Disclaimer: I
personaggi non mi appartengono
La
storia è scritta senza fine di lucro.
Unlock The Door
Non ci sono parole.
Non si sentono, non veramente, non in
maniera tangibile, non c’è tra loro alcun legame, nessuna connessione: solo il
silenzio, dalla parte all’altra della cornetta, e Tony che si passa la lingua
sulle labbra screpolate dalla sete, dalla sete inestinguibile della bottiglia
di vodka ancora intonsa che lo chiama e lo reclama; e Steve apre appena la
bocca, il fiato si alza nella gola e rimane sospeso, aggrappato alla lingua,
lì, in equilibrio fra dire e non dire.
Forse è passato troppo o troppo poco
e i numeri sul display non segnano che una manciata di secondi prima che la
chiamata si chiuda.
Il giorno non finisce che allo
scoccare della mezzanotte.
Ventiquattro ore,
millequattrocentoquaranta minuti, ottantaseimilaquattrocento secondi, una cascata
gorgogliante di numeri che scorrono, scivolano via, scrosciano schiumando
dall’alba oltre il tramonto ed è un tormento guardarli, osservarli dalla
finestra, fissare la luce che cambia e il sole che balzella sui festoni e la
notte che si accende di strisciate bianche e rosse e blu e anche quando si
acquietano e tacciono e cade ogni rumore e sembra che i festeggiamenti siano
finiti, la giornata non è conclusa del tutto, c’è ancora tempo, un minuto,
cinquantanove secondi, il cellulare, quaranta, il numero, trenta, squillo,
ventinove, squillo, ventotto, rispondi, venti, Tony?, labbra secche, schiocco della lingua contro il palato e voce
che si incastra nella carotide, dieci, schiarirsi di gola, nove, Beh, otto, Tanti auguri vecchio, cinque, Grazie.
Zero.
“Tanti auguri.”
Lo dice senza mezzi termini, perché
sa che se si ferma a pensare, a riflettere, a far scorrere il tempo, le parole
si incastreranno nella gola e allora sarà del tutto inutile anche solo
schiacciare il tasto di avvio. Non inizierebbe mai, né si concluderebbe
dandogli la speranza di un nuovo inizio.
“Il mio compleanno è già passato.”
Gli fa notare Steve e il rumore del traffico, in sottofondo, non è in grado di
mascherare il sorriso che sa essersi posato sulle sue labbra “Perché mi fai gli
auguri?”
“Perché oggi è il giorno in cui ti
hanno ritrovato.”
“Ti disturbo?”
Una simile cortesia, pensa Tony, è
piuttosto sconveniente. Non è una galanteria costruita sulla base di regole e buone
maniere, è una vera e propria sottesa preoccupazione che il magnate giudica
troppo precipitosa –Non è ancora trascorso abbastanza, la ferita sanguina
ancora, forse anche perché non smette di morderla e roderla, irritandola
costantemente.
“No.”
“Ti lascio tornare in riunione, te lo
prometto.”
“Chi ti dice che sono in riunione?”
“Mi fai sempre aspettare tre squilli
prima di rispondere, per non far capire che hai voglia di sentirmi.”
I tempi verbali sono sbagliati e
dall’abbassarsi progressivo della sua voce, Tony capisce che Steve se n’è
accorto quando ormai è troppo tardi –E’ sempre troppo tardi per tutto, tra
loro.
“Lo facevo.”
Eccolo, il bisogno di affondare il
coltello e staccare la crosta e far uscire il sangue.
Puntualizza il dolore, pungola la
rogna, lo sai il perché: perché vuoi farlo soffrire, vuoi fargli provare il
tormento, perché non vuoi essere solo, perché hai bisogno di stabilire una relazione di sofferenza reciproca e
rimpianti condivisi –Non avete più nient’altro.
“Lo facevi.” Conviene il Capitano e
da come gonfia le lettere, deve aver preso un enorme sospiro prima di
ammetterlo.
“Non mi disturbi, comunque.”
Deve essere la conversazione più
lunga da mesi, quasi un anno, e Tony non sa proprio come gestirla: non ha
dimenticato come si fa, ma quella era un’altra vita e imparare di nuovo,
adesso, significa far posto nel database.
Esistono file che ancora non vuole
cancellare.
“Volevo soltanto farti tanti auguri.”
“Non è il mio compleanno. E poi, sai
che odio che mi si facciano gli auguri di buon compleanno. Quindi, visto che
non è il mio compleanno e anche se lo fosse ti odierei per avermeli fatti, non
capisco---“
“Oggi ti ho stretto la mano per la
prima volta.”
“Se proprio devi chiamarmi, potresti
farlo tenendo il volume basso?”
Il fastidio sottende al riso e Tony,
sedendosi davanti al bancone, fa cenno al barista di versargli la più generosa
dose di analcolico che ha –Persino la sua espressione perplessa lo diverte e si
chiede cosa ci sia di così divertente e dove
trova il coraggio di vedere del divertente nel mondo che gli è attorno, lì,
tra le luci di un pub qualunque di Brooklyn. Nessuno fa caso a lui o, se lo
fanno, è lui a non far caso a loro.
“Ah, scusami, il tuo apparecchio
acustico fischia?”
“Non sei divertente.”
“Sì che lo sono, ma tu sei un vecchio
azzimato e orgoglioso e non vuoi ammetterlo.”
