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Autore: DeniseCecilia    16/09/2016    4 recensioni
La mia prima fic per questo fandom, una mini-long in tre brevi capitoli, ovviamente Cherik ❤
Il titolo parla chiaro: mesi dopo gli eventi di Cuba in FC, Erik torna da Charles, e...
... la mia personale versione dei fatti (perché sappiamo tutti che nella realtà reale le cose sono andate così, e i due patati stanno insieme, 4evah).
.
Ogni capitolo mi è stato ispirato da una diversa canzone, che ho linkato all'inizio, ma ci tengo a precisare che questa NON è una song-fic.
Ogni citazione che riconoscerete sarà invece del tutto voluta ;)
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Charles Xavier/Professor X, Erik Lehnsherr/Magneto, Raven Darkholme/Mystica
Note: Lemon, Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Buongiorno a tutti!
Sono nuova in questo fandom ma già appassionatissima, grazie all'intercessione di Lara (autrice meritevole, oltre che bella persona).
Preciso subito che... beh, non ho letto ancora alcun fumetto. Non ho visto nessuno dei film della saga (anche se sto lavorando per recuperare!) e non ho letto che una manciata di fic Cherik, tra le quali quella di Asyouwish “Forward momentum”: se passi di qui e la scena del tavolo ti ricorda qualcosa, considerala un minuscolo tributo ;)
Dunque, ho scritto con in mente quelle poche informazioni (il materiale sulla saga è semplicemente infinito) ricavate dalle mie immersioni in Google: se doveste trovare qualche errore marchiano, di qualsiasi tipo, non fatevi problemi a farmelo notare!
Alcuni dettagli, invece, li ho alterati a mio gusto di proposito: per esempio Erik proviene da una famiglia ebraica laica, mi risulta, ma io... ho preferito altrimenti ;) E alla vigilia della
Giornata della Cultura Ebraica ve lo consegno così come ce l'ho nel cuore.
Grazie in anticipo a chiunque leggerà, e ancor di più a chi spenderà un minuto per commentare.

 


#24005
(POV Erik)


Mother for your derelicted
children from your womb evicted
grant us shelter harbor solace safety,
let us in!
Let us tell you where we travelled
how our hopes, our lives unravelled
how unwelcome everywhere we've been...

[An undoing world, Klezmatics]

 

Erik Magnus Lehnsherr: non avrei potuto scegliere nome più improprio, ora lo so, ma era il 1944 e tra i miei poteri di mutante non annovero quello di leggere nel futuro.
Degli scopi che mi hanno guidato fino a ieri - non sono trascorsi che pochi mesi da Cuba - restano solo ombre indefinite. Di quella che sentivo essere la mia grandezza ora provo vergogna, e la vergogna mal si adatta all'immagine di me stesso che mi sono costruito.
I fatti, preferisco stare ai fatti.
Non ho più alcuna grandezza, non me la sento addosso. Dunque, Magnus è inadatto.
Non ho alcun feudo sul quale regnare, e questo Lehnsherr* che pure ha un bel suono d'improvviso appare sfibrato.
E' una menzogna come tante altre e in quanto tale, alla lunga, ha mostrato la corda.
Di Magneto non parliamo nemmeno.
E' ora di rinunciare al nome, ai nomi che mi sono scelto.
Io sono nato Max Eisenhardt, ed è come tale che mi presenterò a te.
In onore della tua gioia di vivere che mi è oscura quanto lo è per te la scienza della manipolazione della materia, in tuo onore verrò a te sotto le apparenze del bambino sereno che pure per alcuni anni sono stato; prima del ghetto, prima del lager, prima di diventare un numero: 24005.

Le luci della villa sfidano il buio di queste ore tarde della sera, mentre cammino nella loro direzione.
Ma, è incredibile, anche in esse come in ogni cosa che ti circonda riesco a intuire gentilezza: eppure sono soltanto luci, cose inanimate e prive di carattere proprio. Esattamente come le fiamme dei pogrom a Varsavia, come quelle che dei Sapiens rimasti senza nome hanno scatenato attorno al corpo di Nina. Ammazzando lei ed anche me. Non conto più le volte in cui sono morto alla mia esistenza.
Non è del fuoco la colpa, nemmeno di Dio. E' dell'uomo: Dio ama, l'uomo uccide; così insisteva il rabbino. Sbagliava, Dio non esiste.
Ma siamo esistiti noi. I nostri corpi, i nostri gesti. Sono esistiti gli Shabbat solenni ed euforici, le morbide luci guizzanti della menorah che effondeva il suo calore e dalla finestra spiava le strade deserte del quartiere - ecco, ecco cosa mi ricordano le luci di Villa Xavier.
Casa.
Alzo lo sguardo e come a suggerirmi che il tempo non sta scorrendo inesorabile verso la fine, ma sta piuttosto riportandomi indietro, le vedo: le prime tre stelle. Funzionava così, per noi: per stabilire il momento esatto in cui il Sabato aveva inizio, si attendeva che nel quadro nero del cielo almeno tre stelle dichiarassero la loro posizione.
Così ora: sono arrivato, Charles.
Spoglio di tutto, ad eccezione del desiderio di rivederti.


