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Autore: Kore Flavia    25/01/2017    0 recensioni
[Asanoya][Asahi!Centric][Summary: Asahi rovina tutto come solo lui sa fare][Established relationship][Angst. No, davvero, troppo Angst]
Sarebbe stato meglio se fosse rimasto fedele a se stesso: vigliacco. Se avesse lasciato gli occhi chiusi non avrebbe dovuto vederla. Non avrebbe dovuto sopportare quello sguardo improvvisamente incerto, improvvisamente insicuro: si rese conto che le parti erano state rovesciate. Asahi si sentiva sicuro.[...]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Asahi Azumane, Yuu Nishinoya
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note d'autrice: Il fatto che mi riveda un sacco nel personaggio di Asahi è solo un male e l'ho appurato scrivendo questa storia.
​Sulla reazione di Nishinoya ho ampiamente parlato con un amica (ovviamente tutto in caps lock sennò non rendeva bene la nostra disperazione) e siamo arrivate alla conclusione che leggerete tra poco.
​Spero di non essere andata OOC(???), ma questo spero me lo direte voi con una bella recensioncina.
​Siete fortunate/i perché doveva finire molto peggio, ma ho deciso che se fosse finita in questo modo io sarei stata la prima a rimanerci secca.
​Se la coppia non è di vostro gradimento non capisco perché avete aperto questa fanfiction e vi invito ad allontanarvi lentamente e con le mani in alto.
​Buona lettura e scusate lo schifo che ne è uscito.
​Kore Flavia


 
 
​"Pathetic"



“Se lo fai: se varchi quella porta, sarai morto per me.” La voce era dura, sicura, perentoria. Faceva spavento con quei suoi occhi dorati nella penombra, illuminati da qualche ingranaggio interno e risplendenti di quelle che gli sembrarono, ma non volle rischiare di darsi troppa importanza affermando ciò, lacrime pronte a sfuggire al controllo del ragazzo. Ed eccoli di nuovo così: e mani tremanti di rabbia e disillusione ai lati del corpo. Le suoi strette in pugni con tanta convinzione da sentire i muscoli di tutti il braccio dolergli, quelle dell’altro aperte in un vano tentativo di rilasciare la tensione.
Asahi fece di tutto per trattenere il tremolio nella voce, per tenerla ferma come aveva fatto l’altro. Per distanziarsi da se stesso, da quell’involucro troppo ingombrante e scomodo e da quella sostanza composta da codardia e ansia, ed essere più simile a lui. Perché sì, anche se in quel momento lo odiava, anche se in quel momento si tratteneva a stento dal gridargli di smetterla, perché per lui era troppo, perché era sempre tutto troppo. Anche se stava perdendo il controllo nuovamente e sempre a causa dell’altro. Anche se, dio quanto se ne vergognava, voleva metterli le mani addosso per farli male, per zittirlo. Anche se tutto di lui lo innervosiva, e, forse, anche per questo, lui voleva essere più come lui e meno come se stesso.
Ci provò, quindi, ha mantenere la voce sicura mentre diceva ciò che non avrebbe mai detto.
“Anche se fosse?” Strinse gli occhi. Non voleva vedere la sua reazione, ma, come durante un film horror, si permise di ridurli a semplici fessure da cui osservare spaventato la scena di quel film la cui pellicola sembrava sfuggirgli di mano.
Non avrebbe dovuto.
Sarebbe stato meglio se fosse rimasto fedele a se stesso: vigliacco. Se avesse lasciato gli occhi chiusi non avrebbe dovuto vederla. Non avrebbe dovuto sopportare quello sguardo improvvisamente incerto, improvvisamente insicuro: si rese conto che le parti erano state rovesciate. Asahi si sentiva sicuro. Sicuro e perfido nella soddisfazione di vedersi finalmente padrone di qualcosa. E mentre lui si sentiva incredibilmente stanco, ma sicuro nella propria rabbia, Nishinoya sembrava solo più piccolo. La sua presenza, solitamente così esasperante persino per lui, era ridotta ad una fievole domanda: “davvero?”.
Davvero tutto qui? Davvero non ti importa niente? Davvero accetti che le cose vadano così? Davvero? Davvero? Davvero?
