Abasi Ndomba
era sempre stato un uomo tranquillo e profondamente soddisfatto del proprio
lavoro. Per quanto a molti sarebbe potuto apparire monotono e noioso, certo non
lo era per Abasi il quale si era sempre trovato a suo
agio nell’ufficetto piccolo che aveva arredato a suo piacimento, in cui
trascorreva ore della sua giornata a far scorrere gli occhi sui video dei
monitor di sicurezza. Il deposito di munizioni di Omorate,
uno dei più piccoli e relegati all’inizio della giungla che rivestiva il fiume
Omo, proprio ai confini del Wakanda, era un posto tutto sommato tranquillo, in
cui non era mai accaduto nulla di pericoloso o di inatteso. Le munizioni
stoccate dalle case produttrici arrivavano in quel deposito una volta a
settimana e nei sette giorni successivi venivano smistate in più casse e
spedite nelle terre che le acquistavano. Tutto ciò avveniva sotto gli occhi
vigili di Abasi che osservava la scena seduto alla
sua scrivania, sui monitor 7, 8 e 9 che da sempre erano quelli collegati alla
sala di smistamento. Parte di quelle munizioni erano riservate al regno del
Wakanda, da cui provenivano venti dei cinquanta dipendenti di quel deposito e
che, inoltre, si occupava della sorveglianza della zona.
Abasi era certo di essere di fronte
a un’altra conclusione di giornata perfettamente normale. Erano quasi le dieci
di sera e il suo turno era in procinto di concludersi. A breve avrebbe visto Salehe che gli avrebbe dato il cambio, e sarebbe tornato al
suo alloggio per concedersi una cena e poi
per immergersi nella lettura dell’ultimo romanzo da poco iniziato.
Fu
mentre accarezzava quest’ultima prospettiva che qualcosa attirò la sua
attenzione. Su uno dei monitor macchie scure e confuse cominciarono a comparire
dal fitto della foresta; i volti coperti da passamontagna neri e grossi fucili
stretti in mano. Abasi capì immediatamente quanto
pericolo c’era in ciò che aveva appena visto. Senza pensarci due volte premette
il pulsante rosso che aveva sopra la scrivania e la sirena d’emergenza si
azionò, mettendo in allerta gli uomini della sicurezza del deposito. Tornò a
controllare sul monitor e si accorse che gli uomini armati continuavano a
uscire dalle fronde: dovevano essere almeno una ventina.
Un
silenzio di ghiaccio anticipò il primo sparo. Abasi riuscì
a sentirlo distintamente anche al secondo piano del deposito. Subito dopo altri
spari seguirono il primo, divenendo sempre più numerosi e sovrapposti. Dagli
schermi vide gli uomini con il passamontagna sparare ancora verso chi tentava
di intervenire. Uno di loro estrasse una granata dalla cintura e la lanciò
senza indugio verso l’ampio portone di lamiera. La deflagrazione fece tremare
le pareti della struttura e fu seguita da altri spari e grida quando il gruppo
di uomini fece irruzione con forza nella vasta sala del deposito, in cui la
maggior parte degli operai tentava invano di mettersi al riparo dai detriti che
ancora schizzavano come proiettili dopo l’esplosione. Abasi
continuò a seguire terrorizzato ogni azione di quella notte che si era
stravolta in pochi minuti, come se dai monitor stesse assistendo alla
proiezione di un film terribilmente realistico. Era impietrito, spaventato come
non si era mai sentito prima d’allora. Il suo cervello fu solamente in grado di
dirgli di alzarsi e chiudere la porta dell’ufficio a chiave. Tornò a rivolgere
gli occhi al monitor, sentendosi via via sempre più impietrito dalle scene che
continuavano ad animare gli schermi. Gli addetti alla sicurezza si scontravano
con le figure dal passamontagna; sparavano loro o si sfidavano in un corpo a
corpo, ma non riuscivano ad avere la meglio. Uno dopo l’altro quelli che Abasi conosceva venivano uccisi tutti, fra grida di dolore,
colpi di pistola e schizzi di sangue che imbrattavano i pavimenti.
Come
risvegliato da un improvviso torpore Abasi si mosse
rapido verso il telefono. Aveva l’orrore negli occhi e le grida dei suoi
colleghi riecheggiavano nelle sue orecchie. Tentò di digitare il numero di
telefono della polizia, ma le mani gli tremavano a tal punto da far fallire il
primo tentativo. Tuttavia, quando tentò di digitare nuovamente la sequenza
corretta, la serratura alle sue spalle scattò. In preda al panico si voltò
verso l’ingresso, dove la porta si stava aprendo lentamente, mostrando dietro
di essa due figure. Entrambe erano vestite di nero e indossavano anfibi sudici
di fango e giubbotti antiproiettile. Solo uno dei due portava il passamontagna.
