispondo dopo un po' e avrei voluto che la voce uscisse sicura ma la sua vicinanza, in qualche modo, mi stordisce.

Annuisce poi si allontana all'improvviso. Afferra una cartella da un tavolino poco distante e comincia a scrivere.

«Riflesso pupillare alla luce buono.», dice ad alta voce poi lascia cadere cartella e penna sul lettino. Mi sorride di nuovo ed io stringo le labbra. «Allora... quindi, non ti ricordi di me?», chiede.

Sbuffo e mi ritrovo nuovamente a guardarla in cagnesco. Lei sospira e annuisce ed io mi tiro indietro, senza capire. Si alza in piedi e comincia a tastarmi la testa, delicatamente. Il suo tocco fra i capelli mi piace e mi sento quasi uno stupido quando questa consapevolezza mi sfiora. Mi volto leggermente e mi accorgo che il mio viso è pericolosamente vicino al suo seno. Mi volgo nuovamente, imbarazzato, guardando dritto di fronte a me.

«Non hai battuto la testa. Lo sapevo.», afferma e io annuisco. Scrive ancora sulla cartellina poi solleva lo sguardo e mi sorride. E, per un attimo, mi sembra di scorgere tristezza in quel sorriso. «E ti ricordi di me. So anche questo.»

Io annuisco, con finta aria noncurante, e lei sospira ancora. Si siede nuovamente alla fine del lettino e comincia a slegarmi la scarpa sinistra. Scatto istintivamente in avanti, per impedirle di farlo, ma lei mi blocca con un gesto della mano. Sbuffo. È una situazione davvero inverosimile, non smetterò mai di pensarlo. Mentre Kagome mi toglie la scarpa, il calzino e comincia ad esaminare la mia caviglia, io comincio a scrutarla. Mi trovo a riflettere che, se non fosse stata proprio lei, sarei stato quasi compiaciuto di avere una dottoressa di tale bellezza ad occuparsi di me. Perché... beh, sì. Lei è bella. Molto bella. Lo è sempre stata, lo era anche prima. E probabilmente... lo diventerà sempre di più. Strizzo gli occhi e mi porto una mano alla testa. Ma cosa mi viene in mente?!

«La caviglia sinistra è lievemente gonfia. Come avevo già capito, hai una piccolissima distorsione.», m'informa e io annuisco semplicemente, attendendo che dica altro. «Metodo RICE: rest, ice, compression, elevation. In pratica, riposo, ghiaccio, compressione ed elevazione.», spiega e annota il tutto sulla cartella.

Io rimango zitto; non ho voglia di parlare con lei. Tuttavia, mi scopro interessato ad osservarla. Noto il modo in cui storce il naso quando sbaglia a scrivere qualcosa – lo storceva allo stesso modo quando qualcuno non eseguiva i suoi ordini, a scuola. Noto il modo in cui si porta i capelli dietro l'orecchio, graziosamente; anche questo gesto mi è familiare. La vecchia Kagome sembra ancora albergare in lei, chissà dove. Eppure, mi sembra diversa e non riesco a capire perché la sensazione di astio pizzicante che provo va, pian piano, lasciando il posto alla curiosità.
Solleva lo sguardo su di me ed io distolgo il mio, imbarazzato. Perché faccio così? Io non la sopporto. Da sempre. La osservo alzarsi, recuperare un cuscino e prendere del ghiaccio da un piccolo frigorifero lì accanto.

«Senti, Inuyasha, mi dispiace per tutto quello che è successo... tanto tempo fa.», dice mentre mi solleva il piede per poi deporlo sopra il cuscino. «Insomma, eravamo semplicemente dei ragazzini. Ti chiedo scusa, per quanto vale.», aggiunge e lascia il sacchetto di ghiaccio sopra la mia piccolissima distorsione.

La sua aria è vistosamente costernata ed io non so bene cosa dire. Da un lato, il me maturo e ormai cresciuto dice che non gliene frega niente di tutta questa storia, che ormai è acqua passata. Ma il ragazzino ferito, sfigato e secchione è ancora qui, da qualche parte. Ed è parecchio incazzato.

