C’era
stata una guerra.
C’era
stata una guerra e lui aveva appena vinto l’ennesima battaglia, anche se a quel
tempo non era stato questo il giudizio che aveva espresso in merito alla
faccenda. Mentre l’adrenalina smetteva di stimolare il suo sistema nervoso
simpatico, rilasciandosi a livello sinaptico nel surrene e deviava il flusso
sanguigno verso i muscoli e – ma non era questo il punto.
Il
punto era che quando aveva pensato di aver vinto, che avrebbe vinto, era stato proprio
allora che aveva perso. E con il termine ‘perso’, lui intendeva qualcosa di più
simile per significato alla definizione di ‘ignobilmente ignorato’ e ‘sciupare’
e ‘privazione’ e ‘spreco d’intenti e desideri’.
Quando
aveva pensato che Molly Hooper fosse morta, ogni azione pregressa, ogni
pensiero, il concetto stesso di oggettività e di rappresentazione della realtà
erano stati spazzati via, diventando improvvisamente futili sotto la gittata
distruttiva di quella nozione.
La
consapevolezza che lei – sorrisi tenui, colori vivaci, occhi di liquida
devozione – non esistesse più, si fosse smarrita nel flusso delle parole non
dette, delle possibilità sfumate, aveva annientato una luce dentro di lui,
piccola eppure potente e più brillante di qualsiasi stella.
E
dalle ceneri di quella luce spenta per sempre, l’uomo che sarebbe potuto
diventare, che era stato ad un passo dal diventare, era morto insieme a lei.
Questo
fino a quando aveva scoperto che non era vero, che era stato ingannato. Spietatamente,
terribilmente, brutalmente ingannato.
Molly
Hooper era di nuovo salva, ritornata dal mondo dei morti e il contesto emotivo
precedente era stato sostituito da un risentimento deleterio, uno stato
assoluto di negatività, la morte di lei che nonostante tutto continuava a
pesargli nel cuore, il dolore acuto e persistente che si irradiava nel lato
sinistro del petto come a causa di un trauma o di un’infezione.
Molly
Hooper era salva, ma non per merito suo. Se fosse dipeso interamente da lei,
non si sarebbe salvata affatto e questo, questo
faceva quasi più male della sua morte. Nella morte, lui l’avrebbe idealizzata,
epurandola. Nella vita, invece, l’errore di calcolo di cui si era resa
colpevole diventava un’omissione gravissima, imperdonabile.
Jus post bellum, pensò e agì di
conseguenza.
*
Ralph Waldo Emerson
“Ti amo.”
Le parole scivolano fin
troppo facilmente, ma è un dettaglio trascurabile, certamente degno di nota, ma
che ora come ora non importa.
Lo ha detto. Ora lei
farà altrettanto e – Perché
non dice le parole?
Il timer continua il suo
conto alla rovescia. Ancora quindici secondi. Quattordici. Tredici. Una parte
del suo cervello registra il tempo che resta a sua disposizione mentre l’altra
è in preda all’apprensione e a un turbinio di altre emozioni, troppe per
classificarle.
“Molly? Molly, ti prego!”
La vede serrare gli
occhi come se le avesse sferrato un colpo a tradimento, rimpicciolirsi in un
sospiro che risucchia ogni colore dal suo viso contratto. La vede ed è come
vedere il suo cadavere, pallido e senza vita, steso nella bara alle sue spalle.
“Io… non posso. Mi
dispiace, ma non pos-”
La linea di
comunicazione si interrompe bruscamente. Il dolore che ne consegue è così cacofonico
e preponderante che cancella ogni traccia di rumore esterno. Il buio che lo
accoglie dietro le palpebre chiuse non è meno aberrante dello schermo spento
del televisore.
Un
mondo senza Molly Hooper.
“Il tempo è scaduto. Che
peccato. Sembrava una cosina così dolce. Oh, non fare quella faccia, Sherlock!
Contesto emotivo, ricordi? Ora, ricomponiti, la prossima non sarà altrettanto
facile –”
Combatti o fuggi.
