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Autore: Phoenix Mars Lander    16/09/2016    4 recensioni
Il Dean di diciott'anni, quello che Castiel aveva conosciuto non appena si era trasferito a Londra, avrebbe reagito ancora più violentemente. Lo avrebbe strattonato, spintonato e forse anche colpito con un pugno. E avrebbe fatto tremendamente male, perché il Dean di diciott'anni era solito girare per Camden Town con le dita ricoperte di anelli di metallo e il fegato ricoperto di una rabbia che diceva non gli sarebbe mai uscita dal corpo.
Se a quel tempo avessero predetto loro come sarebbe diventato Castiel in futuro, probabilmente si sarebbero messi a ridere a squarciagola e avrebbero ordinato un'altra pinta.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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Bare da una piazza e mezza







 
Castiel allungò il braccio destro sulla coperta trapuntata e lo seguì con lo sguardo, lo distese finché le nocche non superarono il bordo del letto e la sua mano non penzolò nel vuoto. Osservò le falangi sospese a mezz'aria e si rilassò contro il materasso, quello che era andato a cercare all'Ikea il giorno stesso in cui aveva divorziato e si era trasferito. Una piazza e mezza di paradiso in lattice poggiato su doghe miracolose per la colonna vertebrale! recitava la targhetta azzurra appesa alla testiera in ferro battuto, come un'esca sgargiante per chiunque avesse problemi di scoliosi e altre complicanze del genere. A Castiel non fregava molto della propria colonna vertebrale, a dire il vero. Aveva comprato quel letto perché era economico, la struttura era semplice e soprattutto il materasso era largo, tanto che ci si poteva dormire tranquillamente in due senza nemmeno doversi stringere.
Nell'ultima seduta della terapia di coppia con la sua attuale ex-moglie, lo psicologo aveva accennato che quella scelta potesse essere stata influenzata da una volontà di ricongiungimento con la propria partner e per poco Castiel non era scoppiato a ridere. L'ex-moglie aveva sospirato, rassegnata, e aveva commentato «È perché non sa stare fermo, di notte, dorme in posizioni assurde e potrebbe occupare da solo un matrimoniale.» Castiel aveva scrollato le spalle senza obiettare, perché la donna aveva ragione.
La prima volta che Castiel aveva visto un cadavere aveva sei anni e il corpo senza vita in questione era quello di sua nonna materna, che era morta nel sonno. Era andata a dormire alle dieci e mezza di sera dopo aver ingerito del tè Twinings dalla sua tazza preferita, come di consuetudine, e non si era più svegliata. Del funerale Castiel ricordava solo che la donna era bianchissima, circondata da tutto quel velluto viola, e che sembrava stare tremendamente scomoda. «Perché sta così?» aveva chiesto Castiel a suo padre Chuck, occhieggiando alle braccia della nonna incrociate sullo sterno e alle sue gambe unite. «Tutti i morti stanno così» aveva risposto l'uomo, prima di strattonarlo per una spalla e portarlo via dalla sepoltura.
Quella stessa notte, Castiel aveva dormito a braccia spalancate e non aveva più smesso di farlo. Ogni sera da quel momento, si era addormentato in tutte le posizioni immaginabili tranne che in quella che aveva assunto sua nonna nella bara. Castiel era convinto che, finché avesse tenuto i polsi lontani dallo sterno e le gambe a distanza di sicurezza l'una dall'altra, non avrebbe corso il rischio di non risvegliarsi più. Anche quando era cresciuto e aveva imparato che le persone possono morire in qualsiasi posizione, persino con le braccia tese e le mani sul volante, aveva comunque continuato la propria tradizione, assicurandosi di avere sempre letti abbastanza grandi per allungarsi per bene.
Il citofono suonò all'improvviso, trascinandolo fuori dai ricordi in cui si era immerso, e Castiel si alzò con un grugnito, attraversò l'appartamento quasi completamente spoglio e poi, una volta afferrata la cornetta, disse «Scendo».
Suo figlio Gabriel lo stava aspettando davanti al cancelletto bianco, con lo zaino in spalla e l'espressione di chi avrebbe voluto trovarsi ovunque tranne che lì, con lui. Aveva solo tredici anni e già era stufo di suo padre, di avere i suoi stessi lineamenti, i suoi stessi occhi azzurri, il suo stesso sangue nei capillari. Castiel non lo biasimava e, in tutta sincerità, quasi lo comprendeva.