“Touché.”
Stark non vuole dargli la
soddisfazione di sentirlo ridere, così per disturbare il suono sposta il
cellulare a conchiglia nell’incavo della spalla, giustificando il gesto con la
necessità di girare meglio il succo di frutta in cui non c’è niente da
mescolare.
“Tu cosa hai ordinato?”
“Un Mr. Pibb.”
“Sei scandaloso.”
“Sarebbe stato scortese ordinare
qualcosa di alcolico, se tu non puoi bere.”
“Avresti potuto non dirmelo.”
“No. Ho smesso con certe cose.”
La cannuccia sbatte contro il
bicchiere e la vibrazione risuona lungo le dita come la mandibola fracassata contro
la manopola dell’armatura.
“Come mai hai voluto che ci
chiamassimo da dentro un bar?”
“Per festeggiare.”
Ora si sente stupido e il bancone gli
sembra troppo sporco, il barista troppo unticcio, ha gli sguardi della gente su
di sé e l’aria ristagna, lo preme da ogni parte, lo schiaccia, lo soffoca.
“La nostra prima birra analcolica?”
“La nostra prima birra analcolica.”
Respira, ora, le luci illuminano di
nuovo un locale ampio e i sorrisi delle persone e il felice menefreghismo, la
gioiosa indifferenza verso l’uomo col cappello a visiera attaccato al telefono
e con in mano un analcolico all’ananas e mela.
“Alla salute, Rogers.”
“Alla salute, Stark.”
“Dico solo che poteva essere gestito
meglio.” Tony si toglie la giacca di pelle, lancia le scarpe da qualche parte,
cammina a piedi nudi sul pavimento e le luci di Manhattan gli bagnano le dita,
infrangendosi dalle vetrata contro le caviglie “Non lo so, è come una
sensazione.” Si siede sulla sponda del letto, affonda sul materasso, tiene gli
occhi al soffitto “L’atmosfera, forse. Non mi ha convinto.”
“Perché?”
“Non mi dava l’idea di essere negli
anni Trenta.”
“Non puoi dirlo. Non hai mai vissuto
negli Anni Trenta.”
“Ma tu sì.”
“Quindi?”
“Quindi era l’atmosfera degli Anni
Trenta?”
“All’epoca avevo tredici anni e
pensavo più a non soffocare per l’asma che al bel mondo di Hollywood. E poi,
vivevo nel Lower East Side: gli attori famosi li vedevamo soltanto sui
cartelloni pubblicitari. Da lontano.”
“E i gangster con le bretelle?”
“I gangster con le bretelle cosa?”
“Dai, Rogers, non dirmi che non ne
hai mai incontrato uno!”
“Beh, c’era un tale…”
“Davvero? E aveva il cappello? Si
tirava le bretelle? Fumava il sigaro e nascondeva le sue vittime nel cemento
armato?”
“Detta così, sembra un incrocio tra
un film noir ed una puntata di CSI.”
“A proposito di CSI, l’episodio di
settimana scorsa…?”
“Non l’ho visto. Ero…fuori.”
In missione. Da qualche parte.
Lontano dalla realtà.
Lontano dalla sua vista.
“L’ho registrato.”
“Davvero?”
“Sì.”
“Perché?”
“Ero fuori.”
Sul balcone, a far dondolare il
telefono tra le dita.
“Hai voglia di farmi da
telecronista?”
“Vado ad accendere il televisore.”
“Lo sapevi.”
“Sì.”
Le luci sono tutte spente. A lutto.
Come ogni anno, da tanti anni.
“Mi dispiace.”
“Sta’ zitto.”
“Volevo solo…”
“Taci.”
Silenzio.
“Vuoi che riattacchi?”
“No.” Occhi chiusi “Solo…Stai zitto.”
C’è solo la luce del cellulare,
raggomitolata sul suo volto.
Il nome di Steve sul display.
“Non riesci a dormire?”
“No. Ho calcolato il fuso orario, lì
da te dovrebbe essere mattina.”
“E’ notte anche qui. Non puoi
calcolare il fuso orario se non sai dove sono.”
“C’era un’alta percentuale che tu
fossi dall’altra parte del mondo. Sai, come fanno le persone normali quando si
nascondono dal Governo.”
“Le persone normali, di solito, non devono nascondersi dal
Governo.”
“Okay, allora diciamo che sono persone interessanti,
non normali.”
“Quindi pensi che io sia
interessante?”
“Non intendo dare a questa
conversazione una simile piega.”
“D’accordo.”
“Già.”
“E comunque è un cliché.”
“Cosa? Il fatto che al telefono le
conversazioni prenderanno sempre una piega sospetta e facilmente
fraintendibile?”
“Il fatto che per nascondersi dal
Governo ci si debba rifugiare dall’altra parte del mondo.”
“Era la mia seconda opzione.”
“Non è vero.”
“Come vuoi. La terza.”
“Non vuoi proprio ammettere di essere
caduto nel banale, Stark.”
“Allora dove dovresti stare, di
grazia, per nasconderti dal Governo senza cadere in facili e banali cliché?”
“Dove tutti possono vedermi e nessuno
mi cercherebbe mai.”
“Rogers, mi stai dicendo che ti sei
nascosto sotto il tappeto?”
Un sorriso.
Da entrambe le parti.
“Devo farti una domanda.”
