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Autore: Heretic Seal    19/12/2016    4 recensioni
Nel periodo Natalizio può accadere di tutto, anche ritrovarsi dopo tanti anni.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Clarke Griffin, Lexa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ho deciso di provarci! Questa storia mi girava in testa da un po' e, invece di lasciarla dentro al mio pc, ho deciso di condividerla con voi.
Spero sia una piacevole lettura per voi, quanto è stato bello scriverla per me.
Buona lettura.
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Il Natale era ormai alle porte, mancavao davvero pochissimi giorni e l’aria era frizzante, un pò per il freddo che aveva attanagliato la città di New York, un pò per l’attesa della festa più bella dell’anno.
Le strade del centro erano illuminate con luci dai mille colori, agli angoli gruppi di cantori e musicisti allietavano l’atmosfera con i canti natalizi. Le vetrine dei negozi scintillavano come a voler invitare i passanti ad entrare ed acquistare regali per le persone care.
Lexa passeggiava in mezzo a quella moltitudine di persone che affollava i marciapiedi, non guardava le vetrine, non ascoltava la musica. Si stringeva nel suo cappotto nero e in quella sciarpa rossa ormai consunta dal tempo, ma che non rinunciava mai ad indossare soprattutto in quel periodo dell’anno.
Non era solo un indumento, era carica di ricordi ed era l’unica cosa da cui non era mai riuscita a separarsi nella sua intera vita.
Aveva cambiato case, città, occupazioni, amicizie, in quella che era una vita frenetica e caotica, sempre alla ricerca di quel qualcosa che la obbligasse a fermarsi in un luogo. L’unica costante era sempre e solo quella sciarpa rossa e tutto ciò che rappresentava.
All’improvviso due bambine le andarono incontro, una dai capelli biondi raccolti in una treccia e l’altra con i capelli castani che spuntavano da sotto il berretto di lana. Si tenevano per mano mentre correvano e quasi le sarebbero finite addosso se lei non si fosse scansata di lato per lasciarle passare.
 

Qualche anno prima…
Fuori era freddissimo, la neve aveva imbiancato tutto il paese. I comignoli delle abitazioni dei vicini rilasciavano alte scie di fumo che si condensavano nell’aria gelida.
Lexa stava col naso incollato alla finestra e guardava lungo la strada. Attendeva con trepidazione di veder svoltare sull’angolo la figura della sua migliore amica.
“Ma quando arrivi?” domandò sotto voce e l’aria calda uscita dalle sue labbra appannò il vetro. Subito vi passò sopra la manica della giacca e, come per magia, la vide comparire lungo la strada, tutta imbacuccata nel suo cappottino bianco e la sciarpina rossa ben avvolta attorno al collo.
“Mamma, Clarke è arrivata. Ci vediamo dopo” gridò Lexa a sua madre un istante prima di fiondarsi fuori dalla porta e correre da lei.
I capelli biondi di Clarke svolazzavano nell’aria mentre le correva incontro e come sempre si strinsero in un forte abbraccio.
“Finalmente sei arrivata. C’hai messo una vita” le disse prima di sciogliere l’abbraccio.
“Dovevo finire di fare alcune commissioni, sennò la mamma non mi lasciava andare” rispose l’amica.
“Andiamo al solito posto?” domandò la mora prendendo l’altra sotto braccio.
“Certo, dove altro potremmo andare?”
Lexa guardò Clarke e le sorrise, sapeva che sarebbe stata un’altra bellissima giornata.