Una volta Castiel non ne aveva mai abbastanza, del suo bambino, non ne aveva mai abbastanza dei suoi sorrisi, dei suoi abbracci, dei suoi tentativi di comprendere il mondo, ma ora vederlo quei due giorni a settimana era diventato un obbligo, un dovere, un'abitudine. Un appuntamento con cui riempire una pagina di agenda che altrimenti sarebbe stata del tutto bianca. Voleva odiarsi quando ci pensava, ma non riusciva più a fare nemmeno quello. Gabriel desiderava disperatamente non sentire più nulla per suo padre e Castiel desiderava disperatamente sentire di nuovo qualcosa per suo figlio.
«Ciao campione» lo salutò, allungando una mano per stringerlo, ma il ragazzino si tirò indietro. Non gli piaceva il contatto fisico, Castiel se ne dimenticava sempre. Come si dimenticava le sue intolleranze e quali fossero le sue saghe cinematografiche preferite e le sue debolezze.
Camminarono in silenzio fino alla fermata di Queensway, a qualche passo di distanza l'uno dall'altro, ed entrarono nella metropolitana, facendo scorrere la Oyster consumata accanto agli sportelli per poi dirigersi verso le scale mobili.
«Come sta la mamma?» domandò Castiel, più per inerzia che per vero interesse, appoggiando la mano destra sul nastro nero.
Gabriel scrollò le spalle. «Bene. Si vede con uno.»
Castiel annuì e si chiese se dovesse sentirsi geloso, a quel punto – se si fosse mai sentito geloso. «E tu? Come va a scuola?»
«Bene.»
Due sillabe e avevano finito di dirsi tutto quello che c'era da dire.
Lo sguardo di Castiel vagò per qualche istante sulle locandine dei musical che gli scorrevano accanto, da Cats a Wicked a Billy Elliot. «Dovremmo andare a vederne uno, una volta» propose, facendo un cenno con la testa in direzione dei fogli colorati appesi nelle teche di plastica.
«Non sono mica una femminuccia» commentò Gabriel, aprendo le labbra in una smorfia che stonava con la sua età biologica, col suo viso da tredicenne che somigliava così tanto a quello di suo padre, il viso in cui Castiel si perse per un istante. Gli faceva un effetto un po' strano, guardare il proprio riflesso leggermente distorto e modificato provare emozioni di cui lui non ricordava più l'odore, il sapore, il calore.
«Anche i maschi vanno a teatro, sai?» ribatté infine con un tono piatto e per nulla convincente. Se Dean l'avesse sentito parlare con quel tono gli avrebbe rifilato una sfuriata delle sue senza pensarci due volte. Gli avrebbe chiesto quale cazzo cazzo è il tuo problema? e dov'è l'uomo che si emoziona per ogni minima cosa? Il Dean di diciott'anni, quello che Castiel aveva conosciuto non appena si era trasferito a Londra, avrebbe reagito ancora più violentemente. Lo avrebbe strattonato, spintonato e forse anche colpito con un pugno. E avrebbe fatto tremendamente male, perché il Dean di diciott'anni era solito girare per Camden Town con le dita ricoperte di anelli di metallo e il fegato ricoperto di una rabbia che diceva non gli sarebbe mai uscita dal corpo. Se a quel tempo avessero predetto loro come sarebbe diventato Castiel in futuro, probabilmente si sarebbero messi a ridere a squarciagola e avrebbero ordinato un'altra pinta.
«Solo i froci lo fanno» mormorò Gabriel, prima di fiondarsi nel vagone da cui i passeggeri avevano appena finito di uscire. Castiel avrebbe voluto rimproverarlo per l'insulto, ma non lo fece. Non si dissero altro per tutto il tragitto.
Quando scesero alla loro fermata, accompagnati dal solito please mind the gap, l'attenzione di Castiel venne catturata da un ragazzo che stava eseguendo una canzone degli Scorpions con una chitarra acustica, appoggiato con disinvoltura a una delle colonne di cemento disseminate per la metropolitana. Castiel gli si fermò davanti.
Il musicista teneva il tempo battendo gli anfibi al suolo, muoveva la testa avanti e indietro e poi a destra e a sinistra, come se la musica gli fosse entrata nelle vene, nel midollo osseo, nel cranio, e gli stesse scorrendo dentro senza fermarsi un attimo. Castiel lo osservò con insistenza finché il proprio sguardo non diventò sconveniente, maleducato, scomodo. Disturbante per il suo stesso corpo, che ora aveva le arterie bloccate da coaguli di monotonia e inerzia e che non la sapeva più sentire, la musica. Non la sapeva più amare, da quando Dean aveva smesso di pizzicare le corde della propria chitarra sulle lenzuola sfatte dei motel, mentre Castiel si rivestiva per andare a lavorare, da quando Dean aveva cessato di canticchiare Carry on my wayward son sotto la doccia alle quattro e trentadue di mattina.
