Disclaimer: che sono sempre gli stessi. I personaggi non sono mia
proprietà, ma di Mochizuki-sensei.
I
dialoghi in corsivo sono tutti ripresi dal manga.
Note: questa è stata la prima shot su PH partorita dalla mia mente
(che, suvvia, lo sanno tutti che è profondamente malata e contorta *-*”)
Trovo Oz
un personaggio che riesce ad essere semplice e contorto insieme. Oltre che uno
che si fa tanti giri mentali. E io mi diverto a muovere i personaggi così XD
Ringraziamenti: a chi ha commentato “Nightmares” *non si aspettava ben 4
commenti* awww.
Perciò
un grazie a Doremichan (infatti il tuo nickname non mi
era nuovo. Sono contenta di riuscire a mantenere l’IC e che il mio stile non
sia tragico come spesso lo vedo io XD);
Shaiw (wiiih, ci ritroviamo ovunque! ^O^ Felice che ti sia
piaciuta, signorina Elliot-fan XD *muor*);
Naru 4 ever (sì, noi fissate lo vediamo proprio ovunque XD *lei è l’esempio
vivente* e sono d’accordo, prima o poi lo shonen-ai conquista tutti u.u);
Snjeg (donnaH! Dicendomi che riesco a mantenere Oz IC tu hai fatto
un piccolo, grande regalo ad una fangirl <3 Ti ringrazio per esserti offerta
e per i consigli – ma tanto ce lo siamo già detto ampiamente XD)
Liar
«Ehi Gill, mi chiedo perché mio padre mi odi…»
«Se il giovane padrone prova questo, perché non proviamo a
chiederglielo?»
«No! Io…»
Ho paura di scoprirlo.
Oz Bezarius è il quindicenne erede della famiglia Bezarius, trascinato nell’Abisso e rimasto lì per dieci anni che per lui sono stati poco meno lunghi di qualche ora. O qualche minuto.
Oz se lo chiede spesso, come
sia possibile: che lui abbia preso un thé con Alice mentre fuori da quel posto
tetro e grottesco le persone a lui care vivevano dieci anni senza sapere più
nulla di lui. Oz non lo sa, cosa vuol dire.
Essere logorati dalla
preoccupazione dall’interno, credendo ogni giorno che impazzirai.
Non sa cosa significa, stare
svegli la notte per paura degli incubi e pregare, perché se non fai nemmeno
quello, allora dovrai abbandonare la speranza di ritrovare la persona per te
più importante.
Oz, da quando è uscito
dall’Abisso e si è ritrovato con una Sharon per nulla cambiata e un Break
esattamente come lo ricordava, si è guardato attorno, chiedendosi spesso se
quello che vede magari è un sogno, o un’illusione e se svegliandosi scoprirà di
non essere mai uscito dall’Abisso.
Poi, però, è Alice stessa a
confermarglielo, o le parole di Break, spesso taglienti e persino inquietanti.
Ma Oz, chissà perché, sorride
sempre.
Anche quando Break gli dice
cose… “strane”.
Oz, where are you?
Gli viene da sorridere: perché dove si trova no, non lo sa più nemmeno lui.
Oz non si offende, quando
Break insinua sottilmente cose non proprio carine sul suo conto. O quando, più
che insinuarle, semplicemente pronuncia parole che intaccherebbero la
sensibilità di chiunque.
You’re a creepy brat.
Potrebbe mettere su il
broncio e fargli notare che sta esagerando.
Poi, però, Oz lascia stare,
perché in fondo lo sa che Break non ha tutti i torti.
Ormai, lui stesso se ne è
convinto; quale ragazzino di quindici anni accetterebbe tutta quella situazione
senza esserne minimamente spaventato?
Ma Oz se ne è accorto: che
Break, anche quando gli dice quel tipo di cose, lo fa sempre osservandolo.
Lo studia, lo ha capito.
Anche se non sa cosa l’altro si aspetta da lui.
Oz Bezarius è sempre stato
un moccioso dannatamente testardo, specie nei giochi: semplicemente, a lui non
piace perdere.
«Vorrei non essere mai nato.»
Ah, lo odio.
Odio quelle parole.
La magnifica sensazione di colpire quel coniglio.
Il disgustoso scorrere del sangue.
Non superano quelle parole.