«Mi davate il tormento tutti i giorni, con quel nomignolo idiota. Tutti i santi giorni. Tu soprattutto... tu e quella stronza di Kikyo Noragami.», sbotto rosso in viso ed incrocio le braccia, vagamente stizzito. Oh, insomma! Lei ha ripreso l'argomento. Avrò pur il diritto di sfogarmi, no?

Kagome si siede nuovamente al mio fianco e abbassa lo sguardo. Si torce le mani e sembra terribilmente spiacente. Quando sente nominare Kikyo, però, le sue labbra si tendono in un pallido sorriso.

«Beh, tormento... ci limitavamo a chiamarti con un nomignolo – che ora non ricordo – ogni tanto... non abbiamo mai fatto nulla di violento o invasivo.», dice ma alla mia occhiataccia alza le mani, come in segno di resa. «Attenzione, non è una giustificazione. Ero una ragazzina parecchio stupida e frivola, Inuyasha. La cosa bella, però, è che si cresce. E crescendo, si capiscono e si imparano un sacco di cose.», mi dice Kagome con un sorriso.

Le sue parole mi colpiscono e mi ritrovo a pensare che, beh, in fondo ha ragione. Sono passati un bel po' di anni e lei, adesso, mi sta chiedendo scusa. È un gesto terribilmente inutile e allo stesso tempo... carino.

«Mi chiamavate “Secchiayasha”.», dico soltanto, passandomi una mano sul viso, rievocando quel soprannome odioso ch'era svanito dai suoi ricordi.

Kagome aggrotta le sopracciglia poi sospira ancora. Scuote la testa e si batte una mano sulla fronte.

«Sì, ora ricordo.», dice e uno sbuffo fuoriesce dalle sue labbra. Rosa e carnose. Come tanto tempo fa. «Oh, che soprannome stupido. Hai un nome talmente bello... è uno spreco storpiarlo così. Perdonami, cosa non avrei fatto per attirare la tua attenzione!», esclama sollevando gli occhi al cielo e poi mi sorride, ancora. Un sorriso dolce e carino, oserei dire.

Mi acciglio e rimango interdetto. Attirare la mia attenzione? Ha davvero detto così? Mi sporgo in avanti ed inarco un sopracciglio, scettico.

«Attirare la mia attenzione? Che cazzata stai inventando, Higurashi?», chiedo con tono provocatorio.

Kagome scoppia a ridere e mi dà una pacca sulla spalla. Improvvisamente, il suo tocco non mi dà più così fastidio. Anzi. La vedo arrossire lievemente e abbassare per un attimo lo sguardo per poi tornare ad inchiodarmi con quegli occhi grigi che mi fanno venire i brividi. Da sempre.

«Mi piacevi, Inuyasha, è questa la verità! Avevo una terribile cotta per te.», dice e si copre il viso con le mani prima di scoppiare a ridere ancora. «Ma io ero io e tu eri intelligente, il ragazzino più bravo dell'istituto! Così, per attirare la tua attenzione in qualche modo, ho cominciato a prenderti in giro. E i miei amici mi appoggiavano. Beh, Kikyo soprattutto... insomma era... è la mia migliore amica. Ma tutti gli altri... cioè, non potevo fargli capire che mi piacevi. Eri poco... cool per loro. Ero una tale cretina. Una tale cretina!», parla tutto d'un fiato, senza prendere una pausa, e comincio a pensare che la dottoressa abbia bisogno di una bombola d'ossigeno.

Non posso credere a quello che le mie orecchie stanno sentendo. Io piacevo a Kagome?
Io? Secchiayasha? Da non credere. Solo che... certo, non poteva confessarlo. Proprio perché ero io, Secchiayasha. Mi sento contento ma anche stizzito. Provo sensazioni contrastanti a riguardo.

