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Autore: LawrenceTwosomeTime    25/10/2016    1 recensioni
Lui vive nella Macchia, lei ci è finita per caso. A cosa porterà il loro incontro?
C'è qualcosa di "Follia per sette clan" nel presente racconto, e senza dubbio anche Grossman ha contaminato il mio modo di scrivere. Ho concepito questa storia come regalo di compleanno per un'amica a cui devo molto, e come ammazzatempo per chiunque si prenderà la briga di leggerla qui su EFP. Spero ne sia uscito qualcosa di degno.
Genere: Avventura, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La pioggia mordeva le pareti della Caverna col suo solito rantolo da scavatrice sfiancata.
Orso avrebbe già dovuto essere in letargo, ma quella notte non gli riusciva di addormentarsi. La saracinesca era abbassata e sprangata, i sistemi d’allarme attivati, e lui aveva uno strato di quindici mussole a ripararlo dal morso del freddo, eppure…

Durante notti del genere gli balenavano nella mente le domande più inopportune: le condizioni atmosferiche erano sempre state così capricciose? O erano peggiorate dopo il suo arrivo? Perché il territorio di caccia continuava ad espandersi anche se nessuno si procurava materiali da costruzione? Ma soprattutto, quand’è che le cose erano andate veramente a puttane?
E poi, inattesa e straniante, giungeva quella fitta al petto che lui sapeva essere un ricordo residuo di qualche tipo, una disturbante tenerezza capace di penetrare il retrogusto del sangue e il miasma della discarica.

In momenti simili, tutto ciò che poteva fare era tirar fuori la vecchia fotografia della Dottoressa Beaumont ed estrarre altrettanto rapidamente l’uccello dai ruvidi pantaloni di fustagno. Un po’ di sano su e giù, e le domande sfumavano, i ricordi retrocedevano. Ma non quella notte.

Si sentirono dei colpi violenti contro la saracinesca, e Orso scattò in piedi.
Non disse “Chi va là” o “Vattene”: non voleva fornire neanche il più piccolo indizio sulla sua posizione, a prescindere da chi fosse il visitatore. Se lo sconosciuto avesse insistito con quell’intrusione nel suo spazio privato, non sarebbe sopravvissuto per raccontarlo. Nessuno disturbava l’Orso e poi se ne andava via fischiettando.

“Vi prego, aiutatemi!”

Una voce di donna. Età approssimativa: quarant’anni. Condizioni fisiologiche: relativamente buone (per ora). Condizioni psicologiche: intimorita, sull’orlo della crisi di panico.
Orso indossò i propri Artigli, due griglie metalliche modellate per fasciare l’anatomia delle mani, con speroni affilati che si dipartivano da ogni articolazione. Se le punte di ferro non ti dissanguavano, la ruggine avrebbe finito il lavoro.

La donna ripeté il grido di aiuto, questa volta con meno convinzione. La pioggia cadeva forte, con tutta probabilità aveva già corroso qualunque abito si fosse messa indosso.
Era una trappola. Era sempre una trappola. Ti mandavano un’esca (un’esca di tipo femminile a cui qualche scarto industriale aveva promesso stinchi da addentare e cucce in cui dormire, o anche solo l’aver salva la vita), tu aprivi, eri morto, l’esca veniva violentata e poi mangiata, i resti del suo cadavere abbandonati sopra i resti del tuo.

Anche lui mangiava le persone, che diamine, ma solo se erano già morte e solo se non c’era altra scelta. Mica gli piaceva, il sapore della gente. A quelli, invece, faceva venire l’acquolina in bocca. Animali del cazzo.

