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Autore: Gaia Bessie    28/12/2016    4 recensioni
Qualcuno gli ha raccontato che i Marowak piangono solamente in due occasioni: quando il cranio si sigilla nella carne molle della testa, segnando la durata eterna di una maledizione. E quando, quella maledizione, si tratta di passarla ai loro cuccioli.
(...) C’è una coperta grigia abbandonata sul pavimento, forse gettata via all’ultimo, e lui nemmeno riesce a pensare di potersi trattenere che già l’ha addosso, come un bozzolo caldissimo da cui nessuno vorrebbe liberarsi. Profuma di un misto di preparato per biscotti e shampoo alla violetta.
Un singhiozzo gli squassa la gola.
È quello, l’odore di sua madre.
Lo capisce così, Iridio, avvolto nella coperta e in un manto di gelo. Lo capisce così, che gli hanno, ancora una volta, edulcorato la storia: i Marowak piangono anche ogni volta che ripensano alla mamma.
[Iridio centric, Mahinashipping. Accenni a Ferriswheelshipping, Originshipping e Franticshipping]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Videogioco
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NB: Preciso velocemente due piccole cose, su nomi e spazio-tempo. Per quanto riguarda i nomi, mi dispiace dire che non c’è assolutamente un criterio, alcuni sono in italiano e altri no, a seconda di come mi sono abituata io di questi tempi, tra manga e videogiochi (Tipo Luna si chiama così perché non ha un nome, e Moon in italiano suonava bene). Scusate.
Per quanto riguarda lo spazio-tempo seguo solamente la linea dei giochi, per motivi che capirete nella storia, e spesso ho dovuto inventarmi delle distanze. Spero siano verosimile.
Ultima cosa, i personaggi ovviamente non hanno undici anni. Buona lettura.
P.S. Se qualcuno volesse fare un banner per la storia potrebbe ricevere il mio amore eterno.
P.P.S. "Luoghi impossibili" è un omaggio al mio film preferito, "L'amore e altri luoghi impossibili".
 

 

Quando i Marowak piangono
 
Buone feste
 
Qualcuno gli ha raccontato che i Marowak piangono solamente in due occasioni: quando il cranio si sigilla nella carne molle della testa, segnando la durata eterna di una maledizione. E quando, quella maledizione, si tratta di passarla ai loro cuccioli.
A Iridio hanno raccontato, quando aveva otto anni, la semplice e dura verità: un Marowak piange quando cresce, e quando muore. E lui ha passato anni a figurarsi che sensazione si dovesse provare a sentirsi scivolare via, con la certezza che il proprio cranio sarebbe stata la tana di un cucciolo di Cubone.
Ha passato anni a domandarsi se, alla fine, il fatto che i Marowak possano piangere non sia che un’espressione figurata, una metafora, o se non lo facciano davvero, annegando di lacrime le ossa saldate al cranio.
Sua sorella, da quando la conosce – e lui quasi ricorda di averla vista quasi nascere, quando a sua madre si ruppero le acque in sala da pranzo – non ha pianto che due volte, per il medesimo motivo.
Lylia ha pianto quando la mamma l’ha lasciata.
La prima volta, da bambina, quando prima sparì suo padre e, allora, Samina seguì delle ombre per sei mesi e mezzo: come un’invasata, girò mezzo mondo per ritrovare il marito. Alla fine, non lo trovò mai, e fu costretta a tornare per scoprire che sua figlia, il suo piccolo angioletto biondo, per sei mesi e mezzo si era rannicchiata nel letto matrimoniale, coperte fin sopra alla testa, come un Cubone con il cranio della madre.
La seconda volta, da adulta. Iridio era lì e ricorda perfettamente, una sera, di aver vagato insonne per tutta la Fondazione – non è mai un piacere, tornare a casa – e di averla trovata seduta davanti alla porta del Laboratorio B, avvolta in una vecchia coperta. Solo dopo qualche minuto si era accorto che era il vestito di sua madre.
Iridio non ha pianto, quella notte, non ne ha avuto il bisogno. Ha sentito, dentro di sé, crescere quel sentimento di inadeguatezza, di insoddisfazione, e si è sentito schiacciato. Distrutto come quando Lylia era tornata  da Kanto con una madre che era un guscio vuoto e, con voce strozzata, aveva detto torniamo a casa. Ed era stato immensamente e dolorosamente chiaro, che erano tornate, lei e Samina, per vivere lì gli ultimi giorni.
E lui era lì. Con le spalle al muro, senza potere scappare. Lì, immobile, con quella madre inutile e inservibile che, guardandolo negli occhi, non lo riconobbe.
Aveva degli occhi che si sarebbe potuti impazzire a fissarli per più di qualche secondo: vuoti e trasparenti come biglie di vetro, riflettevano un Iridio freddo e muto, quasi congelato, le mani così strette tra di loro che le nocche erano più bianche della neve.
Lylia la teneva per la vita, sorreggendola con un’abitudine agghiacciante, perché era così magra che, sconcertato, Iridio individuò i contorni netti e distinti del suo scheletro. Il cranio chiarissimo che, in corrispondenza degli zigomi, quasi bucava la pelle.
‹‹Hai visto mio figlio?›› aveva domandato Samina. Pronunciava ogni suono quasi come se non sapesse più come si facesse a esprimersi a parole. ‹‹Dovrebbe essere qui anche lui››.
Iridio aveva voltato le spalle ed era corso via. E, in silenzio, una vecchia storia gli era tornata in mente, guidandolo nel buio: chissà a cosa pensano i Marowak mentre piangono.
 
