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Autore: simocarre83    02/11/2016    2 recensioni
Può una telefonata cambiare la vita di una persona? Dipende dalla telefonata. Il problema è che spesso non sappiamo quale sarà quella telefonata. Potessimo saperlo, la registreremmo per ricordarcela, o non risponderemmo neanche. Ma non lo sappiamo. E quando ce ne accorgiamo è troppo tardi e possiamo solo sperare che la vita cambi. In meglio.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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13 – IL GATTO E LA VOLPE
Mezz’ora passò. Poi arrivarono tutti e tre, Francesco, Giuseppe e Emanuele.
“Ciao!” dissero, entrando con un sorriso che definire a 32 denti era poco. “Siamo stati al mare fino ad ora. Ma non poteva accaderci niente. C’è sempre stata un sacco di gente. E abbiamo fatto una scoperta fondamentale. Sappiamo chi è il secondo componente della banda e ‘tatuatore’” disse Giuseppe entusiasticamente.
“E come ci siete riusciti?” chiesi, stupito per quella notizia inaspettata quanto positiva.
“Beh! Abbiamo fatto due più due. Tutto è incominciato un’oretta fa. Eravamo in spiaggia e ho visto una persona. Ti ricordi di Angelo, quel mio compagno di classe? Ecco l’ho incontrato. E anche se era ben abbronzato e cercava di nasconderlo non ho potuto fare a meno di notarlo” disse Giuseppe.
Per una volta tanto mi vide pendere dalle sue labbra. Ma durò pochissimo. Perché poi mi si illuminarono gli occhi e proseguii.
“Ho capito!”
“Allora diccelo tu!” chiese incredulo Giuseppe.
“Hai visto un livido che puzzava di tonno in scatola?” chiesi. Ma non sentivo neanche il bisogno di ricevere una risposta.
“Ma come hai fatto?” chiesero Emanuele e Giuseppe.
“Semplice. Appena hai detto il suo nome, poco fa, ho capito subito che era lui il tatuatore. Infatti mi è venuto in mente che per ‘puro caso’ è stato proprio lui a portarti la lettera dei Tre Fratelli la prima sera dell’anno scorso. Non avevo ancora collegato. Poi mi hai detto che era ben abbronzato e ha fatto di tutto per nasconderlo. Il disegno dei Tre Fratelli, ammesso che lui lo abbia, sarebbe stato già nascosto dal costume. Non c’è alcun bisogno di fare di tutto per nasconderlo. Quello che ci ha assalito ieri sera era certamente l’ultimo componente sconosciuto della banda. E come fisionomia era compatibile. Era inoltre l’unico che non voleva far scoprire la sua identità, perché era l’unico che ancora non avevamo in qualche modo collegato alla banda. Ecco il motivo per cui faceva di tutto per nascondere il livido. L’unica cosa che doveva veramente nascondere”, conclusi sedendomi al tavolo e prendendo, contemporaneamente, carta e penna.
“C’era solo Giuseppe in quel momento, ma ci ha detto che si vedeva lontano un chilometro che era impacciato. E solo. probabilmente pensava che non avremmo mai pensato di andare al mare, poco dopo che era successo quello che è successo ieri. È stato troppo sicuro di sé. E anche ingenuo. Già da ieri avevo riconosciuto la stessa figura dietro al ragazzo con la mazza da baseball e il mio assalitore mascherato assieme ad Amaraldo” aggiunse Francesco. E trovò tutti d’accordo.
I tre mi guardavano, mentre con la penna percorrevo il foglio, creando qualcosa dal nulla. Esattamente come quando risolvevo, sempre, un problema di geometria. Mi sedevo con carta e penna e qualunque cosa scrivessi su quel foglio era legge. Era sempre stato così. Ora, invece, stavo disegnando un organigramma della banda dei Tre Fratelli.
In cima c’erano i Tre Fratelli. A capo di tutto e tutti. Poi, sullo stesso livello, almeno secondo quello che avevamo capito fino a quel momento, Angelo, Michele e Amaraldo. E per ultimi, sotto Michele, Dorian e Salvatore. I rapporti di comando erano semplici, tranne per quanto riguardava Michele e Amaraldo. Una linea partiva da Amaraldo e arrivava a Michele ed un’altra faceva il tragitto opposto, partendo da quest’ultimo e arrivando al suo amico.
“Scusa ma che cos’è quel macello tra Amaraldo e Michele?” chiese Emanuele.
“Vi fermate qui a mangiare? Ho comprato dei pomodori eccezionali e se buttiamo quattro spaghetti sono capace di fare un sugo che è la fine del mondo” aggiunsi mentre facevo riposare la mano e soprattutto il cervello.
“Va bene, però ti avvisiamo che oggi abbiamo mangiato solo un panino e dopo una giornata di mare come questa non ci vediamo più dalla fame”
“Non ho mangiato neanche io. E praticamente non mangio da ieri sera, un pezzo di focaccia. Direi che dopo ci potremmo ammazzare di patatine. L’anno scorso i miei hanno lasciato qui la friggitrice” aggiunsi, felice di aver invitato quegli ospiti a casa mia.
Ci mettemmo tutti al lavoro, mentre io continuai anche la risposta che avevo lasciato in sospeso.
“Quel macello tra Amaraldo e Michele, come l’hai chiamato tu, è proprio quello che ci manca per avere un quadro preciso della situazione. Dal racconto di Emanuele sappiamo che Amaraldo è sicuramente nella banda da prima di Michele. Poi si deve essere infiltrato nella banda di Michele e l’ha convinto a far parte della banda dei Tre Fratelli. Ma a quel punto chi comanda chi? Cioè, Michele sa dell’appartenenza alla banda dei Tre Fratelli di Amaraldo? Perché se le cose stanno così, evidentemente Amaraldo ha una certa autorità su Michele. Ma se lui non ne sa nulla, allora è Michele ad avere una certa autorità su Amaraldo? Non credo. Quindi Amaraldo come si pone in tutto questo? Secondo me conoscere questo equilibrio potrebbe tornare a nostro favore”.
“Ma tu ti fidi del cinquanta percento di probabilità?” chiese Emanuele.
“No. Per trarre profitto da questa storia dobbiamo sapere con certezza come stanno le cose. Altrimenti rischiamo di perdere il vantaggio che abbiamo acquisito nei loro confronti”
“E come facciamo a sapere con certezza questa cosa?” chiese Francesco.
“Non lo so!” risposi francamente. Avevo immaginato che quello sciocco di Michele potesse non immaginare niente di Amaraldo, ma obbiettivamente, sarebbe stato tutto più complicato così. Veramente non sapevo cosa pensare.
“Evidentemente le cose vanno sempre e comunque come vogliono i Tre Fratelli” aggiunse Giuseppe. “La domanda fondamentale, perciò, è: cosa fa più comodo ai Tre Fratelli? Sono sicuro che il rapporto tra i due dipende solo ed esclusivamente dalla risposta a questa domanda”.
