La
vita va avanti, procede, come ogni cosa, per corsi e ricorsi.
Molly
è abituata al dolore, è un vecchio abito che le si confà e che nessuna moda
potrà mai rendere obsoleto. Un dolore così, però, non lo aveva mai provato
prima. Guardandosi allo specchio non è senso di colpa quello che le attanaglia
le viscere, ma un furore che affoga ogni piacevolezza in un mare di risentimento.
Niente e nessuno, neppure una delle centinaia di autopsie compiute in un
decennio di carriera (donne nel fiore dell’età, madri e figlie, mogli e sorelle
strappate all’amore dei loro cari anzitempo; ragazzi succubi delle frivolezze
della tendenza del momento, vittime della propria insicurezza e della
solitudine; bambini), morti violente come tuoni nella notte, quiete come il
bisbiglio che concilia il sonno dopo un brusco risveglio, niente l’ha preparata
a questo.
Neppure
seppellendo suo padre – il gigante biondo e dalla risata tonante che la faceva volteggiare
con la grazia di una libellula e popola ogni ricordo della sua infanzia – ha
provato qualcosa di simile e neppure dopo. Dopo, quando è toccato a lui, quando ha sostato per ore, mesi,
anni di fronte a una tomba vuota, schiacciata dal rimorso delle menzogne a cui
si è prestata per amore. Amore di cosa?
Di un ricordo.
Ora
è lo stesso tipo di devozione a legarla alla – non più colorata e confortevole
e tutte le innumerevoli qualità che la sola presenza di Mary bastava ad
incamerare nella – villetta a schiera dei Watson. Ci si reca ogni giorno, dopo
il lavoro o tra un turno e l’altro. Non è facile, richiede sacrificio e
costanza e una dedizione impermeabile alla stanchezza che le grava fin dentro
le ossa, ma fare la cosa giusta non lo è mai. Solo in due altre occasioni, che
lei ricordi, le ha spezzato il cuore in questo modo, però.
Il fantasma di
ieri.
La
penombra che l’accoglie è una coltellata in pieno petto. Il ricordo delle
risate e della luce calda che inondavano il salotto il giorno del battesimo di
Rosie, il contrasto con l’immagine della desolazione corrente, per un attimo la
fa vacillare. Ma Molly, a dispetto di ciò che pensa di lei il mondo per la sua
attitudine magnanima ed empatica, è una donna forte, perciò raddrizza le spalle
dolenti in una postura da soldato e si prepara a ingaggiare quella che è
diventata la sua battaglia personale dal funerale di Mary Watson.
Quando
entra in cucina, la puzza di bruciato di cui aveva solo avuto sentore
nell’ingresso si fa prepotente. Molly si precipita a spegnere il
gas e butta la
pentola annerita nell’acquaio, dopodiché apre la finestra.
Probabilmente John
aveva intenzione di sterilizzare il biberon o forse gli serviva
dell’acqua per
il latte in polvere. Acqua che è presto evaporata, bruciando il
fondo della
pentola.
Stando
così le cose, è un miracolo che Rosie non abbia ancora cominciato a piangere,
come testimonia il baby monitor sul tavolo, prodigiosamente tranquillo.
Rosie.
Animata
da un’inquietudine senza volto, Molly sale al piano superiore.
La
porta della camera da letto di John e Mary è accostata e un silenzio tombale fa
presagire che finalmente John abbia ceduto un po’ della sua rabbia e
disperazione al sonno.
La
culla di Rosie è vuota e il cuore di Molly perde un battito. Ne perde un
secondo quando dalla poltrona dirimpetto alla finestra, solenne e impeccabile,
si alza Sherlock, tra le braccia una Rosie che beatamente succhia il latte dal
biberon.
-
Sherlock – bisbiglia e getta uno sguardo involontario al corridoio, sperando
che il sonno di John sia più profondo di quello che la sua esperienza di vita
faccia presagire. – Non dovresti essere qui. –
Se
John è un uomo distrutto da una perdita che gli sembra incolmabile, la
tristezza che scorge in fondo agli occhi di Sherlock, quando questi incrociano
i suoi, non appare meno inconsolabile.
Lui
si limita a un breve cenno, totalmente assorbito dalla bambina che tiene contro
il petto e che osserva con tracce di affetto palpabile e un’espressione
vulnerabile e fragile.
Molly
non vorrebbe, ma deve, anche se farlo le rimorde la coscienza (e qualcos’altro).
Fa un passo avanti, poi un altro e tende le braccia per prendere Rosie. – Se John
si svegliasse… -
-
Non lo farà, - lui la interrompe, ma la sua voce non è priva di una dose di
gentilezza che in un momento diverso – giorno più felici, situazioni più facili
– la stupirebbe.