***
Ula-Ula, Lega Pokémon.
22 settembre, 3.56 AM
 
Luna ha iniziato a dormire nella Sala del Campione, che le appartiene da due anni di vittorie senza sosta. Al freddo, nella neve, Iridio riesce quasi a pensarla avvolta in una pesante coperta, ancorata alla sua sedia. Anche se lei non gliel’ha mai detto in faccia, lui ne ha la certezza assoluta: Luna ha paura. Luna può fingere di essere invincibile, e instancabile, ma quando cala il buio, e inizia a pesarle addosso il sogno, ha paura.
Iridio lo sa perfettamente, che Luna sogna le Ultrecreature. Che quelle che le sono state affidate non le ama, forse un po’ le teme, e cerca di averci meno contatti possibili. Luna sogna di essere braccata, senza un posto dove andare, senza nessuno a cui chiedere aiuto.
E lui ha paura di dirle che gli dispiace. Che, se l’avesse saputo, lui l’avrebbe difesa.
Lui, che non ha saputo difendere sua madre, e sua sorella, lei l’avrebbe difesa. L’avrebbe presa tra le braccia, superando il suo noto disgusto per il contatto fisico, e l’avrebbe nascosta da tutto ciò che avrebbe potuto farle male.
Luna non lo sa, ma se Iridio ha mai conosciuto la paura vera, è stato nel vederla affrontare Samina. È stata costrizione, non stringerla nel vederla uscire vittoriosa, e viva, miracolosamente viva, da quello scontro.
Luna non lo sa, e Iridio non sa se glielo dirà mai. In fondo, è sempre stata lei, quella coraggiosa dei due.
‹‹Cosa ci fai qui fuori? Sei impazzito, per caso? Cosa vuoi fare, prenderti una polmonite o un altro malanno?››.
Non si era nemmeno accorto di essersi disteso sulla neve, infradiciandosi i vestiti, finché non aveva visto la Superquattro Alyxia correre verso di lui, con aria preoccupata.
‹‹Io…?››.
C’era una spiegazione? C’era un senso, in quello che faceva, in quello che diceva? C’era un senso in sua sorella che sedeva avvolta in un vestito di sua madre, e piangeva?
Alyxia scuote il capo, il bel viso corrucciato. Non dice niente, e Iridio la segue come un automa: probabilmente non saprebbe nemmeno dirle che no, lui lì dentro non vuole entrarci.