L'intrusione senza riguardo mi mette quasi in ginocchio.
Impossibile non reagire nel modo che più ti contrarierà, ma ridere mi procura una fitta lancinante al cranio.
E' come se mi stessi spaccando in due, e mi tocca lasciarti fare: sei il fottutissimo più potente telepate su questa palla di merda che chiamiamo Terra, e se non indosso il mio elmetto c'è un motivo che, almeno, spero ti degnerai di apprezzare.
Inoltre, permettendoti di localizzarmi in anticipo, spero di evitare un attacco da parte dei tuoi protetti.
Comparire sulla soglia suonando semplicemente il campanello sarebbe una mossa davvero teatrale, ma forse la mia ultima, specie se fosse Summers a prendersi la briga di rispondere.
"Erik".
Ti sento tuonare nella mia mente, ma la tua voce è la stessa di sempre: pacata, corretta. Sì: corretta.
An Englishman in Westchester, New York. Ja!
"Charles", formulo a mia volta.
E' giusto: nella nostra situazione, nella situazione in cui io preso dall'odio ci ho entrambi gettati, si può dire che siamo diventati un po' estranei l'uno all'altro. E gli estranei, per educazione, usano presentarsi.
Ma subito allenti la presa e ti ritiri sulla superficie della mia coscienza. Dovevo aspettarmelo: mi hai fatto la promessa di non leggere i miei pensieri senza il mio consenso, e la rispetti. Figuriamoci.
Il problema è che stavolta, a me, questo tuo rispetto dispiace. Mi lascia interdetto, nonostante tutto, mi lascia fuori.
"Charles" insisto. Sono a pochi passi dall'ingresso, ormai. "Posso?".
Una domanda necessaria.
"Aspettami, arrivo".
Non mi trattengo, e un momento prima che allontani la tua presenza da dentro me ti lancio addosso qualcosa; l'equivalente di uno strattone al braccio, solo non fisico.
Non è un pensiero, è un'emozione.
Somiglia alla felicità, ed è così irragionevole e immotivata da farmi paura, ma te la invio, o meglio ti consento di afferrarla.
So che l'hai percepita, la nostra connessione è ancora lì, attiva, per quanto discreta.
Poi ti perdo davvero, e la porta si apre.