Tempo che finimmo di mangiare si fecero le nove di sera. Dal momento che nessuno dei quattro aveva alcuna idea al riguardo avevamo smesso di parlarne e ci eravamo fatti distrarre dalla cucina, dalle patatine, dal cibo e tutto il resto. Decidemmo di uscire a fare un giro. Finalmente ebbi occasione di rivedere Francesca e Annalisa. Passai anche a salutare i genitori di Francesco, Emanuele e Giuseppe. Poi scendemmo nel corso. Passeggiammo un po’, mangiammo un gelato nella gelateria vicino alla villa comunale, senza entrarvi, però. Sapevamo che quello era uno dei tre luoghi scelti dai Tre Fratelli come base della banda. Emanuele fece sapere agli altri che le riunioni si tenevano o lì, o in una radura abbastanza separata dal resto dei sentieri del lido “Torremozza”, oppure in un locale diroccato del castello. Girammo per qualche altro minuto e poi ce ne tornammo a casa. Arrivammo che era quasi mezzanotte. Dopo pochi minuti ero a letto. Mi ero accordato con gli altri che ci saremmo rivisti la mattina successiva alla fermata del pullman. Mi addormentai pochi secondi dopo aver messo la sveglia alle otto del mattino seguente.
Quel giovedì 19 Giugno la sveglia suonò. Troppo presto per i miei gusti, ma suonò. Ancora dovevo entrare nel ritmo delle vacanze, quello che mi permetteva di non mettere la sveglia, sicuro di svegliarmi otto ore dopo essermi addormentato. Preparai la borsa e finalmente raggiunsi gli altri per quello che sarebbe dovuto essere il mio primo giorno di mare. E al mare ci andammo sul serio. E ci divertimmo pure. Verso l’una tornammo a casa mia. Ci fermammo a comprare un’anguria gigante e qualche pezzo di focaccia. Mangiammo solo quella. E ci saziammo. Poi ci andammo a riposare in camera da letto. Almeno, ci provammo. Perché dopo pochi minuti cominciò la carovana per andare in bagno, per colpa dell’anguria. Verso le due, quindi, eravamo ciascuno a casa propria.
Si fecero le tre. Mi ero disteso sul letto e avevo aperto le inferriate della finestra della camera da letto, per far passare un po’ d’aria. Stavo leggendo uno dei libri che avevo come compito delle vacanze. E mi stavo domandando come mai a uno come me, a cui la lettura piaceva moltissimo, dovessero costringermi a leggere dei libri noiosi e pesanti, quando avrei potuto benissimo leggere qualcosa di secondo me più interessante. Per questo motivo, anche se ogni tanto mi arrivava addosso un po’ di aria fresca proveniente dalla finestra aperta, l’attenzione per la lettura aveva pian piano lasciato il posto alla sonnolenza.
Suonarono alla porta. Mi alzai, incuriosito dall’identità di colui che avrebbe potuto sfidare un caldo del genere per venire a trovarmi. Senza pensarci troppo aprii il battente della porta. E per poco non mi venne un colpo. Immediatamente richiusi. Mi appoggiai al frigorifero. Indeciso sul da farsi.
L’avevo visto: sapevo chi era. E l’avevo visto pure bene: in quelle condizioni non avrebbe fatto del male a nessuno.
Ma fino a che punto farlo entrare? Fino a che punto fidarsi? Almeno del fatto che fosse solo. Mandai immediatamente agli altri il messaggio “policoro” e poi aprii la porta.
 “Che cosa è successo?” chiesi, avvicinandomi a lui. Poi, abbandonando ogni tentativo di saperne qualcosa di più, lo raccolsi letteralmente da terra e lo presi in braccio. Lo portai in casa e lo adagiai sul letto. Inevitabilmente gli era accaduto qualcosa. Un rumore dalle parti dell’ingresso mi fece capire che erano arrivati coloro che avevo chiamato.
Ma fino a che punto renderli partecipi di quella storia? Ne valeva veramente la pena? Poteva essere meglio aspettare e parlare prima con lui. Poi, in un secondo momento, renderli coscienti della situazione. Optai per questa soluzione di ripiego. Feci appena in tempo a lasciarlo e andai in cucina, premurandomi di chiudere dietro di me la porta.
“Che c’è?” chiesi.
“No! Che hai tu?! Sei stato tu a chiamarci!” rispose Francesco.
“Scusate! Stavo giocando con il cellulare e mi deve essere partito inavvertitamente il messaggio. Scusatemi!” dissi, nel tentativo di lasciar passare una scusa.
I tre passarono qualche secondo a prendermi in giro, Giuseppe ne approfittò per rileggere il messaggio, poi se ne andarono. Chiusi la porta lasciando la parte superiore aperta. Mi fermai ad osservare ciò che accadde. Invece di andarsene insieme, Francesco e Emanuele salirono per la strada principale e Giuseppe discese le scale come per risalire nella sua via dallo scivolo pedonale. Ma appena sceso qualche gradino si abbassò a controllare che i suoi amici avessero girato l’angolo. Poi risalì. E si presentò davanti alla porta, cogliendomi nel gesto di osservare quello che stava accadendo. Purtroppo, per un intelligenza come la sua, quell’atto equivaleva ad una conferma di colpevolezza da parte mia.
Non che non avesse ragione, ma proprio in quel momento avrei volentieri evitato di vederlo fare l’investigatore. Lo feci entrare. Giuseppe entrò e mi si piazzò davanti.
“Che vuoi?” chiesi, quasi nel tentativo di levarmelo di torno. Tentativo, ovviamente, vano.
Giuseppe mi guardò. Serio. “Cosa è successo?”
“Perché?”
“Hai mandato il messaggio. Voglio sapere cosa è successo”.
“Ma vi ho già detto…”
“… una bugia!” intervenne Giuseppe.
Se si fosse trattata di un’altra persona, probabilmente avrei perso la calma. O, quantomeno, se si fosse trattata di un’accusa infondata. È solo che lo conoscevo troppo bene. Quindi sapevo che non avrei retto molto in quello stato, sapendo di essere dalla parte del torto. Cercai di intimorirlo con uno sguardo più severo del solito. Però non ci riuscii. Allora dovetti arrendermi all’evidenza e fare l’unica cosa che doveva essere fatta in quell’occasione. Abbassare lo sguardo.
“Scusa!” fu la conseguente affermazione.
“Prego!” rispose Giuseppe.
“Ma come hai fatto a capirlo?”
“Il mio telefono non ha la composizione automatica delle parole. Quindi quello che scrivo io scrive lui. Ed essendo all’inizio del messaggio, ‘Policoro’ l’ha scritto con l’iniziale maiuscola. Tu, però, per velocizzare la scrittura l’hai sicuramente inserito nel vocabolario del cellulare. Quindi l’hai scritto come l’hai inserito. Quindi con la lettera minuscola. E così ce l’hai mandato. Non solo non era lo stesso messaggio. Ma ti sei pure preso il tempo di scriverlo. Quindi adesso mi dici che cosa è successo, sennò me ne vado e tra un minuto sono qui con gli altri due. E sai che lo faccio” disse Giuseppe.
Attesi qualche altro secondo, nel disperato tentativo di fargli cambiare idea. Ma Giuseppe aveva imparato da me ad essere testardo quando era necessario.
“Va bene!” dissi, arrendendomi definitivamente. “Seguimi”.