“Non
puoi evitare di affrontarla per sempre. Credo che tu le abbia tenuto il muso a
sufficienza.” John ha parlato con calma perché una volta tanto vorrebbe cercare
di essere ragionevole.
Il
verso sprezzante che Sherlock produce - una risata di gola, roca e
dal suono amaro che rispecchia una sfera di sentimenti che sono tutto tranne
sincero divertimento – sarebbe di per sé una risposta sufficiente, tale da
persuadere la maggior parte delle persone alla resa delle armi o, quantomeno, a
convincerle a desistere dal combattere una battaglia che il tempo e le
circostanze hanno messo bene in chiaro fosse persa sin dal principio.
John
Watson, tuttavia, non è la maggior parte delle persone.
A
dimostrarlo ha una costellazione di cicatrici, alcune visibili ad occhio nudo e
altrettante che non lo sono. La sua andatura non ha più l’incedere marziale dei
bei tempi andati; il sorriso nei suoi occhi esibisce sedimenti di rimpianto
ogni qual volta si smarrisce nel vuoto, solitamente angoli ciechi delle stanze
o posti vacanti in metropolitana e in autobus o, come in questo caso, una
poltrona gialla dall’aspetto confortevole che nessuno ha mai utilizzato dal suo
acquisto vista l’esplicita, tassativa proibizione del proprietario.
Ci
sono tante cose che sette anni di amicizia con Sherlock Holmes gli hanno
insegnato (captare i segnali, individuare indizi in dettagli microscopici),
tante quante ne ha imparate nei suoi anni di vita condivisa con Mary.
La
prima lezione è forse la più importante di tutte. Tutti mentono, in ogni
occasione. Perché lo fanno? Principalmente è puro istinto di preservazione, una
forma di tutela.
Ed
ecco un’altra cosa che ha imparato: che dietro le loro motivazioni sussiste la
differenza tra le brave persone e quelle che non lo sono. Mentre le brave
persone tendono a mentire per proteggere qualcuno, quelle cattive lo fanno per
proteggere la propria immeritevole pellaccia.
Il
tornaconto, quindi, è la conclusione della prima lezione. Scopri il tornaconto di
un’azione e sarai già un passo più avanti nella ricerca del colpevole.
In
questo caso specifico, il tornaconto ha una faccia, un profumo, una voce e il
nome a cui questa faccia, profumo e voce appartengono non è Sherlock Holmes.
Oh, John pensa con
improvvisa lucidità. Si dà dell’imbecille.
Sa
il come, sa il perché e il quando eppure la verità gli è sfuggita fino a quel
momento. Poco importa l’acciglio cupo sulla sua faccia, l’aria di burrasca che
asfissia l’appartamento, la posa scolpita da statua di cera, l’assenza di
espressione nei suoi occhi distratti e distanti mille miglia. Ciò che conta è il
nervosismo delle mani che lui non riesce a tenere ferme, ma che si agitano
inquiete, ora tracciando i contorni dei braccioli della poltrona, ora eseguendo
le note di una sinfonia facinorosa sul ginocchio, ora stressando quella selva
di ricci scuri e ribelli che gli spiovono sulla fronte ampia.
Oh. Il momento di lucidità
si allarga, si espande come una bolla di irrealtà attorno a lui, riempiendo il
silenzio dell’appartamento bruciato con la tragedia delle parole non dette, con
la natura quieta e straziante
delle verità inespresse e lasciate a decomporsi in pozzi profondi.
John
lascia che la bolla lo inglobi, fino a quando il contesto emotivo diventa
eccessivo anche per lui.
Sa
perché Sherlock sta reagendo a quel modo e non può dargli completamente torto.