“Riguardo a cosa?”
“Non cosa. Chi.”
“Ah.”
“E’ tutto quello che hai dire?”
“No.”
“Hai capito a chi mi riferisco.”
“Sì.”
“Rogers, non sono un dannato
dentista. Non ti strapperò le parole con le pinze, quindi faresti meglio a
dirmi subito se…”
“No.” Uno schiarirsi di gola “Mai.”
“Mai?”
“Mai.”
“Bene.”
Un rapido concantenarsi di pensieri e
subito Tony si affretta a precedere la risposta dell’altro.
“Bene, ma non ci sarebbe stato niente
di male. Prima sì. Insomma, dopo la
storia con Pepper e tu e io e…Era prima. Ora è diverso. Se tu avessi...Con lei.
Ora.” Il cervello, in un attimo di ripresa delle comunicazioni, è in dovere di
fargli notate la totale assenza di verbi all’interno delle frasi –I verbi sono azioni, rendono vero un fatto nel compiersi
e nel suo essersi compiuto.
Non c’è scampo ai verbi.
“Mai.”
“Insomma.” Non pare nemmeno averlo
sentito, preso com’è a seguire il rotolio confuso e accozzagliato dei pensieri,
nel tentativo di tenerli insieme, stringerli al petto, salvare il salvabile
“Non ho mica diritto esclusivo sulla tua bi-curiosità
e lei è una donna piacente---“
“Stark.”
“Cosa?”
“Per l’ultima volta. Non c’è stato niente tra me e Sharon.”
“Ci avete provato?”
“Perché lo vuoi sapere?”
“…Devo andare.”
“E’ la prima volta che chiami tu.”
“Sei rimasto in silenzio radio per settimane.”
“Prima è stato per mesi. Cos’è
cambiato, ora?”
Una serpe nervosa che avvelena le
viscere e il desiderio insano, la brama di distruggere, riportare ad una
condizione di squilibrio ogni cosa: una situazione dove non ci si può ferire,
dove non c’è nessuno da perdere e nessuno per cui soffrire.
“Solo perché ogni tanto ti ho
concesso di alleviare il senso di colpa facendoti sentire la mia voce? Cosa
credi, Rogers? Cosa pensi che stia succedendo? Pensi davvero che stiamo ricucendo qualcosa? Sei ancor più ingenuo di
quanto mi ricordassi. Anzi, di più. Sei penoso.”
Le ha sempre tenute dentro la bocca,
quelle parole. Non ha mai osato pronunciarle, non sa se per timore della loro
verità o della rabbia che le ha sconvolte, ritorte, avvelenate. Ora gli
risalgono l’esofago e le vomita sulla cornetta, immagina il flusso acido mentre
si avvinghia all’etere e prova un piacere perverso nel disegnare la mano
dell’altro serrarsi attorno al cellulare, fino a crepare lo schermo –Lui lo sa,
lo sa eccome della rabbia e della verità. Sa che ha ragione, sa che ha torto.
Sa che sta soffrendo, sa che è per colpa sua.
“Non ti laverai la coscienza, Rogers.
Non così. Non così.” Ripete il magnate. Il polso gli trema, sembra voglia
fermarlo, tappargli la bocca, agguantare le parole e ricacciarle indietro prima
che arrivino dall’altra parte “Sarebbe troppo facile, troppo semplice. Non
credere di poterti salvare così, non credere di poter avere il mio perdono con
qualche chiacchierata telefonica e un sospiro di sollievo. Non funziona così,
ragazzino del ghetto, non è una marachella che una stretta di mano ed un
cioccolatino possano far dimenticare. Io
non dimentico.” I denti stridono l’uno sull’altro “Quindi lascia perdere
tutta questa robaccia da teen-movie.
Non c’è nessuna canzone di Avril Lavigne a fare da sottofondo, niente
flash-forward, niente salto temporale a quando io e te mangiamo gelato seduti
sul molo, al tramonto. La vita non funziona così, io non funziono così. Posso portarti rancore per tutta la vita, se
necessario, anche solo per ripicca, anche solo per farti entrare nella tua
dannata zucca di Brooklyn quanto tu sia stato stupido e idiota e maledettamente
bastardo a farmi questo. A farci questo, se proprio vuoi metterla
in un’ottica sentimentale o da terapia di gruppo, non mi interessa. Non mi
interessa più niente. Non mi importa più niente. Non mi importa---Cristo Santo,
Rogers, come diavolo hai potuto?”
Ora la sua voce ha un tono di
supplica, che subito muta in ira e poi scivola nel risentimento e si bagna di
dolore.
“Come diavolo hai potuto?”
E forse se lo chiede ancora una volta
avrà la risposta che ha cercato per mesi, su cui ha sprecato giorni e ore e
settimane e visite mai ricevute e chiamate senza risposta e lunghi momenti a
guardare il muro e il mondo oltre le vetrate, lì, in attesa che Rhodes
arrivasse, accompagnato dal medico, a continuare l’ennesimo esercizio di una
serie di esercizi tutti uguali e tutti inutili in un susseguirsi di giorni
tutti inutili tutti uguali, tutti in serie, tutti a domandarsi, a chiedere, a
odiare, ad amare, a urlare, a restare in silenzio aspettando una voce a
sciogliere il freddo della stanza.
“Ne
è valsa la pena?” sibila “Dimmi,
Rogers, ne è valsa la pena?”