Abasi riuscì a vedere il volto dell’uomo più vicino a
lui, dai capelli brizzolati e scarmigliati, rasati ai lati, la barba di chi ha
vissuto la giungla a lungo, il collo travisato da una cicatrice e occhi
impenetrabili. Tuttavia fu il sorriso che aveva a far impietrire Abasi rendendolo incapace di reagire; nel sorriso di
quell’uomo c’era una follia perversa, una distorsione allucinante in grado di far
gelare il sangue.
L’uomo
guardò negli occhi Abasi e il suo ghigno parve
arricchirsi di ulteriore follia. «Mi dispiace dovertelo dire, amico. Temo che
tu abbia visto troppo.»
Le
parole che l’uomo pronunciò fecero subito capire ad Abasi
che era segnato. Aspettò con sorprendente consapevolezza la pallottola che lo
avrebbe ucciso, ma questa non arrivò mai.
Ancora
sulla soglia, l’uomo con il passamontagna diede le spalle alla scena e si
allontanò mentre l’altro, fattosi improvvisamente serio, sollevò la mano
destra. Ad Abasi parve che l’arto avesse un colore
innaturale, anche se non riuscì ad accertarsene in tempo. Un dolore come non ne
aveva mai provato prima lo aggredì. Si sentì schiacciare da qualcosa che non
era in grado di vedere ma che sentiva premere con ferocia contro il suo corpo.
Non gli riuscì di gridare, né di pensare a un ultimo ricordo. Con la stessa
rapidità con cui il dolore era arrivato se ne andò e Abasi
non fu più in grado di provare nulla.
*
“… il comandante delle forze di
polizia di Omorate non esclude alcuna pista. Le
munizioni rubate all’interno del deposito erano pronte per essere stoccate
negli stati che ne avevano fatto domanda. Con molta probabilità, secondo gli
inquirenti, si sarebbe trattato di un attacco e di un furto su commissione, a
opera di mercenari o possibili terroristi. Rimaniamo in collegamento…”
Il
televisore continuava a proporre nuovi aggiornamenti riguardo l’attacco al
deposito di Omorate della sera prima, mentre la luce
del mattino entrava con forza dalle ampie finestre dell’ufficio personale del
sovrano del Regno di Wakanda, annebbiando le immagini dello schermo tv.
T'Challa sedeva alla scrivania, gli occhi che scorrevano sulle pagine di
numerosi giornali e di altrettanti impegni annotati a penna su taccuini e agende.
Sollevò lo sguardo solo quando sentì la porta aprirsi e il rumore di tacchi
introdurre nella stanza la sua assistente. Quest’ultima raggiunse la scrivania,
vi girò intorno e posò con leggerezza il caffè mattutino del sovrano – una
miscela dei migliori caffè d’Africa da lui personalmente ideata; in quel gesto
i lunghi capelli castani di lei scivolarono dalle sue spalle, per poi posarvisi
nuovamente, ondulati e leggeri. La sua pelle bianca, europea, meravigliosamente
dorata dal sole africano la faceva sembrare perennemente fuori luogo in
Wakanda, se non fosse per l’incredibile sicurezza e la grazia con cui sembrava
veleggiare fra i corridoi del palazzo e che lasciavano perfettamente intuire
che, quella, era casa sua.
«Che
cosa ne pensi Anisa?» domandò T'Challa, indicando con un rapido cenno il
televisore, dove ancora il deposito di Omorate
riempiva l’inquadratura. La donna non replicò e il sovrano riprese a parlare:
«Cinquantadue dipendenti, tutti uccisi. Venti di loro erano wakandiani.»
T'Challa
spense la tv, afferrò il suo caffè e andò alla finestra a osservare il cielo
terso che sovrastava la capitale del suo regno, già viva di prima mattina.
«E
non solo» riprese poi a dire. «Tre dei maggiori esperti al mondo di vibranio
sono spariti e quattro giorni fa uno di loro è stato trovato morto sulle coste
del lago Turkana. Una morte inspiegabile, la sua; aveva gli organi spappolati
ma nessun segno di aggressione.»
