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Autore: Mizar_    23/09/2016    0 recensioni
Larry.
College!AU | Harry!Student Louis!Physicist | Angst. OOC. |
La vita di Louis orbita intorno alla fisica.
La vita di Harry orbita intorno alla filosofia.
La vita di Louis è la successione di momenti in cui cerca di rispondere ai grandi interrogativi della sua esistenza.
La vita di Harry è la successione di momenti in cui non spreca un secondo.
La vita di Louis si prospetta troppo corta, la vita di Harry si prospetta piena di sorprese.
Le loro vite si incrociano come se si trovassero su un binario e con la stessa velocità di un treno si ritrovano ai poli opposti.
In un battito di ciglia, la loro normalità continua a scorrere sotto le loro mani. Eppure quell'incontro porterà alla discussione di tutto quello di cui sono stati convinti.
Come continuerà la loro vita?
-
Dalla storia:
Louis fece la scelta, sbagliata, di preferire la fisica ad una vera vita. Perché la fisica doveva aiutarlo a comprendere il mondo, la vera vita l’avrebbe solamente reso come tutti gli altri.
[…]
Quel “Traduzione a cura di Louis William Tomlinson” sarebbe rimasto il suo orgoglio più grande.
-
Dedicata alla mia anima, ML.
A.
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Siamo esseri in un infinito limitato.

   

L'essere umano, sfortunatamente, non è ancora così elevato da poter capire tutto ciò che lo circonda.

Comprendere l'infinito lo aiuterebbe ad accettare l'esistenza del non essere a cui è strettamente legato.

Perchè la paura peggiore è ciò che non si può sperimentare e nella breve esistenza, a cui noi esseri umani siamo relegati, non potremo sperimentare troppe cose.

Dedicata alla mia anima, ML.

A.

 

 

 

Harry voleva veramente prestare attenzione a quella lezione.

Quella mattina si era alzato con la convinzione di poter frequentare il corso di fisica avanzata, come qualsiasi altro studente. Era partito con tante convinzione quella mattina, a dir il vero.

Durante quel lapsus una delle tante convinzioni, che per un secondo gli avevano sfiorato il cervello, fu quella di rispondere ad una delle tante chiamate che gli arrivavano dalla madre.

Aveva capito che non avrebbe rispettato neanche una di quegli strambi propositi – che per una ragione oscura si era promesso di rispettare quel giorno -, quando il suo cellulare si era illuminato alla stessa ora come era già successo precedentemente e lui aveva rifiutato, ovviamente, la chiamata.

Si era detto sono in ritardo per la lezione!, così senza pensarci due volte aveva messo il silenzioso e aveva chiuso il suo cellulare nella tasca della sua borsa affrettando il passo.

Per giustificare, in qualche modo, il perché avesse lasciato il cellulare a prendere polvere nella sua tracolla alla lista dei propositi quella mattina aveva aggiunto un prestare attenzione al corso di fisica.

Quindi, ora, Harry si era reso conto di non aver infranto solo una delle sue convinzioni, ma di averne infrante due – una delle quali era persino stupida -.

Non era colpa sua, però – scuse, scuse, scuse, ancora scuse -. Non era di certo colpa sua se quel professore aveva aperto quella lezione con un discorso così noioso da fargli passare già la voglia di concentrarsi sulle sue parole.

Era da più di venticinque minuti che stava parlando – Harry li aveva contati, fissare costantemente l’orologio appeso al muro era l’unica cosa interessante da fare -, per giunta quel prologo enorme serviva solamente per introdurre un’altra persona.

Quell’anziano professore con un po’ di pancetta e vestito di tutto punto – un’eleganza che Harry non sarebbe riuscito ad imitare neanche fra anni – con un accento prettamente non inglese gesticolava e continuava ad utilizzare parole sempre più ricercate.

Harry si stava chiedendo come tutti intorno a lui sembrassero così presi dalle sue parole, anche se forse anche loro come lui stavano solamente facendo finta di prestare attenzione.

Quello lui non poteva saperlo, ma sapeva perfettamente che era finito tra due ragazzi – gli unici, probabilmente – che prendevano appunti nonostante la lezione ufficiale non fosse ancora iniziata.

Aveva provato, al ventesimo minuto passato, a sbirciare tra gli appunti di quel ragazzo mulatto con gli occhiali dalla montatura nera spessa e in cambio aveva ricevuto solamente una fredda occhiata.

La biondina alla sua sinistra sembrava più socievole, era in costante movimento e dall’inizio della lezione sbatteva ritmicamente il piede a terra e produceva un fastidioso ticchettio con la penna bic ogni qual volta finiva di prendere nota di qualcosa.

Harry era il ritratto della felicità. In qualche modo il tempo avrebbe dovuto impiegarlo e rivolse un ultimo sguardo ai due ragazzi tra cui era seduto.

Un po’ per tristezza e un po’ per disperazione trovò il coraggio necessario e «Ho perso un attimo la concentrazione, potresti dirmi di cosa sta parlando?»

Il ragazzo dai tratti orientali smise di scrivere e prima di rivolgergli uno sguardo portò il tappo della penna nera sulla punta e la chiuse con estrema attenzione, come se fosse un gesto di vitale importanza. Dopo di che, girò il volto verso di lui e si abbassò gli occhiali fin sotto la punta del naso.

Gli occhi ambrati lo squadrarono dalla testa ai piedi e non si trattava di un’impressione la sua: il ragazzo aveva persino abbassato la testa per vedere che scarpe indossasse – e aveva persino fatto una smorfia disgustata alla vista dei suoi stivaletti scamosciati rovinati sulle punte, che su modesto parere di Harry erano assolutamente perfetti -.

Lo liquidò con un «Presta attenzione, mh?» e poi con stizza riaprì la sua penna e riprese a scrivere chissà cosa sul suo quaderno.

La bocca carnosa di Harry si spalancò, la mascella rischiava di toccare terra per quella risposta breve, concisa e velenosa.

Si riprese solamente quando il gomito della ragazza accanto gli toccò il braccio. Spostò il suo sguardo sulla bionda, la quale continuava a scrivere e di tanto in tanto alzava lo sguardo verso il professore perdendosi nei suoi pensieri.

La ragazza gli rivolse un timido sorriso e abbassò lo sguardo verso la sua tracolla posta sul banco. Solo allora si rese conto del fogliettino che era posato sulla borsa ripiegato accuratamente.

La scrittura era accurata, precisa e su ogni i erano riportati dei piccoli cuoricini, sembrava l’avesse scritto una bambina per quel minuscolo particolare.

Ciò che riporta è un messaggio ben chiaro: Oggi c’è un ospite per questa lezione, un famoso fisico francese. Scusalo, comunque. Non è sempre così.

Harry sorrise a quel semplice messaggio e rispose con velocità, abbozzando una scrittura veloce e cercando di non farsi notare dal professore che era a qualche metro di distanza da lui e di tanto in tanto gli rivolgeva occhiate agghiaccianti - doveva cercare di essere il più indiscreto possibile -.

Quanto manca alla fine di questo discorso infinito?

Ardentemente aspettò la risposta della bionda – solo ora notò come fosse perfettamente truccata e che avesse persino un piccolo brillantino sul naso -.

Un rilassati e cerca di entrare nel discorso in qualche modo stranamente bastò per fargli posare a terra la tracolla ed estrarre il taccuino con cui solitamente prendeva appunti per fisica.

Da quel poco che aveva capito si sarebbe parlato della teoria dell’infinito e quello già bastò per far spuntare ad Harry un sorriso con tanto di fossette, perché diamine quello sì, che gli interessava!

Un brusio generale si alzò alle ultime parole del professore – il riccio non poté che alzare gli occhi al cielo grato della fine di quel discorso di presentazione che sembrava durare una vita –.