 
Lo studio di grafica per il quale lavorava era situato in un enorme palazzo moderno e ipertecnologico.  Non le piaceva troppo, non poteva negarlo. Niente a che vedere con lo studio di Los Angeles, tutto in mattoni, con una storia alle spalle. Li le sembrava tutto molto freddo ed anonimo, ma non le importava più di tanto alla fine, sapeva che sarebbe stata l’ennesima tappa nel percorso della sua vita. Fra qualche mese avrebbe accettato un’altra offerta di lavoro che chissà dove l’avrebbe portata.
Salì al piano con uno di quegli ascensori cromati dentro i quali si poteva ascoltare una di quelle snervanti musichette che, a detta di qualcuno, dovevano aiutare a mitigare l’attesa. Non amava quelle scatolette di latta, ma salire al trentaduesimo piano a piedi era troppo anche per una fervida camminatrice come lei.
Prima di entrare nel suo ufficio si fermò alla caffetteria a prendersi un caffè per riscaldarsi e poi decise di rimettersi a lavoro ancora per qualche ora. Quella passeggiata l’aveva aiutata a rimettere in moto la sua vena creativa, ma aveva acuito un po’ anche quella malinconia latente a cui ormai si era abituata.
La sensazione era simile a quando una spina si conficca in un dito, ma non la si riesce a togliere. Era li, la sentiva ogni giorno, un rumore sordo e continuo, in sottofondo.
Lexa sospirò “Diamoci da fare” si disse e prese in mano la matita tornando a concentrarsi sul lavoro davanti a se, almeno per un paio d’ore avrebbe avuto la mente occupata.

 
Qualche anno prima…
Lexa e Clarke presero la strada che dal paese portava al laghetto dove andavano sempre a giocare. Lungo il cammino Clarke era più taciturna del solito.
“Che ti succede? Il gatto ti ha mangiato la lingua?” le domandò Lexa sorridendo.
Clarke però non cambiò espressione “No, la lingua è sempre al suo posto”
“E allora che succede? Non ti senti bene?” domandò nuovamente Lexa, questa volta con un tono un po’ più preoccupato. Non era abituata a vedere la sua amica così e cominciava a temere qualcosa.
“Devo partire” le disse la ragazzina bionda, tutto d’un fiato.
“Vai dai nonni per le vacanze?”
“No. Devo partire per sempre. Hanno dato un nuovo lavoro a papà. Dobbiamo partire domani” disse Clarke e Lexa si fermò li, nel bel mezzo del sentiero.
“Come domani? Quando lo hai saputo?” domandò incredula l’altra.
“Già da qualche giorno, ma non volevo che tu fossi triste, quindi ho preferito dirtelo oggi” le rispose incassando la testa fra le spalle.
“Cosa? Non… non è possibile! Non è giusto! Tu non puoi partire! Non puoi lasciarmi sola!” Lexa strinse i pugni, battè le palpebre velocemente per ricacciare indietro le lacrime.
“Lexa, non l’ho deciso io” provò a giustificarsi la bionda.
“Ti odio Clarke! Ti odio!” le disse guardandola un’ultima volta prima di voltarsi e correre via lungo il sentiero.
Dietro di lei Clarke piangeva e la implorava di fermarsi, ma lei non lo fece.
La sua migliore amica da tutta una vita se ne sarebbe andata via il giorno seguente e non l’avrebbe rivista mai più. Non poteva e non voleva crederci.