Molly
aggrotta le sopracciglia prima che un pensiero accenda le sue sinapsi, incendiandole
la mente di possibilità e ipotesi dettagliate. Non importa quanto affaticato o
angosciato potesse essere, John non avrebbe mai dimenticato di spegnere il
fuoco, non sarebbe mai andato a riposare senza portare con sé il baby monitor.
Non importa quanto la perdita di un amore l’abbia imbruttito, l’amore per sua
figlia è l’ancora che lo tiene aggrappato a una parvenza di normalità. Una quotidianità
scandita da ritmi serrati, ma ben distribuiti e calibrati al minuto nell’arco
di giornate che si rincorrono in una danza simmetrica e monotona. – Lo hai
drogato. –
Il
suo tono di accusa non basta a scoraggiare Sherlock.
-
Un blando sonnifero – replica,
scrollando le spalle.
-
Non ne avevi alcun diritto! – Dal sussurro che era, nel silenzio di morte che
avvolge la casa, la sua risposta suona secca e stentorea. Pugni serrati,
braccia contro i fianchi e occhi lucidi, l’aspetto consumato da troppe notti
insonni, Molly sa di essere uno spettacolo pietoso.
Sherlock,
inaspettatamente, non commenta. Non batte ciglio, in effetti e il suo sguardo affezionato
le percorre il viso come una carezza, con una nota morbida di fondo che lei, in
preda al turbamento, scambierebbe per tenerezza.
-
Tre giorni. –
Il
momento si dissolve in confusione. – Come? –
-
Tre giorni, - Sherlock ripete, di nuovo il ritratto della compostezza, mentre
poggia il biberon vuoto sul davanzale e inizia a massaggiare delicatamente la
schiena di Rosie con un’efficienza che denota una certa esperienza. – 72 ore,
16 minuti, 54 secondi. E’ il tempo che è trascorso. –
-
Trascorso da quando? – domanda Molly e l’istante successivo vorrebbe mordersi
la lingua per la propria stupidità. Chiude gli occhi. Da quando, lei ha chiesto.
Da cosa, sarebbe stato più corretto formulare. Sono trascorsi tre giorni dal
funerale di Mary Watson, tre giorni dall’ultima volta che è riuscita a
convincere John a riposare almeno un paio d’ore. Già tre giorni. Soltanto tre giorni. Dio, come vola il tempo e allo
stesso modo come sembra scorrere a rilento, ristagnare, approfittando delle
zone di vuoto e d’ombra per imputridirsi.
-
Vengo a controllarli ogni settimana. – La supplica nella voce di lui, all’improvviso
fioca e spezzata, la costringe a riaprire gli occhi di scatto. – Devo proteggerli.
E’ quello che lei avrebbe voluto. Glielo devo. –
Oh, Sherlock. Prima che possa
impedirselo, Molly gli si affianca. Con cura, dolcemente, gli scosta i capelli
dalla fronte. Non ha un aspetto riposato, ma chi lo ha mai, nei giorni di
pioggia? Rughe nuove, recenti, gli solcano la fronte e la bocca, ennesima riprova
della straordinaria importanza che Mary Watson ha avuto nella sua vita. Chi mai
potrebbe negarlo? Era evidente. La complicità immediata, l’alchimia di due
menti affini, due spiriti turbolenti animati dalla stessa indefessa scintilla
di curiosità, da un’intelligenza mercuriale, da un’anima battagliera, da un identico
spirito di sacrificio. Non importa cosa dica o pensi il resto del mondo, John Watson
è stato il primo a scalfire il ghiaccio che gli aveva congelato il cuore, ma è
stato un altro Watson a scoperchiare completamente il guscio ed ora l’ultimo
barlume di questa stirpe straordinaria ne stringe tra le dita minuscole i
resti, brandendoli come un’arma posta a propria protezione. Sono tutto ciò è rimasto, le pare di
sentire l’angoscia di questa realizzazione nell’eco del brusio che sono i pensieri
di lui e che ha scritto in faccia come parole stampate sulle pagine di un libro. Tutto ciò che mi è rimasto.
Al
che lei potrebbe, vorrebbe replicare: Hai
me. Puoi avere me, se mi vorrai.
Malgrado
tutto, Molly non è mai stata una donna di poesia, ma di scienza. - Non è stata
colpa tua, – si ritrova a dirgli, invece, perché è questo ciò di cui lui ha realmente bisogno, avrà sempre bisogno,
non di altro.
L’espressione
di pura sorpresa per un attimo gli restituisce l’aspetto del loro primo
incontro: un giovane uomo intatto, slegato dalle passioni umane, non compromesso
ancora dai sentimenti e dal fitto garbuglio del loro intrecciarsi. Cosa ti abbiamo fatto? A cosa ti abbiamo
portato? Fin dove ti abbiamo spinto e fin dove ti spingeresti ancora, per amore
nostro?