Cominciò a togliere i rinforzi dalla saracinesca. L’unico punto debole della Caverna era che non aveva finestre, dunque potevi proteggerti da ciò che si acquattava all’esterno ma mai vedere di cosa si trattasse.
Va detto che Orso, a dispetto del suo omonimo dal naso ricettivo, non vantava un istinto di autoconservazione proprio impeccabile. Si, insomma, avrebbe potuto procacciarsi quel che gli serviva e poi sprangare la porta e tanti saluti, ma lui no. Lui era speciale. Non sapeva se la sua fosse una specie di curiosità malsana o uno sporadico impulso suicida, restava il fatto che alle volte – e in modo del tutto casuale – finiva col cacciarsi di proposito in delle brutte situazioni, solo per il gusto di scoprire cosa ne avrebbe ricavato.
Fino a quel momento era entrato in possesso di numerosi libri (non solo romanzi, ma anche volumi di cucina), svariati fascicoli relativi a pazienti irrecuperabili, un coltellino svizzero, una torcia comprensiva di batterie (tre ore di autonomia), cibo in scatola, vestiario, spazzatura incidentalmente utile e – nell’angolo delle acquisizioni indesiderate – tre spazi mancanti nell’arcata dentale superiore, una profonda cicatrice che correva dalla base della palpebra sinistra alla clavicola, una porzione di schiena cauterizzata da un marchio per il bestiame e svariate malattie (tutte più o meno debellate, se escludiamo la tosse reumatica).

Sollevò la saracinesca con un movimento fulmineo e si scaraventò all’esterno tenendo le ginocchia piegate e la testa incassata tra le spalle. Non c’era nessuno.
Muovendosi con passo felpato tra gli schizzi di pioggia verdognola, raggiunse l’angolo sinistro della Caverna. Sbirciò cautamente oltre il muro.
Qualcosa di duro si abbatté contro la sua nuca producendo un rumore sgraziato.
Orso vacillò in avanti, frenò la caduta protendendo un piede, si accucciò ruotando e tirò un calcio frustato agli stinchi di chi l’aveva colpito. Il badile usato come arma impropria impattò contro il pavimento a qualche centimetro di distanza.

Per terra giaceva una donna bionda dai lunghi capelli scarmigliati. Una serie di macchie rosse e livide le coprivano il seno nudo. Poco sotto, occhieggiavano una gonna di jeans leggermente gualcita e degli stivali in pelle marrone molto simili a quelli di Orso.

L’uomo si sporse su di lei per guardarla meglio. Quel volto gli ricordava qualcuno…
Si aspettava come minimo che lei opponesse una feroce resistenza, ma era troppo provata per combattere ancora.
Si limitò a dire: “Per favore, non farmi del male. Non so dove andare, mi serve…”

Lui non fece in tempo a capire cosa le servisse, ma – nonostante il colpo di fortuna che le aveva permesso di coglierlo alle spalle – non sembrava ci fosse qualcun altro con lei. A meno che quel qualcuno non fosse sgattaiolato all’interno mentre lottavano.
Inutile interrogarsi troppo: se la sua pellaccia era pronta per la scuoiatura, tanto valeva incontrare il carnefice.

Si aggirò all’interno con calma e compostezza. Il suo modesto nascondiglio era invaso dalle ombre, ma non c’erano intrusi che ne proiettassero di proprie.

Quando prese in braccio la donna e la trasportò all’interno, l’oscurità tumefatta e fosforescente della notte lasciava il posto a un’alba venata d’itterizia.

Denise scoperchiò le palpebre sentendosi come una liceale sopravvissuta alla sua prima sbornia, ma senza l’augusto sentore di vomito sulla lingua. Una porzione del cranio sembrava esserle stata tagliata via e poi ricucita in fretta e furia. Doveva aver battuto la testa.

“Bentornata”
Denise sussultò.

Si trovava distesa su una brandina sistemata in equilibrio su quattro scatole di cartone, una bizzarra coperta gettata sopra la sua nudità. Il proprietario di quella voce calda e un po’ burbera la squadrava da una poltrona in cuoio con l’imbottitura strappata. Reggeva una tazza di brodo.
“Manda giù. Ti farà bene”
Prima ancora di preoccuparsi se il tizio l’aveva violentata o solo guardata dormire, Denise si scoprì a chiedere: “Con cosa è fatto?”
“Gramigna essiccata e topo di scantinato”
La donna si piegò di lato, scossa da un conato di vomito.
Lui ridacchiò mettendo in mostra i denti opachi e non esattamente allineati.
“Ti stavo solo prendendo in giro. È zuppa istantanea”

Denise si asciugò un filo di saliva dalla bocca.
“Certo che hai proprio un gran senso dell’umorismo, signor…”
“Orso. Semplicemente Orso”, disse lui.
La donna chinò il capo, non si capiva se per gratitudine o soggezione.