"Erik", ancora una volta mi chiami - se la tua voce è composta e ferma i tuoi occhi mi raccontano un'altra verità: ti sono mancato. E' così chiaro.
"Max" ti correggo. "Dopotutto, è così che mi chiamava mia madre. E tu puoi fare altrettanto... se lo vuoi".
Non sei uno stupido: hai già capito che questa è un'offerta di pace, ma a me resta da vedere se, dopo averla sancita, ne faremo parte insieme.
Non commenti, con un cenno mi inviti all'interno. Ti seguo.
L'atrio è vuoto, ma sento diverse voci rincorrersi ai piani superiori, su tutte quella di Hank.
"Ti vorrei odiare per quello che mi hai fatto...", dici dandomi le spalle mentre raggiungiamo il tuo studio.
Lo so. Ti ho tolto l'uso delle gambe, penso; con quello che da rabbioso rammarico, lontano da te, si è mutato in sorda disperazione.
Tuttavia non mi sfugge il condizionale, e in qualche modo il mio respiro si alleggerisce.
"... mi hai negato non solo collaborazione, ma anche la tua stessa presenza" constati. Già, non sei uno stupido. Lo stupido sono io, ieri oggi e sempre.
Hai classificato quel maledetto proiettile che ti ho spedito nella schiena sotto la categoria "incidente", e per quanto ne so non ci pensi da allora.
Ma l'essermene andato via ha pesato.
"Credimi, ero l'ultima persona di cui avevi bisogno" ti rispondo. E non ne avevo bisogno neppure io: senza saperlo, quel giorno sulla spiaggia ho abbandonato anche Erik Lehnsherr. Ho molto viaggiato, pur senza quasi mettere piede fuori dalla sede della Fratellanza, ed il mio alter ego, nel frattempo, s'è disfatto.
"Lascia che sia io a decidere di chi ho bisogno", replichi con la tua calma olimpica già recuperata.
Non ho altro da aggiungere: hai compreso ogni cosa era necessario comprendere.
Non chiederò scusa, non esprimerò in alcun modo il dolore che ho vissuto. L'hai vissuto parimenti tu, e non te ne stai lagnando; perciò non lo farò nemmeno io. Ciò che so è che mi hai fatto entrare nel luogo che ti è più caro, e mi stai ascoltando.
Non ho progetti precisi per noi, ma non è finita finché non è finita; potessi anche soltanto restare in questo posto e saperti a portata di sguardo, di tocco, di pensiero sarei anch'io, come sempre ho voluto, re in eterno.
Dal piccolo zaino monospalla che faccio scivolare sul divano, accanto a me, estraggo infine l'oggetto delle nostre infinite discussioni, la causa prima della tua amarezza. L'elmetto psicoisolante col quale ho strappato a suo tempo la tua mente dal contatto con la mia si stacca dal palmo della mia mano e si solleva sotto l'effetto del campo magnetico appena creato; con un gesto eloquente ed elegante non attendo oltre e lo accartoccio davanti ai tuoi occhi increduli, emozionati e bellissimi.
Anche un uomo come me può apprezzare la bellezza ma, purtroppo, la riconosco solo se nasce dalle ceneri di qualcosa.
Come in Magda. Come in te. Tutte creature spezzate, ciascuna a suo modo.
Il calore enorme sviluppato dalla compressione di materia avvolge l'elmetto in un alone incandescente da fornace, che lambisce le nostre facce illuminandoci come fossimo davanti al camino impegnati in una delle nostre partite a scacchi, e finisce per liquefarlo. La colata di metallo serpeggia sulla superficie del tavolo in legno, perfettamente lucido.
"Temo di aver rovinato il tuo Luigi XVI", ti faccio notare, e mi permetto una risatina sommessa.
"Santo Cielo, Er... Max. Fanculo Luigi XVI e tutta la sua corte. Non è quello che mi aspettavo, quando ho ti percepito nel giardino", ammetti.
Mi fa sempre piacere sorprendere le persone. In particolare l'impassibile Charles Xavier.
Avremo molto da dirci, noi due, non è così?
Ma prima tocca a te fare un'ulteriore mossa; e per un attimo, quando ti vedo salire con la mano al collo e poi infilartela sotto la camicia, tutto il repertorio di sesso che abbiamo condiviso in questi ultimi anni mi risveglia ricordi che a fatica ho sepolto in fondo alla memoria. E' una galleria di immagini inarrestabile e spontanea che prende a formarsi e galleggiare ben visibile alla tua consapevolezza, perché non faccio niente per fermarla e quasi, anzi, la spingo verso di te.
E' questo che ho fatto, d'altra parte, per questo sono qui: per aprirmi e lasciarti entrare. Dimentica la mia richiesta di non prendere contatto con la mia mente. Voglio che tu lo faccia, adesso, sono qui per lasciarmi plasmare. Fottuto bastardo, non hai avuto bisogno di manipolarmi con la telepatia per ottenere da me ogni cosa, alla fine: disponibilità, fedeltà, una specie di amore in rapido divenire.
La tua mano torna su ed emerge dal colletto, hai qualcosa tra le dita... e lo posso percepire, oltre che vedere.
Una fine catenina ti gira attorno alla gola e agganciato ad essa, che mi richiama attenzione e sensi con la sua anima di piombo e la mantellatura di bronzo, il proiettile.
Non posso avere alcun dubbio: non è un ninnolo da militare, tu lo sei stato ma non hai di questi vezzi.
E' il proiettile che ho deviato, seppur involontariamente, verso di te paralizzandoti.
E lo porti addosso come... come cosa? Un monito, o un cimelio?
"Era tutto ciò che mi rimaneva di te", mi informi candidamente, un accenno di sorriso che sboccia timido ma testardo. "Non ho voluto separarmene".
Un cimelio.
Una lacrima mi solca la guancia e sarà l'unica, ma ormai è scesa: un tributo dovuto, suppongo.
"Bentornato a casa, amico mio".

 

* Lehnsherr significa feudatario.
  
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