“Benissimo. Allora esci da quella porta. Esci.” Lo prese dalla collottola con una violenza che non si sarebbe aspettato, che neanche l’ultima volta era stata tale. Ed eccoli nuovamente punto a capo: l’uno con più motivo dell’altro per essere arrabbiato. Lo spinse contro la porta con forza, fissando il proprio sguardo in quello dell’altro. Poi lo lasciò andare, abbandonandolo al solo sostegno del legno dietro di sé. Si allontanò di qualche passo, strinse i pugni mostrandoli la schiena curva e ripeté “Esci”.
 

“Hai paura. Dio, hai paura di questo.” Asahi non rispose a quella domanda. No, rispondere a quella domanda era ammettere tutto. Era ammettere tutto il “questo” che Nishinoya intendeva.
“Pensavo mi conoscessi: sapevi che sono un vigliacco.” un singulto gli era sfuggito.
“No, Asahi, sei tu a non conoscerti. Apri gli occhi.”
“Non capisco cosa tu intenda…”.
“Che aver paura di questo” e aveva indicato se stesso e aveva indicato entrambi, ma si era interrotto. Aveva inghiottito la saliva, abbassato lo sguardo. Si era spezzato, lasciando la frase senza un punto e cercandone una migliore. Una più cattiva.  “Tu sei meglio di così, eri meglio di così.”
“Pare di no. Mi dispiace deludere le tua aspettative.”
“Stai zitto-“
“Non sono forte come te, ok? Non posso farlo.”
“Stai Zitto. Zitto. Zitto.”
“Forse è meglio che me ne vada” E si era mosso verso la porta, ma non era uscito subito. Si era fermato un attimo a guardare la maniglia così che l’altro potesse interromperlo. Potesse farlo desistere in qualche modo, che fosse il suo “angelo custode” anche questa volta. Eppure quello che disse, quando parlò, lo portarono a volersene andare con ancora più forza.

E anche questa volta non uscì. Non subito, almeno. Lo fissò per qualche secondo prima di distogliere lo sguardo. Perché ora? Perché dopo quella domanda muta era ripiombato in se stesso? Si morse il labbro inferiore senza distogliere lo sguardo. Almeno questo glielo doveva: almeno di sostenere il suo sguardo prima di salutarsi.
“C’è una cosa che vorrei togliermi dal petto.” Mormorò. La camera di Nishinoya non era mai stata così inospitale. Erano successe così tante cose e lui, in poche parole e una manciata di minuti, stava impedendo che ne avvenissero altre. Non avrebbero più giocato alla play station assieme. Non avrebbero mai più tentato, in vano, di studiare qualcosa. Non avrebbero più giocato a palla, rischiando di distruggere ogni volta un oggetto nuovo. Non avrebbe più passato la crema sui suoi lividi. Non avrebbero più mangiato gelati davanti ad un film. Le pareti non avrebbero più ascoltato le loro risate, le loro battute, i loro mormorii. Asahi non avrebbe più singhiozzato davanti ad un film e Nishinoya non l’avrebbe più guardato divertito con la coda dell’occhio.
Non avrebbero più avuto “questo”.
Prese un respiro. Avrebbe distrutto tutto e sarebbe fuggito, come sempre.
“Appena arrivasti”, sospirò, “Appena arrivasti ci fissasti a tutti senza problemi prima di presentarti. Mi dicesti che devi proprio rilassarti con una naturalezza che non mi sarei aspettato da una matricola. Persino Daichi non era stato così sicuro di sé il primo giorno. Forse è già da quella frase che l’ho capito, sai?” Le labbra si lasciarono sfuggire una risata amara, ma le strinse subito come a rimangiarsela. “L’ho capito, sì, e ci ho provato, davvero, ma provare non significa riuscire, no? E, be’, io non ce l’ho fatta: mia madre, mio padre, la squadra è tutto troppo.”
“Non è questo il vero problema, però.” Lo interruppe. Asahi lo conosceva abbastanza bene da coglierne il sottile e fuggevole tremore del mento e delle sopracciglia, tanto era lo sforzo di tenerle corrugate. Abbassò nuovamente lo sguardo: era già abbastanza difficile così, senza che i suoi occhi gli scavassero dentro prepotentemente.