“Bè, Orso, presumo che tu mi abbia salvato la vita. Presumo bene?”
“Presumi bene”

Il misterioso individuo indossava una pelliccia di visone insolitamente grande e scarmigliata, come un re decaduto di qualche ballata popolare. Si abbinava perfettamente ai suoi capelli mossi e ribelli.

“Denise”, si presentò lei accettando il brodo fumante.

Dopo che lei ebbe mandato giù qualche cucchiaiata, Orso balzò in piedi e cominciò a camminare descrivendo ampi giri nella stanza. Di stanza vera e propria non si poteva parlare: era più che altro un bunker incistato nel suolo, come un sottomarino ctonio che si fosse parzialmente issato al di sopra della superficie terrestre.

“Denise, sai dove ti trovi?”
“Temo di si”, rispose lei studiandosi le unghie ancora in parte coperte di smalto nero.

“Siamo nella Macchia, vero?”
“Già”, rispose lui, “e sei già stata fin troppo fortunata a bussare alla mia porta. Ma la tua fortuna non durerà”
“Capisco la mia situazione”
“No”, fece lui, brusco, “non capisci. Nessuno sa come funzionano le cose qui dentro. È una giungla, una selva… Se riesci a sopravvivere fino alla notte, puoi solo domandarti cosa ne sarà di te al mattino”

Denise sollevò il capo. Sorrideva.
“Certo che tu sai proprio come rassicurare la gente”
“La gente può anche marcire in una fossa merdosa. Ti sto solo dicendo che devi andartene il prima possibile”, replicò Orso con tono pragmatico e vagamente inquieto.
Denise appoggiò la tazza a terra stringendosi al seno la coperta.
“Se diamo per certo che finora tu te la sei cavata, significa che qui sono al sicuro. Almeno per il momento”

Orso risprofondò nella poltrona.
“Suppongo di si”
Sbuffò.

“Sei un detective? Reparti investigativi?”

Denise si massaggiò il capo con una smorfia.
“Fuochino. Sono una reporter di guerra”

Orso la fissò, colpito.
“Eri qui per un’inchiesta? Ti rendi conto che nella Macchia le fazioni cambiano ogni giorno? Nessun articolo potrà mai restituire una parvenza di senso a un posto che non ne ha mai avuto”
“Non ero qui per un’inchiesta. Sorvolavamo la vallata sopra un Carrier, eravamo solo di passaggio”
“E…?”

Lei indugiò ancora qualche secondo.

“È per mio nonno. Sta morendo”
Orso cambiò posizione sulla poltrona.

“Sai, ne ho viste di tutti colori”, proseguì Denise, “Ho fatto la mia parte quando l’America ha dichiarato guerra alla Turchia, ho visto i prodotti delle bombe… A Trump sono bastati due anni, due fottuti anni del cazzo alla presidenza degli Stati Uniti e la situazione è ritornata come ai tempi della Battaglia di Crécy. Solo, con i missili al fosforo e le armi biologiche”
Deglutì.
“Ma quando ho scoperto che al nonno rimanevano mesi, forse addirittura settimane… Non mi sono mai sentita così impotente. Provo quasi vergogna, sai? È sempre stato un uomo ingiusto, mio nonno. E ha vissuto la sua vita. Eppure… Eppure”

Orso si grattò la nuca.
“Quindi tu stavi andando da lui, passando per la via più pericolosa”
Denise annuì.

“L’hanno ricoverato in una clinica poco oltre il confine francese. Mi avevano avvisato che la tratta delle Alpi era interdetta: piogge acide, downburst fuori scala, addirittura tempeste magnetiche… Questo posto sembra attirare le peggiori sventure. Ma circumnavigare le montagne richiedeva troppo tempo, e io volevo arrivare il prima possibile. Ho dovuto rinfacciare parecchi favori, ma alla fine ho ottenuto quello che volevo. E ora l’equipaggio è disperso, e io sono qui”

Orso aveva iniziato a masticare una stecca di liquirizia.