Lo portai vicino alla porta e, aprendola, gli permisi di guardare nella camera da letto. Giuseppe entrò.
Mezzo secondo dopo, riconoscendo quella persona, si bloccò. Una serie di sguardi confusi ed offesi partirono da lui, i primi diretti al mio ospite, quelli offesi tutti e solo per me. La frase che pronunciò successivamente, avreste dovuto sentirla.
“Che ci fa, quello, qui?” chiese. Rivolgendosi a me. C’è da dire che me lo disse con una voce distorta dalla rabbia, che se solo “quello” fosse stato da solo, Giuseppe, pur essendo molto più debole di lui, almeno in condizioni normali, probabilmente avrebbe volentieri rischiato la vita per picchiarlo selvaggiamente. Anche nel tentativo di calmarlo un attimo, cercai di spiegargli brevemente la situazione.
“Cinque minuti fa qualcuno ha suonato alla porta di casa. Quando sono andato ad aprire c’era lui. Ho richiuso, vi ho mandato il messaggio e ho riaperto, per trovarlo accasciato vicino alla porta. In faccia non ha nulla, ma evidentemente devono avergli fatto qualcosa. Non si reggeva in piedi. Ho dovuto prenderlo in braccio per portarlo in casa. Guarda come è conciato. Non l’ho mai visto così, neanche l’ultima volta”.
“Diamogli una sistematina!”.
Per un attimo ebbi il timore di capire quello che voleva dire. Ma poi vidi Giuseppe avvicinarlo, e prima di riuscire a fermarlo, vidi che si rivolgeva verso il nuovo ospite e, lentamente e con calma, gli diceva sottovoce di sollevarsi un attimo per permettergli di levargli la maglietta, giusto per vedere quello che gli avevano fatto e cosa potevamo fare noi per dargli una mano.
Accorsi in suo aiuto, e lo sollevai, mentre Giuseppe gli tolse la maglietta. L’“ospite” se la fece levare senza aprire bocca. Era in evidente stato di choc. A Giuseppe scappò una parolaccia quando lo vide. Aveva il torace pieno di bruciature di sigaretta. Il dorso completamente ricoperto dei segni delle frustate che aveva ricevuto. Anche parti sensibili come le ascelle erano state torturate con lo stesso trattamento. Molto delicatamente con una spugna cercai di curargli quelle ferite. Passai anche in quelle parti una crema idratante, cercando di dargli un po’ di sollievo. Quando, con Giuseppe, cercammo di girarlo per trattare nello stesso modo la schiena, mentre lo stavamo mettendo su un fianco, incominciò a lamentarsi, quasi ad urlare.
“Non posso girarmi sul fianco! Mi fa troppo male” esclamò. Era la prima volta che parlava.
Guardandolo, così, faceva pena. Lo riappoggiammo sul letto. Supino.
“Posso?” chiesi, indicandogli il fianco. Forse avevo capito cosa c’era che gli faceva male e quelle macchie che iniziavano ad essere visibili sul pantalone, in corrispondenza dei fianchi, avvaloravano la mia ipotesi.
“Non c’è nulla che voi non abbiate già visto. Solo, vi prego, fate lentamente” rispose costui.
Scostai lentamente il lembo del pantalone. Sotto non aveva biancheria. Mi fece impressione vedere la parte di pelle arrossata e sanguinante al posto dei disegni, che sicuramente, fino a poche ore prima, dovevano esserci al loro posto.
“Beh!” esclamò guardandomi Giuseppe “almeno il marchio dei Tre Fratelli gliel’hanno levato”.
Poi si rivolse al ferito.
“Allora, Michele, che hai fatto di tanto grave per essere stato punito così duramente e essere stato sbattuto fuori dalla banda?”.
“Per favore, vorrei prima parlarne solo con te” rispose, rivolgendosi nella mia direzione.
“Perché?” gli chiesi.
“Per favore. Che cosa vi costa? Ti chiedo solo questo!”
Ci pensai qualche secondo. Michele non poteva saperlo, ma quel favore mi costava. In realtà quel favore poteva costare più a lui che a me. Era difficile assecondare quella richiesta, non tanto per Giuseppe, ma per me. Senza saperlo, infatti, Giuseppe stava giocando un ruolo fondamentale. Giuseppe era la diga che stava fermando la mia ira. Era perché mi vergognavo di farlo davanti a lui e perché non volevo rivelargli tutto quello che era accaduto con Michele e che non gli avevo mai raccontato. Finché Giuseppe fosse rimasto in quella stanza a Michele non sarebbe di certo accaduto nulla di male. Ma se Giuseppe se ne fosse andato, come Michele stesso mi aveva chiesto, nessuno avrebbe più potuto impedirmi di fargli del male. Ed in quel momento ne avevo tanta, ma veramente tanta voglia. Ci pensai un po’. Poi, sapendo che non farlo avrebbe potuto complicare una situazione già difficile, decisi di assecondare la sua richiesta. E volli anche prendermi gioco di lui.
“Va bene! Tu! Vattene! Vai a casa tua e non dire a Francesco e Emanuele che Michele è qui e che ora lo sto interrogando! Per ordine mio non dovete avvicinarvi a casa mia fino a quando non vi chiamo”.
Si drizzò in piedi, annuì, e a passi veloci uscì dalla camera da letto. Feci segno a Michele di aspettare e seguii Giuseppe, urlando.
“Quante volte ti ho detto che devi rispondere a ogni mio comando con “Si Signore!”?”
“Scusa capo. Starò più attento la prossima volta, signore”
“Dopo facciamo i conti per questa mancanza di rispetto! E adesso vattene!”
“Si signore!” esclamò Giuseppe e la porta di casa si richiuse.
Prima di andarsene Giuseppe si voltò e rivolgendosi di nuovo a me, in perfetto silenzio e da dietro le zanzariere, mi fece una linguaccia, correndo via immediatamente dopo. Sarei scoppiato a ridere ma mi trattenni per continuare quello che sapevo essere l’interrogatorio più difficile della mia vita. Ritornando immediatamente in camera da letto.
Prima di tutto è doveroso dirvi che, in condizioni normali, Giuseppe avrebbe cercato di rompermi una delle sedie della cucina sulla schiena se gli avessi detto una cosa del genere seriamente. D’altro canto Giuseppe aveva capito da subito che non stavo parlando seriamente con lui. E, averlo seguito in cucina per, come volevo far capire a Michele, “sgridarlo per la mancanza di rispetto”, mi permise di consegnargli due cose che avrebbero tolto qualsiasi dubbio.