Harry evidentemente si perse più passaggi, infatti, proprio non capì perché ad un certo punto tutti quegli studenti si erano alzati in massa ed erano scoppiati in un applauso fragoroso.

Lui, invece, rimase seduto troppo occupato a guardarsi intorno con aria stralunata.

Sembrò capirci qualcosa, solamente, quando un uomo ben vestito si era poggiato all’enorme scrivania posta al centro della sala e troppi paia di occhi si erano posati su di lui con fare accusatorio.

Harry rimase immobilizzato, i suoi occhi verdi si muovevano farneticamente in ogni angolo della stanza e il suo cuore galoppava alla velocità della luce. Era così imbarazzato che non sapeva cos’era meglio fare in quel momento, forse alzarsi e scusarsi?

L’uomo non sembrò infastidito da quel comportamento, tutt’altro. Si soffermò a osservare meglio quel giovane ragazzo con le guance in fiamme e con degli occhi smeraldi magnetici che si muovevano alla velocità della luce.

Harry quando si rese conto degli occhi del noto fisico su di lui si era alzato dalla sua postazione a fatica, cercando di non far cadere nulla, né i fogli che erano sul suo banchetto né il quaderno di appunti.

Mimò uno «Scusatemi.» in direzione dell’uomo che continuava a guardarlo con quelli che sembravano due lapislazzuli preziosi, un blu di una tonalità così complicata che se lui avesse voluta riprodurla, in un momento di pura follia visto la sua incapacità artistica, gli sarebbero servite ore, giorni, o anni.

Solo al suo gesto il resto dei suoi compagni sembrarono spostare i loro occhi altrove. Rimasero in piedi ancora qualche secondo, fin quando il fisico non si schiarì la voce.

«Credo sia inutile presentarmi, dopo questo enorme sproloquio durato un’abbondate mezz’ora riguardante me e su ciò che faccio nella mia vita giusto?» Chiese ad alta voce.

Ad Harry, però, non sembrò che stesse alzando la voce. Quel tono era delicato, dolce, carezzevole. Acuto a tutti gli effetti. Quasi il contrario della voce del riccio, sempre troppo bassa e roca, come se si fosse appena svegliato da una lunga dormita.

«In tutti i casi, credo sia doveroso presentarmi, anche con poche parole. Sono -» Ed Harry sapeva che qualcuno lassù doveva avercela veramente con lui, perché non c’era altra spiegazione a ciò che successe qualche istante a seguire.

La sua matita cadde a terra e nel silenzio generale che si era creato sembrò quasi risuonare nell’intera sala conferenze.

Harry istintivamente alzò gli occhi al cielo e si schiaffò una mano sulla faccia, cercando di capire come recuperare quella matita.

Non era neanche così semplice! Era arrivato in ritardo e i posti rimasti erano pochi: o uno in una delle ultime file, o quello in corrispondenza dell’enorme scrivania.

Sebbene una buona manciata di metri lo dividessero da quell’uomo che quasi gli incuteva timore, non c’era nessuno di fronte a lui che potesse in qualche modo coprirgli il volto nuovamente in fiamme.

A passo lento, l’uomo si spostò fino ad arrivare a scarso un metro da distanza da lui.

Si chinò per raccogliere la matita – Harry voleva sotterrarsi, eccome –.

Fece un sorrisetto nella sua direzione e «Come stavo dicendo, sono Louis William Tomlinson.»

Gli porse la matita e gli rivolse un sorriso di sbieco.

Il riccio si impose di non arrossire di nuovo, come uno stupido. In fondo, quell’uomo stava parlando ad un’intera classe. Tuttavia, quella semplice presentazione l’aveva conclusa guardandolo.

I suoi occhi nei suoi occhi, quel blu nel verde.

Il fisico gli diede le spalle e a passi lenti e cadenzati ritornò indietro per avvicinarsi alla scrivania, dove erano poggiati svariati fogli e foglietti.

Il riccio quasi inconsciamente «Harry, piacere.» sussurrò a voce talmente bassa che solamente la bionda accanto a lui poté sentirlo – e l’aveva anche sentito a giudicare dal suo sguardo puntato su di lui con la bocca increspata in un ghigno divertito -.

Tuttavia, alle sue parole, Louis si girò repentinamente. Si fermò e si prese qualche istante per pensare al da farsi.

Nessuno osò fiatare in quei pochi minuti di assoluto silenzio, nessuno sapeva come comportarsi. Mentre tutti erano irrigiditi e spaventati da ciò che quell’uomo avrebbe potuto dire, Harry lo guardava meglio.

E il primo pensiero il suo fu ha carisma. Harry l’aveva avuto ad un palmo dal volto e dire che era spettacolare era poco, troppo riduttivo.

Non aveva idea di quanti anni potesse avere, ma li portava a meraviglia.

Sul volto non era ancora comparsa una ruga, ad eccezione di quelle piccole rughette che gli si erano formate quando aveva abbozzato un mezzo sorriso divertito.

In quel completo elegante e con quella barbetta ben curata – Harry non amava particolarmente la barba sugli uomini, in realtà – forse recuperava qualche anno, nonostante l’età  tutti erano rimasti accecati dal suo carisma.

Era un uomo affascinante e ipnotizzava. O almeno aveva ipnotizzato lui, ed erano bastate veramente due parole messe in croce per destabilizzarlo così.

«Avete mai fatto caso da cosa è formata la parola infinito? E’ costituita dal prefisso in e dal sostantivo finito. Il termine, perciò, è formato per mezzo di una negazione. Qualcuno ha mai pensato al perché la sua struttura è così bizzarra?»

La voce di Louis William Tomlinson, mentre parlava della fisica – materia che lui aveva reso la sua vita –, diventava se possibile ancora più magnetica.

Dalle sue parole potevi percepire tutto l’amore che provava per quello che faceva, erano bastate poche frasi per far capire ad Harry quanto quell’uomo fosse colto ed innamorato di ciò che faceva.

Il silenzio che seguì incoraggiò Tomlinson a continuare il suo discorso: «La parola infinito non descrive assolutamente nulla. Non ci fornisce alcun tipo di informazioni su sé stessa. Generalmente la parola crea il concetto in sé per sé, le dà una definizioni. Non in questo caso.»

Ed Harry ci impiegò poco a capire dove stesse cercando di andare a parare quel professore e se ciò che pensava si fosse rivelato esatto, quell’uomo sarebbe ben presto diventato una di quelle persone di cui il riccio era affascinato e sognava di incontrare.

«Cosa esprime la parola infinito? Cosa comunica realmente? Vi do cinque minuti per elaborare una risposta.»

Harry la colse come una sfida personale. In realtà, lui si metteva sempre in discussione, gli piaceva rinnovarsi continuamente e trovare sempre qualcosa che lo spingesse in situazioni man mano più complicate, che gli facessero sentire il brivido lungo la schiena e gli togliessero il respiro.

Si stava già scaldando troppo, ma quella situazione era diverse da quelle a cui era stato abituato.

In questo caso, non doveva correre, non doveva essere agile, non doveva evitare ostacoli e non doveva neanche saltare.

Eppure il cuore martellava con la stessa intensità di quando si trovava sul set e doveva girare una scena troppo pericolosa.

La sensazione era quella, identica. Harry ne avvertiva proprio la consistenza. E non si sprecò neanche a scrivere quelle poche righe che aveva in mente, non le avrebbe dimenticate e non aveva neanche fretta di abbozzare sul foglio quattro parole che dovevano essere in grado di esprimere ciò che lui aveva in mente.

Tutte quelle persone lì, in quella sala, forse pensavano che la risposta l’avrebbero trovata in calcoli complicati o in ragionamenti degni di noti fisici; peccato che non era così.

Harry rimase quei cinque minuti con la braccia incrociate e lo sguardo alto e fiero, gli occhi verdi indirizzati verso Tomlinson, il quale si era seduto per appuntare qualcosa su uno dei tanti fogli.