Non riceve risposta.
Non gli ha dato il tempo –La paura
della risposta, alle volte, è peggio della risposta effettiva. Il dubbio torce,
il dubbio dilania, ma la conferma uccide.
Il cellulare è per terra.
Immobile.
Nero.
Non dorme.
È notte.
Le vetrate sono oscurate.
Non una luce all’interno.
Non una parola.
Solo silenzio.
Silenzio.
Un battito.
Lo schermo che si illumina.
Una pozza azzurra, il nero divelto,
il soffitto tagliato da un alone quadrato che continua a lampeggiare fino a
quando, a piedi nudi, Tony non si china a raccogliere il cellulare.
Le dita rimangono sospese –Un
messaggio ricevuto.
Fuori filtra l’alba, quando decide di
aprire la piccola busta telematica.
Non è
valsa la pena.
“Dici che se provo a mandarti un MMS
con questa paccottiglia antica innesco il sistema di autodistruzione?”
“Rispetta la vecchia tecnologia,
Tony. E’ praticamente il trisavolo del tuo Padd.”
“…Che hai detto?”
“Cosa? Andiamo, non può essere più di
un trisavolo---“
“Mi hai appena chiamato Tony.”
“E’ caduta la linea.”
“Ah, guarda. Il vegliardo si è appena
ricordato come si cercano i numeri in rubrica.”
“Ascolta—“
“Un vuoto di linea di tre giorni non
è un po’ troppo? Eri nel triangolo delle Bermuda?”
“Ero in Bielorussia.”
“…Davvero?”
“Beh, ci sono stato. Forse non
proprio in questi ultimi tre giorni, ma ci sono stato.“
“Ci sentiamo, Rogers. Credo proprio
di star entrando in una galleria che sospenderà la linea più o meno per—“
“No, aspetta.”
“Che vuoi?”
“Non era te.”
“Chi?”
“Sharon.”
“Grazie tante. Informazione
fondamentale e vitale. In effetti mi era sorto qualche dubbio vista l’effettiva
mancanza di fluenti capelli biondi, per non parlare del doppio petto che
indossa da mattina a sera.”
“Non hai capito.”
“Rogers, se non sei in grado di
spiegarti dovrò chiamare un esperto di esegesi, incrociarlo con un dentista e
poi chiedergli di svelare la crittografia dei monosillabi metaforici che mi
stai propinando invece di costruire una frase sensata con soggetto, verbo e
complemento.”
“Non era te, per questo non ha
funzionato.”
“Scusami. Galleria.”
“Sta diventando snervante.”
Tony è steso sul letto e guarda il
soffitto. Conta uno, due, tre, le parole non dette, le parole che non sa dire,
le parole che non ha pensato di pronunciare, le parole che non ha il coraggio
di sussurrare nemmeno a se stesso.
“Sai, la cosa per cui io ti chiamo,
parliamo e poi la conversazione assume una piega strane e io incontro gallerie
e tu fenomeni cosmici dall’alto potere distruttivo e chiudiamo così, scappando
con la coda tra le gambe.”
“Se vuoi, la prossima volta posso
dire che devo andare ad incipriarmi il naso.”
“Rogers, ma non fai nemmeno lo sforzo di stare al passo coi tempi?”
“Cerco di stare al passo con te, vale
comunque?”
Un sorriso sulla bocca.
“E’ una battaglia persa in partenza.”
“Forse dovremmo parlarne.”
“No, fidati. Non c’è storia.”
“Mi riferisco all’incipriarsi il naso
e a fuggire non appena le cose cominciano a diventare ambigue.”
“Se
cominci a fuggire non ti fermi più, giusto?”
“Esatto.”
Il magnate si umetta il labbro
superiore e avverte un nodo allo stomaco gorgogliare attraverso le viscere.
Spera tanto sia la fame o la voglia di caffè o chissà cos’altro, qualcosa che
non involva Rogers, dall’altra parte della cornetta, ed una resa dei conti che
non sa proprio se è già in grado di affrontare o meno.
“Cosa volevi dire?” domanda a
bruciapelo, prima che il buonsenso –O l’istinto di sopravvivenza- prenda il
sopravvento “Quando dicevi che con Sharon non ha funzionato perché non era me?”
L’altro sta raccogliendo le idee, lo
capisce dal suono umido trasmesso dalla linea: la lingua che si solleva a
sfiorare l’arco del palato, poi batte sugli incisivi, come a voler modulare un
suono, ma poi ci ripensa e si ritrae verso la gola. Deglutisce e schiocca di
nuovo la lingua sul palato –Ecco, le ha trovate.
“Le mie mani.” Sussurra, perché
soltanto lui lo senta, perché sia soltanto una cosa loro, nella loro intimità,
nella loro languida segretezza “Le mie mani non sono fatte per il corpo di
nessuno, se non il tuo.”
Il brivido diventa liquido nella
spina dorsale di Stark: è come una goccia di lava che scivola lenta fino alla
base della schiena e si solleva sull’inguine, sul basso ventre, nello stomaco,
si espande finanche dentro di polmoni.
“Adulatore inveterato.”
“La sua pelle profumava di
bergamotto.” Continua ed è come averlo vicino, all’orecchio, come sentire il
fiato la gola e lo stacco del collo “Non era la tua. Non era il tuo odore. Il
tuo odore---Quanto mi faceva impazzire il tuo odore. Avrei potuto riconoscerlo
ovunque, era un sovrapporsi mille frammenti della tua anima, della tua
personalità.”