 
Gli occhi le bruciavano per il troppo lavoro. L’orologio segnava ormai l’ora di andare a casa.
Lexa raccolse le sue cose nella borsa che portava sempre con se, si avvolse con cura la sciarpa rossa al collo ed uscì dall’ufficio dopo aver salutato i pochi colleghi rimasti.
L’aria all’esterno era ancora gelida e una neve leggera aveva cominciato a scendere.
Il suo appartamento distava poco dall’ufficio e come sempre s’incamminò lungo la strada illuminata dalle vetrine e dalle insegne dei locali.
Camminava con passo tranquillo, guardandosi attorno distrattamente, immersa nei suoi pensieri. Quella sensazione di malinconia continuava a pulsarle dentro. Come ogni anno era più forte in quei giorni in cui tutti si ritrovavano con le persone care nei luoghi che amavano.
Per quanto avesse una famiglia e degli amici che l’amavano sentiva che le mancava qualcosa, c’era uno spazio che rimaneva costantemente e desolatamente vuoto nella sua vita.
Stava passando davanti ad una caffetteria quando fu costretta a fermarsi sentendo pronunciare il suo nome. Una morsa la prese allo stomaco, pensò subito ad un brutto scherzo giocatole dalla sua stessa mente. Quella voce l’avrebbe riconosciuta fra mille, anche se era passata un’eternità dall’ultima volta che l’aveva sentita.
“Lexa?” pronunciò nuovamente quella voce, con tono incerto. “Sei tu, Lexa?”
Lei si voltò lentamente, quasi con timore. Davanti a se si delineò l’immagine di una ragazza con i lunghi capelli biondi e due occhi azzurri, di quello stesso azzurro che lei ricordava come se li avesse visti il giorno prima. Stentava a crederci.
“Clarke?” domandò a sua volta, con lo stesso tono incredulo dell’altra.
“Allora non mi ero sbagliata, sei proprio tu” esclamò la bionda e Lexa potè notare i suoi occhi farsi lucidi “Non posso crederci”
La distanza fra di loro diminuì mentre Clarke si avvicinava, tanto che poteva sentirne il profumo, fino a che le sue braccia non le cinsero il corpo e strinsero così forte da farle mancare quasi il respiro. Ci volle qualche istante prima che anche lei rispondesse a quell’abbraccio.
“Ma che ci fai qua?” domandò Lexa in un sospiro, la voce rotta dall’emozione e dalla sorpresa.
“Sono a New York per lavoro” le rispose “Oddio, quando ti ho vista passare credevo di avere le allucinazioni. Invece sei proprio tu”
Lexa si staccò lentamente e la guardò con attenzione scrutando ogni tratto del suo volto “Non sei cambiata di una virgola” le disse.
“Per quello nemmeno tu” sorrise l’altra.
Rimasero a guardarsi senza aggiungere altro. Erano passati così tanti anni che le cose da dirsi erano un’infinità, ma a nessuna delle due veniva in mente qualcosa di sensato da dire in quel momento.
Fu Clarke a rompere quel silenzio imbarazzato “Non so che impegni hai, ma ti andrebbe di cenare insieme?”
Lexa le sorrise “Non rifiuterei per nulla al mondo”

 
Qualche anno prima…
Lexa si chiuse in camera, si stese sul letto e affondò la faccia nel cuscino per soffocare i singhiozzi e asciugare le lacrime che scendevano lungo le sue guance. Non poteva credere che Clarke non le avesse detto nulla.
Non c’erano mai stati segreti fra di loro e ora le aveva nascosto una cosa così importante. Se non le avesse chiesto che cosa non andava forse non glielo avrebbe mai detto.
Era arrabbiata con lei come non lo era mai stata prima di allora, si sentiva tradita ed ingannata.
Sua madre entrò in camera, si sedette accanto a lei e cercò di parlarle. Lexa le raccontò cosa era accaduto, ma nulla di tutto ciò che la donna le disse le fece cambiare idea.
Odiava Clarke per quello che le aveva fatto, per averle mentito su una cosa così importante. Non l’avrebbe più rivista, ne era sicura, e questo la spaventava.
Mancavano pochi giorni a Natale e questo era il regalo che la sua migliore amica le aveva fatto.
Rimase chiusa nella sua stanza per tutto il resto della giornata. Sapeva che Clarke era passata a casa, aveva sentito sua mamma parlarle, ma lei non era voluta scendere. Se non si sarebbero più viste era bene cominciare da subito si disse, anche se la voglia di correre da lei era tanta, ma l’orgoglio ferito era molto più forte in quel momento.
La mattina seguente, quando scese per la colazione, trovò un pacchetto accanto al suo piatto “Che cos’è?” domandò a sua mamma.
“Non lo so, l’hanno lasciato sulla veranda. È per te” le disse mentre le metteva davanti dei pancakes fumanti.
Lexa prese il pacchetto, lo aprì con molta cura. Non c’era un biglietto, nulla che dicesse chi era il mittente, ma non le servì molto per capire quando si ritrovò in mano una sciarpa rossa.
Senza dire nulla afferrò il cappotto e corse fuori verso quella casa di mattoni con le finestre bianche dove aveva passato così tanti giorni spensierati. Corse più forte che potè, sentiva l’aria gelida bruciarle i polmoni ad ogni passo.
Svoltò nel vialetto, saltò letteralmente sulla veranda e cominciò a bussare freneticamente alla porta.
“Clarke! Clarke sono Lexa, aprimi per favore!!!” urlava continuando a picchiare fino a sentir male alle mani. Da dentro nessuna risposta, le imposte erano chiuse, non c’erano rumori.
“Eih, piccola. I Griffin sono partiti qualche ora fa” le disse un vicino che passava li davanti.
Lexa si lasciò scivolare contro la porta, si afferrò le ginocchia e cominciò a piangere. L’aveva lasciata andare così, senza chiederle scusa. Tutto quello che le rimaneva era quella sciarpa rossa che stringeva forte fra le mani.

