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Autore: 9Pepe4    13/05/2009    2 recensioni
Momenti della vita della piccola Sara Foss.
Mi chiamo Sara, ho appena visto il mare. Ho quattro anni.
[...]
Mi chiamo Sara, ed ho sei anni compiuti. Sta per iniziare il mio primo giorno di scuola.
[...]
Mi chiamo Sara, sto dormendo in automobile. Ho sette anni.
[...]
Personaggi principali: Sara Foss e Tom Foss. Qualche accenno ad Erica Foss.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Tom Foss
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi chiamo Sara



Mi chiamo Sara, ho appena visto il mare. Ho quattro anni, e corro avanti, dove la sabbia diventa bagnata e il mare è talmente vicino da sprizzare le sue onde contro i tuoi piedi.
Lo guardo affascinata e diffidente al contempo.
È certo molto bello, ma io non so nuotare senza braccioli – e in questo momento sono senza braccioli – perciò non so se fidarmi vedendo tutta quell’acqua insieme. Si muove, ed il sole si spezza sulla sua superficie, i colori ballano.
Dorato, blu, verde. Verde, blu, dorato. Bianco di schiuma.
Il mio papà dice che l’acqua del mare è salata. Non so come faccia ad essere salata, ma il mio papà sa tantissime cose, e non può che aver ragione.
Sento la sabbia sotto le dita dei piedi, il vento – è umido come la mia maglietta a maniche corte, il solo indumento che indosso – mi spettina i capelli. Sono biondi, e la mia mamma dice che hanno rubato un raggio di sole dal cielo.
Respiro.
Mi piace guardare il mare, ma mi fa anche un po’ paura. Perciò, quando sento qualcuno dietro di me e vedo che è il papà, sono felicissima. Gli sorrido, lui sorride a me. La mamma è più indietro, nel punto dove la spiaggia è asciutta e bollente, a stendere i teloni da spiaggia.
«Ciao, piccola, ti piace il mare?»
Sorrido ancor di più e gli abbraccio le gambe. «Sì» dico. Mi imbroncio appena ed aggiungo: «Però mi piace di più con te vicino».
«Fanno un po’ paura tutte quelle onde, vero?» domanda lui.
Distendo il viso, perché ha capito tutto. Il mio papà capisce sempre tutto.
«Vero». Alzo gli occhi per guardarlo. «Sembra che si possano tendere verso di me con uno scatto e prendermi così» mugolo, affondando la guancia contro di lui.
Mi accarezza appena la testa.
«Stai tranquilla, Sara. Non potranno mai prenderti».
E io guardo il mare, che sembra ancora scuro e gigantesco. Ma mio papà mi ha preso la mano, e sento che la sua stretta può proteggermi da tutto e da tutti.

Mi chiamo Sara, ed ho sei anni compiuti.
La mia festa è stata bellissima. La mamma ha fatto una torta buonissima con il gelato, e le candeline erano bellissime ed io le ho spente tutte con un solo soffio. Si avverano i desideri, così.
Ma in questo momento la bambola e il cagnolino peluche che ho ricevuto per regalo non sono le cose più importanti derivanti dai miei sei anni.
Infatti sta per iniziare il mio primo giorno di scuola.
Ho le scarpe da ginnastica nuove, i pantaloncini blu e la felpa verde acqua. Quella grande con la tasca davanti. Porto sulle spalle lo zaino che serve per andare a scuola. L’ho comperato da tre giorni.
La mamma mi saluta con un bacio e io mi aggrappo al suo collo, per un momento non ho più voglia di andare a scuola, ma voglio rimanere con lei. «Mamma» dico, lamentosa.
Lei però mi sorride incoraggiante e mi muove scherzosamente una delle trecce bionde. La guardo imbronciata, ma lei mi dà un altro bacio e mi dice: «Coraggio, papà verrà dentro con te».
Mi giro a guardare il papà e lui annuisce per tranquillizzarmi. Ha portato la macchina fotografica per farmi le foto del primo giorno di scuola. Ha detto che è un giorno importante.
A malincuore lascio la mano della mamma. Prendo subito quella del papà.
Li guardo mentre si danno un bacio sulla bocca. Se lo danno leggero, un bacio schioccante ma che dura poco.
Poi mamma va verso la macchina dove aspetterà papà.
«Coraggio, Sara» dice lui.
Faccio un respiro profondo, poi entro nella scuola con lui.
Di solito la mamma mi dice che sono una bambina curiosona, ma in questo momento sono talmente spaventata che non mi guardo attorno e cammino rigida.
Ho lo stomaco tutto attorcigliato e mi viene da piangere alla sola idea di lasciare la mano del papà.
Lui mi accompagna in classe. Mi fa sedere ad un piccolo tavolo – banco, si chiama – e mi presenta la bambina vicino a me. Si chiama Alice.
Tiro su col naso.
Papà alza la macchina fotografica. «Sorridi, Sara» dice.
Io continuo a guardarlo con aria infelice.
«Dai, piccola».
Le labbra mi tremano. Penso che se mi ridice di sorridere mi metto a piangere e non smetto più. Ma lui ha capito, e non lo dice più. Scatta una foto a tradimento.
E poi un’altra.
E io penso che è un peccato avere tutte delle foto in cui ci sono io con la mia felpa preferita e le trecce che mi ha fatto la mamma con una faccia triste.
Pian pianino, sorrido.