“Ah, sì?”
“Sì.” Il sibilo dell’affermazione fa
tremare Tony, la sente vibrare ronzando dentro la carne, trasformandosi,
mutandosi in un gemito trincerato dietro la bocca “Sì. Sapevi di Armani, di
profumo costoso, di grasso di motori, di minuscoli barbagli di fiamma
ossidrica, di caffè, di take away. E poi…” il fiato si taglia e Stark capisce
quanto sia terribile l’astinenza ora che la sua sola voce lo ha mandato in
fibrillazione “Sapevi di me. Del mio
odore. Mi ritrovavo su di te, come un marchio.”
“I tuoi dannati morsi.” La voce è
roca, si sgretola contro le pareti del collo “Non hai idea di quanto faticassi
a coprirli.”
“Adoravo affondare i denti nella tua
carne. Nella gola, dove potevo vedere il battito cardiaco. Aprivo la bocca e
avvertivo il calore della tua pelle prima sulle labbra, poi la tenevo, la
succhiavo tra i denti per sentire il tuo gusto dentro di me, sulla lingua,
riempiendomi interamente, completamente.”
“Dio—“
“Era un assaggio.”
Eccoli di nuovo, i suoi dannati,
adorati, maledetti denti e l’inguine pulsa al punto da costringerlo a coprirlo
coi palmi, a dargli un contatto, a concedergli un attimo di respiro, di
rilascio elettrico sulla punta delle dita “La prima portata di un sapore più
forte, assolutamente tuo, che sarei
arrivato a gustare piano, morso dopo morso.”
“Già.”
“Cosa?”
“Niente.”
“Appunto.”
“Cosa?”
“Mi ricorda la prima volta che…”
“Ancora con questa storia?”
“Mi hai preparato un quantitativo di
frittelle tale che pensavo si sarebbe presentato Deadpool alla nostra porta
chiedendoci se poteva prendercene un paio.”
“Esagerato.”
“A cena ne avanzavano ancora.”
“Okay. Allora forse ho sfogato la mia tensione sulla cucina.”
“Cosa hai preparato adesso?”
“Come?”
“Dopo questa nostra splendida
sessione di appagante sesso telefonico, cosa hai deciso di cucinare?”
“Niente.”
“Come niente?”
“Non avrebbe senso.”
“Perché?”
“Perché le frittelle le avevo
preparate per noi due.”
“…Ah.”
“Galleria?”
“Galleria.”
“Se mi chiami tu deve esserci
sicuramente qualche parola disastrata che ti ho rivolto senza accorgetene e di
cui tu, ora, vuoi sapere il significato.”
“Non…Esattamente.”
L’allarme manda in tilt i sensi di
Tony e ringhia nei nervi, li alza, li tende, li strofina tra loro creando
scariche elettriche sempre più forti, che si accavallano, si mescolano, si
agitano tutte insieme, l’una sulle altre, all’infinito.
“Che succede?”
“Non…Dio, quanto sono…Stupido.”
“Questo è un dato di fatto di cui
tutti sono a conoscenza, non è il momento di rivangarlo! Che succede?”
“Ci hanno scoperto.” La voce
dell’altro pare arrivare da una radio mal sintonizzata e non riesce ad
assestarsi su una tonalità percettibile per la maggior parte delle parole,
obbligando Tony a schiacciare il telefono contro l’orecchio per sentire. “Un
attacco. Un…” un ansito, una stilettata di dolore che affonda nel costato del
magnate.
“Dimmi dove sei! Dimmi dove sei!”
“No—E’ pericoloso per te venire qui.”
“E allora perché diavolo mi hai
chiamato, dannato idiota? Dimmi dove sei, posso raggiungerti, posso venire da
te, posso fare qualcosa, permettimi di fare qualcosa!”
“Rimani con me.”
“Rogers, maledizione…”
“Rimani con me. Sono…Sepolto. Ci sono macerie ovunque e sono riuscito a creare
una specie di bolla d’aria, ma…Sono stupido, Tony. Stupido a chiamarti per
nome, stupido a cercarti.”
“Avresti dovuto chiamare aiuto.”
“L’ho fatto. Ho chiamato te.”
“Se non mi dici dove sei, non posso
aiutarti.”
“Tony, ho spazio a stento per muovere
testa e braccia. Ho composto il tuo numero col naso. Credo di essere ben al di
là di un possibile aiuto.”
“Ora tu mi devi spiegare come
accidenti hai fatto a salvare il telefono e non pensare ad un posto sicuro dove
piazzare il tuo culo a stelle e strisce.”
“E’ stupido, vero? Ho solo…Pensato
che se si fosse distrutto non avrei più potuto parlare con te.”
“Probabilmente ci sono più cellulari
che pesci al mondo e tu—“
“Lo so. Lo so.” Può sentire il fiato
fischiare nei polmoni “Lo so. Ma questo…Questo è l’unico legame che mi è
rimasto con te. Non potevo permettere che finisse in pezzi.”
“Penso tu sia l’unica persona in
grado di mettere in pericolo la propria vita per una metafora. Ragiona, Steve. Dimmi dove sei. Lascia che venga
a prenderti.”