Fin da quando eravamo piccoli, un rapporto più confidenziale aveva legato me, Giuseppe e Michele, rispetto a Francesco ed Emanuele. Avevamo circa dieci anni noi e otto Giuseppe, quando ci inventammo una cosa che in rarissime ma utilissime occasioni ci aveva permesso di comunicare completamente in incognito. Usavamo le carte. Le cinquantaquattro carte francesi, cinquantadue regolamentari più due jolly. Ad ogni numero e ad ogni seme avevamo associato un significato. Quindi, con un po’ di allenamento, riuscivamo a conversare amabilmente senza parlare ma mostrandoci solo delle carte da gioco. Fu così, che le due carte da gioco che gli consegnai mi permisero di spiegargli velocemente e praticamente come stavano veramente le cose. La “ripassata” che si era preso in cucina serviva ad illudere Michele e, molto più semplicemente, a darmi il tempo di cercare le carte e mostrargliele. Tre gesti da parte sua mi permisero di capire che aveva inteso correttamente i segnali che gli avevo lanciato. La prima carta era un Jolly. Significava, praticamente, che stavo facendo quello per prendere in giro Michele. Giuseppe mi fece l’occhiolino e quello fu il primo segno di comprensione. La seconda era un Asso di Picche. Ed era una carta molto importante, perché invertiva automaticamente il significato di quello che gli avevo detto prima. In pratica capì che era come se prima avessi voluto dirgli: “Vai a casa loro e avvisa Francesco e Emanuele che Michele è qui e che sta parlando! Per favore, avvicinatevi a casa mia di nascosto”. Il secondo segno di comprensione fu che Giuseppe mi indicò, con un gesto, la finestra della camera da letto, facendomi capire che si sarebbero appostati lì sotto. Il terzo gesto fu, ovviamente, la linguaccia che chiuse quel discorso silenzioso tra di noi nel modo più simpatico e cordiale possibile.
Giuseppe uscì e, una volta fuori di casa, non poté fare altro che scoppiare a ridere. E si avviò verso casa di Francesco e Emanuele.
Tornai in camera da letto. Cercai in tutti i modi di distrarmi, offrendo a Michele qualcosa di fresco da bere, facendo finta di sistemare un po’ di cose. Intanto, dal movimento delle ombre al di fuori della finestra compresi che Giuseppe e gli altri due si erano posizionati sotto di essa, pronti a venire a conoscenza della storia di Michele, a sua insaputa. Non sapevo se sarei riuscito a resistere e non esternare tutti i sentimenti che provavo in quel momento. E Michele non faceva neanche niente per essermi di aiuto.
“Non immaginavo che fossi così autoritario. Non ti sei sempre vantato del fatto che siete legati solo dall’amicizia e che nessuno comanda sugli altri?” chiese Michele, incuriosito da ciò che aveva visto e sentito solo pochi secondi prima.
“Ci sono ancora tante cose che non conosci di me!” risposi in  maniera più enigmatica ed evasiva possibile. Da una parte quella osservazione mi faceva ridere. Dall’altra notai anche in quelle poche frasi quell’atteggiamento di spavalderia e superiorità che l’aveva contraddistinto negli ultimi anni. E mi innervosii ancora di più. Mi accorsi, però, di come mi guardava. E capii che si sentiva sulle spine per essere rimasto solo con me. Dopo quasi tre anni.
“Allora, perché ti hanno conciato così?” gli chiesi ritornando alla realtà ed alla cosa che ci interessava di più.
Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale Michele abbassò lo sguardo e divenne rosso in volto. Evidentemente, anche solo ritornare a quei fatti di qualche ora prima gli faceva male. Passò qualche altro secondo. Poi rialzò lo sguardo e, anche se fissando il vuoto, incominciò.
“Tutto è incominciato ieri pomeriggio. Ero a casa e improvvisamente è arrivato Amaraldo per dirmi che era assolutamente necessario incontrare Cosimo. Provai a chiedergli ulteriori informazioni, ma mi disse che era venuto Massimo ad informarlo e che era sorto un problema del quale dovevamo parlare. Io mi accontentai di quella risposta e uscimmo per andare al castello. Arrivati nella camera dove teniamo le riunioni, aspettai qualche altro minuto, poi arrivò Cosimo. Mi disse che era successa una cosa gravissima e che era di vitale importanza eliminare dalla banda dei Tre Fratelli il ramoscello più debole e inutile. Immediatamente pensai di essere stato chiamato per eseguire quel lavoro. In realtà pochi secondi dopo ricevetti un colpo in testa e persi i sensi. Mi risvegliai bendato, in un posto che sembrava la spiaggia. Almeno, i piedi erano sulla sabbia e sentivo distintamente e abbastanza vicino le onde. Capii che eravamo alla radura, al lido Torremozza. Ero legato e nudo. Lì Cosimo ordinò ad Amaraldo di conciarmi così. Rimasi con loro fino a tarda notte. Almeno fino a quando non persi i sensi. Poi, quando era ancora presto ma chiaro mi slegarono e mi liberarono. Mi sono fatto a piedi dal lido a qui, soffrendo ogni volta che la stoffa della maglietta o dei pantaloni mi sfregava contro le ferite. Questo è tutto!”
E così si erano liberati di Michele ed erano venuti allo scoperto con lui. Chissà se aveva capito il ruolo di Amaraldo in tutta questa storia, ora. Qualche domanda mi venne in mente. Solo che, purtroppo per lui, queste non potevo fargliele se non da solo. Veramente solo. Attraversai la camera da letto. Mi avvicinai alla finestra e la aprii. Mi avvicinai ai ragazzi che ci ascoltavano da fuori.
“Ragazzi, per favore, voglio rimanere solo con Michele. Per favore ve ne andreste?” chiesi sottovoce.
“Perché?” chiese Emanuele.
“Poi vi spiego! Ma devo parlargli di qualcosa di molto delicato. Il fatto è che mentre raccontava quella cosa, Michele, mi sono venute in mente altre domande. Però non posso parlarvene ora. Mi faccio vivo io quando finisco”
“Ma perché non possiamo stare ad ascoltare?” chiese Giuseppe.
“Meglio di no!” risposi. D’altra parte dovevo parlare con Michele apertamente. E c’erano ancora alcune cose nascoste a tutti gli altri che ci erano accadute. E, per il momento, dovevano rimanere tali.
Vedendomi irremovibile, i tre se ne andarono. Richiusi la finestra e, sembrando più tranquillo di prima, ritornai verso il centro della camera da letto. Un Michele con l’atteggiamento degli ultimi tre anni mi stava guardando di traverso.
“Perché hai acconsentito alla mia richiesta di parlarti da solo, per poi mandarli a spiarci dalla finestra?” chiese.
“Perché la richiesta non era giusta. E per farglielo capire gli ho dato il Jolly e l’Asso di Picche. Ti ricordano qualcosa?”
Michele ci pensò un attimo, poi gli vennero in mente le serate passate insieme a me e Giuseppe e realizzò il codice.
“Ma allora fingevi quando gli hai ordinato di andarsene e l’hai sgridato!” disse, sembrando ancora più offeso.
E lì cambiai atteggiamento. Ormai gli altri dovevano essere lontani e quindi incapaci di intervenire, almeno per i prossimi minuti. Decisi allora di incominciare a prendermi qualche rivincita.
“Certamente! Non siamo una banda, noi. Siamo semplici amici. E Giuseppe, ormai, è il migliore che ho a Policoro. Non mi comporterei mai così con lui. E neanche con gli altri due. Per non parlare degli altri!”
“E funziona?” chiese Michele.
“Finora, stando insieme, non siete riusciti a farci nulla! Né voi quattro, né i Tre Fratelli. Credo che sia un ottimo risultato!” gli dissi con un gran sorriso. Sapevo che sarebbe servito.