«Non so se sentirmi lusingato o disgustato da questa cosa. Nel dubbio, provo entrambe le sensazioni.», confesso, piccato, e lei annuisce, come a darmene atto. «È per questo che a San Valentino tu non-»

«Sì! Non ho accettato i cioccolatini. E non sai che grandissimo sforzo ho fatto per rifiutarli.», rivela e scuote ancora la testa. Credo si stia dando mentalmente della cretina mille volte e la cosa mi fa malvagiamente piacere.

«Li hai buttati per terra. Sei stata crudele.», sentenzio, lievemente ferito.

Sì, a volte ci ripenso, e ci sto ancora male. Il primo tentativo amoroso fallimentare della mia vita. Il primo ed ultimo. Perché Kagome, prima che cominciasse a fare apertamente la stronzetta con me, mi piaceva. Ed anche molto. È davvero un peccato che tutte queste cazzate si siano messe in mezzo. Si vede che non era proprio destino.

«Lo so, mi dispiace, Inuyasha.», replica e mi sembra un tantino esasperata. «Quante volte dovrò chiederti scusa?!»

Incrocio le braccia e le rivolgo un sorriso bieco e compiaciuto. Questa cosa delle scuse comincia a piacermi più del consentito. Mmh, sì forse l'ho perdonata. Però, a lei non lo dico.

«Probabilmente, per sempre.», snocciolo, convinto.

Kagome inarca un sopracciglio e sbuffa, seccata.

«Adesso, però, stai esagerando. Sei tu che fai il teppista.», dice e poi mi regala un sorriso furbo. «Guarda che chiamo Kikyo, eh! Anzi, li chiamo tutti!», mi minaccia scherzosamente.

Sollevo gli occhi al cielo e lei si mordicchia il labbro inferiore, divertita. Sì, ricordo anche questo gesto; perché nonostante lei mi desse fastidio, nonostante ormai avessi preso ad odiarla... continuavo ad osservarla spesso. Troppo spesso.

«Quindi, siete ancora amici.», comincio, cercando di dissimulare il mio interesse crescente per le sue labbra. «Con quelli, dico.»

Kagome si porta una mano al mento e riflette un po', prima di far spallucce.

«Koga e Ayame si sono sposati e vivono ad Osaka. Hanno due figli. Naraku credo sia ancora a Tokyo ma non so bene dove sia impiegato e Hojo non so che fine abbia fatto.», racconta poi sorride. «Kikyo, beh, l'ho detto, è tutt'oggi la mia migliore amica. È una dolcissima insegnante d'asilo ed è una bravissima persona!»

Per poco non rischio di strozzarmi con la mia stessa saliva. Mi riesce ancora un po' difficile pensare a Kagome medico... ma Kikyo insegnante d'asilo... non riesco proprio ad immaginarmela! Povere creature.

«Tsk! Maestra d'asilo. Li fa scappare, i bambini!», borbotto, burbero, e Kagome scoppia a ridere. Una risata cristallina, tremendamente coinvolgente, tanto che sorrido e poi ridacchio anch'io.

«Tu, invece? Tu che fai, Inuyasha? Dimmi qualcosa di te.», mi chiede e sorride ancora.

Stringo le labbra e mi rabbuio. Cosa posso dirle? Non ho niente con cui colpirla.
Sono Inuyasha, ho ventisette anni, vivo ancora con mia madre e mia sorella... e niente, fa già ridere così. Se aggiungo le mie disavventure con il lavoro, poi, facciamo il quadro sfigato completo.

«Sono un ingegnere edile.», dico semplicemente e lei annuisce, interessata. Beh, fin qui tutto okay, è stato facile. «Ho lavorato per una società per tre anni ed andava tutto bene. Ma la compagnia è fallita da poco. Diciamo che, da circa due settimane, sono a spasso, ecco.»

«Mi spiace.», sussurra e abbassa un po' il capo. Poi, solleva lo sguardo di scatto e uno strano sorriso le illumina il viso. «Beh, oggi, però, dovevi fare un colloquio.»