D'un tratto, sul volto del ragazzo apparve un sorriso, un sorriso che Castiel conosceva bene, a memoria, dai denti fino alle iridi, ma che non era più in grado di innescare. Il sorriso di chi è convinto di avere l'universo in mano e le galassie sui polpastrelli, di chi è convinto che a quarantasei anni sarà dall'altra parte del mondo a godersi la vita senza rimpianti.
«Hai intenzione di portartelo a letto o possiamo andare?» La voce infastidita di Gabriel gli arrivò alle orecchie, distraendolo dalla sua contemplazione.
Castiel non rispose alla provocazione; si limitò a voltarsi e a uscire dalla metropolitana col figlio alle calcagna, senza riservare alcuna ultima occhiata a quel musicista che suonava note che avevano un retrogusto di nostalgia.
Il centro di paintball era esattamente come Castiel lo ricordava: una distesa enorme di terra e fango divisa in tre aree diverse a seconda della difficoltà. La prima sezione aveva ben poche attrazioni in cui rifugiarsi, giusto qualche tenda piazzata qua e là, mentre la seconda presentava parecchie strutture di legno da usare sia come riparo che come punto strategico da cui mirare e sparare senza essere visti dalla squadra avversaria. La terza area era la più grande e proprio nel mezzo c'era il carro armato su cui veniva posizionata la bandiera che bisognava raggiungere e sventolare per vincere la gara.
Castiel rimase a guardare il campo mentre Gabriel correva dai suoi amici, a pianificare la clamorosa sconfitta dei loro genitori e a parlare di qualunque cosa parlassero i ragazzini a quei tempi. Castiel non ne aveva idea.
«Signor Novak, è un piacere rivederla.»
Castiel si voltò e si ritrovò davanti la madre di uno dei compagni di classe di suo figlio. Non ricordava il nome di nessuno dei due, a dire il vero, sebbene la donna risultasse piuttosto difficile da dimenticare, con quei capelli rosso fuoco in tinta col rossetto e quegli occhiali da sole enormi tenuti a mo' di cerchietto – dettaglio quantomeno insolito, visto che Londra registrava poco più di millecinquecento ore di sole all'anno e quel pomeriggio decisamente non rientrava nel conteggio. A Castiel non sembrava proprio il tipo da infilarsi una divisa militare e buttarsi nel fango per sparare pallottole colorate; con ogni probabilità sarebbe rimasta per tutto il tempo in panchina a fare il tifo per l'uomo della sua vita. Il tredicenne, non il marito, s'intende.
«Altrettanto, signora... ?»
«MacLeod» precisò lei, allungando una mano che venne prontamente stretta da Castiel.
«Certo, mi scusi.»
«Si figuri, è difficile ricordare i nomi di tutte le persone che frequentano i propri figli.»
«Eppure lei ci riesce.» Anche la sua ex-moglie ci riusciva.
La donna scrollò le spalle e abbozzò un sorriso, come se conoscere a memoria la vita di suo figlio le venisse del tutto spontaneo. Castiel si era spesso chiesto come diamine fosse possibile saper fare il genitore senza neanche un manuale da consultare, un libretto delle istruzioni, una legenda che esplicasse almeno le nozioni base per essere una figura paterna decente.
«Come sta Hannah?» domandò la donna.
«Bene, lei... sta frequentando un uomo al momento.»
«Ah sì, Raphael, giusto? Il commesso di saponette speziate a Covent Garden.»
«Sì, sì, lui. Certo. Raphael.»
La signora MacLeod annuì, forse persa nel ricordo di mirabolanti descrizioni fisiche di Raphael che Castiel non aveva mai sentito.
«E lei, invece, signor Novak? Sta uscendo con... qualcuno?»
Castiel rimase spiazzato per un attimo, poi negò scuotendo la testa. Avrebbe voluto saperle dire che per lui già solo uscire con se stesso era un problema. Che forse avrebbe dovuto imparare a frequentarsi, prima di andare in giro a fare danni con le emozioni altrui, avrebbe dovuto invitarsi a cena e parlarsi di sé in tutta sincerità, offrirsi qualcosa al bar e poi arrivare davanti al cancelletto bianco di casa e dirsi è stata proprio una bella serata. E poi chiedersi se gli andasse di salire su, per la prima volta, ed evitare di lasciarsi per strada.
Avrebbe voluto saperle dire che con Dean non ci poteva uscire.
«Beh, è bello vedere che lei è Gabriel riusciate a trascorrere del tempo insieme. Sicuramente fa bene a entrambi.»