Michele arrossì, forse perché capì quello che stavo veramente dicendo, cioè che lui non aveva amici, forse perché gli vennero in mente gli innumerevoli cambi di sorte delle innumerevoli volte che erano quasi riusciti a sconfiggerci, o farci qualcosa di brutto, e che gliel’avevamo impedito. Arrossì soprattutto perché colse l’implicito messaggio, rivolto a lui in maniera specifica e diretta, della frase “Giuseppe, ormai, è il migliore amico che ho a Policoro”.
Mi sedetti sul letto a castello, di fronte a Michele. “E ora che siamo veramente soli” dissi, “ti farò tre domande. Non sono difficili, ma ti devo avvisare che l’unico modo che hai per soddisfare la mia richiesta è rispondere sinceramente. Se mi accorgo che mi stai raccontando una frottola, e lo sai che me ne accorgo, te lo prometto: richiamo i ragazzi e ti rispediamo dai Tre Fratelli. È chiaro?”
Un brivido attraversò la schiena di Michele, che non rispose.
“È chiaro?” gli chiesi alzando ancora di più la voce.
“S-Si” balbettò Michele.
Lo sapevo. Aveva ancora quel problema. Quando aveva paura, veramente paura, balbettava. Era un problema che si portava dietro da quando aveva incominciato a parlare. E quella era una cosa che solo io sapevo, tra i suoi coetanei. In fondo aveva sempre avuto una certa paura di me da quando la nostra amicizia si era interrotta. Non l’avremmo mai ammesso, né avremmo potuto farlo con gli altri, ma segretamente ciascuno nutriva nei riguardi dell’altro il giusto timore e rispetto. Due qualità che al momento opportuno l’avevano sempre trattenuto dall’esagerare con noi negli ultimi due anni. Una volta sola la voglia di vendetta per la sua stessa impotenza l’aveva spinto oltre. Ma un sasso fiondato sulla mano con cui teneva il coltello l’aveva dissuaso dal continuare e aveva fatto finire quella sera nel modo peggiore della sua vita. Almeno fino al giorno prima.
“Bene! L’importante è avere ben chiare le idee!” dissi, cercando di stemperare un po’ la tensione di quegli attimi. Anche se anche per me era veramente difficile farlo. Questa volta Michele era più che mai disposto ad ascoltare fino in fondo le mie domande e a rispondermi con sincerità. Io, d’altra parte, sapevo di non avere molto tempo a disposizione per avere quelle risposte e mi serviva la verità.
“Prima di tutto voglio sapere per filo e per segno che cosa è successo da quando ti abbiamo lasciato solo e nudo in mezzo alla strada quella sera al momento in cui ti sei rivolto ai Tre Fratelli”.
Sebbene la mia richiesta fosse precisa e diretta, Michele mi guardò esterrefatto.
“Beh! che c’è che non va?” risposi ancora più innervosito.
“Niente! Perché vuoi saperlo?” chiese indispettito, come se avessi colpito qualche punto che non aveva voglia di tirare fuori. In realtà capii subito che Michele aveva compreso chiaramente dove volevo arrivare. Con una gran bella dimostrazione di personalità, però, a quel punto, senza neanche aspettare la mia risposta, rispose alla mia prima domanda. Con franchezza e dovizia di particolari. Mi raccontò tutto quello che gli era accaduto. Come si era nascosto sotto la macchina. Che pochi minuti dopo era arrivato Amaraldo. Come l’aveva tolto da quella situazione imbarazzante e anche quello che era successo il giorno seguente, di come Amaraldo gli avesse consigliato di rivolgersi ai Tre Fratelli. E qui si bloccò. Perché, per la prima volta un dubbio consistente attraversò la sua mente. Un dubbio spaventoso. Sulla persona sulla quale, fino a poche ore prima, aveva nutrito il minor numero di dubbi possibile.
“Cioè, mi stai dicendo…?” chiese sorpreso Michele.
“No! Tu lo stai dicendo!” risposi. “A dire la verità noi l’avevamo già immaginato. Non hai mai pensato al motivo per cui, quella sera, lui non era con voi?”
“Mi ha detto che doveva andare a giocare a calcetto”
“E ci è andato?”
“Credevo di si, poi Dorian mi disse che aveva mal di testa e che era rimasto a casa”
“E quando sei rimasto solo non potevi telefonare a Amaraldo?”
“Come facevo? Sei stato tu a cancellarmi la memoria del cellulare! Non ricordo a memoria i numeri di telefono”
“Io non ti ho cancellato nulla!”
“Sicuro?”
“Certo che sono sicuro!” risposi.
Michele mantenne per qualche secondo lo sguardo fisso nel vuoto. Erano tre anni che non vedevo quello sguardo. Pur essendo stati fondamentalmente diversi, in questi anni, Michele era un ottimo studente, come me. Diciamo che in matematica, metterci insieme, non lasciava scampo a nessun problema. E quello era esattamente lo sguardo che aveva quando, come me, mediante quella sottile successione di ragionamenti logici, arrivava alla soluzione di un problema. In quel momento Michele capì che solo Amaraldo poteva avergli cancellato la memoria del telefono, visto che lui era l’unico a cui ogni tanto prestava il suo telefono. E, in quel preciso istante, un altro dubbio attraversò la sua mente. Sempre sulla stessa persona. Paradossalmente, ciò che non aveva voluto confermare a sé stesso fino a quel momento, ora stava prendendo sempre di più dei confini nitidi e distinguibili. E anche le parole che Amaraldo gli aveva detto proprio la notte prima, anche quelle parole sussurrate al suo orecchio prima di togliergli il fazzoletto e ridargli la vista, proprio quelle parole, ora, stavano acquistando un significato spaventoso. Incredibilmente logico, ma estremamente spaventoso. Amaraldo gli aveva detto che per entrare nella banda dei Tre Fratelli gli era stato ordinato di portare Michele fino a quel punto. E lui aveva pensato che si stesse riferendo a quello che gli aveva detto poche ore prima.
A dire la verità, mentre era per strada, quel giorno, aveva addirittura pensato al fatto che quelle parole facessero riferimento alla concitata conversazione che aveva avuto con Amaraldo l’anno prima, quando si convinse a cercare i Tre Fratelli.
Adesso, però, quelle parole stavano assumendo un significato diverso. Un significato che lui aveva voluto nascondersi fino a quel momento, fino a che la sua stessa mente razionale non l’aveva portato a svelare quel pensiero inquietante. Un significato che non avrebbe dovuto riportarlo indietro di un anno, ma di tre. Molto più indietro di quello che pensava. E questo gli stava facendo provare una paura, un terrore che neanche la sera prima aveva provato.
Vedendo la sua preoccupazione ed il suo silenzio capii che il mio piano stava funzionando. Volevo fargliela pagare e mettere fino in fondo alla prova Michele. E quello era solo l’inizio. Infatti subito incalzai con la seconda domanda.
“Ieri e stanotte, c’era qualcun altro con i Tre Fratelli e Amaraldo a torturarti?”
“Si! Un’altra persona!” disse Michele, rilassandosi leggermente per aver cambiato discorso.
“Chi è?”