«Appunto. Dovevo. Il colloquio aveva inizio alle dieci, partendo dal candidato arrivato per primo. Finivano poco prima dell'ora di pranzo. Ormai, con questa caviglia e tutto quel che è successo, mi sono giocato l'occasione.», spiego con tono intriso di collera. «E tutto per quel cazzo di semaforo rosso. E beh... tu stavi per investirmi ma... pensandoci bene, so che non è stata colpa tua. Il tuo semaforo era verde.», ammetto alla fine. Sì, insomma, non posso darle ancora la colpa... non la odio neanche più...

«Inuyasha, cos'è quel tono abbattuto? Non hai sentito cos'ho detto al tuo socio? Tu farai quel colloquio. Anche il tuo semaforo diventerà verde.», afferma Kagome, con sicurezza.

Il suo sorriso mi incoraggia e mi fa quasi bene, anche se so benissimo che non c'è alcuna speranza.

«Ma cosa blateri? Hai detto quelle cose a Ban solo per farlo stare zitto.», affermo con saccenza portandomi le mani dietro la nuca.

«Assolutamente no. Il colloquio si tiene alla Yamada company, giusto? È con loro che speri di lavorare, no? Cioè, so che la risposta è sì. Ho sbirciato nella tua cartellina.», confessa e vedo che si sta sfilando il camice. Non avevo notato il completo azzurro – da ospedale – che portava sotto quel camicione bianco. Mi ritrovo a pensare che le sta bene. «Ti porterò lì, in moto. Magari non è molto professionale da parte mia ma non hai praticamente nulla... poi mi prometti che starai totalmente a riposo?»

Aggrotto le sopracciglia e rimango basito. Ma è totalmente impazzita o cosa? Questa giornata non può più prendere la piega giusta. Ormai... ormai è andata. Kagome continua a sfrecciare come una pazza per la stanza; appende il camice, scrive altra roba sulla sua cartella, fruga nei cassetti di un mobile poco lontano.

«Non ha senso! Il colloquio terminerà a breve e non arriveremo mai in tempo. Sarebbe stupido anche solo fare la fatica di provarci per poi non ottenere nulla.», dico, scocciato. Sono stanco di illudermi.

Kagome si blocca un attimo e sbuffa.

«Io ho già deciso. Farai quel colloquio e, se per caso dovessimo arrivare oltre l'orario stabilito, lo farai comunque. Fidati di me.», dice con un tono che non ammette replica ed io, se pur non creda le cose andranno come lei dice, comincio a fidarmi comunque. Non so perché.

Kagome si dirige verso la porta e la spalanca. Guarda un po' a destra e a sinistra, poi si lancia fuori, poco oltre la soglia.

«Ehi, Dottor Stranamore!», urla e io sgrano gli occhi. Ma cosa diamine fa?!

Pochi secondi dopo, viene raggiunta sulla soglia da un ragazzo alto, in camice anche lui, con i capelli raccolti in uno strano codino. Il tipo le sorride e le dedica un lieve inchino.

«Il Dottor Stranamore è al tuo servizio, bella. Cosa c'è?», chiede il tipo.

«Stai smontando, giusto? Hai fatto il turno di notte.», dice Kagome poggiandosi allo stipite della porta.

Dove vuole andare a parare? Dal suo tono, si capisce già che vuole qualcosa. E lo capisce anche il tipo col codino perché sorride ed incrocia le braccia.

«Sì, sto andando a casa. Ma... tu vuoi che ti sostituisca. Corretto?»

«Sì, sì e ancora sì.», dice e quello sospira per poi annuire.

Ma come fa a farla sempre franca? O ha una capacità di persuasione bestiale... oppure... le vogliono davvero tutti un gran bene e sono disponibili ad aiutarla.