Anisa
rabbrividì appena all’idea. Aveva già letto del ritrovamento di quell’uomo sui
giornali e anche allora la modalità della sua morte le avevano fatto
impressione.
«Credi
che ci siano dei collegamenti fra tutte queste cose?» chiese poi al sovrano.
T'Challa
si voltò per vederla meglio in viso. I suoi occhi scuri puntarono decisi in
quelli nocciola della donna che non si scompose, ma rimase immobile, le mani
intrecciate in grembo, in attesa di una risposta.
«Sì,
io penso che le cose siano collegate. Altrimenti non si può spiegare la
scomparsa di tre uomini così simili fra loro per le conoscenze che possiedono e
il furto di munizioni a sufficienza per rifornire un esercito. Le possibilità
che queste cose non abbiano un nesso fra loro sono misere e le renderebbero
coincidenze impensabili.»
Anisa
rimase a guardare T'Challa mentre quest’ultimo sorseggiava un po’ del suo
caffè; la pelle scura del sovrano era illuminata dalla luce che proveniva alle
sue spalle e i contrasti che essa creava rendevano i lineamenti dell’uomo
ancora più fieri e carismatici.
Lei
aveva sempre nutrito profondo rispetto per T'Challa, fin da quando ne aveva
memoria. A soli tredici anni, per via di alcuni stravolgimenti che le avevano
compromesso un futuro sereno, Anisa aveva incontrato T’Chaka,
l’allora sovrano del Regno di Wakanda, il quale aveva deciso di portarla con sé
a palazzo e fare di lei la proprio figlia adottiva. Anisa e T'Challa erano
cresciuti insieme, sigillando fra loro un legame di amicizia più forte e
intenso di quello che caratterizzava i restanti figli del re. Quando T'Challa
fu nominato sovrano, in seguito alla drammatica dipartita del padre, aveva
espresso il desiderio di avere Anisa accanto e l’avevano nominata sua personale
assistente. Mai si era pentito di quella scelta e mai la donna gliene aveva
dato motivo.
T'Challa
inspirò l’aroma della bevanda che stava sorseggiando e tornò a sedersi alla sua
scrivania, sempre sotto lo sguardo di Anisa, che attese le successive parole
del sovrano. Quest’ultimo spostò alcune carte del piano, scoprendo sotto di
esse un’accurata cartina geografica delle zone limitrofe al Wakanda. Su di essa
vi erano segni eseguiti con inchiostro rosso: cinque grandi X.
T'Challa
alzò lo sguardo sulla donna, indicando con l’indice il primo dei cinque segni.
«Kakuma. Un mese fa un piccolo villaggio ai confini della
città è stato attaccato. Non hanno trovato alcun superstite, ma nemmeno un
cadavere.»
Poi
puntò in sequenza tre delle cinque croci, che salivano verso Omorate, come se fosse un percorso prestabilito. «Due
aggressioni ad altrettante guardie, i cui corpi sono stati trovati pieni di
ferite sospette e inspiegabili» disse, prima di soffermarsi sul terzo segno,
quello in corrispondenza del lago Turkana. «Qui hanno ritrovato il cadavere di
uno dei tre scienziati, quello di cui ti parlavo prima.»
Anisa
annuì e T'Challa indicò l’ultima X rossa. «E infine il deposito di Omorate, ieri sera. Mi rifiuto di credere che siano
coincidenze, che nessuna morte c’entri con la precedente.»
Sospirò,
amareggiato da quanto aveva appena detto. «Inoltre se provi a seguire la scia…»
Lasciò
la frase in sospeso, in attesa che a completarla fosse l’assistente. Lei
dedusse immediatamente ciò che lui non aveva detto. «Pare quasi siano diretti
qui» mormorò infine Anisa, sorpresa. Alzò lo sguardo su T'Challa e vide i
profondi occhi scuri dell’uomo intenti a osservarla.
«È
ciò che temo. Sospetto fortemente che presto possa succedere qualcosa anche da
noi. E voglio evitarlo.»
Il
sovrano parlò con voce ferma e sicura, senza interrompere il contatto visivo.
Subito dopo, però, controllò l’orario sull’orologio che teneva al polso.
«Come
pensi di fare?» domandò Anisa, ma non attese risposta; così come conosceva
T'Challa conosceva anche i suoi modi di lavorare e tutte le tecnologie che
aveva a disposizione. «Hai mandato delle Sentinelle?»