Mancava un minuto e Louis alzò gli occhi, sorprendentemente Harry – per la prima volta da quando il professore è entrato nel suo raggio visivo – non arrossì e resse il suo sguardo in silenzio.

Voglio sentire la sua risposta. L’aveva stuzzicato apposta, questo il liscio l’aveva capito. Se fosse stato un altro ragazzino e non avesse avuto quegli occhi verdi bottiglia, probabilmente l’avrebbe volentieri umiliato davanti a quegli studenti.

«Giù le penne, ragazzi.» Disse semplicemente. E con sua sorpresa, tutti gli studenti dal primo all’ultimo posarono la penna a quelle parole, non dovette richiamare nessuno più di una volta.

Inizialmente aveva pensato di non chiamarlo quel ragazzino dai capelli ricci e il vestiario imbarazzante, poi i suoi occhi erano finiti sulla sua figura e cambiò idea.

Spinto da pura curiosità – e non dalla voglia di umiliarlo, strano ma vero – si girò immediatamente verso di lui e gli puntò un dito contro.

«Tu.» Disse con saccenteria, giusto per darsi qualche aria e per vedere la reazione del ragazzo al suo tono. «Voglio la tua risposta.» Continuò alzando le spalle e poi si sedette sulla scrivania, osservando i diversi volti delusi di ragazzi che volevano rispondere al posto suo.

Ad Harry prese un colpo, quando vide quel dito puntato nella sua direzione. Quella fu solo una conferma ai suoi pensieri: quella domanda era stata lanciata come una sfida e la sua ostinazione nel non voler prendere appunti o nel formulare una teoria aveva attirato l’attenzione di Louis su di sé.

«La domanda era cosa esprimesse veramente la parola infinito, no?» Domandò semplicemente. Al suo cenno affermativo continuò: «Non esiste una risposta. Questa parola non ha una definizione, non dà alcuna informazione su ciò che rappresenta. Con l’utilizzo del suffisso in e del sostantivo finito, la parola isola la sua rappresentazione mediante l’opposizione del concetto.»

La bionda che aveva accanto gli aveva rivolto uno sguardo interdetto e il mulatto alla sua destra si era lasciato persino andare ad un risolino contenuto, come se avesse detto una stupidaggine.

Harry sapeva che quella risposta non era espressa nel massimo delle sue potenzialità, ma quella era la risposta giusta.

Gli uomini si approcciavano con il termine infinito con troppe definizioni, cercando di trovare una definizione per qualcosa di troppo grande per loro.

Il confronto con qualcosa di più grande di te portava sempre ad una spiegazione che per l’uomo era sempre stata problematica.

«Qual è il tuo nome?» Chiese Louis guardandolo con quegli occhi blu animati da semplice curiosità. Quel ragazzino aveva elaborato quello che era, da sempre, stato il suo pensiero nell’arco di pochi minuti e l’aveva spiegato in modo così semplice e spontaneo da mettere i brividi.

Quegli occhi verdi si erano illuminati quando gli aveva chiesto di esporgli la sua teoria.

«Styles.» Rispose facendosi sempre più piccolo sulla sua postazione. Osservò Louis Tomlinson allentarsi il nodo della cravatta e metter su un’espressione davvero poco rassicurante. Harry rimase con il respiro mozzato, fin quando il professore non iniziò lentamente a battere la mani.

«Complimenti allora, signor Styles.» Si congratulò dandogli nuovamente le spalle.

Il battere delle sue mani riecheggiò in quell’aula, sotto gli occhi sorpresi di troppi studenti i quali mai avrebbero sospettato che dietro quella camicia rosa a fantasia e quegli stivaletti con tacchetto si nascondesse qualcuno di intelligente.

Louis si avvicinò alla lavagna – la prima di tre posta alla sua sinistra – ed afferrò il gesso bianco; Harry sorrise ed afferrò la sua bic pronto a mettere per iscritto qualsiasi altra cosa quell’uomo decidesse di dire.

La lezione continuò, fu un succedersi di discorsi complicati e tremendamente interessanti secondo Harry. L’uomo che aveva di fronte era di polso con gli studenti, riusciva a coinvolgerli e a non far calare l’attenzione neanche dopo aver discusso per più di mezz’ora sul concetto opposto all’infinito, l’infinitesimo.

«Se l’infinito non ha né inizio né fine, come può il mondo avere un suo inizio? Come può avere un inizio, ma non un fine?» Era la domanda che aveva scritto con il gessetto sulla lavagna enorme che era alle sue spalle.

La scrittura era ordinata e aveva la mania di mettere il puntino a pallino sulla i, non chiedete ad Harry perché aveva notato quella sottigliezza ma l’aveva notata – l’ha fatto anche per la ragazza che aveva accanto e sì, forse ha un fetish per le belle scritture, lui non ne ha idea –.

Così come aveva notato che ogni volta che la sua bocca era secca, la inumidiva velocemente con la lingua e poi faceva passare qualche secondo prima di schiarirsi nuovamente la voce.

«L’infinito è stato creato da noi uomini, questo concetto è nato da noi, tutti noi. Tutti noi almeno una volta abbiamo pensato di volere più tempo, abbiamo pensato di poter sperimentare quanto l’infinito possa essere tale.

La verità, miei cari, è che l’infinito non può essere infinito, non sapendo come possiamo catalogare questa quantità senza né inizio né fine. L’abbiamo creato ponendoci ugualmente dei paletti, capite?»

E quel discorso, per quanto complicato potesse essere, aveva perfettamente senso. O almeno per Harry l’aveva.

Il mondo era stato creato, ma nessuno aveva mai scritto da qualche parte che gli uomini avessero dovuto porsi così tante domande sulla sua origine.

L’infinito era solamente una quantità inimmaginabile e immensamente spaventosa.

«Noi abbiamo deciso che l’infinito non ha né inizio né fine, questo pone all’infinito stesso dei limiti. Se avessimo deciso che l’infinito aveva un inizio, ma non una fine avrebbe smesso di essere tale.»

Louis sorrise vedendo con la coda dell’occhio quel ragazzo sussurrare qualcosa a sé stesso e si ripromise di bloccarlo a fine lezione giusto per scambiarci qualche parola e per sbirciare anche tra i suoi appunti.

Nella sua vita, forse, era stata la curiosità a penalizzarlo un po’ in tutto. Si imbatteva volontariamente in ricerche complicate solo per curiosità, per poter soddisfare un suo ego personale, la sua continua smania di sapere, la sicurezza di poter sapere tutto, di avere sotto mano i più grandi interrogativi dell’uomo.

 

Per Harry fu davvero troppo difficile alzarsi dal suo posto, quando il professore aveva detto che quel corso straordinario era finito. E ovviamente tutta la classe si era alzata in piedi per applaudire alle sue parole, ringraziandolo per quella sua presenza.

Quella volta, Harry si alzò dal suo posto e batté le mani con la consapevolezza di non essere più osservato da centinaia di paia di occhi, ma da solo un paio.

Degli occhi azzurri erano stati fissi su di lui durante tutto quel seminario. E nel profondo, Harry gongolava di quelle attenzioni.

Non riusciva a capacitarsi di come un uomo così famoso e ricco potesse trovare interessante – o almeno Harry pensava che lo trovasse interessante, altrimenti come avrebbe spiegato quegli occhi puntati su di lui durante tutto il corso? – in un anonimo studente ventenne. Chissà, quanti ne vedeva al giorno, dopotutto.

Al riccio sembrava di avere i piedi incollati a quel posto e sperò sempre che quell’applauso potesse durare solo un secondo di più per poter continuare ad osservare indiscretamente il rinomato fisico.

Probabile che la bionda – gli aveva detto di chiamarsi Perrie, se non sbagliava – avesse cercato di contenere qualche risatina nel vederlo così restio a muoversi dalla sua postazione e raccogliere il suo taccuino da riporre nella borsa.