Si tratterebbe di dirle che non vuole che lei gli dia dei vestiti caldi e puliti, un asciugamano, non vuole sentirsi dire che andrà subito a chiamare la Campionessa, perché la Campionessa e lei è… no, no, no, non vuole essere visto così.
Ma non dice una parola, si limita solamente a spalancare gli occhi, e a ingoiare il proprio silenzio.
‹‹Iridio?›› la voce di Luna sa di sonno, anche se è già vestita, anche se con la maglia un po’ sgualcita di chi ha passato la notte a sonnecchiare su una sedia. ‹‹Stai… È successo qualcosa?››.
A lui tremano le mani così forte che lei se ne accorge, e chissà cosa pensa, perché Luna non dice, non dice mai niente.
Iridio pensa che deve dirglielo, non c’è altro da fare. Sono due anni che ci pensa e trema, che ci pensa  e gela, e si chiede se non sia il caso di piangere.
Perché un Marowak piange solamente quando cresce e quando muore: e forse l’amore non è che questo, crescita e morte.
‹‹Io…››.
Ma Luna ha un sorriso che annichilisce e, lui, come sua madre, non ricorda nemmeno come si dà corpo a una parola. A due parole.
Iridio sa dare carne e forma alle paure, alle insicurezze. Ma a quello no, a stento riesce a trovarvi un senso, a stento lo accetta. Perché lei lo guarda e non ha idea, non ha la minima idea: ha troppa paura di sé stessa, per sé stessa, per potere anche solo lontanamente immaginare.
‹‹Ti amo››.
L’ha detto, non gli viene nemmeno quasi più da piangere.
 
***
Poni, Albero della Lotta.
22 settembre, 5.23 AM

 
‹‹Esattamente cosa staresti facendo, tu?››.
Iridio alza lo sguardo: cosa sta facendo? Non sta facendo niente, sta respirando aria fredda e camminando, forse ha dato un pugno a qualcosa – era un muro? Un albero? Cosa? – o forse ha solamente sognato. Non sta facendo nulla.
Però Blu lo guarda, e sembra assonnato  come un bambino delle elementari svegliato per andare a scuola, e ha i capelli scombinati e un sorriso gentile.
‹‹Nulla›› mormora Iridio, e la sua voce è una cacofonia che lo confonde.
‹‹Non pensi sia un po’ presto, per lottare?›› Blu ride, e tira una pacca sulla spalla di Rosso, silenzioso e muto come una roccia centenaria. ‹‹Che dici, Rosso, non hai›› sbadiglia. ‹‹sonno?››.
‹‹Non voglio lottare››.
Non con loro. Lottare era l’unica maniera che aveva per vederla sorridergli: Iridio ha sfidato la Campionessa di Alola centotredici volte, e non ha mai vinto. Iridio ha continuato a sfidarla non per orgoglio, non per piacere, ma per una cupa ostinazione che se l’è mangiato vivo.
E perché la ama, ma questo vorrebbe solamente dimenticarlo. Forse l’ha già fatto, ed è stupido, e infantile, costringersi a pensare che sia il viso sorridente di Blu, o l’espressione Asettica di Rosso, a ricordargli che Luna l’ha guardato allo stesso modo, dritto negli occhi per dirgli che no, io…
‹‹Io non posso›› tossisce, e manda giù un grumo di lacrime. ‹‹Non posso lottare››.
Iridio si guarda le mani, e le scopre scorticate, spellate. Non ha sentito nemmeno una fitta di dolore, un lampo, nulla.
‹‹Cosa ci fai qui, allora?›› Blu sembra non capire. Vorrebbe ridere ma è frenato dall’espressione disperata sul volto del biondo.
Che non ha una risposta da dargli. Potrebbe?
 Luna, per lui, non ha avuto una risposta. Ha avuto un silenzio, una lacrima, un no che gli si è impresso nella testa, marchiato a fuoco. No, io credevo, io pensavo. Adesso io. Non posso.
Iridio non ha capito, non ha voluto capire. Si è limitato a perdersi nella neve, a volare su un’altra isola, lontana da lei.
Se lei l’avesse seguito, le avrebbe urlato di lasciarlo stare. Ma Luna non si è mossa dalla Lega, nemmeno di un passo, l’ha solamente guardato andare via.
Iridio alza il capo solamente nel momento in cui una mano gli sfiora la spalla. È quella di Rosso.
Blu spalanca gli occhi, cercando una spiegazione che non osa chiedere – perché Rosso non parla, ma si fa capire.
O, almeno, non parlava.
‹‹Serve un viaggio per dimenticare una persona›› mormora, con voce insospettabilmente profonda. Gli mette in mano una Pokéball, poi volta le spalle e và via.
Iridio sospira e si rende conto che sta cercando solamente un altro posto dove imparare a piangere.
 