Mi chiamo Sara, sto dormendo in automobile.
Ho sette anni. La cintura di sicurezza mi passa sul petto, sono appoggiata al sedile.
Sto facendo un sogno strano, di quelli con i colori talmente brillanti che pensi che il sole stia sempre nel punto più alto del cielo. Ci sono tante ombre scure, con maschere grandi a nascondere dei visi. Non vedo le facce, ma so che sono ancora più spaventose delle maschere, perciò sono felice che non se le tolgano.
Ma ho paura lo stesso, e poi non ho ancora finito i compiti di matematica.
Di colpo, vicino a me c’è il mio papà, e faccio la lingua alle maschere. Non potete prendermi più, dico.
L’auto sobbalza. O forse sono io che ho il singhiozzo.
«Non sono ubriaco!»
Alzo la testa, ed anche il papà lo fa. Non capiamo. Quella è la voce del papà, ma non sappiamo da dove venga. Da fuori.
Aggrotto la fronte, ma il sogno continua.
Sono tornata a casa mia, ho fatto un disegno di mille colori. Mio papà dice che forse non sono davvero mille e allora iniziamo a contarli. Solo che non sappiamo se vale anche il bianco del foglio. La mia maestra dice che il bianco è un non-colore, perciò non va contato.
«Che hai fatto, perché hai bevuto?»
Non so contare sino a mille. Il papà sì però, perciò continuiamo a vedere i colori.
Stiamo contando i colori delle piume di un uccellino, perché a me piace ma la mamma dice che posso tenerlo solo se è di mille colori.
«Non urlare, per piacere!»
Respiro più bruscamente.
L’uccellino mi becchetta la mano e io gli do una carezza sulla testolina soffice. Gli sposto qualche piuma per scoprirne qualcuna di un altro colore.
«Non sono ubriaco!»
Piango, perché l’uccellino ha solo centodue colori, e non bastano. Lo lascio volare fuori dalla finestra, e il papà mi dice di sorridere perché troverà una fidanzatina.
Non so perché la mamma non me lo ha fatto tenere. Ma poi lei porta un gattino piccolo e io lo prendo in braccio e penso che non voglio sapere di quanti colori è.
«Guarda avanti!»
Sento un rumore assordante e apro di colpo gli occhi, mentre il conforto morbido del gattino svanisce dalle mie braccia.
Non capisco cosa succede, perché la mamma urla e la macchina scivola sulla strada…
«Papà!» grido, terrorizzata.
Non ho nemmeno il tempo di mettermi a piangere prima che arrivi il dolore. E quando arriva, è troppo grande per le lacrime.
E in un momento è finito tutto.

Mi chiamavo Sara.
Avevo una mamma di nome Erica che mi intrecciava i capelli biondi in lunghe trecce. Una mamma che mi diceva che il sole mi aveva regalato il suo raggio più bello.
Avevo un papà di nome Tom che mi prendeva in braccio e mi aiutava a salire sullo scivolo.
Avevo un papà che mi proteggeva da tutto il mondo, che sembrava terribilmente grande per quanto ero piccola ancora.
Mi prendeva la mano e mi difendeva dalle cose che mi spaventavano.
Ora il mio papà è da solo, e prima di dormire guarda sempre una foto dove ci siamo io e la mamma. Cerca qualcosa nel nostro sorriso, e io penso di capire cosa vorrebbe tanto trovare.
Immagino di stringergli forte la mano.
Non avere paura, papà, sono sempre qui con te.
  
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