Raccolse il tutto con estrema lentezza, studiando minuziosamente ciò che Louis – ovvio, nella sua mente lo chiamava per nome – stava scrivendo con tanta accuratezza.

Non sapeva quanto tempo era rimasto in quella posizione, con lo sguardo concentrato su di lui e le sopracciglia aggrottate per la curiosità ma un «Ti muovi, mh?» mugugnato a bassa voce dal mulatto, seguito da una leggera spinta gli era bastato per dire a sé stesso di smetterla di guardarlo con quell’aria da stalker.

«Dio, come sei scontroso.» Rispose infastidito, sgusciando fuori dal suo posto e permettendo al ragazzo di svignarsela da lì. Per grande sorpresa di Harry, quello sconosciuto fu accolto con uno scappellotto da parte della bionda sulla nuca e un «Questi modi non ti porteranno da nessuna parte.».

Non sapeva se dovesse trovare più strano il fatto che quei due probabilmente erano fidanzati e non si erano calcolati di striscio durante tutto il seminario o se dovesse trovare più bizzarro il fatto che lui era seduto in mezzo a loro svolgendo la funzione di palo – si era quasi abituato a quel ruolo, ormai –.

Scrollò le spalle e non guardarlo negli occhi, non guardarlo negli occhi, Harry. Ripeteva a mantra nella sua mente.

Camminò a passo sicuro verso la porta cercando di non incrociare il suo sguardo e quando superò la cattedra senza degnargli neanche una piccola occhiatina – grande traguardo – sospirò pesantemente e quasi inconsciamente si portò una mano sul cuore. Era piuttosto certo di non resistere alla tentazione di rivolgergli un ultimo sguardo, prima di non rivederlo più per tutta la sua vita.

Il suo cuore già impazzito, sobbalzò al «Styles?» che alle sue orecchie suonò come un so che mi hai fissato come uno stoccafisso per tutto il tempo.

Harry sibilò un «Che Dio mi aiuti.» e abbassò leggermente il capo, sperando nel miracolo divino. Come una di quelle scene a rallentatore, si girò nella direzione del fisico e a piccoli passi si avvicinò all’enorme cattedra.

Sarebbe stata una di quelle scene da film romantico – una di quelle scene a cui neanche Harry credeva per quanto suggestive potessero essere -, ma si trattava di Harry Styles in quel caso.

Un ragazzo di stazza nettamente superiore stava correndo fuori dall’aula a passo veloce e accidentalmente colpì la spalla del riccio, il quale con il suo metro e ottanta non riuscì a mantenere un buon equilibrio.

La figura fu contenuta, per il semplice motivo, che non cadde di faccia a terra. Gli servirono alcuni istanti per recuperare il solito equilibrio e non stramazzare al suolo – okay, quello poteva succedere nel peggiore dei casi e la colpa non sarebbe stata di certo del tizio palestrato che era fuggito fuori dall’aula –.

Louis era seduto sulla poltrona girevole con un sorriso a increspargli le labbra. Sebbene avesse una mano davanti alla bocca, non fece assolutamente nulla per dissimulare e fargli credere che quella situazione non lo stesse divertendo da morire.

Gli scappò una risatina – o meglio, rise con la sola mano a coprirgli leggermente la bocca – e nella mano stringeva una penna con cui stava giocando al momento.

«Professor Tomlinson.» Lo salutò con un cenno del capo. Rigido come un ciocco di legno rimase immobile in quella posizione per una manciata di minuti deglutendo a fatica e aspettando un segno da parte del diretto interessato.

Gli sarebbe bastato un segno qualsiasi, tutto pur di farlo sentire a più agio, tutto pur di smetterla di farsi le peggior seghe mentali su ciò che Louis avrebbe potuto dire da un momento all’altro.

«Mi è piaciuta la tua risposta alla mia domanda e sarei curioso di leggere i tuoi appunti.» La voce suonava autoritaria. Non sapeva se considerarlo un ordine o una semplice domanda.

La confusione si leggeva sul suo volto. E forse Tomlinson non era così inumano come dava a vedere. Inaspettatamente si alzò dalla sedia – rivelandosi più basso di Harry di una manciata di centimetri -, essendosi accorto della vena di terrore puro che aveva invaso il volto del più giovane, si schiarì nuovamente la voce.

«Magari davanti un caffè? Ti vedo piuttosto stanco, ragazzo.» E lo sorpassò con non chalance, avviandosi verso la porta.

Harry gli diede le spalle ancora per tre minuti spaccati, poi «Non mordo, sono solo curioso.» disse chiaramente divertito Louis.

Quel timore quasi reverenziale – completamente infondato, visto che lui non mangiava uomini, non letteralmente almeno – lo divertiva, forse avrebbe continuato con quel tono serio ancora per poco, giusto per costatare quanto il ragazzo fosse a disagio.

Camminarono spalla a spalla per il lungo corridoio che portava al di fuori di quella struttura. Harry ammise a sé stesso che mai gli sarebbe ricapitata una situazione del genere: quando mai un fisico rinomato, come Louis William Tomlinson, gli avrebbe fatto un offerta come quella?

E ovviamente lui la stava sprecando, troppo preso dalla paura o più semplicemente troppo preso da quell’uomo.

«E’ stata così noiosa la mia lezione? Ripeto: mi sembri spossato.» Ripeté Louis, attraversando il campus a passo veloce facendo aumentare anche il passo di Harry inconsapevolmente che oltre a reggere il suo ritmo cercava di non cadere sulle sue stesse gambe.

«Assolutamente no. Sono solo sorpreso, non mi aspettavo la vostra presenza a questa lezione.» Disse Harry a voce sottile, sperando di non essergli sembrato troppo lecchino. Non voleva sembrare disperato o in cerca di raccomandazioni: quella era solo la verità, non sapeva della sua presenza fin quando non l’aveva annunciato apertamente il suo vecchio professore e aveva quasi persi trent’anni di vita.

«L’ho notato, mh, sai fai fatica a non notare l’unico ragazzo rimasto seduto mentre gli altri cento sono in piedi per salutarti.» Commentò e sorrise, soddisfatto delle sue parole.

Harry istintivamente si portò una mano nei capelli per scostarsi il ciuffo riccio dagli occhi e abbassò il capo per celare il rossore sulle sue guance.

«Mi scusi ancora, non ci ho fatto caso.» Ripeté convinto Harry, arrivando alla caffetteria situata dalla parte opposta dell’edificio in cui Louis aveva tenuto quella lezione più unica che rara.

L’uomo scosse la testa a quelle parole e gli aprì la porta, facendo cenno al riccio di entrare.

Rimasero fuori entrambi per pochi secondi: Harry guardava l’uomo, cercando di capire cosa fosse meglio fare in quel caso – entrare? O forse era meglio insistere e far entrare per prima il professore, essendo più anziano di lui? – e Louis guardava il continuo mutare dell’espressione dello studente.

Alla fine, dopo l’ennesimo cenno del maggiore, Harry entrò mugugnando un «Grazie.» e Louis si ritenne soddisfatto doppiamente.

Individuato il tavolo più gradito dal maggiore – quello che si affacciava sull’intero campus – si sedettero uno di fronte all’altro.

«Volevate vedere i miei appunti, no?» Disse immediatamente Harry, poggiando la tracolla sul tavolino e cercando farneticamente tutto ciò che riguardava gli studi riguardanti l’infinito e l’infinitesimo, sperando di aver portato con sé anche ciò che aveva scritto settimane precedenti a quella.

«Mi fai sentire vecchio rivolgendoti così nei miei confronti. » Gli disse Louis ridacchiando. «Non sono un tuo professore, lo sai? Ho svolto questa lezione solo per fare un piacere ad un amico.» Rivelò sperando che il ragazzo potesse rilassare i suoi muscoli e smetterla di rivolgersi a lui con quello sguardo preoccupato e quel tono flebile.