***
Kanto, Biancavilla.
22 settembre, 17.56 PM

 
Iridio ha cercato casa. Ha cercato il nido dove Lylia e Samina hanno vissuto per quasi due anni, prima di dover tornare ad Alola. Ha cercato una casa minuscola, con le pareti color crema, e l’ha trovata fredda e vuota come se fosse abbandonata da decenni.
Ha trovato delle foto di Lylia e del suo Squirtle, di Samina avvolta in una coperta. Qualche lettere, che nessuno ha avuto il coraggio di impostare, indirizzate un po’ a lui e un po’ a suo padre. Una cartolina di Luna – e ha dovuto trattenersi dallo stracciarla – e i suoi migliori auguri per il compleanno di Lylia.
Il Charizard di Rosso lo ha portato dove ha chiesto, dove sperava di colmare un vuoto. Ma Iridio è sempre lì, fermo, senza capire perché. Solo.
C’è una coperta grigia abbandonata sul pavimento, forse gettata via all’ultimo, e lui nemmeno riesce a pensare di potersi trattenere che già l’ha addosso, come un bozzolo caldissimo da cui nessuno vorrebbe liberarsi. Profuma di un misto di preparato per biscotti e shampoo alla violetta.
Un singhiozzo gli squassa la gola.
È quello, l’odore di sua madre.
Lo capisce così, Iridio, avvolto nella coperta e in un manto di gelo. Lo capisce così, che gli hanno, ancora una volta, edulcorato la storia: i Marowak piangono anche ogni volta che ripensano alla mamma.
 
***
Kanto, Biancavilla.
26 settembre, 1.12 AM

 
Non si è mosso per quattro giorni, se non lo stretto indispensabile. Bere, mangiare, sopravvivere. Ha dormito nello stesso angolo di pavimento su cui si è accasciato con la coperta avvolta attorno, e ha pensato che è così caldo, silenzioso e pacifico che potrebbe anche morirci.
O piangerci.
Tipo Zero è uscito due volte dalla sua Pokéball, per leccarlo con la lingua ruvida. Stai bene? Ma Iridio non si è mosso, minimamente, non ci è riuscito.
Serve un viaggio per dimenticare una persona, si ripete. Ma per dimenticarne due?
Per dimenticare l’amore di una madre che ti ha cancellato, e il sorriso melanconico di una Campionessa divorata da incubi, che viaggio devi intraprendere?
Iridio si costringe a mettersi a sedere, fissando lo sguardo sui muri intonsi della casa. C’è una cartina geografica appesa, ha delle città cerchiate in rosso.
Forse Lylia ha pensato di voler viaggiare, o forse Samina ancora non ha smesso di cercare le sue ombre.
Iridio cerca un motivo, qualcosa che gli spieghi com’è che si fa a non piangere due volte nella vita: quando si cresce e quando si muore.
E non lo trova.
Serve un viaggio, per trovare sé stessi?
 