Oz, quando Alice dorme come ora, ha preso l’abitudine di sgattaiolare fuori dalla stanza e di stare nel salotto.
Non
è perché non riesca a dormire per il luogo sconosciuto o cose simili.
È
solo che tutto quel silenzio lo annoia.
Allora
si siede sul divano e guarda i mobili, la loro disposizione: cerca di
memorizzare la stanza.
Alla
lunga, però, anche quella sorta di passatempo diventa noioso. Allora si alza e
cambia locazione; si dice che se cammina un po’, alla fine si sarà sgranchito
le gambe e tornando in stanza riuscirà a dormire più facilmente – invidia
Alice. Lei sembra non avere la minima difficoltà.
Di
solito, nulla interrompe quella sua routine notturna. Ma stavolta, qualcosa lo
fa.
«Non
dovresti dormire?» sente chiedere e si volta.
Per
un attimo, la luce fioca della luna che entra dalla finestra si fa beffe di
lui. Per un istante, uno solo, è convinto di aver visto Gilbert, proprio laggiù,
vicino alla porta.
Poi,
però, Oz scuote sempre la testa: lo sa, che Gilbert non è lì con loro.
E
sorride. Perché Raven non è Gill; a Raven non è permesso, sapere tutto di lui.
«Non
ho sonno e Alice sta già dormendo. Mi annoiavo, di là.» replica, giustificando
lì la sua presenza.
Vede
Raven indugiare, fermo al suo posto, senza cambiare espressione. Non dice
nulla, Oz: sa che l’altro sta cercando di capire quanto è vera la scusa che gli
ha dato.
Alla
fine, Oz non sa se lo ha convinto o meno, ma Raven non gli dice nient’altro in
proposito e si dirige verso un’altra porta.
«Muoviti.»
dice solo e per una volta, Oz davvero non sa bene cosa rispondergli.
Raven
non si è voltato, semplicemente non ha richiuso la porta alle proprie spalle.
Oz lo segue: non che abbia altro da fare, dopotutto.
Di
certo è sorpreso, quando si ritrova in cucina. E la sorpresa non può che
aumentare, quando individua Raven già ai fornelli.
La
schiena del più grande, però, non gli permette di vedere cosa fa esattamente:
si siede, e aspetta una spiegazione.
Ma
che Raven non fosse di molte parole, lo aveva già capito appena sveglio,
vedendolo la prima volta.
Indugia
sullo sgabello, i piedi penzoloni che vengono dondolati avanti e indietro al
solo scopo di far passare il tempo.
A
pensarci bene, capita spesso.
Oz
si è riscoperto già diverse volte, ad osservare Raven, il suo modo di muoversi
e di fare. Come si sporge in avanti quando parla con Alice, il modo di guardare
male Break pur senza perdere quel qualcosa nel suo sguardo che sa di indifferenza.
Il
modo in cui porta la mano a sistemare il cappello sulla propria testa, coprendo
una parte del proprio viso, il gesto con cui scosta di tanto in tanto la
frangia dagli occhi.
Oz
si è riscoperto ad osservare Raven fin troppe volte, con la speranza di
riconoscere qualcosa di familiare.
Non
lo sa perché ci spera tanto; a volte, non si accorge nemmeno lui di sperarlo,
in verità.
Anche
in quel momento, si chiede cosa sta pensando il moro: se si è accorto che lo
sta fissando, studiando, se la cosa lo infastidisce o non lo tocca come tutto
il resto del mondo sembra fare.
Oz
si confonde, quando guarda Raven: perché non sa come prenderlo, come rivolgersi
a lui.
E
lo odia: quel senso di colpa che non si spiega.
Quello
che lo colpisce in pieno stomaco, come un pugno improvviso a cui non ti eri
preparato.
Odia
sentirsi colpevole solo perché sta mentendo – o fingendo. Dopotutto, Oz
Bezarius fa entrambe le cose da quando è stato rifiutato.
Quando
Gill piangeva per lui, al suo posto: perché sì, Oz avrebbe voluto piangere.
Ma
a quel tempo, si era convinto che se avesse pianto, non avrebbe più smesso. E
allora, sì, sarebbe stato ancora più miserabile.
E
Oz aveva bisogno di tante cose: l’amore di suo padre, per esempio, ma non di
essere odiato ancora di più.