Harry aprì bocca per replicare, si diede dello stupido non appena realizzò che le parole che stava per rivolgergli erano un ma siete più vecchio di me, è questione di educazione. Volendo evitare di dirgli indirettamente – non proprio – che era effettivamente più anziano di lui, richiuse semplicemente la bocca sigillando mentalmente.

«Vediamo un po’ cosa produce questa mente che sembra così sveglia, mh?» Propose sfilandogli di mano i diversi fogli che aveva stretto tra le mani. Dalla sua giacca prese un paio di occhiali scuri e prima di iniziare a leggere si rivolse alla cameriera che stava portando un’ordinazione al tavolo: «Gentilmente, due caffè. Uno più forte per il signorino, ha bisogno di una bella svegliata.»

«Ho dormito poco…» Sussurrò a bassa voce Harry per la seconda – o forse terza? – volta, quasi rabbuiandosi di quel modo di fare dell’uomo che si era permesso di ripetergli insistentemente quanto sembrasse stanco.

Lo era, eccome. In quel momento, avrebbe voluto veramente riposare e probabile che se non gli avesse fatto quella proposta sarebbe corso nel suo appartamento mandando all’aria i resto dei propositi di quel giorno.

Louis fece finta di ignorare le sue parole e si avventurò in quegli appunti, notando come il ragazzo fosse ordinato e metodico. Sottolineava più volte ciò che riteneva più importante e l’evidenziatore giallo imperava un po’ ovunque su quei fogli, insieme a quello verde delle volte.

Aveva persino creato una legenda: con l’evidenziatore giallo erano sottolineate le cose essenziali – a detta sua –, con quello verde erano sottolineate le cose più superficiali.

Interessante. Si era detto continuando a leggere, incuriosendosi più che alle spiegazioni dei concetti veri e propri alle sue personali interpretazioni.

Il ragazzo commentava sistematicamente tutto ciò che il suo professore gli spiegava con riflessioni argute e acute.

«Leggo di molti collegamenti dalla fisica ad altre materie, come la filosofia. Vedo riferimenti filosofici un po’ ovunque a dir la verità.» Gli confessò quasi sorpreso di incontrare un ragazzo così strettamente interessato ad un concetto così vasto che molti non volevano trattare per paura di impelagarsi in qualcosa di troppo complicato da capire.

Harry era un appassionato di filosofia e gli piaceva da impazzire capire appieno un concetto che lo incuriosiva. E in quel caso – nel caso dell’infinito – gli erano servite tante ore di ricerche e tanti caffè per rimanere sveglio la notte.

Così accecato da un argomento impossibile da studiare concretamente, per via del suo essere finito, aveva pensato di poter studiare quel concetto da più punti di vista e uno di quelli comprendeva la filosofia.

«Ho trovato interessante il collegamento che c’è tra l’infinito, l’eternità e il non essere. Capisco che non possa affascinare tutti…» Alle orecchie di Louis, quelle parole suonarono come un mi spiace di aver deluso le tue aspettative, in realtà era l’esatto opposto.

Louis era, per la prima volta, sinceramente coinvolto da qualcosa che non fosse la fisica. E lo sapeva che non era di certo il primo a fare dei collegamenti di quel genere, ma come si esprimeva su quei fogli gli piaceva da impazzire. E gli sarebbe piaciuto il doppio sentire una sua personale interpretazione di ciò che riportavano quei fogli che lui stringeva tra le mani e stava esaminando attentamente.

«A me affascina da impazzire.» Detta quella frase, l’attenzione di Harry se possibile era schizzata alle stelle. Immediatamente gli occhi verdi ricominciarono a brillare e l’euforia si era triplicata grazie a quelle poche parole, iniziò a farneticare e farneticare su quanto nessuno gli avesse mai detto che quei collegamenti potessero ritornare utili e su quanto il suo professore non voleva che gli alunni esprimessero la propria opinione su qualcosa che non poteva essere definito con sicurezza.

«Vedet-» Un’occhiataccia gli gelò il sangue nelle vene e dovette ragionarci su qualche secondo prima di capire che quell’occhiata era dovuto all’uso del lei. «Vedi, il non essere è uguale all’infinito, il quale è a sua volta uguale all’eternità. Il non essere è il nulla, di conseguenza possiamo dire che anche l’infinito è il nulla.

Cosa ne possiamo sapere noi, di com’è l’infinito? Siamo esseri, nella nostra vita non siamo tenuti ad immaginarci cose così complicati che noi non possiamo scoprire.»

Per Louis non c’era nulla di così complicato per la mente umana. La mente era capace di risolvere misteri ed enigmi di cui ignoravamo la difficoltà se non fosse stato per qualcuno che ci avesse avvertito.

Louis sapeva di essere finito. Lo sapeva perfettamente, accertarlo ancora ora era difficile per lui. Il limite di non poter sperimentare non andava bene per un fisico come lui; l’idea di morire un giorno con tante domande a cui non ha potuto trovare risposta lo assaliva di notte.

Louis preferirebbe morire tra due giorni e avere tutte le risposte che sta cercando da tempo piuttosto che morire tra cinquant’anni con un pugno di mosche in mano.

«Scommetto che sei il tipo di persona che detesta questi limiti, impostici da qualcuno dalla dubbia esistenza.» Ridacchiò Harry, osservando il modo in cui Tomlinson avesse cambiato atteggiamento durante la sua breve spiegazione.

Harry non conosceva Louis William Tomlinson, ma sembrava il tipo di persona che ragionava con la mente. A tutto seguiva una spiegazione più che logica, non c’era nulla che non potesse sapere o scoprire. Per il riccio, reincarnava il prototipo dell’uomo desideroso di apprendere tutti i misteri della vita.

Peccato che una sola vita non sarebbe bastata per scoprire neanche un quarto di tutto quello che non sapevano. Forse una vita sarebbe bastata per scoprire cose di cui ignoravano l’esistenza.

«Questo cosa te lo fa pensare, signorino Styles?» Lo provocò con quello che sembrò un accenno di sorriso.

Harry serrò la presa sul suo caffè – ormai diventato freddo, avrebbe dovuto berlo quando Louis stava controllando i suoi appunti ma era rimasto incantato dalla sua espressione concentrata – e si schiarì la voce per dar voce ai suoi pensieri.

«Sembrate una di quelle persone rigide. Non in senso negativo, ovviamente. Più che altro sembrate convinto dell’esistenza di ciò che si può provare, per voi nulla non può non essere scoperto dalla nostra mente.» Vedendo il cambio d’espressione sul volto del fisico, Harry bevve un sorso di caffè abbassando innocentemente gli occhi.

«Credo in tutto quello che può essere scientificamente provato e sono più che convinto che tutto può essere dimostrato.» Disse spostando gli occhi sui suoi appunti – decidendo di ignorare il modo in cui gli si era rivolto, il voi lo faceva sentire vecchio e il sentirsi vecchio significava avere sempre meno tempo a disposizione –.

Dovette ammettere a sé stesso che quel ragazzo era ben preparato – peccato che non fosse stato un suo alunno –, tuttavia si vedeva lontano un miglio che non era completamente d’accordo su quello che gli stava dicendo.

Louis stava aspettando, fin da quando era entrato nella caffetteria, un suo piccolo passo falso per archiviare lontano dalla sua mente quel riccio e poter partire senza alcun sassolino nella scarpa.

Styles – avrebbe dovuto chiedergli il nome – si era dimostrato un essere pensante, non uno dei soliti studenti pronti a dargli ragione nonostante non comprendessero o condividessero lo stesso pensiero.

Il brutto di quei tempi era proprio quello: avere a che fare non più con persone in grado di formulare un pensiero sensato, ma con degli automi. Con dei giovani che compiono azioni in gruppo, in massa, che ad una risposta non sanno trovare domanda perché prima di compiere quell’azione non hanno pensato.