Le
Sentinelle erano droni da terra, in grado di raccogliere informazioni di
qualsiasi natura, fare riprese audio e video e registrare la presenza di forme
di vita. Piccoli e veloci, lo scheletro in vibranio li rendeva pressoché
indistruttibili.
T'Challa
annuì alla domanda della donna, un sorriso compiaciuto a solcare il suo viso. Anisa
non lo deludeva mai e la sua capacità di ragionare in fretta veniva a galla
anche nelle piccole cose.
«I
risultati dei loro rilevamenti dovrebbero arrivarmi a breve.»
L’uomo
fece a malapena in tempo a finire la frase che qualcuno bussò alla porta.
T'Challa diede l’autorizzazione a entrare e un giovane varcò la soglia della
porta. Salutò i presenti nell’ufficio, portò il plico di carte stampate che
teneva in mano fino alla scrivania e uscì con lo stesso passo con cui era
entrato.
«Puntuali
come sempre» sentenziò il sovrano.
Anisa
guardò le carte. «Sono questi?» domandò, riferendosi ai rilevamenti delle
Sentinelle.
T'Challa
le rispose facendo segno di sì con la testa. Desiderava informare la propria
assistente di come erano andate le cose, perciò subito dopo disse: «Ho saputo
del furto al deposito questa notte, un paio d’ore dopo che esso era avvenuto.
Quando ho visto che si trattava di Omorate ho pensato
che fosse meglio indagare e ho mandato sei Sentinelle a fare rilevamenti nella
zona.»
Divise
accuratamente i fogli che aveva davanti in due pile identiche e, con un cenno
della mano, indicò ad Anisa una delle sedie poste di fronte a lui, dietro le
quali la donna si ostinava a stare ferma in piedi. Senza staccare gli occhi da
T'Challa lei si sedette e il sovrano considerò quel gesto come il giusto
pretesto per passare a lei uno dei due plichi di carte.
«Mi
aiuti ad analizzare i risultati?» le chiese.
Anisa
non replicò, ma afferrò il primo gruppo di fogli puntati insieme e cominciò a
studiare tutta la serie di numeri, lettere e grafici che aveva faticosamente
imparato a decifrare solo pochi mesi prima.
Quasi
mezz’ora di silenzio e lettura dopo nessuno dei due aveva trovato qualcosa di
cui insospettirsi nei dati che avevano letto fino a quel momento. Nelle aree
scansionate dalle Sentinelle non c’erano stati movimenti che potevano far
supporre alla presenza dell’uomo.
Anisa
era ormai stufa di leggere tutti quei numeri quando notò un picco in uno dei
grafici, in corrispondenza di una zona che, sulla carta, coincideva con una
riva del fiume Omo.
«T'Challa.»
Il
sovrano alzò in fretta il capo; anche lui era piuttosto annoiato dalla mancanza
di anomalie dei suoi dati. Si fece serio quando vide lo sguardo incerto
dell’assistente.
«Nell’area
G29 c’è un incremento elettrico» disse lei, allungando a T'Challa le carte in
questione. «Cosa c’è nel G29?» chiese poi, preoccupata.
Lui
spostò in fretta le carte che coprivano la cartina che prima avevano studiato
insieme e cercò il punto esatto; era proprio sulle sponde dell’Omo, nel folto
della giungla che inverdiva le sponde del fiume, poco sopra il confine nord del
Wakanda.
«Di
cosa pensi si possa trattare?» domandò Anisa.
T'Challa
capì dalla sua voce che anche lei trovava la cosa piuttosto sospetta. Fece
mente locale, cercando di ricordare tutto ciò che sapeva del territorio. Alla
fine ricordò: «Se non mi sbaglio c’è una centrale idroelettrica. Piccola e
abbandonata da anni.»
«Forse
non più così abbandonata.»
Il
sovrano si disse d’accordo. Si alzò in piedi e tornò alla finestra, prendendo a
giocare distrattamente con l’anello che portava all’anulare destro: uno spesso
anello nero bordato d’argento.
«Voglio
capire se è tutto in regola, oppure se in quella centrale c’è qualcosa che non
deve esserci.»
Anisa
controllò nuovamente la mappa appena T'Challa smise di parlare.
«Quella
zona è terra etiope. Se vuoi mandare laggiù degli uomini per verificare che sia
tutto in ordine dovrai chiedere il permesso al primo ministro etiope» gli fece
notare.