“Ah.” Quasi lo vede il sorriso sulla
bocca enfia, insanguinata e gli occhi pesti che si illuminano tra gli sbuffi di
polvere “Mi hai chiamato Steve.”
Poi crepe. Cigolii. Un’esclamazione
soffocata.
“Mi ha detto Natasha che al
centralino dell’ospedale stavano impazzendo.”
“Ah, sì?”
Non mostrare interesse. Sii
distaccato. Torna sulla tua posizione superiore, arroccati sul tuo fortino
rancoroso, dove niente ti tocca –E niente puoi toccare.
“Sì. Un certo signor Stank ha chiamato tutti gli ospedali, di entrambe le Coste, per sapere se avevano in
cura un paziente che corrispondeva perfettamente alla mia descrizione.”
“Di gente strana è pieno il mondo.”
“Grazie per esserti preoccupato.”
“Farò presente al signor Stank. Anche
se non lo conosco.”
“Tony.”
“Che vuoi?”
La rabbia sale. E’ preoccupazione,
questa? E la preoccupazione che ribollendo nello stomaco assume la consistenza
amorfa della rabbia? Oppure è soltanto rabbia, pura e semplice furia, l’ira che
strappa battiti al cuore e allo sterno?
Forse è rabbia e forse è
preoccupazione e forse è amore, l’amore pazzo, l’amore che ha i tratti disfatti
della follia: l’amore che tiene svegli fino al mattino, l’amore che obnubila il
buon senso e spinge a chiamare, pensare di trovarlo in un ospedale, credere di
poterlo salvare, temere di perderlo. È l’amore degli stupidi e dei sognatori, che
lascia inebetiti e sfiancati, l’amore di chi non si rassegna, di chi ha perso
tutto e vuole riavere, senza soffrire e per questo soffre, perché si costringe
a non avere.
Pensava davvero di trovarlo in un
ospedale. Lì, in America. Un ricercato che dopo un attacco presumibilmente o
forse no del Governo si fa ricoverare in un ospedale…! Che idiozia. Un gesto
illogico, privo di tattica, strategia. Colmo unicamente di terrore e orrore e
disperazione.
“Perché lo stiamo facendo, Tony? Perché continuiamo questa guerra contro noi
stessi? Perché…?”
“Perché io non posso dimenticare.”
È schietto.
Ed è vero.
Non può dimenticare niente, nulla,
non un istante, non un singolo momento, non il suo corpo intabarrato nel
ghiaccio, non il suo sorriso, non la sua sfrontatezza così retrò, non i suoi
occhi, non il suo tradimento, non la sua schiena che si allontana, non il suo
silenzio, non la sua risata, non il suo profumo, non la sua scelta.
“Fa così---Male, Rogers.” Così male che alle volte preferirei non respirare,
che spesso vorrei morire pur di smetterla, di farlo smettere, di farti smettere. Tu hai---“ arriva, sì,
dietro le palpebre serrate e dentro le ossa, il ricordo, la paura, la visione.
“Tu hai idea di cosa mi ha fatto vedere la nostra streghetta rossa, quando
ancora militava tra i bad guys? Voi.
Morti. Quell’idiota di Barton e Vedova Nera e—Tu.”
È un’accusa.
Un dito puntato: come ti sei permesso
di entrare nella mia vita, di entrarmi talmente dentro da essere la mia paura
più grande, il mio sprone, il mio senso di colpa? Vita e morte?
“Sono corso da te. Prima di correre
da ogni altro. Il mondo sopra di noi era rovesciato e ricordo il cielo che
vomitava stelle e sangue nero e sono corso da te, da te, tra tutti. La mia paura più grande. Perdervi tutti.
Perdere ogni cosa. E tu, tu---“
Continua a ripeterlo, flettendo sul
pronome quanta più anima possibile, spingendovi sopra la voce, la mente, se
stesso, fino allo stremo, fino alla completa disgregazione.
“Tu eri l’esemplificazione stessa
della mia paura. La morte del sogno.
La morte del sogno. Il mio sogno. Il
nostro sogno. I Vendicatori…” un sorriso ironico, rapido, piange sulla sua
bocca “Lo sai come mi chiamavano prima, vero? Il Mercante di Morte. Era il
mio lavoro e lo facevo così bene da non avere rivali –Rivali che non potessi
eliminare con uno schiocco di dita, almeno. O un bell’assegno. Mi sono convinto
per anni di non essere altro, di non portare altro che la morte. Mi andava
bene.” Ammise “Mi era facile. Mi riusciva. Era qualcosa che capivo, la morte. Sai? La mia vita era
un tendersi distruttivo fino all’ultima meta: vivevo così tanto ogni giorno
unicamente per avvicinarmi alla morte. Ogni sbronza di cui non ricordavo che il
vuoto ed il nero e la testa spaccata; ogni donna che mi uccideva tra le sue
gambe; ogni dado era un proiettile ben piazzato sulla roulette della mia esistenza.
Vivevo picchi di esistenza tanto febbrili da rasentare l’annullamento. Vivevo
al punto di morirne. Ogni giorno sempre più, spezzandomi le ossa per cadere,
crollare, franare sempre più veloce, sempre più rapido, esultando---“
Deve fermarsi.
Il cuore ha stretto alla gola e
adesso è un tamburo tra le tempie. Preme contro la fronte, si ingrossa di vene
e di sangue contro il cranio; le palpebre schizzano di colori rubizzi e vortici
lividi tale è la forza con cui serra i denti.