***
Johto, Amarantopoli.
27 settembre, 9.27 AM

 
Sembra quasi che la Torre Bruciata possa diventare cenere a ogni soffio di vento. Lì sopra, ci si sente liberi, un altro granello di polvere di un universo confusionario.
Con i piedi a penzoloni, seduto su una finestra scheggiata, Iridio pensa. Sotto di lui, il vuoto è un’alternativa tra le tante: si è convinto a partire dopo poco più di ventiquattro ore, ha preso la cartina geografica ed è andato.
Johto è una realtà diversa, su cui ha volato a lungo prima di decidere di fermarsi sulla città delle due torri: suona una campana, in lontananza, ma a lui non importa. È schiavo del fascino del fuoco divampato, un secolo prima, nella Torre d’Ottone.
È anche lui l’ennesima vittima di una leggenda che, a Johto, è incisa in ogni mattone, in ogni pietra: la morte è una realtà di ciò che resta della Torre, una storia triste come molte altre.
‹‹Dicono che qui siano morti tre Pokémon››.
Iridio non riconosce quella voce, né si volta. Dicono che lì siano morti tre Pokémon senza nome, con lacrime incollate in occhi dalle palpebre bruciate, senza emettere un suono. E dicono che qualcuno ebbe così pietà di loro che ne costruì una leggenda di fuoco, pioggia e tuono.
‹‹Forse ci morirò anche io, qui›› i piedi dondolano nel vuoto. Se cadesse, Iridio sarebbe fuoco, pioggia o tuono?
‹‹Non penso ti lascerebbero morire, amico. C’è sempre qualcuno che tenta di buttarsi giù dalla torre, ma generalmente passa sempre l’eroe di turno a salvarlo. Mi dispiace›› avverte un sorriso nella voce dello sconosciuto. ‹‹Io sono Argento. E tu, esattamente, perché stai per lanciarti dal posto dove io sarò consacrato come più grande allenatore di tutti i tempi?››.
‹‹Iridio›› mormora, a metà tra un colpo di tosse e un sussurro. ‹‹E perché, se non giù a terra, non credo di avere un altro posto dove andare››.
Argento solleva un sopracciglio. Nell’ombra, i suoi capelli sembrano una colata di sangue sul volto, ha un sorriso che potrebbe inquietare.
‹‹Il mondo è grande, un posto lo trovi›› osservò, scrollando le spalle. ‹‹Anche uno piccolo, che non vuole nessuno››.
Il teschio di mamma Marowak. La coperta di Samina. La sedia nella sala  del Campione di Alola.
‹‹Non sarebbe il posto che voglio››.
Argento mette le mani in tasca, sorride amaramente. ‹‹Se funzionasse così, non ci  sarebbe nemmeno il gusto della sfida›› ride. ‹‹Non hai mai avuto, tu, un rivale?››.
Iridio si costringe a inghiottire un bolo di cenere e irritazione, mordendosi il labbro così forte da graffiarlo con i denti.
Pensa a Luna, con i capelli scompigliati, che gli spiega che è troppo tardi. Che è stato cieco, forse folle, e mai si era accorto che lei, in un tempo che Iridio non è stato in grado di misurare, lei forse l’ha amato. O, come lei aveva detto, aveva creduto di amarlo.
Io… c’era un tempo in cui credevo… ora…
‹‹Vorrei non averlo›› mormora, stringendo i denti. Vorrei che non fosse mai esistito.
Ma Hau è una presenza così chiassosa e fastidiosa che, purtroppo, la sua esistenza non può essere smentita in nessun modo. Forse è proprio quel chiasso che a Luna diverte tanto, forse è quel sorriso perenne che riesce a rassicurarla quando sogna le Ultracreature.
‹‹Benvenuto nel mio mondo, il bagno è in fondo, sulla destra›› ghigna Argento. ‹‹Però, sai, senza un rivale non avrei uno scopo››.
Iridio pensa alle mani abbronzate di Hau, senza nemmeno un difetto, tra i capelli di Luna. Il suo scopo era lei.
‹‹E cosa fai se perdi?›› mormora, tornando a torturare il labbro con i denti.
Argento sorride, per la prima volta, compassionevole. ‹‹Tiri avanti›› mormora. ‹‹Perché, morendo, gli regaleresti solo un’altra, enorme, vittoria: gli eroi sono talmente fastidiosi che riescono a vincere anche le partite dove non sono stati invitati a giocare››.
Gli volta le spalle, forse per nascondere un dispiacere troppo umano per lui. Ma, prima di allontanarsi, gli getta in grembo una merendina.
‹‹Mangia qualcosa, ti farà bene›› osserva, già sulle scale. ‹‹Dovrebbe essere alle Gicocche››.
Iridio sospira, addentando il dolce, assaporando il dolore delle briciole sul labbro martoriato: sa di frutta e monete sporche.
 