Una
parte di lei quasi rimpiange quella versione di lui, altera e sprezzante, ma un’altra
parte di lei, vecchia ed egoista, morirebbe cento volte solo per rivedere ogni
giorno il riverbero di affetto che splende nel sorriso in miniatura che ora le
sta rivolgendo in segno di gratitudine.
Molly
trae un sospiro vibrante e si costringe a ritrarre la mano che ancora indugiava
sulla fronte di lui. – Manca a tutti, sai. Non siete gli unici ad averla persa,
anche se è difficile crederlo. – D’un tratto sente il naso pruderle e gli occhi
bruciarle. Mary dal sorriso smagliante e dalla personalità accesa, la lingua
pungente, dal coraggio dirompente, pensa con rimpianto. Mary sempre in
movimento, indaffarata. Mary bella e intensa come un quadro di Van Gogh: tinte
vivaci, pennellate energiche e una serena, salda cognizione della disperazione
che rendeva meno utopica la meraviglia della felicità raggiunta. – Solo perché condividevate
dei segreti… questo non significa che non fosse anche un po’ nostra. Era la tua
migliore amica, Sherlock, proprio perché eravate così simili, ma è stata anche
una mia amica e proprio perché eravamo così diverse. –
L’ha
preso in contropiede. Molly si gratta il naso, sperando che lui eviti di notare
quanto rossi e cerchiati i suoi occhi debbano essere. Speranza fuorviante.
Dopotutto lui è Sherlock Holmes.
-
Molly… -
-
Devi andare. –
Lui
si affloscia come se l’inverno si fosse abbattuto precocemente su di lui. –
Immagino che tu abbia ragione. – A malincuore, con una lentezza struggente che
Molly, per tatto, finge di non notare, lui le passa Rosie. La grande mano di
lui non lascia la testolina di lei finché non ha trovato la curva confortevole della
sua spalla. Rosie emette un gorgoglio e Sherlock percorre con il pollice l’arco
fine del suo sopracciglio, snocciolando come elementi chimici della tavola periodica consigli per lo svezzamento.
Una
manciata di secondi dopo, lui è già fuori. Una carezza sulla testa, un bacio
leggero sulla tempia, la bambina dei loro migliori amici tra di loro e un
sussurro roco contro l’orecchio per ringraziarla.
Non capisco proprio perché
tutti pensino che non hai emozioni umane*.
Questa
volta, a differenza del battesimo, il pensiero è venato di amarezza. Non verso
di lui, ma per il rancore di chi, nel suo lutto, sta disprezzando quello di chi gli
sta attorno.
N/A
(SPOILER FREE SUL PRIMO EPISODIO DELLA QUARTA STAGIONE):
Sono
a letto, febbricitante e delirante a causa di una brutta influenza che
mi tiene
inchiodata al letto da Capodanno e sul piagnucolante andante dal 2
gennaio e anche un po' prima (chi
ha Netflix o ha già avuto modo di vedere l’episodio
trovandolo su altri lidi saprà
perché). Tra Rogue One, che sono andata a vedere due volte e che
ho amato dalla prima all'ultima scena e Sherlock 4x01 ho trascorso
metà delle feste natalizie in lacrime, giuro :(.
Dirò
solo questo: sono amareggiata, delusa e triste. Amareggiata e delusa dal
comportamento di John che trovo assolutamente vergognoso e immeritevole di qualunque
giustificazione (Sul serio, John? Parli di giuramenti e voti a Sherlock? E di
voti matrimoniali, allora? I tuoi?). Triste per due ovvie ragioni: Mary, un
personaggio magnifico, dalle mille sfaccettature, piena di chiaroscuri e
ironia, preziosa, unica, insostituibile Mary e Molly, per quell’ultima scena
con Sherlock che mi ha spezzato il cuore e che mi ha reso ancora più rancorosa
verso John. Chiunque abbia un paio d’occhi sa cosa Molly prova per Sherlock e
che John l’abbia praticamente costretta a fare da postina per trasmettere il
suo messaggio non è soltanto crudele, ma di più.
Sono
sinceramente, profondamente addolorata e penso che mi crogiolerò in questo
bozzolo di emozioni fino alla messa in onda del secondo episodio. A questo
punto temo seriamente per l’incolumità di Molly e faccio gli scongiuri affinché
il mio peggiore incubo non si avveri.
Una
one-shot che avrebbe voluto essere catartica, ma mi ha solo fatto piangere un
po’ di più pensando ai tanti piccoli momenti che Molly trascorrerà con la
piccola Rosie, al perenne senso di disagio/inadeguatezza che proverà pensando a
Mary, all’orgoglio materno, alla straordinaria e meravigliosa persona che
contribuirà a crescere.
Un
abbraccio a tutti voi, uno in particolare a chi sta piangendo/ha pianto tutte
le sue lacrima guardando l’episodio!