VIOLETTE
Violette
aveva le gambe d’un cervo, e Jules e Verne ne borbottavano a
proposito. Parlavano alla maniera scostumata dei ragazzetti che si
vergognano ancora del bello, poiché non ne sono avvezzi, e se il
primo raccontava di come i salici del viale si voltassero a guardarla
passeggiare, l’altro taceva.
Jules, che aveva dodici anni ma non sapeva meno di chi ne vantava
diciassette, diceva che Violette tratteneva addosso un sacco di
difetti, e l’un di questi era proprio ballare e saltellare, come
molla, profumando d’arancio e menta tutto quel che si poteva
contaminare. Diceva che i suoi boccoli facevano venire il mal di testa,
biondi come il miele, e l’immaginava tingersi sulle mele che
preparava sua mamma- poi tossiva, Jules, che aveva la retorica
d’un aratro, la voce spessa come se vi avessero soffocato dentro
il millesettecento ottanta e rotti, la raschiava ed era sporca di terra
come lui.
“Dovresti metterci delle bende su quel che dici”,
e Verne, che giunto ai quindici s’era scelto un nome per
sé, sentiva nelle orecchie tutto il terriccio che portava la
voce dell’amico, che rideva male ed il sorriso aveva la forma
d’una mezzaluna, “che forse è meglio se t’arrabbi, e resti così”.
Camminavano col passo scoordinato di chi è malato di frenesia,
si che Jules faceva tre passi ed aspettava l’altro, più
lento, perso ad apprezzare il campo inselvatichito dall’incuria:
sostava là l’edera, brulicante, soffocava le roselline ed
i ciclamini, tarpava le ali alla più fiorente lavanda, e
l’erbaccia guaiva libera -come Violette, avrebbe detto il Rozzo-
tanto che in quel naufragare di bellezze torte pareva pur bella.
Facevano un passo, due, e la bella ninfa spuntava sul vomitare delle
parole di uno, diventava un tintinnare più pacato fra le corde
dell’altro, che se non era un poeta doveva sicuramente essere un
filosofo, poiché non c’era scusa che tenesse al suo
sguardo assorto al vuoto mentre pensava: un pazzo, magari un qualche
genio, bisbigliava chi aveva fatto del pettegolezzo un’arte, e
quando Verne sorrideva nessuno aveva più dubbi sulla sua
bontà.
Ottusi a causa d’una vita sorda, capaci di creare il mare da un
secchio. Tanto che nessuno; nessuno cui la voce importasse, aveva
sentito il ragazzetto parlare, né si aveva idea di che voce
avesse.
“Potrebbe far di canto”, disse Jules, ma non venne udito.
Parlavano quindi a modo loro, come piace intendersi a due persone che
non hanno bisogno del parato comune, e se ne servono solo per far
credere che tutto vada come deve- saltellava, come una di quelle
caprette sui Pirenei, Violette fra una passeggiata e l’altra, fra
il sedano fresco che teneva il più giovane demone riccio nel
carretto affinché si vendesse. Sbucava coi suoi occhioni grandi
dietro ad una foglia, sorrideva, torceva il nasino e raddrizzava il
capo, si stendeva sul gambo, e a quel punto per Jules pure la verdura
portava turbamento.
Quando accadeva si ammutoliva, chiudeva la sua fornace ancor più
simile ad una cicatrice, tirava via il fango dal volto come un signore–
con altro fango, e Verne lo imitava poiché sovrappensiero, perso
a pensare al sedano, alle sue virtù, alla grande varietà
di cose che poteva dare.
Andavano così per il viale di santa Stoppa sino a sera, ricordata da alcuno se non da qualche braccio d’edera.
Erano
le tre e quaranta del pomeriggio -disse Verne, che teneva il tempo e
diceva di saperlo fare, asserendo che bastava pensarli, i secondi, per
contarli- e maggio caro si chinava sui pruni e meli, sulla lavanda
odorosa, gonfiava le radici ed inumidiva la terra ed api ubriache e
grasse vibravano attorno ad un carretto zoppo. Lo conosceva bene il
più grande e saggio, impegnato qualche giorno prima a
rammendarlo con la serietà con cui il Generale di Rouen
passò anni prima ad arruolare venti uomini. Così non
più di venti colpi di martello vennero dati alla ruota sulla
destra, che pendeva, e finalmente oltre al sedano si portava pure
qualche pretenziosa melanzana d’un viola intenso da fare invidia.