«Grazie, Miroku! Giuro, non ci metterò molto.», lo ringrazia e lo abbraccia frettolosamente prima di tornare da me. E comincia a parlare. Senza sosta. «Inuyasha, io vado a cambiarmi. Miroku, devi mettere ad Inuyasha la calza contenitiva, caviglia sinistra, lievissima distorsione. Se riesci, infila del ghiaccio all'interno. Non è professionale, lo so, ma per oggi gira così.», lo zittisce, prima che il tipo possa parlare. Si dirige velocemente verso il lettino, afferra la sua cartella e scribacchia qualcosa. «Ecco. Ho firmato la scheda con le sue dimissioni, poi portala a Sango. Ovviamente, ti farò ottenere un appuntamento con lei.»

Fa per uscire, dirigendosi fuori dalla porta, come una furia. Poi, torna indietro e si affaccia alla soglia, un piede dentro e l'altro fuori.

«Ah, Miroku, ti prego, lascia le tue pantofole ad Inuyasha. Non potrà rimettere le scarpe.»

«Cosa? Ammesso che io riesca a fare quel colloquio, dovrò farlo in ciabatte? Ma hai sbattuto la testa?!», sbotto, incredulo, e Miroku scoppia a ridere.

Kagome sbuffa e scuote la testa.

«Ma cosa importa se vai in pantofole? Tanto, non hai neanche la cravatta!», mi fa notare, prima di tornare a correre giù per il corridoio.

Sospiro e rivolgo uno sguardo rassegnato a Miroku che mi guarda a sua volta, divertito.

«In effetti, Gome ha ragione.», dice. «La cravatta è tutto.»

* * *
Sfrecciamo per il traffico di Tokyo ma con classe. Kagome ha un modo di guidare ineccepibile ma incisivo. Potrei dire che persino il suo modo di portare la moto è autoritario. Trova sempre lo spazio, la maniera di scavarsi una via ed andare avanti. Sempre con sapienza e intelligenza.
Siamo nella stessa posizione di poco tempo prima, la cartellina a dividere i nostri corpi ma le mie braccia che percepiscono il calore della sua vita, nonostante lo spesso giubbotto in pelle. Lei è nuovamente senza casco – sa di infrangere la legge ma ha deciso che questa giornata è stata fin troppo “poco professionale” per terminare diversamente. I suoi capelli, smossi dal vento, sfiorano il mio casco e mi perdo ad osservarli. Sì, preferisco mettermi a contemplare i suoi capelli e le loro diverse pieghe piuttosto che pensare che sto per andare ad un colloquio in pantofole.

«Guarda, Inuyasha!», urla ad un certo punto Kagome, la sua voce che esce ovattata, smussata dal vento.

Sollevo lo sguardo e stringo le labbra, stizzito. L'ennesima batosta di una sorte contraria. Davanti a noi si estendono numerosi semafori, uno dopo l'altro, a scandire il traffico. Sono il doppio rispetto a quelli della “valle dei semafori”. E – conoscendo la mia sfortuna – saranno anche scoordinati. Ovviamente, il primo semaforo della lista è... rosso. Esatto. Non ce la faremo mai.
Beh, v'è comunque un lato positivo. Il signor Yamada non mi vedrà in pantofole. E senza cravatta, certo.

«Arriveremo ancor più in ritardo.», urlo, cercando di farmi sentire nonostante il casco.

Kagome non risponde. Solleva il capo in direzione del semaforo e... la vedo soffiare. Sì, ha proprio soffiato. Lei soffia e il semaforo... diventa verde**. Sgrano gli occhi e mi acciglio, confuso e stupito, quando vedo la stessa cosa ripetersi per gli altri tre semafori successivi. Non appena arriviamo nei pressi di un semaforo, Kagome soffia e quello diventa improvvisamente verde.

«Hai visto, Inuyasha?», urla e poi ride. «È facile far diventare un semaforo verde. Non ci sono mica solo semafori rossi!»

«Voglio sapere il trucco!», dico a mia volta e poi rido anch'io. Sì, mi viene da ridere, tanto.

«Immagina non ci sia nessun trucco. È più bello se pensi sia vero.», mi fa notare lei. Ed io non posso fare nulla se non darle ragione.