È in ginocchio.
Non si è nemmeno accorto di aver
ceduto e adesso il pavimento è freddo e ancor più freddo è lui, perso dentro se
stesso, soffocato da se stesso, condannato ad essere se stesso.
“I Vendicatori erano vita. Erano la prova che, in fondo,
anche da una mela marcia come il sottoscritto poteva nascere qualcosa di buono.
E stavamo crescendo. Quel qualcosa cresceva
e i rami si alzavano e diventavano più ampi e più numerosi ed io ero così
accecato dall’orgoglio, dalle foglie e dai fiori e dai frutti da non accorgermi
del puzzo di putrefazione, dei vermi dentro la polpa, degli insetti che
divoravano la corteccia direttamente dal suo ventre: sono stato così stupido da
non rendermi conto quanto il nostro alberello fosse malato, Steve. E la malattia ero io.”
Si arresta. Non sa se dargli il tempo
di replicare, allungare una mano, curare le sue ferite con una carezza ed un
sorriso –Le sue braccia emergevano dalle ombre della notte, tra le pieghe delle
lenzuola e lo traevano da un incubo infinito, un continuo circolo vizioso di
paure e di dubbi, e contro il suo cuore non c’era più niente, niente tranne il
suo calore e in quell’attimo, in quell’istante perfetto dentro una bolla
fragile e bellissima, persino lui trovava il proprio posto nel mondo.
“Dicono che il male non possa
vincere, perché ha già in sé il germe dell’autodistruzione.”
“Tu non sei il male, Tony.”
Un sorriso beffardo. Ironia gelida
cristallizzata sulla bocca.
“No? Sei tu l’esperto di arti della
guerra, Rogers.” Gli ricorda “Due parti contrapposte, ai lati di una trincea.
Per forza qualcuno doveva essere il male o non sarebbe mai successo nulla e tu
saresti ancora qui, a leggere il giornale alle sei del mattino, dopo non so
quanti kilometri di corsa.”
“Non era una questione di bene e di
male. Non c’entrava niente il bene o il male. Era---“
“Era uno scontro tra teste dure. Te
ne sei reso conto anche tu, no? Alla fine, i grandi ideali dietro cui ci siamo
nascosti sono diventati polvere, hanno perso colore e significato: siamo
rimasti noi. Siamo sempre stati noi. Dal principio alla fine. Era la nostra
guerra personale. È per questo che
abbiamo cominciato a riallacciare i rapporti, no? Perché ammetterlo allora era
difficile, da vigliacchi, da bambini
e ora, invece, trascorsi mesi di stallo e stasi, ora sembra così adulto, così saggio. Seppellire l’ascia
di guerra e stringersi la mano. Quanta bontà d’animo! Quanta maturità! Che
magniloquente pantomima!”
La risata è finta, gli brucia la
gola. Getta indietro la testa, strizza le palpebre, il peso dei giorni gli
ricade sul costato, buca lo sterno, i polmoni. Pensare, accettare, capire,
comprendere una guerra e le ragioni celate oltre la cortina della guerra è
troppo per un uomo solo, per una notte sola.
Il silenzio dall’altra parte della
cornetta è tale che Tony spera sia caduta la linea o direttamente a il
telefono, a terra, sull’asfalto; spera che l’apparecchio si sia rotto, spera
che tutto sia finito, perché sarebbe talmente penoso ricominciare, rincorrersi
di nuovo, di nuovo trovarsi, di nuovo perdersi, perché lo perderà, sì, il germe
dell’autodistruzione, lì, cresce, muta, avvinghia, soffoca, porterà via anche
il Bimbo Ragno, sì, lo ha già preso, sa che accadrà, lo porterà alla
distruzione, lo farà a pezzi, e sarà colpa sua, colpa sua e del suo terrore
ossessivo della solitudine. Non vuole essere solo, gli slanci di vita a
preludio della morte lo spaventano, da solo, è meglio avere qualcuno con sé,
qualcuno da abbrancare e portare in cima, all’apice, nascondendo a se stesso e
all’altro la violenza della caduta, l’orrore e disperarsi, quanto è inutile
disperarsi, quando l’inghiottitoio li avvinghia, il Profondo li attanaglia,
aprendo le fauci e maciullandoli, a volte piano, a volte forte, a suo gusto, a
suo desiderio, a seconda della spinta con cui Tony ci si è gettato, trascinando
un’altra vittima sacrificale con sé.
“Lui è ciò che rimane della mia
vecchia vita.”
La voce di Steve arriva da lontano,
oltre la nebbia, oltre la mente ottenebrata dal senso di soffocamento e dal
senso di colpa.
Per la prima volta dopo mesi, non ha
il coraggio di interromperlo. Non vuole
interrompere il suo flusso di pensieri: vuole dargli la possibilità di
spiegarsi e fare i conti con scelte e conseguenze su cui probabilmente non ha
riflettuto abbastanza. Probabilmente avrebbe fatto troppo male rifletterci
sopra, stare fermo e pensare, accettare, capire, comprendere una guerra e le
ragioni celate oltre la cortina della guerra.
È troppo per un uomo solo.