E Louis non poteva accettare una cosa del genere, non poteva pensare che c’era gente che buttava all’aria la loro materia grigia e sprecava gli anni migliori della vita per seguire la massa, come fanno le capre.

Dal volto del ragazzo si era capito perfettamente la sua opinione.

Un conto, però, era pensarla. Un altro era avere il coraggio di esprimerla e andare contro un altro pensiero – pensiero per giunta di un rinomato fisico –.

«Immagino sappi cosa siano l’essere e il non essere, in filosofia?» Louis inclinò il volto e annuì, dopo aver dato un’ultima occhiata ai fogli che stava esaminando. «Pertanto sapete che il non essere è associato all’infinito, il quale è un sinonimo della parola eternità.»

«Con ciò?» Lo invitò a continuare, sapendo già dove volesse andare a parare. Se si fosse rivelata giusta la sua intuizione, quel ragazzino avrebbe potuto far crollare con un semplice ragionamento il suo pensiero. E malgrado non amasse dar ragione a qualcuno – ancor di più se si trattava di un ventenne -, non avrebbe potuto di certo dirgli di avere torto.

«Quindi non capisco come possiate credere in qualcosa come l’infinito. Se il non essere è il nulla, dobbiamo negare anche il concetto di infinito ed eternità. E’ un paradosso, non credete?» Chiese Harry, bevendo un altro sorso di caffè. Quella volta gli occhi non erano abbassati, erano inchiodati a quelli del fisico.

Louis non si era fatto sfuggire assolutamente l’utilizzo del lei in modo chiaramente ironico.

«Esistono così tanti paradossi, Styles. Questo è solo uno in più da aggiungere alla lista. Dimmi un po’, piuttosto, non hai mai pensato di poter vivere l’eternità e sperimentare cosa sia veramente questo infinito?» Gli domandò.

Per un momento, il giovane sembrò sulle sue, incerto dalla risposta da dargli, quasi avesse paura di essere giudicato. Stranamente, per una seconda volta nel giro di poche ore, non era quella l’intenzione di Louis.

«Lo sperimento già. Noi stiamo vivendo un’eternità limitata. Non sarebbe noioso avere tutto il tempo a disposizione, senza una scadenza? Stancherebbe, o almeno, io mi stancherei. Perderei di vista quanto sia importante la vita con l’infinito a disposizione.»

Harry non sapeva fin quanto credere alle sue stesse parole, a dir la verità. L’idea di morire lo spaventava, l’aveva sempre spaventato.

Non c’era nulla che superasse la paura della morte, se non i sensi di colpa. Harry aveva provato sulla sua pelle quanto fosse peggiore avere troppi sensi di colpa piuttosto che avere paura della morte.

La paura della morte esisteva fin quando continuavi a dar corda a quella tua fantasia troppo lontana, bastava non pensarci.

Era peggio pensare alla morte, che morire veramente. Questo era il suo pensiero ferreo.

«Forse vivremo l’infinito solamente dopo la morte, forse questo spiega perché Dio ci ha creati in questo modo, siamo metà esseri della natura e metà spiriti. Finito una metà, vivremo l’altra.»

E Louis vorrebbe veramente credere a quelle belle parole. Vorrebbe veramente credere a quelle parole che suonavano così speranzose se pronunciate con quel tono di voce roco, ma non era nella sua natura credere in qualcosa che non esisteva, di cui non aveva prove tangibili sotto mano.

«O forse, dopo la vita non c’è nient’altro. Il nostro corpo rimarrà sottoterra per sempre e un giorno qualcuno camminerà sul nostro corpo, letteralmente.» Commentò seccamente.

Harry non capiva come potesse essere fermamente convinto che nessuno esistesse sopra di lui, che nessuno manovrasse la loro esistenza godendosi tutti gli imprevisti che erano determinati parzialmente dal caso e parzialmente dalla stupidità umana.

«Ma questo non c’entra assolutamente con la fisica. La fede è qualcosa di personale, io non ho ancora trovato il motivo per cui credere. Magari rivaluterò queste parole in futuro.» Spiegò Louis togliendosi gli occhiali che poggiavano sulla ponte del naso.

Il silenzio che seguì non fu uno di quei silenzi troppo imbarazzanti. Si trattava solamente di due persone che stavano sistemando le proprie cose con calma e pazienza, scambiandosi occhiate di tanto in tanto e perdendo tempo nei dettagli dell’altro che sedeva di fronte.

«Ho almeno l’onore di sapere il tuo nome, piccolo filosofo?» Gli chiese. Harry pensava non gliel’avrebbe mai chiesto. In realtà, non aveva neanche valutato il pensiero che, seriamente, Louis William Tomlinson potesse chiedergli il suo nome.

Un «Sono Harry.» bastò per far spuntare uno di quei sorrisi mozzafiato sul volto del fisico. Un sorriso capace di fargli comparire tante piccole rughette – sono adorabili, si appuntò il riccio mentalmente – intorno agli occhi.

Durante tutta la lezione non gli era capitato di vedere quel sorriso, perciò fu semplice trarre le conclusioni: non era stato una compagnia così terribile per quel fisico.

«Louis, è stato un piacere parlare con te.» E nella mente del fisico tutto si stava già delineando una mezza idea che avrebbe potuto portare solamente a due realtà differenti: la prima, una realtà in cui LouisWilliam Tomlinson sorrideva più spesso ed era meno rigido o la seconda, una realtà in cui Louis William Tomlinson rimaneva sempre lo stesso uomo rigido dal sorriso tirato.

 

Non si incontrarono più.

Louis William Tomlinson, tuttavia a discapito di ciò che prevedeva per il suo tetro futuro, sorrideva molto più spesso ed era diventato meno rigido e diffidente nei confronti di quello che non sempre si può spiegare.

A cosa era dovuta questo cambiamento radicale, nessuno mai lo seppe.

Nessuno poteva sospettare che un semplice ventenne, studente universitario e appassionato di filosofia, in una mattinata era riuscito a smuovere qualcosa nel rinomato fisico francese dallo sguardo duro e la bocca sempre increspata in una smorfia di pure disgusto.

Nessuno poteva mai immaginare che un ragazzino dai capelli lunghi e dal sorriso pronto era in qualche modo riuscito a  inculcare in una persona con il doppio dei suoi anni convinzioni di cui prima neanche voleva sentirne parlare.

Se qualcuno gli chiedesse cos’avesse di speciale quell’Harry, la sua risposta sarebbe troppo lunga e complicata per poterla esprimere a parole.

Harry, all’apparenza, era un normale studente universitario che nel tempo libero perdeva il suo tempo a leggere tomi di filosofia che trovava in biblioteca.

Harry, all’apparenza, era una persona eccentrica con quelle camicie a fiori che si ostinava ad indossare nonostante fossero un pugno all’occhio per tutti e con quegli stivaletti in camoscio che custodiva gelosamente nel suo armadio.

Appariva come una persona semplice, agli occhi dei suoi compagni di corso.

Appariva come uno studente brillante, agli occhi degli innumerevoli professori che l’avevano conosciuto.

Appariva come un figlio scapestrato, agli occhi della madre che continuava imperterrita a chiamarlo ogni giorno ad ogni ora sperando in una risposta che arrivò solo dopo troppo tempo.

Appariva come una persona strana, agli occhi del mulatto dalla parola difficile che aveva incontrato al seminario riguardante la teoria dell’infinito.

Agli occhi di Louis, appariva come un essere.

L’essere era qualcosa di finito. Pertanto non può essere infinito. E il non essere è l’esatto opposto di essere.

Due concetti opposti l’uno all’altro sempre in completa contraddizione.

Il  non essere era qualcosa di infinito. Pertanto non può essere finito. Equivaleva al nulla, il nulla non poteva di certo essere caratterizzato dall’esistenza.