 
Cenarono in un locale vicino al porto, parlarono di tutto e di niente in particolare. Erano troppe le cose che avevano da dirsi per decidere quali fossero le più importanti. Lexa si stupì della facilità con cui si erano ritrovate, niente imbarazzo, niente paura.
Dopo cena decisero di fare una passeggiata nonostante il freddo e la neve che continuava a scendere e che ormai aveva cominciato ad imbiancare tutto.
 “Devo chiederti scusa” disse, ad un certo punto, la mora aggiustandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“Per cosa?” domandò Clarke.
“Per come ci siamo lasciate. Per non averti salutata”
“No, sono io che devo chiedere scusa a te per non averti detto niente della mia partenza. Litigai da morire con mio padre perché non volevo partire e lasciarti da sola”
Ci fu un’altra pausa di silenzio, rotto solo dai loro passi sul sottile strato di neve.
“Non hai mai scritto” le disse Lexa con una punta di rimprovero.
“Non sapevo se volevi saperne ancora qualcosa di me. Credevo tu fossi arrabbiatissima”
“Beh, si. Di certo non ero felice. Ma il giorno dopo sono corsa a casa tua quando, beh… quando ho trovato questa sulla veranda” disse indicando la sciarpa rossa che portava al collo.
Clarke spalancò gli occhi sorpresa “è la stessa sciarpa che ti regalai quel Natale?” le domandò incredula.
“Certo. È l’unica cosa a cui sono davvero legata” rispose Lexa sorridendo e guardandola negli occhi.
Clarke rispose al suo sorriso senza aggiungere altro.
I loro sguardi s’incrociarono, il silenzio le avvolse di nuovo. Non c’era bisogno di parole, ma solo di gesti in quel momento.
La distanza fra loro si ridusse sempre di più, le loro mani s’incontrarono a metà strada e si strinsero più forte, ma con dolcezza.
Successe tutto in un attimo e anche i loro volti si avvicinarono, lentamente ma inesorabilmente, fino a che le labbra non si sfiorarono.
Un istante di esitazione le colse entrambe, ma bastò uno sguardo per ritrovare la sicurezza.
La distanza si chiuse definitivamente in un bacio lento ed appassionato che racchiudeva in se tutto quello che non si erano mai dette, tutti i sentimenti che provavano l’una per l’altra e che in quegli anni di lontananza erano cresciuti e maturati.
Quel bacio durò un tempo che a loro sembrò infinito. Attorno a loro non esisteva più niente, nessun rumore, nessuna persona, non sentivano nemmeno i fiocchi di neve che cadevano sui loro volti. C’erano solo loro due.
Quando si allontanarono Clarke scoppiò in una risata fragorosa che costrinse Lexa a guardarla senza capire “Scusa, bacio così male?”
“No, non è per quello, ma… guarda su” le disse indicando sopra le loro teste.
A quel punto anche Lexa scoppiò a ridere rendendosi conto che si erano appena baciate sotto un ramo di vischio.
“Si dice che porti bene, no?” disse Clarke per poi aggiungere “E, per la cronaca, tu baci benissimo”.
Lexa le sorrise “E ora?”
“E ora… restiamo insieme” il sorriso di Clarke s’illuminò.
“Questo è il regalo di Natale più bello che potessi mai desiderare” disse Lexa mentre quel senso di malinconia le si scioglieva nel petto.
Si presero per mano e s’incamminarono lungo la passeggiata. Era tardi, ma nessuna delle due aveva intenzione di lasciare l’altra, né in quel momento, né di certo in futuro.
“Buon Natale Lexa”
“Buon Natale Clarke”
  
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