“Peggy è…Peggy se n’è andata.“ trema
ancora, al ricordo “Peggy aveva vissuto la sua vita. Si era allontanata da me. È
normale.” Puntualizza “Non le sto facendo una colpa. Era giusto che si facesse
una vita, che mi dimenticasse. Gli Howlers se ne sono andati tutti prima di
lei. Lei ha resistito. Arnie, il mio vicino di casa. I miei commilitoni. Lentamente
la vita ed il tempo li hanno sgranati via, come un rosario. Uno ad uno sono
scivolati tra le mie dita, si sono sparsi a terra e io li ho persi.”
Tic. Toc.
Tic. Toc.
Il suono dei grani del rosario. Delle
lancette. Del tempo che scorre.
“Mi sono ritrovato solo. Bucky---Lui
era il mio migliore amico. È morto per colpa mia. Ho la possibilità di fare
ammenda. Di proteggerlo. Di proteggere il mio passato. Il nostro passato. Ho bisogno di lui per non impazzire. Per non
sentirmi…Solo.”
“Con me ti sentivi solo?”
“Sai cosa voglio dire.”
Lo sa. Lo ha visto nei suoi occhi
molte e molte volte, ad ogni funerale di più, ad ogni goccia di pioggia. La
vedeva, la sua solitudine, una patina traslucida come la polvere che si posa di
giorno in giorno sui mobili.
Su una vita intera.
“Siamo entrambi sabotatori
inconsapevoli del nostro futuro.” Gli fa notare Stark “Potrebbe persino piacerci, è questo che ci fa paura e ci
fa fare a marcia indietro. Stiamo così bene nella nostra torre d’avorio: è il
nostro rifugio, come il fortino di cuscini di quando eravamo bambini. È sicuro,
lì. È il posto migliore dove stare, senza scegliere, senza pensare. È un posto facile, creato tanto tempo fa da un
ragazzino di Brooklyn ed un supergenio nemmeno adolescente che leggeva i
fumetti di Capitan America mentre preparava la tesi sperimentale per il MIT. Bisognerebbe
scendere a giocare, di tanto in tanto, e affrontare il mondo e noi stesso ed il
futuro con uno scudo di legno ed un’armatura di cartone.”
“Perché io sono soltanto il Ragazzino di Brooklyn e tu il
supergenio?”
“E’ la dura verità, Rogers, accettala.”
Un secondo. Due. Tre.
Poi inizia. È come un murmure, il
vibrante incresparsi della superficie, il borbottio argentino dell’acqua che
dal fondale vortica e sale, fino ad un’esplosiva risata di schiuma, bianca,
opalescente, che illumina il bruno oceano circostante.
Steve sta ridendo.
Ridendo così forte che persino Tony
si unisce, ridendo talmente a lungo da non riuscire più a distinguere, ad un
certo punto, la risata dal pianto.
Il cielo è azzurro, oltre la vetrata.
Tony sta osservando i tetti delle
case che si affastellano e si affaccendano gli uni sugli altri, tagliandosi la
strada a vicenda, sfidandosi a chi è più alto, a chi è più grosso. Nelle strade
brulicano persone di ogni genere, ciangottano parole di ogni tipo, si inseguono
esistenze di ogni tenore, si intrecciano, si uniscono, si sfiorano un istante e
quello dopo già sono opposte, lontane, si guardano appena, si sorridono, si
amano e si odiano. C’è chi passerà insieme cinque minuti, chi tutta la vita;
chi aspetta per lavoro, chi non sa di aspettare, chi ha smesso già da un po’.
È un mosaico multicolore in continuo
mutamento e Tony lo osserva dall’alto, intoccato ed intoccabile, con la spalla
appoggiata al vetro ed un caffè tra le mani. Gira pigramente la tazzina contro
la bocca di ceramica e ascolta il silenzio.
Non lo infastidisce, questa. Il
silenzio si è sostituito alle loro chiamate in maniera naturale: è scivolato a
colmare il vuoto della loro distanza simile ad un corso d’acqua che s’accomodi
nell’alveo.
Sono dieci giorni, ormai, che i
giorni vanno avanti senza notizie di sorta, senza messaggi o quant’altro, e a
Stark va bene così. Una dolceamara rassegnazione: si sono raccontati e svelati
troppo in una notte sola, hanno toccato il fondo e hanno cercato di risalire,
certamente più leggeri di quando hanno iniziato.
Non si stupisce che Steve non l’abbia
richiamato. Rispetta il suo silenzio.
Non ci sono più non-detti tra loro –Tranne uno. Non è un vero non-detto. È un
sentimento passato che, Tony lo sa, prima poi diverrà un ricordo e sarà dolce
guardarlo, muoverà il cuore e farà nascere sul volto un sorriso e un pizzico di
malinconia.
Sta per sorbire un sorso di caffè
sull’onda di quelle riflessioni, quando un avviso di chiamata illumina d’azzurro
l’auricolare che tiene all’orecchio destro.
“Sì?”
Non ha neanche controllato chi è.
Data l’ora del mattino, sarà sicuramente il Bimbo Ragno che lo avverte di un
qualche criminale sbarbatello che lo ha fermato per strada mentre andava a
scuola.
Per questo quasi sputa il caffè sulla
finestra, nell’accogliere la voce dall’altra parte.
“Il supergenio nemmeno adolescente
che leggeva i fumetti di Capitan America mentre preparava la tesi sperimentale
per il MIT può scendere a giocare?”