“Non lo so! L’ho visto altre volte ma, come questa, aveva sempre la testa e il volto coperti, o da un passamontagna o da un cappuccio”
“È quello che vi fa i disegni sui fianchi?”
“Si! Ma come lo sai dei tatuaggi?” chiese stupito Michele, facendo mentalmente il collegamento con l’osservazione mia e di Giuseppe di pochi minuti prima.
“Lascia perdere! Te lo racconto un’altra volta!” risposi, cosciente della necessità di non renderlo ancora edotto sulla storia di Emanuele.
Michele aveva un turbinio di pensieri estremamente preoccupanti che occupava il suo cervello in quel momento. Decise lui stesso di non pensare oltre a quelle cose che gli stavo facendo pensare io. Solo che, quella volta, la soluzione a quel problema fu peggiore del problema stesso.
“La terza domanda?” incalzò Michele, desideroso di continuare, e forse finire, quella serie di domande che lo spaventava a morte. Almeno da quando, tornato in casa mia, aveva ricominciato ad usare il suo cervello, e non quello degli altri. Gli bastò continuare nel suo stesso ragionamento, comunque, per capire che forse sarebbe stato meglio non chiedermi di andare avanti con la terza domanda. Infatti, pochi millesimi prima che io gliela facessi, ci arrivò da solo. Me ne accorsi perché chiuse gli occhi e li strinse disperatamente.
Fu allora che dentro di me provai il vivo desiderio, per la prima volta, di colpirlo. E forse, in quel modo, risolvere una volta per tutte una questione che andava avanti ormai da quasi tre anni e che avrei potuto e dovuto risolvere come andava fatto già tre anni prima.
“Eccola! Perché? Ci molli, mi insulti, te ne vai con qualcuno che, obiettivamente, non conosci, arrivi al punto di mettere volontariamente di mezzo i Tre Fratelli, mettendoti addirittura al loro servizio e poi, quando questo ti dimostra la sua vera natura, arrivando al punto di torturare te, che, fino a pochi minuti prima, lo consideravi il tuo migliore amico, a quel punto ti ricordi della nostra amicizia e vieni da noi a farti curare le ferite. Perché? Non dico andare da Amaraldo, perché penso che tu abbia ancora da parte qualche neurone buono. Ma perché non sei andato da Salvatore, o da qualche altro tuo amico? Perché da me? Cosa vuoi da noi adesso?”
Dalla risposta che mi avrebbe dato, sarebbe dipeso tutto il resto. Ma, sopra e oltre ogni altra cosa, volevo che me lo dicesse, volevo che mi dicesse quella cosa, anche se in ritardo di tre anni, ma volevo che ammettesse di aver sbagliato e mi chiedesse scusa, e non avrei permesso a Michele di muoversi da quel letto, fintanto che non l’avesse fatto.
Michele, prima, stette per qualche secondo con lo sguardo perso nel vuoto. Poi mi guardò, per qualche altro secondo. E lì capì. Poi abbassò lo sguardo. Vidi che stringeva forte i pugni, come se volesse trattenere tutti i sentimenti che provava in quel momento dentro di sé. Solo che non ci riuscì. Non ci riuscì perché lentamente i suoi occhi si bagnarono e una lacrima scese lungo la guancia sinistra, fino al mento. Dal quale cadde sulla maglietta. Quando la vidi, reagii in modo imprevisto. Per entrambi.
Poche altre volte, nella mia vita, dopo quel momento, provai quelle sensazioni. E sicuramente, quella, fu la prima volta in vita mia che accadeva. Avevo perso la pazienza. Mi alzai di scatto, presi Michele per il colletto della maglietta, lo feci alzare ed urlando, gli rifeci la stessa domanda. “Perché sei venuto da me? Che cosa vuoi da me?”
Altre lacrime caddero dal suo viso, mentre ogni due o tre secondi, ripetevo quella domanda con quanta voce avevo. Passarono ancora pochi secondi e lo ributtai sul letto supino, mentre gli premevo le spalle contro il materasso. Mentre con il braccio sinistro gli afferrai il collo, caricai il pugno destro. Sempre urlando, ma ormai con le lacrime agli occhi pure io, glielo chiesi ancora “Perché? Voglio sentirtelo dire!”. Passarono altri due secondi. Vidi che non reagiva. Né per rispondermi, né per difendersi. Allora, con l’adrenalina fin sopra i capelli, per la prima volta in vita mia, un pugno glielo sferrai veramente. In pieno volto. Colpendo il sopracciglio sinistro. Dal quale iniziò ad uscire del sangue.
“Per chiederti scusa!” fu l’unica frase che disse Michele. Ma la urlò. E proprio pochi millesimi di secondo prima di essere colpito. Non riuscii a fermare il colpo. Anche se, forse, non avevo proprio voglia di farlo. Ero fermamente convinto di essere in ritardo di tre anni con quell’azione decisa. Sapevo che quel contatto fisico non era solo inevitabile, ma anche necessario. Dovevo farlo. Era l’unico modo per fargli ammettere quello che sapevo, che avevo capito da tanto tempo ma che non avevo mai sentito dirgli. Evidentemente il pugno, Michele, lo sentì perché incominciò a piangere. Disperatamente.
Immediatamente tornai in me. Vedendo quello che avevo combinato, come avevo reagito e soprattutto cosa avevo fatto, tutto rosso in viso, sudato e con il fiatone per tutta la tensione presente in quella camera, preso anche io alla sprovvista da quella reazione che non mi aveva mai caratterizzato, e colpito più che mai dalla risposta di Michele, mi accasciai a terra, scoppiando a piangere anche io. La scena era durata neanche mezzo minuto. Ma da quando avevo incominciato ad urlare, Giuseppe, appena rientrato in casa sua, era uscito nuovamente e, correndo, si era diretto immediatamente verso la mia. Entrò proprio in quel momento, quando tutto era finito, senza aspettare che il padrone di casa gli desse il permesso di farlo, e soprattutto in tempo per vedere quello che avevo fatto e la mia reazione. E per sentire quello che Michele disse dopo, continuando a piangere.
“Per dirvi che ho sbagliato ad allontanarmi da voi. Ho sbagliato a passare tutto quel tempo con Amaraldo. Ho capito che mi ha solamente usato. E per dirvi che mi dispiace di averlo fatto. Mi dispiace di essermi rivolto ai Tre Fratelli. E che invidio, ho sempre invidiato, la vostra amicizia, il vostro gruppo. Che siete stati gli ultimi amici che ho avuto. E che non sono riuscito neanche a mantenerli”.
Tutto quel trambusto aveva colpito Giuseppe, che mi tese una mano per aiutarmi a rialzarmi. Solo in quel momento mi resi conto della presenza in casa di una terza persona. Ma non ero mai stato così felice di accorgermene. E in realtà non ero mai stato così felice di sentire quello che avevo appena sentito da Michele. Mi alzai, aiutato da Giuseppe, e mi riavvicinai a Michele, che intanto si era anche lui alzato. Lo squadrai, con uno sguardo ancora pieno di rabbia, ma non di odio. Giuseppe era lì. Pronto a fermarmi con qualsiasi mezzo, ed io lo sapevo. E ne ero felice. Feci ancora qualche respiro profondo. Poi, lentamente, mi calmai. Ancora imbronciato, anche se totalmente rilassato e sereno, ripresi a parlare.