“Denise, devi renderti conto che adesso tuo nonno non ha più importanza. E neanche il resto del tuo equipaggio. Se non sono morti, stanno morendo, e tu non hai colpe. Ognuno convive con le proprie scelte, tutti spirano pagandone le conseguenze. Punto”

“Se rimango qui ancora un altro po’, mi toccherà per forza fare i conti con ciò che è successo. Devo andarmene adesso”, dichiarò Denise tentando di alzarsi in piedi. Le gambe la tradirono al secondo passo, e Orso dovette affrettarsi a sostenerla.
Dopo che fu di nuovo distesa, le disse: “Sei ancora un po’ malferma per la caduta di ieri notte, ma non preoccuparti. Ti porterò fuori di qui”, e le strinse la mano. Con delicatezza.

Scoprendo che il contatto con la pelle ruvida di Orso non le ripugnava affatto, Denise disse: “Perché? Perché ci tieni tanto ad aiutarmi?”
Lui strizzò le palpebre come se cercasse di metterla a fuoco.
“Tu mi ricordi qualcuno. Qualcuno che ho conosciuto tanto tempo fa”
Lei annuì. Per quel che valeva, la spiegazione di Orso era sufficiente.
“Anche quella persona aveva una forza vitale incredibile. Tu le somigli molto”, aggiunse l’uomo quasi a mo’ di scusa.

La giornata trascorse in fretta mentre Denise riprendeva confidenza con il proprio centro d’equilibrio e Orso faceva l’inventario delle provviste. Lui uscì brevemente nel pomeriggio per “sbrigare delle commissioni”, e tornò carico di componentistica per motori e imbrattato di sangue (non il suo). Aveva recuperato anche dei nuovi abiti adatti a lei – una blusa e delle scarpe sportive – quanto di meglio era riuscito a trovare nel derelitto cimitero mercantile che era la Macchia.

“Raccontami una storia”, chiese lei quella sera, mentre mangiavano un intruglio che sapeva di funghi essiccati e caucciù.
“Che tipo di storia?”, replicò lui.
“La tua storia. Come sei finito quaggiù”

Orso ridacchiò.
“In verità non c’è molto da dire. Avevo bisogno di aiuto e l’ho chiesto alle persone sbagliate”
Denise scosse la testa.
“Comincia dall’inizio. Parlami della Macchia”
“Ah, giusto. Dimenticavo che i visitatori sono poco informati a riguardo”, disse Orso.
“Ti conviene prendere appunti: se ne esci viva scriverai un grande scoop”
“Non m’importa dello scoop, racconta questa maledetta storia”, ribatté lei.

Orso si mise ben comodo (aveva lasciato a lei la poltrona e si era sistemato su una seggiola di plastica).

“Dunque. Presumo che tu conosca già l’antefatto. Riassumo per praticità: un bel giorno, l’invidiabile statuto economico della Svizzera venne messo in ginocchio da un evento talmente caotico e distruttivo che, se non fossi ateo, penserei che Dio aveva deciso di punire gli elvetici per la loro arroganza (e le loro molto-poco-etiche leggi sull’immigrazione). Un terremoto di livello dodici nella scala Mercalli. L’avranno sentito persino in Alaska”

“Ricordo quei giorni”, aggiunse Denise, “mi sembrava che la casa sarebbe sprofondata da un momento all’altro”

“Si, bè, per fortuna nemmeno io ero qui. Ma sappiamo anche quello che è successo dopo. Le poche persone che estrassero dalle macerie – sebbene non ci fossero delle vere e proprie macerie, piuttosto una sorta di impasto multistrato – vennero trasferite il più lontano possibile da lì, e gli organi governativi ausiliari, spalleggiati dalla U.E., presero la brillante decisione di riqualificare il territorio. A modo loro, certo. La Svizzera non esisteva più come paradiso fiscale, ma come lunapark dell’edilizia. E in una bella valle completamente rasa al suolo, pensarono bene di aprire una clinica esclusiva per le malattie mentali. La più grande mai costruita dai tempi di Beijing e della California”

Denise ascoltava, rapita più dal suono della sua voce che dalle parole.