Kagome continua a soffiare e il cremisi diventa verde, ancora ed ancora. Ed io vedo quel colloquio avvicinarsi, vedo quel sogno cominciare a riacquistare colori, non è più sbiadito come prima. Forse questa giornata può essere recuperata, forse mi stavo sbagliando... forse c'è ancora speranza...
Dopo quattordici semafori, dopo quattordici soffi, arriviamo alla Yamada company.
Kagome posteggia il motore poi, entrambi, cominciamo a dirigerci verso l'ingresso. Zoppico davvero molto e lei mi offre di farmi da spalla in questo breve tragitto. Io non accetto ma lei mi afferra comunque per la vita, attaccandosi a me. Ed io non posso fare a meno di assecondarla e di chiedermi perché, giusto con lei, mi trovo ad essere così arrendevole.
Una volta dentro l'ascensore, diretto verso l'ufficio di Yamada, sento la tensione divorarmi un po'.
Mi volto verso Kagome e la scopro già ad osservarmi; mi sorride ed io rimango piacevolmente catturato da quella bella curvatura. E sento il bisogno di dirle qualcosa.

«Kagome... grazie per quello che stai facendo.», dico, lo sguardo fisso sulle porte scorrevoli dell'ascensore. «Se stai facendo tutto questo per quello che hai fatto anni fa, credimi n-»

«Stupido!», mi interrompe, il tono aspro. «Non lo faccio per questo, figurati. Lo faccio perché te lo meriti, lo meriti moltissimo. Ed io volevo aiutarti. E devi fidarti di me, posso farlo.», spiega, il tono addolcito. «Sai, in ospedale dicono sempre che ogni volta che qualcuno ha bisogno, corro, anche quando non sta a me farlo, anche quando potrei lasciar perdere. Ma sono fatta così. Se posso aiutare, lo faccio. Con te, però... con te l'ho fatto molto più volentieri. È stato naturale, ovvio... più di come lo è stato con tutte le altre persone.», confessa e abbassa lo sguardo.

La guardo ed è dannatamente bella. È lei ma, sì, è cambiata, lo è davvero. È l'angelo di cui parlava quell'infermiere, adesso lo so. Adesso ci credo.
Vorrei risponderle, sto per farlo, ma le porte dell'ascensore si aprono immediatamente, cogliendoci di sorpresa. La sala d'aspetto, posta davanti l'ufficio di Yamada, è praticamente deserta. Vi sono soltanto due uomini che parlano l'uno di fronte all'altro e sembra stiano discutendo animatamente.
Uno dei due, lo riconosco benissimo. È Bankotsu.

«Signor Yamada, la prego, mi dia un altro po' di tempo. Il mio socio sta arrivando, glielo assicuro.», supplica il mio amico, accorato.

L'uomo scuote la testa, il viso crucciato in un'espressione di rammarico.

«Mi dispiace, signor Takasu, ma non posso. La puntualità è una componente importante in questo lavoro. Non ci sono proroghe né seconde possibilità.»

Quando cominciamo a muovere i primi passi all'interno di quell'ambiente immenso, lo strisciare delle mie pantofole e i tonfi degli anfibi di Kagome fanno voltare i due. Entrambi sgranano gli occhi.

«Inuyasha!», esulta Bankotsu, felice, e comincia a venirmi incontro. «Amico, come stai? Tutto nella norma, vero? Sai... ormai è tardi, ma non fa niente. Cioè, l'importante è che tu stia bene.», dice e si gratta la testa, imbarazzato. Il suo sguardo si posa poi su Kagome. «La dottoressa, suppongo.»

«Supponi bene.», risponde lei. «E comunque, non è tardi.», sussurra poi.

«Bambolina! Cosa ci fai qui?»

Il signor Yamada si avvicina velocemente a noi e sia io che Bankotsu rimaniamo interdetti non appena alle nostre orecchie giunge l'appellativo “bambolina”. Ci scambiamo uno sguardo perplesso mentre Kagome raggiunge Yamada e gli lascia un tenero bacio sulla guancia.

«Ciao, zio Kenta!», lo saluta, tutta contenta.