Oz
aveva bisogno di tante, tantissime cose; alla fine, però, si era detto che sì.
Gill
era più che sufficiente, per lui.
«…ehi.» sente pronunciare,
poco distante da se.
Alza lo sguardo, e Raven è
proprio lì di fronte a lui. E la cosa non gli torna: quando si è spostato?
Gli sorride, per riflesso,
perché a Raven non è permesso entrare nel suo personalissimo mondo. Solamente
Gill può farlo.
Raven non si scompone poi
molto: semplicemente, gli posa davanti agli occhi una tazza fumante.
Stavolta Oz non può
nascondere la perplessità che, quando Raven parla, diventa sorpresa: «È latte
caldo.»
Oz prende la tazza con
entrambe le mani, il calore della ceramica che entra a contatto con la pelle,
infreddolita senza che lui se ne rendesse effettivamente conto.
Raven a quel punto si siede
al tavolo: «Aiuta a dormire. Pensavo potesse servirti.» si spiega meglio, ma
non va oltre quelle parole. Soffia sulla propria tazza, sul suo contenuto.
Oz abbassa lo sguardo, con
la scusa di imitare il ragazzo.
È così… così maledettamente uguale,
da essere quasi insopportabile.
«Grazie!» replica comunque,
un tono allegro che non sa nemmeno lui da dove, esattamente, esca fuori.
«Non importa cosa succede,
o chiunque mi tradisca.»
Bugiardo.
Raven alza lo sguardo su di lui, e Oz se ne accorge, ma finge di no.
Chissà perché, gli sono
tornate in mente quelle parole.
Sa soltanto che,
all’improvviso, gli fa male; tutto quanto.
Il pensiero di Gill, di
quando pronunciando quelle parole aveva pensato di crederci. Di quando, il suo
migliore amico, gli aveva detto che non lo avrebbe mai tradito, mai.
E per un attimo, Oz lo aveva
guardato: un attimo fatale. Perché aveva iniziato a crederci davvero, a
quell’unico “per sempre” che Gill gli aveva mostrato, promettendo di renderlo
reale solo per lui con quelle semplici parole pronunciate una volta.
Non era vero, che non
importava cosa succedeva: non se in quel “qualcosa” Gill spariva nel nulla.
Non era vero, che non gli
importava di chi lo tradiva: se adesso Raven avesse tentato di ucciderlo… lui,
che era così uguale a lui, era certo che qualcosa, da qualche parte, si
sarebbe incrinata.
Nella migliore delle
ipotesi, poteva essere la promessa di una volta, fatta in un altro luogo e con
un’altra persona.
Nella peggiore… si trattava
del cuore che, gelosamente, conservava da una parte, senza permettere a nessuno
di avvicinarsi troppo.
Mai del tutto.
Mai per davvero.
«Accetterò questa realtà…
e basta.»
Maledetto bugiardo.
Non voleva aspettare, come faceva in quel momento, in attesa che il latte caldo non fosse troppo bollente per essere bevuto.
Non voleva stare lì, fermo e dire: “pazienza”.
Non era vero – non era vero, maledizione! – che sarebbe stato fermo ad accettare tutto quello che accadeva e sarebbe accaduto da allora in poi.
Quella realtà, non gli piaceva, non la voleva.
Di una realtà senza sua sorella, senza suo zio Oscar, senza Gill…
Non me ne faccio
nulla.
E impallidisce, Raven; si direbbe ghiacciato sul posto, nel vedere – o lo sta immaginando? – Oz che nasconde lo sguardo.
Si dice che è impossibile. Oz Bezarius non piange mai, di fronte a nessuno.
Nessuno di loro.
Nessuno che si trova in quella casa.
«Gill… dove cavolo sei?» borbotta Oz, così piano che basterebbe un rumore anche flebile a coprire il suono quasi impercettibile della sua voce.
Ma quel suono non c’è nella stanza e Raven la sente, la sente fin troppo bene quella frase che stavolta lo blocca sul serio. Si limita a guardare l’altro.
Ma tace.
When that strained strand of mental
tension was cut,
I wonder what happened to Oz’s
heart…
Raven è rimasto in silenzio.
Fingendo di non aver sentito, distratto da chissà cos’altro, è rimasto in silenzio anche dopo le parole di Oz.