“Ai tempi dell’accaduto, io mi trovavo in Francia. Avevo seguito il consiglio della mia buona amica, quella che tu mi ricordi, ed ero partito per fare fortuna come illustratore. Non era per niente facile. Mi aveva convinto a furia di baci e carezze, e tuttavia non la biasimo, perché mi aveva fatto del bene”
Denise lo interruppe per chiedere: “Ma non vivevate insieme?”
Orso fece una smorfia amara: “Ero già pazzo prima ancora di emigrare in un altro Paese. Ci amavamo, lo volevamo entrambi, ma io non avevo la forza necessaria. E lei non aveva più la forza di aiutare me, o chiunque altro, a parte sé stessa e la sua famiglia. Non ero io quello di cui aveva bisogno”
Denise aspettò che si fosse liberato di quei pensieri lugubri, e alla fine lui proseguì.
“La depressione e le manie stavano tornando. Peggioravano anziché ritirarsi, incoraggiate dall’aria mutevole e catartica di Parigi”
“Adesso stai poetando”, osservò Denise.
“Hai ragione, deformazione professionale. Scrivevo anche racconti, sai. E quando non mi sentivo troppo esausto, tiravo di boxe e facevo lunghe gite in montagna, da solo”
“Comunque sia”, Orso riprese il filo, “pensai che l’unica soluzione fosse tornare in casa di cura, e accidenti se quella casa di cura non era invitante. Si trattava, più che di una struttura medica, di una gigantesca cittadella. La Nazione dei Matti, la chiamavano. Mi dissi che era il posto per me”
Denise considerò che, quand’anche avesse avuto un blocco per appunti, la volontà di non tradire quelle confessioni avrebbe certamente prevalso sull’istinto di annotare le parole di Orso. Con tutta probabilità.

“All’inizio fu gradevole. Il personale era gentile, il posto a dir poco stupefacente. Ad altissimo rischio sismico, certo, ma penso che chiunque scegliesse di trovarsi lì – che fossero pazienti o medici qualificati – condividesse un subdolo desiderio di morte.
E poi arrivò. Non un terremoto: qualcosa di molto peggio”
Mentre Orso ricordava, la sua fronte si andava riempiendo di rughe, quasi stesse invecchiando a velocità anomala.

“Non so da dove partì l’insurrezione. So che qualche capoccione aveva fatto male i suoi conti, questo è sicuro. Non vivevamo in una prigione, d’accordo, ma una struttura di quelle dimensioni avrebbe dovuto disporre del personale sufficiente per sedare una rivolta. Cosa che non avvenne. La follia si spanse a macchia d’olio, contaminando quartiere dopo quartiere, reparto dopo reparto, finché non rimasero solo i pazienti peggiori – e i più svegli, e i più disperati – soli con le proprie manie”
Gli occhi di Orso rilucevano sotto i freddi tubi al neon.
“I più teneri vennero uccisi subito. O trasformati in cibo. O in oggetti sessuali. Talvolta, tutte e tre le cose insieme. Ovviamente nessun altro Paese decise di immischiarsi, «lasciamo che se la vedano da soli», dissero. «È un disguido interno», dissero. Nel giro di qualche settimana, l’unica legge che contava era la legge del più forte”
Denise aveva quasi paura a chiedere, ma lo fece comunque.
“Tu come hai fatto a sopravvivere?”
Orso fece un mezzo sorriso che sembrava tutto fuorché di divertimento.
“Vedi reporter, il fatto è che non sono uno dei peggiori. Non sono un vero mostro. Ma ho i miei artigli, e sono affilati”
Denise sapeva che Orso non si stava riferendo a quella coppia di armi improprie.