***
Hoenn, Ceneride.
28 settembre, 10.02 AM

 
Ceneride è un paradiso in tempesta: Iridio ha sentito odore di pioggia, e della stanchezza di Charizard, prima di scoprirsi a Hoenn. È atterrato in un vecchio cratere vulcanico riempito d’acqua piovana, e ha scoperto un mondo nuovo.
Si è seduto con i piedi ammollo nell’acqua, il viso rivolto verso l’acqua che gli scroscia addosso. È una città deserta, tutti nascosti dietro le mura delle abitazioni. Un bambino, che correva con l’ombrello in mano, si è fermato per spiegargli che a Ceneride si temono due cose solamente: la pioggia e l’ira della Capopalestra della lontana Forestopoli.
La prima, gli ha spiegato, perché l’ultimo grande acquazzone vissuto dalla città era opera di un gigantesco Pokémon leggendario, domato dall’attuale Campionessa della Lega.
Iridio sorride, vedendo una signora che chiude ogni finestra della sua abitazione, e magari manda anche a letto i bambini: torna a dormire, altrimenti Kyogre ti viene a cercare, dormi che è tardi.
Sii un bambino obbediente, o dovrò dirlo ad Alice. Che, qualche anno prima, aveva quasi ucciso il Capopalestra di Ceneride, permettendo al suo Altaria di usarlo come affilartigli.
Si è dovuto trattenere dal chiedere al bambino, ansioso di tornare a casa dalla mamma, dove avrebbe potuto trovare degli Altaria selvatici, perché ad Alola sarebbero sicuramente stati apprezzati.
‹‹Tu non sei di qui, vero?››.
Distrattamente, Iridio si domanda perché sembra attirare così tanto gli estranei. Quando, palesemente, non ha proprio nessuna storia da raccontare.
‹‹No, infatti›› osserva, mentre una ragazza gli scivola accanto. ‹‹Nemmeno tu sei di qui››.
Lei annuisce.‹‹Sono Sapphire›› dice, porgendogli una mano minuscola e con le unghia rosicchiate. ‹‹Non ho vissuto a Ceneride, ma c’ero quando Kyogre scatenò la tempesta››.
Iridio scrolla le spalle. ‹‹Credo sia una superstizione e basta: è solamente pioggia››.
Sapphire gli rivolge un sorriso biricchino, mettendo in mostra due canini più affilati del normale.
‹‹Forse›› ammette. ‹‹Ma dicono tutti che la Campionessa abbia in custodia Kyogre, è leggenda anche questa?››.
‹‹Potrei rispondere solamente se la Campionessa mi mostrasse questo fantomatico Kyogre››.
Lei sorride ancora, e rigira tra le dita sottili una Pokéball.
 
***
Hoenn, Lega Pokémon.
28 settembre, 10.50 AM

 
‹‹Mi perdonerai se ti ricevo con la porta aperta, ma se dovesse passare Ruby e mi trovasse in camera, porta chiusa e un ragazzo, presumibilmente farei la fine di Adriano››.
Iridio alza un sopracciglio, perplesso. Sapphire ride, nuovamente, e gli fa cenno di accomodarsi su un soffice pouf rosso fuoco.
‹‹Il Capopalestra di Ceneride, Adriano›› spiega. ‹‹Lasciò Alice, di Forestopoli, per “fuggire” con Rocco Petri, ex Campione. È successo poco prima che io mi trasferissi a Hoenn››.
Nel vedere che l’espressione perplessa di Iridio permene, Sapphire china il capo.
‹‹Oh, Ruby›› mormora. ‹‹Lui… è un mio… amico d’infanzia››.
‹‹Immagino che, se mi trovasse qui, mi userebbe anche lui come affilartigli per Altaria››.
‹‹Oh, no›› esclama, inorridita, la ragazza. ‹‹Ruby lima personalmente gli artigli del suo Altaria››.
Ed è in quel momento, lontano chissà quanto da casa, che , per la prima volta dopo giorni, Iridio riesce a ridere.
‹‹Mi stavo giusto chiedendo quanto ti ci sarebbe voluto!›› esclama Sapphire, quindi, balzando in piedi con un saltello.
Iridio non commenta, aspettando una spiegazione che sembra non arrivare. Sta quasi per accomiatarsi e proseguire il suo viaggio, quando la voce della Campionessa di Hoenn lo ferma.
‹‹Quanto ti ci sarebbe voluto per sorridere anche tu, intendo››.
E lui ride di nuovo.
 