“Era questo quello che ti volevo sentir dire. Sono tre anni che cerco di fare in modo che questo accada. Si vedeva lontano mille chilometri che eri profondamente dispiaciuto di averci trattato così, ma anche troppo orgoglioso per dirmelo e chiedermi scusa. Adesso sei, cioè, siamo riusciti a capire perché l’hai fatto” dissi, sedendomi di nuovo sul letto a castello.
“Solo che adesso è troppo tardi!” concluse Michele.
Quell’ultima frase mi colpì moltissimo. Michele mi aveva tradito. Aveva tradito noi e la nostra fiducia. Su questo non avevo il benché minimo dubbio. Aveva tradito il vincolo di fiducia che consideravo la cosa più importante in un’amicizia. Si può non andare d’accordo su tante cose, ma non si deve mai avere il benché minimo dubbio sulla fiducia di ciascuno nell’altro. E ciascuno deve fare tutto quello che è necessario per guadagnarsela. Poi pensai a quell’amicizia, che fino a qualche anno prima era durata, come le altre, nonostante tutto e tutti. E che solo da qualche anno si era interrotta.
Mi venne in mente quando avevo incominciato a seguire le persone e che il primo a cui avevo proposto quella pazzia era stato proprio lui, Michele. Che mi aveva addirittura detto che non era corretto farlo e che ci saremmo cacciati nei guai se solo ci avessero scoperti. Quanto forte era stata l’influenza esercitata da Amaraldo nei suoi confronti? Aveva fatto un cambiamento enorme. Quasi non lo riconoscevo più.
Mi venne in mente anche che quattro anni prima era con Michele che avevo incominciato a vedermi nei pomeriggi estivi per fare insieme i compiti e che avevo ripiegato su Giuseppe quando l’altro si era allontanato da noi e aveva interrotto la nostra amicizia.
Pensai a quell’anno in cui mia nonna non era stata bene e mio nonno non riusciva a portarmi al mare, e che la madre di Michele si era accollata la responsabilità di un altro bambino e si portava al mare suo figlio, sua figlia e me, pur sapendo che avrebbe urlato il doppio per far stare calmi tutti noi.
Fu Michele il solo a cui, per la prima ed ultima volta, avevo confidato che mi piaceva una persona. In fondo quando ero a Policoro, essendo più grande degli altri tre, mi faceva piacere avere uno della mia stessa età con cui parlare. E mi era dispiaciuto tantissimo quando questo si era allontanato da noi. Quando se ne andò da quella compagnia e si unì a Amaraldo e gli altri. Arrivai addirittura il punto di odiarlo per questo.
Ma ora? Era stato lui ad essere ritornato. Era ritornato direttamente a casa mia, aveva ammesso di aver sbagliato, aveva chiesto scusa per tutto quello che aveva fatto, era stato pure disposto a prenderle dalla persona alla quale stava chiedendo scusa. Bastava? O era veramente troppo tardi?
Cosciente del fatto che ormai con Cosimo, Amaraldo, Angelo e gli altri sarebbe, inevitabilmente, stata guerra aperta, scoprire di avere ancora al nostro fianco un alleato come Michele, degno del massimo rispetto per coraggio e forza fisica, non poteva che incoraggiarmi tantissimo. Però…
“Simone, puoi venire un attimo?”
Era Giuseppe che interruppe il mio ragionamento. Mi risvegliai da quella privacy mentale in cui a volte mi piaceva nascondermi e lo seguii fuori di casa.
“Prima mi sono fermato un attimo a parlare con Francesco e Emanuele. Anche io sono d’accordo. Siamo tutti felicissimi di questa mossa di Michele. Se torna ad essere nostro amico, siamo tutti e tre disposti ad accettarlo. Il problema è se lui capisce fino in fondo ciò che significa questo!”
In un cartone animato, in quel momento mi sarebbe caduta la mandibola. Era arrivato alle mie stesse conclusioni!
“Facciamo così! Vai da Francesco e Emanuele e raccontagli quello che hai visto e sentito. Poi raggiungeteci. Io devo dire a lui proprio questo. Te la senti di raccontarlo agli altri due?”
Gli occhi di Giuseppe si illuminarono.
“Basta che quando torniamo non lo troviamo con un altro occhio nero!” rispose sorridendo.
“Non preoccuparti. Non ce n’è più bisogno!” risposi io, ricambiando il sorriso.
Giuseppe partì. Rientrai in casa molto più rilassato di prima. E Michele se ne accorse subito. Per la prima volta un sorriso sottile si affacciò sul suo viso. Lo feci accomodare sul letto. Mi sedetti al suo fianco. Per la prima volta. Dopo tre anni. Se ne accorse. E iniziò a capire. In quel preciso istante i suoi occhi cambiarono espressione. Ritornarono quelli del bambino di tredici anni, prima che litigassimo.
“Ho appena parlato con Giuseppe. Anche loro sono d’accordo. Siamo disposti, tutti e quattro, a cancellare questi ultimi tre anni e riaccettare di stringere un’amicizia con te” e non feci in tempo a continuare.
“Grazie! Grazie Simone! Grazie! Grazie a tutti! Scusatemi per tutto quello che vi ho fatto! Grazie! Prometto che non tradirò mai più la vostra amicizia! Grazie!” disse, urlando con le lacrime agli occhi ed abbracciandomi. Poi il dolore sul petto e sulle braccia si acuì, a causa dell’abbraccio, e desistette. Fui a dir poco felicissimo di vederlo così. Però dovetti ritornare immediatamente serio.
“Ci fa molto piacere che tu abbia reagito così. Però non ho finito!” dissi, vedendo immediatamente dopo Michele ritornare serio ed abbassare lo sguardo.
“Hai ragione. Sono pronto a subire qualsiasi punizione pur di riconquistare la vostra amicizia e la vostra fiducia! Me la merito!” disse coraggiosamente.
“Ma sei scemo!?” mi feci scappare. “Non siamo in una banda, come te lo devo dire. Tu sei nostro amico. Non un nostro sottoposto. Non tratteremmo nessuno così! Fidati! Non permetterei a nessuno di farti del male per punirti per ciò che hai fatto!”. Non ne fui deluso. Compresi solo come l’atteggiamento di Michele era cambiato a seguito di quell’anno passato con i Tre Fratelli.
Anche se, tutto questo, ancora una volta mi fece venire in mente di avere, da un anno, in sospeso un particolare che non mi tornava. Però dovevo concludere il mio ragionamento.
“Non ho finito perché, prima che tornino gli altri, devo dirti ancora la cosa più importante! Mi fa piacere che tu apprezzi nuovamente la nostra amicizia. Però è vero che ritornando nostro amico, diventi automaticamente nemico dei Tre Fratelli e la loro banda. Che significa che potrebbero succederti e succederci cose peggiori, anche di quelle che hai già vissuto. Quindi non ci sentiremmo traditi o offesi se tu, dopo tutto quello che ti hanno fatto passare, decidessi di rimanertene fuori da questa storia, fino a quando non si sarà conclusa. Siamo anche disposti a mantenere segreta questa conversazione e non parlare a nessuno del fatto che sei venuto qui. Posso anche lasciarti qualche minuto per decidere, ma dobbiamo saperlo subito!” dissi, tutto d’un fiato. Poi mi alzai e me ne andai, perché sentii Giuseppe e gli altri che stavano arrivando.