Il
sovrano non rispose subito; continuava a tormentare il proprio anello con le
dita, sovrappensiero. Qualunque cosa stesse succedendo nelle terre che
circondavano il suo regno, scoprirlo era suo compito. Le richieste politiche
non avrebbero portato risultati immediati e il rischio di sentire di altre
persone barbaramente uccise sarebbe aumentato mano a mano che lui avesse
permesso al tempo di trascorrere. Non ne aveva alcuna intenzione. Se qualcuno
stava minacciando la sua gente lui l’avrebbe scoperto, e in fretta.
Senza
smettere di guardare la città che viveva oltre le mura del suo palazzo,
T'Challa respirò a fondo.
«No»
disse e Anisa osservò la figura del proprio sovrano con maggiore intensità.
«Non
manderò alcun uomo a controllare. Questo è un lavoro per la Pantera.»
*
La
giungla era un terreno spaventoso e impervio per chiunque. Anche in pieno
giorno le fitte fronde, tenute insieme da liane, rami e tralci, risucchiavano
la luce, proiettando solo nero in grado di assorbire ogni cosa. Nella
profondità della foresta i suoni venivano attutiti; chi camminava sembrava
circondato da ovatta, eppure anche il più minimo rumore si riusciva a sentire,
solo che, in tal caso, o si era troppo vicini alla fonte, oppure era già troppo
tardi. Per uno nato e cresciuto attorno a quella giungla orientarvisi
all’interno era meno complicato e i suoni diventano più decifrabili e meno
spaventosi.
Per
Pantera Nera quegli alberi così uguali fra loro erano in realtà diversi e
ciascuno tracciava un sentiero che un uomo dotato delle stesse capacità della
Pantera era in grado di decifrare. T'Challa avanzava furtivo verso il cuore
sempre più nero e vivo della giungla, alla ricerca di quell’arteria, l’Omo,
sulle cui sponde avrebbe trovato ciò che cercava. Conosceva ogni verso e ogni
abitudine delle creature che abitavano quelle terre, così come sapeva in che
modo comportarsi per evitare di fare loro del male.
La
luna era sorta da diverse ore quando T'Challa sentì i primi e flebili rumori
della corrente del fiume Omo. Raggiunto l’argine la Pantera si guardò intorno e
diversi metri più avanti vide il tenue bagliore di luci elettriche. Capì di non
essersi sbagliato. L’edificio da cui proveniva la luce era la piccola centrale
idroelettrica di cui si ricordava; avrebbe dovuto essere abbandonata da tempo,
eppure non era così. T'Challa si avvicinò alla struttura, prestando sempre più
attenzione a non fare rumore mano a mano che proseguiva verso la centrale.
Quando si trovò nei suoi pressi si fermò e studiò l’area. C’era un uomo di
vedetta, fermo accanto alla porta che con tutta probabilità usavano per entrare
e uscire; portava un passamontagna nero calato sul volto e un mitra stretto fra
entrambe le mani. Pantera Nera continuò a osservare l’edificio fino a notare
ciò che cercava: una via d’accesso. Le finestre poste poco al di sotto del
tetto erano per lo più rotte o frammentate e la grondaia che dalla copertura
scendevano fino a terra era la scala perfetta per raggiungerle. Ignorò
completamente l’uomo di guardia e, silenzioso come il felino di cui portava il
nome, si accertò non vi fossero altre persone e raggiunse il tubo pluviale. Vi
si arrampicò con rapidità e agilità, arrivando fio alle finestre mancanti.
Diede una rapida occhiata all’interno e ringraziò di vedere le sue speranze
concretizzarsi; sotto le finestre
c’erano grossi condotti d’acciaio – il sistema di ventilazione – spessi
e certamente resistenti, perfetti per permettergli di camminarvi sopra entrando
così all’interno dell’edificio. Vi salì e guardò sotto di sé. La stanza era
ampia, sgomberata quasi totalmente, fatta eccezione per le grosse turbine
fissate al suolo che ancora troneggiavano in buona parte dello spazio; a un
lato erano stati accatastati resti di lamiera, casse vuote, taniche di svariate
dimensioni. Vicino al centro della sala una decina di grandi casse era
sorvegliata da svariati uomini intenti a conversare fra loro convinti di essere
al sicuro. Appena li vide, Pantera Nera si accucciò per evitare di correre il
rischio di essere notato. Quasi subito nuove voci introdussero nella stanza
altre sei persone. Quello che guidava il gruppo prese a parlare, il tono
infastidito, indicando le grosse casse.