Io e il mio socio rimaniamo a bocca aperta, letteralmente, sorpresi.
Kagome è la nipote di Kenta Yamada?! Ecco perché mi diceva di fidarmi, perché era così sicura di riuscire ad aiutarmi! Sono incredulo e mi sento felice. Ho lo strano impulso di abbracciare Kagome; sono improvvisamente consapevole del fatto che, grazie a lei, la mia seconda possibilità si fa sempre più tangibile e concreta.

«Sono passata qui per accompagnare il mio amico Inuyasha. È colpa mia se siamo arrivati tardi, abbiamo avuto un quasi incidente.»

«Oh, miei dei! E stai bene?!», chiede l'uomo.

«Una lieve distorsione alla cavigli-»

«Non chiedevo a te.», mi interrompe l'uomo rivolgendomi un'occhiata apatica per poi tornare a concentrarsi su Kagome. «Sei intera, bambolina?»

«Interissima, zio. Sono io che ho quasi investito Inuyasha. L'ho portato in ospedale ed ora siamo qui. Mi dispiace tantissimo che i miei amici non possano più accedere al colloquio. Adesso è tardi... uffa, hanno anche degli ottimi progetti da proporre...», dice Kagome. China il capo e si cruccia in un broncio tanto delizioso quanto falso. E mi ricorda maledettamente Rin.

Kenta Yamada, però, si lascia subito intenerire dalla sua furba nipotina. Le prende il viso fra le mani, le sorride amorevolmente e sembra pronto a realizzare ogni suo desiderio.

«Su, bambolina, non imbronciarti! Non è tardi, sai?», assicura Yamada con voce leziosa ed io e Bankotsu potremmo anche metterci a fare la hola, se questo non andasse tremendamente a nostro svantaggio. «I tuoi amici avranno tutto il tempo che vogliono per espormi le loro idee. Adesso. Va bene, bambolina?»

Kagome gli getta le braccia al collo e lo stritola in un abbraccio che sembra esprimere sincera gratitudine.

«Grazie, zio!», esclama. «Intanto, andate. Io parlo un attimo ad Inuyasha della terapia per la caviglia e poi vi lascio.», dice Kagome e mi rivolge un sorriso.

Yamada annuisce e non se lo fa ripetere due volte, così come Bankotsu. Il mio socio mi sottrae la cartellina e mi dedica una strizzata d'occhio prima di dileguarsi nell'ufficio di Yamada.

«Avevi detto che bastava la cosa del riso, come terapia...», comincio grattandomi la testa, confuso. Non ci ho mai capito tanto, di robe mediche.

Kagome scoppia ridere e, solo sentendo quella risata, mi ritrovo a ridere a mia volta.

«È RICE, scemo!», esclama dandomi una leggera spintarella poi sospira. «Ah, lascia stare. Comunque, non volevo parlarti veramente della terapia, Volevo lasciarti questo.», dice ed estrae un bigliettino da visita dalla tasca del giubbotto. «Pensavo che... ecco... insomma. Dal momento che ci siamo incontrati... se avessi bisogno di un medico.», dice, tutto d'un fiato, e mi porge il biglietto.

Afferro il bigliettino e sorrido. Il rossore sparso sulle sue guance mi dice che non è realmente questa la ragione per cui questo biglietto da visita, adesso, è fra le mie mani.

«Con piacere. Sì, mi farebbe davvero piacere.», riesco a dire soltanto e sorrido. Prendo uno dei miei biglietti, dal taschino della giacca, e glielo porgo. «Questo è il mio.»

Lei lo afferra e annuisce conservandolo nella solita tasca del giubbotto. Poi mi si avvicina, lentamente. Io rimango immobile, in attesa, il cervello totalmente annebbiato. Kagome si alza sulle punte dei piedi e, delicatamente, mi lascia un bacio sulla guancia. E non so perché ma mi sembra di camminare a dieci metri da terra. E la caviglia non mi fa più male.

«Allora, ciao.», dice scostandosi un po' e tornando al suo posto. «Devi andare.»