***
Sinnoh, Cuoripoli.
29 settembre, 13.10 PM

 
Ci vuole un viaggio, per dimenticare qualcuno, aveva detto Rosso. Iridio ha viaggiato per una settimana e, forse, ha iniziato a capire che non gli serve viaggiare per dimenticare qualcuno.
Gli serve un viaggio che gli faccia scoprire chi è davvero, che lo faccia crescere, e piangere a tempo debito.
Cuoripoli è strapiena di turisti, una turba di gente che si affanna davanti a ogni teleschermo disponibile, per assistere al debutto dei nuovi talenti delle Gare Pokémon.
Ogni tanto, quando una turista con i capelli scuri e il sorriso gentile, e  magari con dei pantaloncini un po’ troppo corti per il clima aspro di settembre, lo urta, la vede.
E ha paura. Ha paura di non poter sentire più nulla, perché quella pugnalata che ha sempre avvertito in questi ultimi sette giorni, si è affievolita. Non di tanto, giusto un po’, ma lui lo sente.
Sanguina appena un po’ di meno.
Perché c’è Fannie che parla di amore ed eleganza in ogni schermo, e lui pensa alla sua incarnazione di amore, e forse anche di eleganza, e si rende conto che si sta togliendo anche l’unica cosa in cui ha sempre creduto.
Le cicatrici si dimenticano. E se dimenticasse Luna, cosa ne sarebbe degli ultimi due anni, cosa ne sarebbe di lui?
Iridio sospira, stringe le mani riparate dalle tasche dei pantaloni: ha le nocche arrossate e spellate, e gli piace pensare di aver preso a pugni qualcuno.
È nella cacofonia delle strade di Sinnoh, nell’aria fredda che gli gela il collo, che capisce di aver sbagliato: lui non vuole dimenticare.
Ma non è nemmeno pronto per tornare a casa – perché, per quanto gli costi ammetterlo, casa è dove c’è lei.
 