Tante frasi, tanti pensieri, tante riflessioni. Da quel giorno, Louis aveva passato ogni momento libero della giornata a studiare ogni più piccolo dettaglio che potesse portarlo ad una conclusione che la sua mente accettava.

Perché la sua mente poteva comprendere e scoprire di tutto.

Camera sua era circondata da libri enormi, scritti anche in lingua antica per l’anno in cui furono scritti.

Nel suo salotto regnava il caos tra le bottiglie di liquore che scolava ogni volta che arrivava ad una conclusione insensata e tra i suoi termos di caffè che gli tenevano compagnia di notte e lo mantenevano sveglio.

E forse dopo anni, era arrivato ad una conclusione. L’essere finito portava spesso Louis, per sua volontà e suo desiderio, a voler intraprendere una continua lotta che tendeva alla spiegazione dell’infinito che mai da lui e da chiunque altro poteva mai essere compreso.

Come poteva determinare una realtà che mai avrebbe conosciuto? Sarebbe stato come voler determinare il numero più alto che esista, no?

Infinito e realtà, in qualche modo, sono delle realtà del non essere.

Louis non poté mai dichiarare di aver trovato la fine dell’Universo, così come non poté mai dire di aver visto il tempo fermarsi.

Solo dopo tante tazze di caffè, dopo notti insonni e anni gettati al vento, Louis capì che era inutile parlare dell’infinito, dell’eternità e di tutti quei concetti a cui erano strettamente legati.

E sapete perché era inutile parlarne? Perché non era solamente Harry un essere, lo era anche Louis. E lo erano tutti.

Accettare quella consapevolezza fu la cose più difficile per lui. Perché capire che c’era qualcosa di più potente della sua mente fu uno smacco da cui mai si riprese del tutto.

Visse nella convinzione di poter darsi una risposta a tutto, bastava studiare e applicarsi. Gli interrogativi della vita sarebbero riusciti a trovare una risposta con lui – sì, decisamente era troppo presuntuoso, ma fategliene una colpa…Era pur sempre un genio della fisica -.

Louis si ritrovò allora a dover ringraziare Harry Styles tante volte nella sua mente, un po’ per aver smosso in lui qualcosa che lo aveva aiutato a uscire dal suo stato di apatia e un po’ per avergli fatto notare particolari che mai aveva notato.

Non poté mai ringraziarlo a voce, sfortunatamente.

Le notti iniziarono ad essere difficili da sopportare. La sua mente lavorava ininterrottamente e lui non riusciva a fermarla, i suoi pensieri lottavano tra loro per avere la meglio.

C’era una parte di Louis che voleva arrendersi, quella parte che tendeva a custodire il ricordo di Harry come un gioiello prezioso e poi c’era un’altra parte, quella del fisico teorico che non voleva arrendersi all’evidenza, che voleva continuare a spendere ore intere della sua vita su uno studio fino a quando non avesse esalato l’ultimo sorriso.

Erano due parti di Louis che si stavano scontrando ferocemente. Il Louis irrazionale non era mai uscito allo scoperto, si era premurato di chiuderlo dentro di sé per anni per non farlo uscire.

Harry l’aveva scosso, gli aveva dato troppo da pensare e aveva portato alla luce un Louis di cui è sempre stato spaventato.

Di notte, gli capitò di sognare quel ventenne dagli occhi così verdi da ricordare le praterie americane e dal sorriso enorme con due fossette gemelle a spaccargli le guance.

Inconsciamente, un ragazzino diventò la ragione per cui Louis iniziò a tornare con i piedi per terra. E lui ci provò davvero, ci ha provato a fare i conti per la realtà e giunto alla conclusione di essere come tutti gli altri, niente più, niente meno perse un po’ di lucidità.

Perse la ragione, la calma e la razionalità.

Lavorò senza sosta per qualcosa in cui non aveva mai creduto, in tutto quel tempo. Eppure continuò a lavorare su quel progetto, perché a qualcuno importava. E Louis, Louis era davvero una persona inutile.

Era solo, caparbio, superbo ed insopportabile. Viveva solo, immerso in un silenzio di casa sua; la luce non filtrava dalle finestre, la puzza di chiuso era opprimente,  il fumo impregnava ogni singola stanza di casa sua e risultava difficile camminare tra le bottiglie di liquore che era ciò di più simile ad un amico che aveva.

Louis fece la scelta, sbagliata, di preferire la fisica ad una vera vita. Perché la fisica doveva aiutarlo a comprendere il mondo, la vera vita l’avrebbe solamente reso come tutti gli altri.

Solo che mentre gli altri, seppur gli uni uguali agli altri, sorridevano ed avevano qualcuno accanto; Louis senza fisica non era niente se non un involucro vuoto, freddo, apatico, indifferente ed indolente agli stimoli.

Lavorò fino a quando le sue mani non si consumarono, perché per combattere la solitudine poteva solamente cercare di rendere felice qualcuno che aveva perso.

Un giorno, Louis si alzò dal suo letto con sole tre ore di sonno. Aprì, per la prima volta, le tende della sua stanza dopo troppi anni e si versò un po’ di Bourbon in un bicchiere di cristallo.

Era stanco e spossato. Forse Louis si era spinto un po’ troppo, forse aveva deciso di scavalcare quel limite che lo rendeva finito ed ora che lo aveva superato, di lui non rimaneva più nulla.

Ed era inutile respirare quando non si provava più nulla. Louis se ne andò in pace, con un sorriso sul volto rilassato; stringeva la ventesima sigaretta tra le dita spenta nel posacenere e l’altra scendeva a penzoloni dalla poltrona, a terra in corrispondenza vi era un bicchiere di cristallo ridotto in pezzi.

Bianco come un cencio, gli occhi azzurri privi di vita spalancati fissi verso il cielo plumbeo che c’era quel 5 Novembre.

Nessuno seppe di lui, lo conoscevano tutti di fama ma nessuno lo conosceva abbastanza per poter entrare in casa.

Louis William Tomlinson era un essere finito e per appurarlo si era spinto troppo in là, verso un confino di non ritorno.

Proprio per questo, Louis Tomlinson non poté mai ringraziare Harry Styles. Non per quello non gli fu grato per avergli aperto gli occhi.

 

«Amore, c’è un pacco per te!» Urlò a gran voce la donna dai lunghi capelli biondi raccolti in una acconciatura complessa.

Un uomo, di su per giù trent’anni, smise immediatamente di leggere e si girò nella direzione da cui proveniva.

Harry Styles era rimasto lo stesso, nonostante fossero passati anni. Era rimasto lo stesso ragazzo dai lunghi capelli ricci e dagli occhi verdi bottiglia affascinato dalla filosofia e innamorato della fisica – di cui alla fine aveva reso la sua vita, poco prevedibile eh? -.

Indossava ancora quelle squallide camice colorate che neanche sua moglie poteva vedere e imperterrito indossava sempre gli stivaletti scamosciati – ne aveva comprati paia sempre di colori differenti -.

Lo stesso ragazzo intuitivo, con un sorriso pronto e con una spiccata intelligenza. Solo che ora Harry era seduto sul divano e sulle sue gambe era seduta la sua dolce figliola che pendeva dalle sue labbra e proprio non capiva perché si fosse fermato istantaneamente.

Chi poteva recapitargli un pacco a quell’ora? Fu il suo primo pensiero. I suoi amici non erano esattamente le persone che agivano in quel modo e poi se si fosse dimenticato qualcosa a casa di uno di loro, avrebbero sempre potuto mandargli un messaggio no?

Malgrado i capricci di Sophie che continuava a pregarlo di rimanere ancora un po’ sul divano con lui, fu costretto a chiudere il libro delle fiabe che la bambina tanto amava e posarlo momentaneamente.