T'Challa
sentì la rabbia montare dentro di sé quando riconobbe quell’uomo. I capelli
brizzolati, la barba mal tenuta e quella cicatrice sul collo non potevano che
dargli ragione. Era il bracconiere, lo sfruttatore che per anni aveva depredato
le terre del suo Regno e che era sempre riuscito a farla franca: Ulysses Klaw.
Senza
staccargli gli occhi di dosso T'Challa si costrinse a mantenere la calma e a
continuare a studiare la scena. Klaw stava dicendo qualcosa ai suoi uomini,
indicando insistentemente le casse che aveva davanti. Per colpa del vuoto che
riempiva gran parte dell’edificio la sua voce rimbombava fra tetto e pareti,
rendendo le parole difficili da decifrare. La Pantera cercò di concentrare
l’attenzione sulle casse, tentando di carpire qualche informazione da qualcuna
delle indicazioni riportate su di esse. Un timbro nero sbiadito, come se
avessero tentato di cancellarlo, riportava la parola “Kelem”
e T'Challa capì tutto. Dato che la città di Omorate
era anche conosciuta come Kelem, quelle casse non
potevano che essere le munizioni rubate dal deposito di Omorate.
Fu
semplice collegare le cose. Ulysses Klaw non godeva certo di buona fama in
quelle terre e i metodi spietati per ottenere ciò che voleva non erano né rari
ne tantomeno nuovi quando si aveva a che fare con lui. Inoltre l’assoluta
fissazione dell’uomo per il vibranio era nota al sovrano del Wakanda e ciò
avrebbe anche potuto spiegare la scomparsa dei tre esperti del raro metallo.
Quasi
certo di aver trovato i colpevoli che stava cercando, Pantera Nera soppesò
l’ipotesi di attaccarli subito in quella vecchia centrale; in fin dei conti
erano si e no una quindicina di persone e anche se erano armati di fucili e
pistole la sua tuta con fibre di vibranio avrebbe resistito perfettamente.
Tuttavia qualcosa attirò la sua attenzione: un veloce gesto nell’ombra, poi
nuovamente buio. T'Challa focalizzò la sua attenzione in quel punto e vide due
figure che prima non aveva notato. Entrambe erano massicce, la pelle scura dei
popoli del Kenya, le braccia incrociate sul petto e gli occhi fissi su Klaw.
Non indossavano giubbotti antiproiettile come gli altri, ma tute mimetiche
identiche a quelle di Klaw. La Pantera rimase a fissarli a lungo e la sua
intenzione di agire all’istante fu fermata dal suo istinto. Qualcosa in lui gli
diceva di non sottovalutare quegli uomini, che qualcosa in ciascuno di loro li
rendeva forti come tutti gli altri presenti nella sala. L’istinto di T'Challa
si era sbagliato una volta soltanto e in quella occasione la rabbia lo aveva completamente
accecato. Ora che conosceva il nascondiglio di Klaw e dei suoi uomini sapeva
dove trovarli e sarebbe tornato presto, così da fermarli prima che potessero
diventare ancora più pericolosi. Tuttavia quella notte decise di dare ascolto
al suo istinto e silenzioso, così come
era entrato, scivolò fuori dalla centrale e si immerse nella notte.
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Come
si usa dire: sono nuova nel fandom.
Sono
appassionata del MCU ed è proprio da questo che ho preso
spunti/ispirazioni/riferimenti per scrivere questa storia. Va anche detto,
però, che alcuni dettagli li traggo anche dal mondo dei fumetti, perché mi
piace arricchire di particolari e cercare di tenere ben salde fra loro le cose
anche quando i film – per un motivo o per l’altro – non affrontano determinati
argomenti o legami (vedi quello T'Challa – Klaw, che nei film non viene
menzionato ma nei fumetti esiste da sempre).
Comunque
mano a mano che la storia prosegue cercherò di spiegare le cose meglio che
posso, tentando di evitare possibili spoiler.
Infine,
perché una storia su T'Challa. Principalmente perché amo il suo personaggio e poi
perché finalmente grazie anche al MCU l’ho potuto vedere al cinema. So che in Civil War si rende abbastanza
antipatico, ma il T'Challa di cui vado pazza io è quello dei fumetti che
confido “esca” in tutta la sua fiera meraviglia nel film dedicato a lui che già
non vedo l’ora di vedere.
A
ogni modo, spero che questo lavoro vi piaccia, almeno un po’. Non avendo mai
scritto nulla del genere ci sono buone possibilità che abbia sbagliato tutto.
MadAka