L’altro, da parte sua, non ha parlato, impegnandosi a bere quel latte preparato da lui per avere la scusa di tacere.
Senza saperlo, si sono guardati di sottecchi a vicenda.
Mai una parola.
Perché se chiedessero la cosa sbagliata, sanno entrambi cosa accadrebbe.
La differenza, è una soltanto, fra loro: Oz non parla per non crollare.
Raven non parla, per non vedere Oz crollare. Di se stesso non si preoccupa.
Dopo quella pausa insieme, quella tazza di latte, Oz è tornato in camera. Raven è rimasto in salotto, a dirsi che è un codardo come è sempre stato.
Che, come sempre, è stato in grado di imporsi solo quando non c’erano in ballo i suoi sentimenti ma quelli degli altri.
Se lo ricorda, quando ha chiesto al padre del suo giovane padrone di accettare i suoi fiori e di incontrarlo.
Si ricorda cosa ha ottenuto.
Il cuore di Oz,
fu ferito per colpa sua.
Lo ricorda bene, Raven.
Del suo non credere nel “per sempre”. Delle promesse fatte.
Ricorda quanto Oz ha insistito per farlo partecipare a quella maledetta cerimonia.
Ricorda di essersi messo di mezzo, ricorda il motivo del proprio gesto.
Ha lì, marchiato a fuoco nella sua mente, la ferita infertagli proprio da Oz.
Ma non è la cosa che ricorda meglio, no.
Quel posto, quel primato, è lasciato allo sguardo del suo padrone: il terrore di aver ferito quello che reputava il suo migliore amico.
Anche se lui, Raven – o forse dovrebbe dire Gilbert? – si è sempre detto che era solo un servitore.
Si ricorda, cosa ha ottenuto anche quella volta.
Qualcosa, in
quel cuore, finì per incrinarsi a causa sua.
Raven lo ha imparato, cosa accade.
Quando il cuore del suo giovane signore non sopporta più la tensione o quando, per un’improvvisa rivelazione che lo ferisce, l’equilibrio di quel filo invisibile si spezza.
Raven ha imparato che Oz sprofonda; ha scoperto che quel cuore è… estremamente fragile.
E che se continua così, presto o tardi, finirà in pezzi.
E, proprio perché è un codardo, Raven si è detto che non ce la fa; non ce la fa proprio, a recitare la parte della mani che si lasciano sfuggire qualcosa di così fragile lasciando che si rompa definitivamente in tanti, troppi frammenti perché possa risanarsi di nuovo.
***
La mano sulla maniglia fa una pressione leggera, in modo che né quel movimento, né il successivo aprire la porta possano fare alcun rumore.
Sbircia dentro, controllando che Alice dorma ancora, e che Oz abbia preso sonno.
Sente come unico rumore i respiri regolari di entrambi e si lascia sfuggire un sospiro impercettibile.
Apre la porta il tanto che basta ad entrare, non del tutto.
Avanza nell’oscurità della stanza, appena inferiore al normale grazie alla luce lunare che entra dai vetri della finestra.
Osserva Oz, in silenzio.
Si china appena, verso di lui: i capelli biondi leggermente scompigliati e sparsi sul cuscino, alcune ciocche ad infastidirgli il volto, gli occhi chiusi e l’espressione rilassata dal sonno. I lineamenti morbidi esattamente come li ricordava.
Avvicina una mano a quel volto, scostando piano e con estrema attenzione le ciocche che gli solleticano le palpebre.
È lì, ad una manciata di centimetri dal viso di Oz, dalle sue labbra; riesce persino a sentire il respiro regolare mescolarsi al proprio, quasi trattenuto.
Ma lo ricorda: Raven ricorda bene il proprio posto e la sua promessa.
I will never betray you.
Because you’re my master.
Si china appena il più, il tanto che basta a sfiorarlo.
Posa appena le labbra sulla fronte dell’altro, in un bacio della buonanotte come se ne danno tanti, in tante parti del mondo.
Si lascia andare ad un sorriso gentile, di quelli che si rivolgono solo alle persone davvero, davvero importanti.
«Bentornato.»
«Io non credo
nei “per sempre.»
«Lo so, ma… non
ci avete mai pensato, nemmeno una volta?»