“No. Il problema è che non capisco.” Annuì alle proprie parole e alzò debolmente una mano per interrompere la domanda che andava formandosi sulle labbra dell’altro. “Non capisco perché me. E’ sciocco, lo so, a voce è ancora più ridicolo di quanto non lo fosse nella mia testa, ma non riesco a crederci. Non riesco a crederti, per la prima volta non ci riesco.” Si passò una mano sul volto, così infintamente stanco, ma glielo doveva. Doveva spiegarli, dovevano lasciarsi senza silenzi tra loro.
“Non hai fiducia in me.”
“Non è questo.”
“Sì, lo è. Pensavo l’avessi capito: sarò sempre alle tue spalle.”
“Lo so, dio, lo so. E’ solo che-“
“E’ solo che cosa?”
“E’ che non credo in me stesso, ok? E’ che non credo che qualcuno possa provare “questo””, deglutì e si passò una mano sul volto, “che qualcuno possa innamorarsi di me. E temo che possa essere uno sbaglio e che te ne accorgerai d’aver sbagliato. Ho paura che tu te ne vada.”
“E allora hai deciso di togliermi la libertà di scegliere per me stesso.” Sì. Sì. Sì. Non voleva dargli la possibilità d’andarsene e aveva deciso, quindi, di essere lui a farlo. Meno sofferenza aveva pensato.
Annuì debolmente. La penombra della camera non lo tranquillizzava più come un tempo, non aveva più il sapore di lenzuola e di carezze. Non aveva più il sapore di casa. “Dillo. Voglio sentirtelo dire.”
Tacque.
“Dillo o esci da quella porta.”
Un tremore delle spalle e un singulto precedettero la sua risposta.  Stava per piangere, dannazione. Stava per piangere perché era la sola cosa che sapeva fare.
“Sì.” La risposta uscì strozzata, incastrata nella gola chiusa, così da non far sfuggire quell’informazione vitale. Tossì, sperando di liberare, così, tutto il resto, ma l’esofago si strinse tanto da impedirgli di respirare. Provò a schiarirsi la voce di nuovo e di nuovo e di nuovo ancora, ma ogni volta i muscoli sembravano richiudersi ostinatamente su se stessi. Sentì il bisogno di sedersi, di sdraiarsi e chiudere gli occhi.
Aveva bisogno di morire.
Si piegò leggermente in avanti, come dopo una lunga corsa. Strizzò gli occhi e digrignò i denti, mentre il respiro sfuggiva tremulo e debole tra gli incisivi. Volle sparire in quell’istante.
“Asahi…” Nishinoya s’interruppe prima di continuare. Il tono penoso venne immediatamente rotto da schegge di vetro. “Asahi.” Il freddo della parola lo colpì particolarmente e s’infilò sotto pelle. Sapeva di non meritare un trattamento diverso: era giusto che l’odiasse e non l’avrebbe biasimato se avesse deciso d’andarsene da lui. Tutto quel casino era colpa sua  sarebbe stato giusto se fosse stato punito così.
Ma ancora una volta Noya lo contraddisse. Una mano bollente ed umida di sudore si poggiò rigida sulla sua spalla, in uno stizzito tentativo di conforto.
Asahi odiò quel contatto. Era sbagliato e forzato. Voleva fuggirlo, ma non ne ebbe la forza. Si ritrovò a soccombere sotto quelle pacche e carezze piene di rancore. Se l’avesse preso a pugni gli avrebbe fatto meno male.
“Siediti.” Gli ordinò ed Asahi ubbidì senza fiatare. Lacrime brucianti rotolarono ed andarono ad impigliarsi nel pizzetto prima di perdere anche quell’unico appiglio. Alcune scivolare per il collo e andarono a nascondersi sotto al collo della maglietta. Appena seduto l’altro fece un passo indietro fissandolo critico.
“Ti porto un bicchiere d’acqua.” E uscì dalla stanza sbattendo la porta.
Era lui a dover essere arrabbiato, ferito e a poter crollare, non certo Asahi.
Una mano andò a stringere la maglia all’altezza del cuore in un disperato tentativo di strapparsi tutti i tessuti che gli impedivano di respirare normalmente, mentre l’altra andò alla bocca per imporsi silenzio.