In
passato Sherlock ha sempre fatto affidamento su Molly, sulla sua complicità nell’ora
del bisogno e sulla sua incapacità – o piuttosto: mancanza di desiderio - di
negargli qualsiasi degli innumerevoli favori che pretendeva da lei. Anche se
negli anni la natura del loro rapporto è evoluto in qualcosa di strano e intimo
di cui lui non riesce tuttora a cogliere appieno le caratteristiche, di una
cosa può essere certo. Sherlock avrebbe potuto perdonarle tutto, qualsiasi
opposizione o presa di posizione, ma non questo. Avrebbe potuto perdonarle
qualsiasi altra cosa, ma a Sherrinford, quando lei si è rifiutata di dire le
parole, esponendosi direttamente al pericolo, quando il collegamento è stato
interrotto e tutti loro hanno creduto che l’inevitabile fosse accaduto, John ha
visto qualcosa negli occhi di Sherlock, qualcosa che ha riconosciuto per averlo
osservato per mesi allo specchio, dopo la morte di Mary.
E’ orribile, vero? La
misura in cui la odi, tanto quanto la ami.
John scrolla la testa, decidendo il da farsi.
Contrariamente a quanto sperava, nulla lo esimerà dall’usare la forza bruta se
dovesse diventare necessario.
*
“Cristo Santo!”
L’esclamazione di John
costringe Sherlock a inquadrarlo nel suo campo visivo. Così facendo, devia lo
sguardo dal fantasma che gli sta di fronte. Allucinazione, illusione ottica
oppure no, la preoccupazione che irrigidisce i suoi muscoli facciali, che le fa
contrarre le spalle e il busto è reale. Il profumo che gli sembra di captare
nella brezza notturna è una critica al suo raziocinio, la riprova dello stato
confusionale in cui si trova ed è causato da un’alterazione dell’attività
elettrica nell’encefalo che si sta diffondendo rapidamente.
Andrà sempre peggio.
Presto, lui inizierà a sentire la sua voce, il timbro tinto da un rimprovero
che è reso più dolce – e per questo motivo per lui tanto più faticoso da
gestire - dall’evidente affetto che lo
accompagna.
“Sherlock, Mycroft ha
appena mandato un messaggio. Riguarda Molly. E’ viva! Molly è viva! Sherlock?
Sherlock –”
Lipotimia, lui registra
lucidamente prima di entrare in cronostasi. Le leggi del tempo retrocedono,
insieme alla veemenza della voce di John che sta urlando a Greg di far portare
una macchina.
Il viso di Molly diventa
traslucido come una ragnatela di rugiada ed è attraversato dalla luce dei
fanali dei veicoli di trasporto della squadra mobile. Il calore della sua mano
sulla guancia è un ricordo ed è una menzogna, ma una che lui non intende
smascherare, non ancora.
“Vieni a cercarmi,
Sherlock Holmes,” lei sospira, poggiando la fronte contro la sua. Il suo sospiro
racchiude il bacio che vorrebbe dargli, le parole che ha scelto di non dirgli.
Incastra alla perfezione l’ossimoro che lei è.
*
L’obitorio
è quieto e desolatamente privo di significato senza di lei. Così quieto da
assomigliare ad uno dei suoi incubi.
Quando
sente le porte a spinta che si aprono, lui non si volta. Sa che è lei. Avrebbe
potuto identificarla dal rumore dei passi, dalla fragranza che la accompagna –
affusolata e floreale, così tipicamente Molly -, ma in ultimo è il modo in cui
la sente trattenere il fiato che gliela fa riconoscere.
Un
impulso troppo forte da vincere lo spinge a guardarla. Quello che vede non
dovrebbe procurargli alcun piacere, ma è la testimonianza del fatto che sia
viva. Perciò lui registra come un motivo di macabra soddisfazione le occhiaie
pronunciate, il pallore di chi non dorme a sufficienza, la perdita di peso che
l’abbigliamento dissimula, ma non serve ad occultare. Il tremore alle dita, che
lei si affretta a nascondere nelle tasche del camice da laboratorio, è l’ultimo
particolare, insieme alla vergogna e alla colpa che la fanno dapprima arrossire
e poi di colpo impallidire quando lei incrocia il suo sguardo.