Castiel si sforzò di sorridere.
«Sì, è fantastico.»
La signora MacLeod annuì, compiaciuta, e si congedò per andare a sistemarsi sulla panchina, i boccoli scarlatti che le rimbalzavano sulla schiena mentre si allontanava.
Gabriel, intanto, lo stava chiamando per andarsi a preparare per la gara.
Castiel entrò negli spogliatoi e venne accolto amichevolmente da una decina di padri già quasi del tutto cambiati e pronti ad andare a mettere in riga i figli. Castiel si spogliò velocemente, rimanendo vestito solo dei boxer e delle proprie mancanze, e poi indossò la tuta militare e gli occhiali protettivi.
Entrò in campo che tutti lo stavano già aspettando con delle espressioni determinate stampate in volto e i fucili sottobraccio. Castiel si caricò il proprio in spalla e la gara ebbe inizio.
Giocare a paintball lo sfiancava sempre e quella volta non fece eccezione: dopo i primi quarantacinque minuti Castiel si ritrovò completamente a corto di fiato, con gli occhiali appannati e il sudore che gl'impregnava la divisa e gli scivolava fastidiosamente lungo la schiena. Per non parlare del fatto che era già stato colpito un numero imprecisato di volte e dire che i suoi muscoli si stessero lamentando leggermente per il dolore era un eufemismo: sebbene le pallottole fossero di vernice, venivano sparate alla velocità di trecentoventisette chilometri orari e l'effetto che producevano quando gli esplodevano addosso non era proprio dei più piacevoli.
Superata da poco l'ora e mezza di gioco, la terza e ultima base venne aperta e la squadra dei ragazzini vi si fiondò immediatamente, seguita da una raffica di spari colorati. Castiel, invece, rimase immobile nell'area ora completamente vuota, a guardare una costruzione di legno che si ergeva subito prima della linea di demarcazione che lo separava dall'ultima sezione, quella in cui le due squadre stavano già ricominciando a sfidarsi per raggiungere l'agognata bandiera della vittoria.
La ricordava alla perfezione, quella struttura: Dean ce lo aveva trascinato dentro, quella volta che erano andati a giocare a paintball con Sam, Bobby e il resto della combriccola per festeggiare l'addio al celibato di Castiel. Quella volta che Dean era incazzato nero e lui non riusciva a capirne il motivo: erano stati migliori amici per tantissimo tempo e aveva pensato che Dean sarebbe stato felice del suo matrimonio. Entusiasta, perfino, visto che questo doveva significare che la cotta non ricambiata di Castiel per Dean era stata apparentemente superata.
Quando Dean l'aveva afferrato di peso durante la corsa verso l'ultima base di gioco e spinto nella costruzione di legno, Castiel era rimasto a dir poco interdetto.
«Dean, cosa stai-»
La domanda nervosa di Castiel si era interrotta a metà e lui si era paralizzato, la confusione che gli annebbiava lo sguardo e le sopracciglia aggrottate mentre cercava freneticamente di capire cosa stesse succedendo.
Dean era restato in silenzio, in ginocchio nel fango davanti al suo migliore amico, coi rumori della battaglia in sottofondo e le gambe ben piantate nel suolo freddo e sporco che gli stava insudiciando la divisa poco a poco. Poi aveva alzato una mano e aveva afferrato saldamente la canna del fucile dell'altro, mentre l'arma tremava nella presa incerta di Castiel, e se l'era portata davanti al petto.
Castiel l'aveva guardato quasi terrorizzato. Una delle regole fondamentali del paintball consisteva nel divieto tassativo di colpire un avversario a distanza troppo ravvicinata, in quanto il proiettile avrebbe fatto molto più male di uno sparato da lontano. Ma Dean non si era mosso di un millimetro: aveva premuto il fucile contro il proprio torace e aveva continuato ad osservarlo.
Intanto, Bobby lo stava chiamando per l'ultimo sforzo, l'arrampicata sul carro armato. «Cas, muoviti, abbiamo quasi raggiunto la bandiera!»
Castiel l'aveva ignorato, congelato sul posto.
Sparami, aveva detto poi Dean.
Sparami perché ti voglio e non dovrei.
«Cas, andiamo, dove sei?!»
Il tremore alle mani di Castiel si era affievolito poco a poco, finché la canna che Dean stringeva fra le dita non aveva smesso definitivamente di vibrare. Dean l'aveva lasciata andare.
Sparami perché conosco a memoria le tue intolleranze, le tue saghe cinematografiche preferite, le tue debolezze.