Ridicolo.
Il silenzio che sembrava esser calato dopo l’uscita di Noya era durato ben poco, interrotto com’era da singulti strozzati.
“Mi dispiace,” disse alla propria mano, “mi dispiace,” disse alla stanza, “mi dispiace,” disse a Nishinoya, “Mi dispiace.” Finì per dire a se stesso.
Portò anche la seconda mano sul volto a coprirsi gli occhi. Rimase così, nel tremulo silenzio che si era costretta a mantenere, in attesa di qualcosa. Cosa, in realtà, non lo sapeva neanche lui. Chissà forse uno schiaffo? O forse che li venisse rovesciata l’acqua addosso?
“Ecco.” Era tanto concentrato su se stesso –come sempre si era comportato da egocentrico- che non l’aveva sentito entrare e piazzarsi davanti a lui. Chi lo sa, forse era rimasto lì a fissarlo critico per qualche tempo, chiedendosi perché, davvero, fosse tanto ostinato ad amarlo.
Aprì gli occhi pronto a “quello sguardo”: quello di quando aveva abbandonato la squadra. Quel misto di compassione e rabbia, di malinconia e delusione. Quel misto che solo lui riusciva a creare di amore e odio ed era pronto a vederselo davanti, forse leggermente coperto dal bicchiere di vetro, ma sempre lì, visibile e spaventoso.
“Grazie.” Allungò una mano costringendosi a non alzare lo sguardo.
“Stai meglio?” Se avesse fissato il proprio sguardo in quello dell’altro molto probabilmente non si sarebbe accorto di quel cedimento nella voce. La dimostrazione che anche lui, nell’ombra, era crollato. C’era stato un tremolio, infatti, tra le due parole, sembrava essere inciampato nello spazio bianco ed essere rimasto incerto se continuare. Se rialzarsi ancora per lui.
“Io…” Si strofinò il viso prima di trangugiare l’acqua in un colpo solo. Tirò un lungo sospiro di sollievo. “Sì, sto meglio. Grazie.” E raccolse il coraggio e alzò lo sguardo sull’altro.
Aveva lo sguardo perso nel vuoto alla sua destra. Il viso astutamente rivolto da un’altra parta e le labbra sottili più strette ancora, concentrate. Il respiro era tornato normale e, con quello, anche la consapevolezza di tutto ciò che aveva detto e fatto ricadde sulle sue spalle, incurvandole.
“Noya.” Asahi sperò che non l’avesse sentito, ma dal leggero movimento spasmodico della palpebra il suo richiamo venne semplicemente ignorato.
“Ora che stai meglio vai via.” Si morse il labbro inferiore e Asahi ebbe l’imperante istinto di stringerlo a sé, di sprofondare la propria faccia nella felpa dell’altro e scusarsi, scusarsi, scusarsi. Scusarsi perché lui era quello che era. Scusarsi perché era un’idiota, un codardo. Scusarsi perché se il labbro inferiore dell’altro ora stava tremando era solo a causa sua. Scusarsi perché tutto quello che aveva detto non lo pensava anche se questo era solo una menzogna.
“Noya, mi dis-“
“Ho detto vai via. Ti prego.” Fece una pausa per ammirare il pavimento della stanza. “Penso che sia meglio per entrambi terminare questo discorso un'altra volta.” Annuì alla propria affermazione e stirò un sorriso sulle labbra per dimostrargli che non pensava sarebbe finita così, perché lui stesso l’avrebbe impedito.
Asahi non allungò una mano per confortarlo, non provò a ribattere, anzi, neanche respirò. Aveva ragione e, nel profondo, sperava che lo fosse su tutti i fronti: anche sul sorriso forzato che aveva offerto al muro opposto.
Quindi si alzò, raccolse le proprie cose e semplicemente varcò la porta. Prese solo un accorgimento: infilò nella tasca esterna dello zaino del ragazzo una nota con una semplice parola.
Grazie”.
Perché, qualunque fosse stata la conclusione di quella faccenda, Nishinoya potesse mantenere con sé il suo riconoscimento e non il suo rammarico e le sue scuse cariche di aria.
   
 
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