Molly
sussulta e china il capo. Si morde il labbro e ingobbisce un po’ le spalle. Un
atteggiamento che ha il sapore nostalgico delle cose perdute nel fuoco, della
vertigine di un salto nel vuoto, di un addio che non è mai stato
conclusivo.
Sherlock
non vorrebbe, non dovrebbe lasciarsi
intenerire. Il ricordo di Sherrinford è ancora vividamente scolpito nella sua
memoria. Eppure, pensa con sentimento, lei è viva. Molly Hooper è di fronte a lui, creatura di sangue e ossa che
respira e che ad ogni battito ha un cuore funzionante che pompa ossigeno nelle
arterie. Il sollievo è stordente. La sua morte lo aveva mandato in blackout.
Vederla viva impronta il mondo di così tante sfumature di colore da accecarlo.
Il
balsamo del vederla in questo stato aggiunge sale sulla ferita aperta della sua
presunta dipartita e una nuova ondata di rabbia, rancore e disperazione lo sommerge
come un flusso di alta marea.
Combatti o fuggi, la voce di John gli
intima come un ultimatum.
Sherlock
decide di combattere.
*
Molly capisce che c’è
qualcosa che non va nel momento in cui apre la porta. Nella semioscurità del
pianerottolo, Sherlock sembra un’apparizione soprannaturale fuoriuscita da un
romanzo gotico.
E’ pallido come se
avesse visto la morte in faccia, un velo di sudore gli imperla la fronte e
trema percettibilmente come se le sue gambe non riuscissero a sostenere il tormento
dell’anima che contengono. (E indossa un camice d’ospedale, sotto il Belstaff.
Perché mai -)
“Molly,” lui mormora
trasognato e c’è rapimento nel modo in cui i suoi occhi spalancati si
soffermano sul suo viso, meraviglia sconcertata, un sentimento che non è più
mostrato in barlumi e accenni e concessioni, ma ha preso il sopravvento.
Sherlock si muove con
passo malfermo. Lei vede a rallentatore il corpo che barcolla in avanti e nello
stesso momento si sposta per accoglierlo contro il suo. Sherlock si irrigidisce
prima di rilassarsi. Le passa un braccio dietro le spalle, preme il naso contro
il suo collo mentre con l’altra mano le sfiora convulsamente il polso, cerca la
vena radiale con l'indice e il dito medio. Lui stringe e stringe come se ne andasse della
propria vita, ci fosse in gioco la sua sanità mentale.
Molly gli sussurra
all’orecchio parole rassicuranti, promesse che sta mantenendo da anni. “Non
vado da nessuna parte. Sono qui, Sherlock. Sto bene.”
Sa che c’è qualcosa che
non va. Ne ha l’assoluta sicurezza quando dalle scale compaiono John e Greg e
cominciano a sbraitare accuse e recriminazioni. Sherlock allenta la presa
attorno a lei e di colpo il suo peso diventa troppo da sostenere.
Molly si inginocchia sul
pavimento, il corpo inanimato di Sherlock che la schiaccia.
Mentre John impreca coloritamente,
Greg la aiuta ad alzarsi e con toni bassi, sommessamente, le racconta la storia
di come (non) è morta.
*
“Sei
morta quel giorno.”
Molly
sussulta. Non importa quanto spesso glielo ripetano, ogni volta è come la
prima. Quel dolore – il dolore che gli ha causato – non affievolisce.
“Lo
so,” lei sospira. “Greg è stato abbastanza esaustivo quando mi ha raccontato
tutto. Mi dispiace, ma non potevo sapere che –”
“Avresti
dovuto saperlo,” lui la interrompe con cattiveria. I suoi occhi lampeggiano per
la rabbia, accusatori. “Avresti dovuto capire che non ti avrei mai fatto
deliberatamente del male se non sotto tortura o perché non avevo altra scelta.”