«Due minuti e vediamo immediatamente come Cenerentola riesce a scappare dall’inganno che le aveva teso la matrigna, va bene?» La rassicurò scompigliandole dolcemente i capelli chiari che le ricavano ordinati sulle spalle. La bimba non riuscì neanche a mantenere per molto il broncio nei confronti del padre per cui tanto stravedeva e si sciolse come burro al sole non appena le rivolse un sorriso con tanto di fossette che spuntavano sulle guance.

«Sai perfettamente che potevi aprirlo anche tu.» Ridacchiò Harry, avvicinatosi  all’ingresso di casa sua. Un pacco di dimensioni medie era poggiato a terra e Taylor lo guardava innocentemente, neanche le era passato per la mente di aprirlo in realtà.

«Non ci avevo pensato in realtà e in tutti i casi, il ragazzo che me l’ha consegnato mi ha pregato di farlo aprire al destinatario.» Gli posò una mano sulla spalla e poi gli baciò la guancia, già aveva udito la figlia di soli sei anni che già piangeva perché due minuti erano passati.

«Pensi di poter concludere la fiaba? Cenerentola era sul punto di scendere le scale e provare la scarpetta.» Ironizzò Harry, quasi sollevato dall’arrivo di quel patto che l’aveva allontanato momentaneamente da quelle storiella di cui aveva la nausea.

Taylor increspò le labbra e scosse il capo quasi rassegnata all’idea che entrambi avrebbero dovuto continuare ancora per molto a leggere quella storia a Sophie.

«Tranquillo, ricordo ogni particolare.» Per tutte le volte che l’aveva letta, non l’avrebbe dimenticata per molto tempo.

All’ennesimo «Cenerentola non arriverà in tempo e non sposerà il principe!» urlato dalla bambina sulla soglia del pianto, sia Harry che Taylor si ritrovarono a ridere di cuore e lei si allontanò dal marito.

«Sophie, io scommetto che arriverà in tempo!» Disse con tono dolce la madre, ritornando indietro sui suoi passi per finire di leggere – per la centesima volta – quella fiaba.

Harry, sapendo che la piccola non avrebbe creato più problemi tra le braccia di Taylor, si avvicinò al pacco e con cautela lo aprì.

Notò come non c’era alcun indirizzo o mittente e questo immediatamente lo insospettì. Chi inviava un pacco senza esplicitare su il mittente? E poi…Quest’anonimo dove aveva trovato qualcuno disposto a consegnargli il pacco, senza le informazioni essenziali?

Per un secondo, pensò di non aprirlo neanche.

Tuttavia, essendo da sempre un tipo troppo curioso, decise di aprirlo ugualmente. Si ritrovò quasi a ridere quando costatò che il pacco era troppo grande per ciò che era contenuto all’interno.

Dentro il pacco c’erano solamente tanti foulard dai colori più improponibili e con delle fantasia bizzarre che non tutti potevano gradire.

Si disse allora che chiunque gli avesse recapito quel pacco doveva conoscerlo di persona e quantomeno conoscere i suoi gusti, perché a lui eccome se piacevano.

Alzò le sopracciglia quasi infastidito da quel giochetto di poco gusto, non appena si rese conto che nell’intero pacco vi erano solamente troppi foulard uno diverso dall’altro.

Era tentato di aprire nuovamente la porta e vedere se chi avesse consegnato il pacco, sapesse che fosse solamente uno scherzo ma non appena lo sollevò si rese conto di come fosse troppo pesante per contenere solamente dei foulard dalla fantasia discutibile – anche se ad Harry piacevano da morire quelle fantasie strane -.

Entusiasmato da quella sorpresa, con gli occhi che brillavano e sinceramente incuriosito si affrettò a toglierli tutti, poggiandoli con cautela accanto a lui.

Non era mai stato accurato con qualcosa. All’inizio aveva semplice buttato alla sua spalla quel tessuto, poi costatò come quello fosse morbido e liscio al tatto e ne osservò la consistenza.

Rimase con la bocca spalancata quando si rese conto che quei semplici foulard probabilmente costavano un occhio della testa e che provenivano persino da uno dei suoi negozi preferiti.

La curiosità aumentò, allora. I suoi occhi verdi si spalancarono quando scorse un volume in quel pacco. E no, non poteva veramente essere ciò che pensava, perché nessuno poteva veramente tenerci così tanto a lui per poter fare una cosa del genere.

Neanche sua moglie Taylor avrebbe potuto regalargli qualcosa di simile, anche perché mai e poi mai aveva parlato di quell’argomento con qualcuno con cui fosse ancora in stretti rapporti.

Sulla natura. Il famoso poema di Parmenide. Aveva desiderato quel volume da una vita, ma troppo difficile sarebbe stato trovarlo in una traduzione quantomeno comprensibile e con un inglese abbastanza comprensibile.

Quante persone si potevano cimentare nella traduzione di uno scritto greco? Tutto si fece più chiaro agli occhi di Harry, quando i suoi occhi si posarono sulla copertina rilegata di quel libro.

Forse, qualcosa di buono Harry l’aveva fatta e neanche se n’era accorto. Un moto di orgoglio gli attraversò il petto e quel giorno di dieci anni fa ritornò nuovamente nella sua mente prepotentemente.

Louis William Tomlinson, fisico francese affermato, noto per non cambiare mai le sue convinzioni si era cimentato nella lettura di un tomo del genere solamente per lui, ex studente anonimo dell’università.

Quel Traduzione a cura di Louis William Tomlinson sarebbe rimasto il suo orgoglio più grande.

Louis lo ringraziò così.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Questa non era in programma, assolutamente. Io dovevo tornare con una Happy Ending, lo giuro - ne sono in work un paio, ma queste informazioni le dirò a breve.

In pratica, oggi, ho ritrovato questa OS e non era una Larry. Era una storia originale, i cui personaggi erano chiamati Nathan ((diventato Harry)) e William ((diventato Louis)). Era una storia originale perchè l'ho dedicata ad una persona che non si è mai interessata al fandom.

Oggi ho pensato di rendere pubblica questa cosa, molto diversa da tutte le altre OS che ho pubblicato fino ad ora. Come vedete, non è una storia d'amore. Non del tutto: è più basato su una gratitudine infinita, rappresenta l'incontro con quel qualcosa che prima o poi ti sconvolgerà la vita. Sono fermamente convinta che prima o poi qualcosa ci prenderà, ci lascerà senza parole e ci cambierà irrimediabilmente.

Ecco, Louis ha avuto questo momento e ha incontrato Harry che l'ha smosso dalla sua solitudine, dalle sue convinzioni. Le persone si ancorano alle idee che possono provare perchè forse sperano un giorno di poter fermare il tempo, sperano di non invecchiare e di poter sperimentare quell'infinito su cui ora girano così tante frasi romantiche che non riesco a concepire.

L'infinito è il nulla, non esiste e io, come Louis, lo sto elaborando. Molto lentamente. Ho la parte razionale che mi dice di porre fiducia nella scienza e dell'altra, c'è la me irrazionale che dice di fidarmi di qualcuno che sa decisamente più di me.

La mia perplessità è tra queste righe, l'incontro sconvolgente non l'ho ancora sperimentato ma spero accadrà presto.

Quindi, ho deciso di condividere con voi questo piccolo pensiero. I Larry sono la scusante, perchè su di loro calza bene qualsiasi storia; ho solo voluto pubblicare un mio pensiero, qualcosa di personale che sta sul mio computer dal lontano febbraio 2015.

Mi scuso per il Bad Ending, l'angst, il MainCharacter!Death e sopratutto per avervi illuso se avete pensato di poter avere sottomano una nuova storia di 40k e passa.

Mi trovate su Twitter come @DontTouchDobrev, se volete scleriamo un po' insieme o se vi va, consigliarmi qualche storia ((magari anche le vostre, perchè no!)).

Le storie di cui parlo spesso arriveranno, solo mi serve più tempo perchè sono in work e sono le prime Happy Ending che sto sviluppando, perciò mi devono convincere.

Un abbraccio,

A.

  
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