“Non ho quasi nessun vincolo morale, e nemmeno sensi di colpa. E so essere cattivo, quando c’è bisogno. Qui dentro la sveltezza di pensiero aiuta solo fino a un certo punto: se vuoi durare a lungo, devi essere crudele. Costruire la tua ricchezza sui cadaveri degli altri, e non solo in senso metaforico.
Io ho cominciato quindici anni fa”
Denise rabbrividì. Intuivano entrambi ciò che l’altro stava pensando.
“Vuoi sapere se mi piace?”, disse lui.
Lei tacque.
“Non nascondo di aver sempre provato una certa frustrazione, quando vivevo nella società civile. Mi sembrava sempre di avere le mani legate. Qui invece, se qualcuno mi minaccia posso risolvere la cosa a modo mio”
“Ma non ne vale la pena”, aggiunse dopo un attimo.
“Il prezzo per vivere così è troppo alto. A lungo andare ti resta solo la morte, e ogni altra cosa perde sapore. Anche il cibo”

“Hai mai desiderato andare via?”, azzardò Denise.
“Ho combattuto con quest’idea nella mia mente”, disse Orso, “ma cosa farei una volta fuori? Come vivrei? Non penso che riuscirei a cavarmela nel mondo esterno. Per assurdo che possa sembrare, sono molto più al sicuro nella Macchia che nella società civile”

“Saresti al sicuro con qualcuno accanto”, disse Denise.
Subito dopo distolse lo sguardo, come scottata. Perché mai l’aveva detto?

Orso si accarezzò la barba incolta, poi parlò sottovoce.
“Lo stesso vale per te”

Non c’era malizia nel suo commento, si esprimeva col tono di una persona che fa una considerazione oggettiva. O di uno sciamano che legge il futuro.

I loro volti si squadrarono in quell’oasi di freddo e di degrado, lucidi, vigili, quasi cauti, eppure animati da un’insolente gioia condivisa.

“Che sto facendo?”, s’interrogò lui.
“Che mi prende?”, si rimproverò lei.

Un’ora dopo, con la muta promessa che aleggiava tra loro come uno spettro, si caricarono di tutto ciò che riuscirono a recuperare – anche più di quanto sarebbe stato sano e logico – perché entrambi sapevano che, qualunque cosa fosse accaduta, non avrebbero mai più rivisto quel posto.

Orso stava dicendo: “Finché sarai qui devi sceglierti un nome”, e lei: “Un nome da animale?”, “Già”, e dopo qualche esitazione, “Cerbiatta va bene?”, “Non è esattamente un carnivoro”, “Io non mangio carne. E poi lo trovo adatto”, “Cerbiatta sia, allora”.

Sollevarono la saracinesca. Il sole del mattino brillava sopra una distesa di piloni di cemento, come una foresta pietrificata sorta nel catrame lucido e brillante.

“Dovremo fare attenzione al Ghiottone e alla Donnola, girano sempre insieme. Lui soprattutto: ha una fissazione orale”, rivelò Orso come se questo chiarisse ogni cosa.
“Forse Aquila ci lascerà andare senza spararci nelle palle degli occhi. Fa paura, ma solo quando tiri di mezzo la politica. Non metterti a discutere di complotti con lei, ti prego”
“Farò del mio meglio”

“Ma Lupo e il suo Branco sono sicuramente i peggiori. Quelli non parlano, uccidono e basta”
“Il lupo è pericoloso solo se provocato”
“Ricorda che non stiamo parlando di un lupo, ma di un uomo”
“Terrò la mano sull’impugnatura del coltello. Non è la prima volta che attraverso una zona di guerra”

“Ci basta superare le Piane di Calce e raggiungere il Mare di Polistirolo. Non è veramente un mare e non è davvero di polistirolo, ma una versione molto più grande del Lago Bianco, e salata per giunta. Se abbiamo fortuna, troveremo una barca nella rimessa”

“Parli sul serio, quando dici che ti ricordo lei?”
“Per quel che ne so, potresti essere lei”
“Per quel che ne so, potrei esserlo”
“Oppure no, potresti essere una persona completamente diversa. Rimarrò comunque al tuo fianco”
“Anche se odi la gente?”
Soprattutto perché odio la gente, Cerbiatta”

E continuarono, mano nella mano, diretti verso l’ignoto. O verso morte certa. Non importava più.



  
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