«S-sì, infatti, certo, sì.», dico, confuso, cominciando a camminare all'indietro, come un idiota. Finalmente, capisco che devo voltarmi e prendo a camminare nel verso giusto, come le persone normali. Ma no, non sono soddisfatto. Mi volto ancora verso di lei e la vedo, sta andando via. «Kagome!»

Lei si volta immediatamente e nei suoi occhi mi sembra di vedere che non aspettava altro. Le sorrido, un sorriso sinceramente contento.

«Grazie per oggi, per tutto. Sei stata fantastica.», dico ancora. Ma non mi basta. Deglutisco e ci riprovo. «Grazie per aver reso verdi i miei semafori rossi. K-Kagome, tu... tu sei stata il semaforo verde... sei stata il mio semaforo verde in una giornata di semafori rossi. Ecco. Grazie.»

Lei è imbarazzata, è rossa, rossa come quel semaforo, rosso come sono anch'io. E, adesso, il rosso mi piace da morire. Mi rivolge un sorriso radioso ed io glielo restituisco. Altre parole sarebbero semplicemente superflue. A passo incerto, strascicando le mie odiate pantofole, mi dirigo finalmente verso l'ufficio di Yamada. Poggio la mano sulla maniglia e getto un ultimo sguardo al biglietto da visita di Kagome che ho nella mano.
Alla fine, oggi non è stata una giornata da buttare, è stata una giornata diversa, proprio come volevo. Mi sono svegliato tardi, ho sbattuto contro il comodino, Rin mi ha fatto fesso... poi, la “valle dei semafori” mi ha graziato e poi quasi ammazzato; ho incontrato Kagome, ho scoperto che non è più quella che era ed è riuscita a cambiare tutti i miei semafori rossi. E adesso, con questo biglietto da visita, che è una sorta di promessa fra le mie mani, sto facendo questo colloquio. In pantofole e senza cravatta.
Ed è stato bello scoprire che forse, fra me e Kagome, non è vero che non era destino. Forse, invece, è proprio destino.
E di tutto questo, allora, posso ringraziare quel semaforo che ho ritenuto soltanto causa di disgrazia. Quindi... grazie, caro e non più odiato semaforo rosso.

 

Note:
**Alcun* di voi, leggendo questa frase, avranno già capito. Ammettetelo, l'avete letta con la voce di Yzma ahahah! Tuttavia, per chi non avesse mai visto “Le follie dell'Imperatore”: https://www.youtube.com/watch?v=nOxPb6XFcvA (tempo 00:25)
**Darth Vader, per farla breve, è il tipo cattivo e tutto vestito di nero di Star Wars. (Luuuuke, sono tuo padre!)
**Scena liberamente tratta dal film “Una moglie per papà” con Whoopi Goldberg. (https://www.youtube.com/watch?v=ZCeKH1Kr26Q)
In realtà, nessuno è magico. Si tratta, ovviamente, di un preciso calcolo dei tempi. Ma, come dice Kagome, immaginare sia possibile che avvenga  per magia... è più bello! :p

 

Angolo autrice.
Non è la migliore delle mie robe, ne sono consapevole! È una cosina un po' strana! Fino all'ultimo, ero combattuta se inserire la categoria nosense. Non l'ho più fatto ma un po' nosense mi sembra comunque! XD
E nulla... non mi viene niente da dire (che strano!). Ho cercato di dare una visione veritiera dell'ospedale ma credo sia risultata molto fantastica, tipo un misto fra Scrubs, Grey's e tutte quelle cose lì. So bene che non è così e che Kagome non potrebbe giostrare le cose come le pare. Ma... è stata la sua giornata poco professionale, no? Chiudiamo un occhio. In quanto ad Inuyasha... sì. Vi sono al mondo persone sfigate come lui, a volte anch'io raggiungo il suo livello. Pietà per noi. XD 
Mi dileguo, adesso! A voi le considerazioni. :)
RJ.

[grazie a Miyu87 e Napee per essersi sorbite i miei scleri pre-pubblicazione. :D]

  
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