Castiel aveva desiderato urlare, in quel momento, ma si era limitato a perforare Dean con lo sguardo, a inchiodarlo nel fango, a incolparlo.
Sparami perché non voglio vederti sposare qualcun altro.
Il colpo era arrivato fortissimo al torace di Dean, che aveva boccheggiato in cerca di ossigeno e poi fatto crollare la testa in avanti per qualche secondo. Sulla divisa verde scura e grigia che indossava, una macchia gialla sgargiante era rimasta impressa esattamente nel punto in cui si trovava il suo cuore e scivolava giù, lentamente, macchiando di vernice il tessuto ruvido.
Le iridi di Castiel si erano riempite di lacrime.
Le grida di vittoria della squadra dei più piccoli risvegliò Castiel dal suo viaggio improvvisato nei ricordi e lo lasciò spaesato, con un fucile in mano nel bel mezzo del campo e completamente solo.


 
~

 
Il tragitto verso casa di Castiel fu carico di una tensione pesantissima, che sembrava quasi trasformarsi in elettricità nell'aria umida di Londra. Castiel lo amava, quel clima, quando si era trasferito nella capitale dell'Inghilterra molti anni prima. Amava la freneticità delle persone, che non vedevano l'ora di uscire e divertirsi e vivere, amava le porte colorate delle case, i bus rossi a due piani, le cabine telefoniche fotografate continuamente dai turisti, le vetrate tutte uguali delle abitazioni, quelle attraverso cui potevi sempre vedere qualcuno leggere, o prendere il tè.
Amava Camden Town e le band punk che suonavano sotto il ponte azzurro e Dean che pagava sei sterline invece di tre, perché Cas era appena arrivato e necessitava di un po' di ospitalità londinese. Castiel si divertiva un mondo durante quelle serate, col braccio di Dean intorno al collo e le loro risate che si perdevano nel cielo, nascoste quasi del tutto dalla musica del gruppo di turno. Ora quell'entusiasmo non lo sfiorava nemmeno.
«Lo amavi?»
Castiel smise di camminare per un istante, appena fuori dalla fermata di Queensway, sorpreso sia di udire la voce del figlio sia per la domanda che gli aveva appena posto.
«Come?»
«Il tuo amico con cui tradivi mamma» precisò Gabriel, continuando a guardare fermamente davanti a sé. «Lo amavi?»
Castiel avrebbe voluto dire di sì, che lo amava come non aveva mai amato nient'altro e nessun altro al mondo, che alzarsi dal letto senza di lui non aveva senso, che non sentiva più niente da quando non aveva più i suoi occhi verdi addosso. Non avrebbe mai avuto il coraggio di dirlo a suo figlio.
«No» rispose.
Gabriel annuì e d'un tratto gli sembrò esausto, stanco di tutto quanto.
Quando arrivarono davanti al cancelletto bianco che delimitava il piccolo giardino di Castiel, questi si voltò verso il ragazzo e per poco non lo strinse, ma poi si ricordò che a Gabriel non piaceva essere toccato dalla gente. Prima che il figlio potesse andarsene, gli disse «adesso tu sei l'unica persona che m'interessa amare». Ed era vero, era più vero di qualunque altra frase avesse pronunciato nell'ultimo anno. Forse poteva imparare di nuovo ad essere un padre, anche se Hannah ripeteva sempre che non sarebbe mai cambiato, che non sarebbe mai guarito, che non ammetteva nemmeno di avere un problema al cervello da quando Dean se n'era andato, da quando si era ubriacato in quel cazzo di bar e aveva fatto partire l'Impala ed era andato a schiantarsi contro un muro.
Gabriel annuì soltanto, i denti che gli affondavano nel labbro inferiore e le spalle ricurve. Si allontanò senza dire una parola.
Castiel entrò nel proprio appartamento con un nodo in gola, proprio lì nel bel mezzo della trachea. Andò in camera e si sedette sul letto. Poi si sdraiò con la schiena premuta contro il materasso in lattice di una piazza e mezza, quello poggiato sulle doghe miracolose per la colonna vertebrale, e chiuse gli occhi, sigillando le palpebre.
Lentamente, ma con una sicurezza che non si sentiva dentro da tanto tempo, incrociò le braccia sullo sterno e unì le gambe.











Author's corner ~
Non so se ciò che ho scritto abbia un minimo di senso, forse un giorno riuscirò a scrivere una fanfiction normale e darò un party invitando tutti gli iscritti ad EFP.
COMUNQUE, spero che questa storia vi sia piaciuta, anche se piena di deliri as always.
Se siete arrivati a leggere fin qui, grazie infinite ❤
  
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