***
Unima, Sciroccopoli.
29 settembre, 22.40 PM

 
C’è una ragazzina che piange, seduta nella luce sfarfallante dei neon, vicino alla ruota panoramica: ha dei pantaloncini blu chiaro, e per un attimo Iridio ha avuto la fastidiosa visione di Luna in lacrime. E ha poi realizzato di non averla mai vista veramente piangere, e questa consapevolezza si è fatta strada in un dolore nuovo, un’altra futura cicatrice: puoi dire di conoscere una persona, se non l’hai mai vista piangere?
Non si è accorto di essersi avvicinato finché non si è sentito sfiorare da quella ragazza, che gli ha sorriso prendendo il fazzoletto che, chissà quando, le aveva offerto.
‹‹Grazie›› mormora, con la voce roca. ‹‹Non… dovevi fermarti… sto bene, non c’è nessun problema. Non voglio disturbarti››.
Iridio la guarda e si sente stringere il cuore: sembra un cucciolo sperduto e spelacchiato che ha perso la mamma. Ma, guardando come continua a tormentare un anello, un vistoso anello che sembra essere parecchio antico, capisce che non sente la mancanza della madre.
‹‹Non mi stai disturbando›› osserva, con una tenerezza nuova.
Un viaggio per scoprire sé stesso: quante cose puoi imparare su te stesso, guardando un altro?
‹‹Vuoi… Vuoi fare un giro sulla ruota panoramica?›› le domanda, tendendole una mano, che lei non prende.
La ragazza scoppia nuovamente in singhiozzi.
‹‹Oddio… scusa…›› mormora, con il viso arrossato. ‹‹Solo… quella fotttuta ruota panoramica…›› tira su con il naso, prima di guardarlo e abbozzare un sorriso. ‹‹Possiamo solo stare seduti e parlare?››.
Lui annuisce, e le scivola accanto.
‹‹Mi chiamo Touko›› mormora, tendendogli la mano. ‹‹Scusami… non volevo essere scortese. Ma non penso che salirò mai più su quel dannato affare di ferro››.
Lui sorride, e si presenta, senza commentare.
‹‹Sai… è che quello è uno dei miei luoghi impossibili. Da adesso, e credo per sempre›› mormora Touko, stringendosi le braccia attorno alla vita, come per darsi conforto.
‹‹Luoghi impossibili?››.
‹‹Posti che ho visto e che non vorrò rivedere mai più›› spiega lei, a capo chino. ‹‹Posti impossibili dove ho conosciuto persone impossibili››.
‹‹Conosco solamente una persona impossibile›› mormora Iridio, con un sorriso amaro.
Touko ride. ‹‹Anche io. Una persona impossibile che si è lanciata quasi giù da una fottuta ruota panoramica, dimenticandosi questo dannatissimo anello››.
‹‹Una persona impossibile che volevo dimenticare con un viaggio. Regge il confronto?››.
‹‹Oh›› mormora Touko, annuendo. ‹‹Mi dispiace››.
‹‹Sai, è che l’unica cosa che volevo fare era esserci. Per lei. Se esistevo per lei andava bene›› scuote il capo. ‹‹Non so nemmeno perché ti sto dicendo questo››.
‹‹E allora perché sei qui?›› domanda lei, piano. ‹‹Perché non torni a casa?››.
Iridio non riesce a dirle che ha immensamente ragione, che sono due giorni che pensa che sia giunto il momento di affrontare la consapevolezza che il dolore sparirà, e sparirà Luna. E anche lui.
‹‹E tu perché sei qui, da sola?››.
‹‹Perché un imbecille dai capelli verdi continua a ripetermi che non può stare con me, perché mi metterebbe in pericolo›› mormora, con un sorriso amaro. ‹‹Perché non prende una decisione: torna, se ne va, io lo aspetto, torna ancora. Mi lascia un anello che, per lui, non significa nulla. Torna. Se ne va. Senza fine›› Touko sospira, affranta. ‹‹Forse la tua persona impossibile sta solamente aspettando il tuo ritorno››.
‹‹Forse hai ragione›› si alza in piedi, ha già la mano sulla Pokéball di Charizard. ‹‹Forse devo tornare a casa››.
Perché casa è dove è lei.
Touko annuisce, sorride lievemente anche se ha gli occhi ancora lucidi di pianto.
‹‹E forse devi andare tu da lui, per una volta. Forse ti aspetta ogni volta, prima di tornare››.
 
***
Akala, Parco Vulcano Wela.
Iridio ha lanciato giù l’orologio mentre era in volo: il tempo non gli importa più.

 
C’è uno spicchio di luna solitario che emerge nella notte: non fa freddo, ma lui trema lo stesso. Non ha avuto la forza di andare subito alla Lega, non sa se ci andrà mai, così si è fermato nel posto più insospettabile che conosce.
Le rocce sono una barriera sicura tra lui e il resto del mondo, il calore della lava gli asciuga la disperazione dalle ossa.
Camminando, si domanda se alla fine sia riuscito a trovarsi, vagando di regione in regione, di città in città.
Quasi inciampa su un fagotto di stracci nascosto tra dei sassolini, che emette un rumore simile a un pianto: quando si china per controllare, si accorge che è solamente un Cubone che piange, stringendo sotto la pancia il teschio della mamma.
A Iridio si stringe il cuore, mentre lo prende tra le braccia, e il cucciolo nasconde la testolina nelle ossa materne.
Il suo unico pensiero è che quel cucciolo piangerà altre due volte, nella sua vita: crescendo e morendo. Perché, quando si ama la vita, si piange solo quando si rischia di perderla.
Abbassando lo sguardo, si accorge che Cubone ha posato la testolina sul suo petto, dove batte il cuore, e si è addormentato.
Iridio si porta una mano al viso, scoprendola bagnata: forse oggi è finalmente cresciuto, o è morta una parte di lui che ha vissuto con Luna, in simbiosi.
Forse la ama ancora, perché l’amore è crescita e morte, forse l’andrà a cercare. Forse. Non oggi.
Non con un orfano di Cubone che piange nel teschio della madre, e fa piangere anche lui.
Luna può aspettare: c’è il sole che sta sorgendo, e Iridio ha già pianto una volta.
   
 
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