“Siamo tutti felici che Michele sia tornato la persona che era fino a tre anni fa” disse Emanuele.
“Possiamo fidarci di lui?” chiese Francesco.
“Penso di si! Dopo quello che è successo non penso che abbia ancora voglia di fare il gioco dei Tre Fratelli. Gli ho lasciato il tempo di pensare se schierarsi dalla nostra parte o andarsene tranquillo a casa e evitare qualunque contatto con noi fino alla fine di questa storia. Mi è sembrato giusto dirglielo, visto come lo hanno conciato. Comunque, se decidesse di aiutarci, penso che sia necessario dargli qualche altra informazione. Solo in questo modo a lui potranno venire in mente altri particolari. Dite che posso raccontargli quello che finora sappiamo sulla banda? Intendo in relazione a Emanuele e Angelo?”. Sapevo che avrei dovuto farlo, ma volevo che tutti fossero convinti, in modo da evitare ulteriori problemi futuri.
“La mia storia puoi raccontargliela tranquillamente!” disse Emanuele.
“Penso che anche la storia di Angelo, non abbiamo problemi a parlarne! Tanto dopo quello che è successo non credo che abbia problemi a schierarsi definitivamente dalla nostra parte” aggiunse Giuseppe.
“Bene!” allora venite dentro che sentiamo quello che ha deciso. Entrammo tutti e quattro in camera da letto. Dapprima un po’ timoroso, il viso di Michele si rilassò quando Francesco e Emanuele gli strinsero amichevolmente la mano. Confermando, definitivamente, le mie parole di poco prima.
“Allora cos’hai deciso?” dissi. Michele era seduto al lato del letto. Io ero in piedi al suo fianco. Appena dietro di me, verso destra c’era Giuseppe. Dietro di noi, quasi vicino alla porta, i due fratelli ascoltavano con attenzione quello che Michele stava per dire. e l’attenzione non mancava a nessuno. Michele tenne la testa giù. Poi si alzò, non rivolgendoci lo sguardo.
“Mentre mi sottoponevano a quel trattamento, mentre Amaraldo mi sottoponeva a quelle torture, la sofferenza maggiore non era quella fisica. Quando affidi la tua mente e parte del tuo cuore ad una persona, considerandola, sopra ogni altro, il tuo migliore amico, gli dai tutto. Non ho sofferto solo per le torture. Ho sofferto soprattutto per il tradimento. Come prima non ho sofferto per il pugno, ma per il rimorso di avervi tradito. Perché avendo provato su me stesso, poche ore fa, l’esperienza di scoprire di essere stato tradito da qualcuno, ingannato da una persona che aveva la mia fiducia, ho capito veramente come vi ho fatti sentire in tutto questo tempo. La cosa che mi dispiace più di tutto e che è colpa mia. Non dovevo allontanarmi da voi, non dovevo lasciarmi influenzare da quella persona meschina, non dovevo chiedere aiuto ai Tre Fratelli”
Stavo per bloccarlo per ricordargli che non doveva fare nulla nel tentativo di infliggersi una punizione che noi stessi non gli avremmo mai dato. Ma fu lui, con un gesto, a fermarmi. E, finalmente, a quel punto, i suoi occhi riacquistarono tutta la dignità e la forza d’animo che avevo conosciuto in quel ragazzo prima di tutto questo. Finalmente alzò lo sguardo, rivolgendomelo, e continuò.
“Adesso, però, che ho capito veramente cosa è giusto, voglio farlo fino in fondo. Nonostante tutto. E tutti. Sono stato ingannato, è vero. Anche per colpa mia. Ma adesso mi sono stancato. Questa storia deve finire. E deve finire subito. Sono disposto a correre qualsiasi pericolo per la vostra amicizia e per fare ciò che è giusto. Adesso ho finito!” disse. Ed ora ci stava guardando a tutti negli occhi.
Nessuno a quel punto ebbe più nulla da dire. Il silenzio riempì quella camera per qualche secondo. Tutti noi eravamo felici di aver sentito quelle parole. E nessuno riusciva ad esprimere a parole quei sentimenti. Il primo fu proprio Michele.
“Ammazza se meni, però!” disse sorridendo Michele.
“Quando ci vuole ci vuole!” dissi, ricambiandogli il sorriso.
E l’atmosfera si rilassò definitivamente. Dopo qualche altro minuto di chiacchiere Francesco e Emanuele se ne andarono. Tra una cosa e l’altra si erano fatte quasi le sette. Io chiesi a Michele se voleva rimanere a casa mia qualche giorno, fintantoché le ferite non fossero sufficientemente guarite. E Michele acconsentì, chiamando immediatamente sua mamma per informarla della cosa. Invitai Giuseppe a venirmi a trovare dopo cena, per cercare insieme, e con l’aiuto di Michele, di chiarire una volta per tutte quali fossero i dubbi che ancora ci assillavano. Giuseppe accettò prontamente l’invito. Tirai un sospiro di sollievo, mentre lo vedevo allontanarsi. Da quando era successo quello che era successo due sere prima, Giuseppe si stava dimostrando una persona seria e un vero amico. Non che non mi fidassi degli altri. Solo che a volte, per capire le cose, avevo bisogno di lavorare senza essere disturbato. E Giuseppe aveva acquisito la capacità di saper stare zitto quando era necessario e parlare non dicendo cose stupide. Insomma, stava iniziando a maturare mentalmente. Ed io sapevo che in quel momento, avevo assolutamente bisogno di una persona del genere. Una persona che sapeva esattamente interpretare le mie parole dette a metà e le espressioni del mio viso. Una persona che anche io riuscivo a capire, anche quando usava mezze parole o quando non ne usava proprio. Ero convinto che con Giuseppe e Michele al mio fianco, niente e nessuno ci avrebbe potuti fermare. Avremmo risolto insieme qualsiasi problema. Sapevo che con Giuseppe, quella sera, avrei potuto risolvere tanti enigmi di quella storia. Soprattutto quello che ancora mi assillava profondamente. E che ancora non ero riuscito neanche ad inquadrare. Sapevo che quei due mi avrebbero aiutato a dipanare i miei pensieri e farmi capire quanto avevo bisogno di capire per raggiungere la soluzione sperata. Per me erano, praticamente, una variante buona del Gatto e la Volpe. Perché di loro ci si poteva veramente fidare.

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ECCOCI CON UN NUOVO CAPITOLO (E CHE CAPITOLO, AGGIUNGEREI)...
Vi chiedo prima di tutto scusa ma in questi giorni di vacanza è stato difficile inviare il nuovo capitolo ed ho potuto farlo solo ora. in compenso è un po' lunghetto, quindi di ciccia ce n'è!! 
come sempre attendo ansiosamente le vostre recensioni per sapere cosa ne pensate di questo cambiamento...
à la prochaine!!
  
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