Forse un poco scarna ma resa bella dalla stagione, dal sole, da Bacco
che scendeva dai faggi a porgere del vino, che instupidito e felice
bagnava con abbondanza ogni cosa che fosse armonica: le mele dolci, il
miele, il vento sottile ed educato, Violette che pesta il selciato come
un angelo cadente sull’anima d’un buon fedele. Lei
sbarazzina, un’apetta, giunge crucciata e con le gote rosse, e
Jules rizza la schiena e spalanca l’occhio, si leva il cappello
ma le fa una linguaccia; Verne le sorride, e tanto basta.
– Su per la ferrovia c’è la casa di una signora
anziana, – disse, tintinnava la sua voce, e il contadino
borbottò a proposito che era saturo di quell’odoraccio di
mandarini, – voleva che la aiutassi a tirare giù le mele,
che sarebbe tornato suo marito.- cinguettava, pigolava candida, pur sul
posto pareva saltellasse.
Eppure, poiché il giovane teneva a farsi vedere mentre si
tappava il naso, Verne che era sì rincretinito dai bollori
d’un quindicenne ma non del tutto scemo, trovò qualcosa
d’intelligente da dire, il che non era una novità. Teneva
in mano un fiorellino placido, in attesa che lei lo prendesse di sua
sponte; “Non ci sono case abitate oltre il viale, Violette”,
– C’ha ragione-, affermò poi Jules, che portò
drammaticamente a terra l’accento lontanamente inglese del
giovane filosofo con un dire così grezzo da poter ricordare la
parlata cocciuta dei mangiatori di ferro ad oriente del Reno. Strinava
come una lamiera quel ragazzaccio bruno, e lei poteva rispondervi solo
nascondendo le smorfie che gli regalava- sinfonia di disaccordi avrebbe
detto qualche pensatore, che osservava bene i lineamenti della fata
rompersi e quelli del contadino sporco trovare buona armonia.
“Non passano treni”, si aggiunse poi, perché non era
abbastanza. Pure la verdura in saccoccia parve mugolare, e quella sul
carretto sospirò arresa di quelle verità paesane che si
conoscono e basta, dal sapore di vecchio e di brodo fatto per la sagra
ed il parroco buono.
– Credetemi! Quattro ceste di mele ho fatto, quattro!- al che
mise le manine bianche in saccoccia, ne spuntò con una melina
selvatica, di quelle che avevano la stessa natura di lei: piccina, dal
profumo dolce. E solo allora, dopo lo sguardo annoiato d’una
contessa mancata, Violette riprese il passo con un sorriso, e Verne
sognò a proposito delle sue vesti, del fiore che le diede fra i
capelli, mentre Jules, che era più terreno in tutto, salutandola
le disse di prendere – no macché, senza franchi, mettili via– una delle sue melanzane. La più bella e la più grossa.
Fu
detto giorni dopo, con pacato rancore, che un treno passò per la
ferrovia deviata ed investì una piccola casupola. V’erano
mele sparse ovunque fra i campi- d’una vecchina, che le aveva ben
raccolte poiché aspettava il marito che tornava da Nizza e aveva
preso la corsa delle ventidue trent’anni prima.
Gli piacevano un sacco, diceva, che son dolci come il miele.
Note:
Tengo moltissimo a questa piccola fic, che dedico ad una mia cara
amica. In realtà ho -almeno nella mia mente- costruito molte
letture diverse, che spero siano potute giungere al lettore- magari
qualche dubbio, qualche domanda, curiosità su quello che non si
è detto... sarebbe fantastico sapere quel che pensate a
proposito, così che io possa migliorare e sapere se sono
riuscita a passare qualcosina.
Grazie del tempo regalatomi, buona giornata! Baci, Blacket.