“Oh,
davvero?” Ha voglia di schiaffeggiarlo per riportare un minimo di buonsenso in
quella sua testaccia dura. Molly asseconderebbe più che volentieri l’istinto, se
non fosse per la scintilla di tradimento e terrore che lui conserva ancora
negli occhi ogni volta che la guarda. Quella scintilla le fa prudere le mani
per tutta un’altra serie di ragioni e desideri. Consolare, non punire. Toccare, non ferire.
Molly
incrocia le braccia sul petto e solleva il mento con aria di sfida. In realtà
si sente stanca e svuotata, ma non può darlo a vedere, non a lui. “Che cosa, in
nome del cielo, avrebbe dovuto indurmi a credere una cosa del genere? E’ già
successo in passato. E’ vero, te lo concedo, non lo fai di proposito, ma tu mi
ferisci continuamente. Un tempo lo facevi con i tuoi commenti saccenti, poi lo
hai fatto con la tua morte, dopo con le droghe. Ti ho sempre supportato, ho
fatto tutto ciò che era in mio potere per assisterti, per dimostrarti che ero
un valido alleato, perciò perdonami, ti prego, se per una volta ho cercato di
proteggere me, ho dato la precedenza ai miei sentimenti piuttosto che ai tuoi.”
“La
situazione era drastica e come tale esigeva parificabili misure cautelari.”
“Non
potevo saperlo!”
“Sì
che potevi!” lui ringhia e ogni traccia di compostezza scompare, brani di carne
dilaniati dalla bestia che si è liberata dalla gabbia. “Potevi, dannazione, ma
hai preferito concentrarti sull’ingiustizia del sopruso che ti stavo facendo,
mentre reclamavo l’ennesima richiesta impossibile! Sai chi sono, lo hai sempre
saputo. Un bastardo. Manipolatore, arrogante, senza cuore, glaciale,
indisponente. Eppure amavi quell’uomo.”
Lo amo ancora oggi. Molly serra gli occhi a
quel pensiero. “Mi dispiace, ma non posso affrontare questa conversazione
adesso.” Non è pronta, forse non lo sarà mai. “Devi andartene.”
Quando
gli passa accanto e lo supera, non è sorpresa dal fatto che lui la segua. Lo è
quando la mano di lui si serra con forza attorno alla sua spalla e la costringe
a voltarsi.
“Non
afferri il punto! Non importa che non fosse vero. Io ho creduto che tu lo
fossi.” L’angoscia nella sua voce febbrile è uno schiaffo in faccia, così come
lo sono le sue pupille dilatate, la smorfia di sofferenza che gli storce la bocca. “La
perdita di coscienza e di tutte le funzioni neurologiche, arresto della
circolazione e della respirazione. Disidratazione. Raffreddamento. Livor
mortis. Rigor mortis. Acidificazione dei tessuti. Morta, Molly.” C’è durezza e
severità laddove fino a un attimo prima c’era irritazione e risentimento,
mentre le delinea implacabilmente le modificazioni a cui un corpo va incontro
dopo il decesso. “Come la ragazza nella cella frigorifera numero 4. Come l’uomo
nella 11. Il bambino nella 6. Il vecchio nella –”
“So
quali sono i miei pazienti, Sherlock!” Si libera con uno strattone dalla sua
presa, furente. “E conosco altrettanto bene i fenomeni cadaverici, grazie!”
“Eri
morta, saresti potuta esserlo." Lui stringe i denti, non dando segno di
vaerla sentita. "Solo perché non hai voluto dire che mi amavi,
perché sei stata così crudele da –”
“Crudele?” Molly fa un passo indietro. Da
qualche parte dentro di lei sente il contraccolpo di quell’ennesimo torto, quell'accusa infamante, ma si riserva il
diritto di non piangere. Deglutisce e lo vede fare altrettanto. Per una volta, lui sembra
disgustato dalle sue stesse parole. “Se davvero pensi questo di me, voglio che
tu te ne vada adesso e che non torni mai più. Posso essere stata egoista, ma
crudele? Non sono io quella crudele qui, mi hai sentito? Non sono io.”
“Perché?”
lui sussurra. “Devo saperlo. Perché non potevi semplicemente dirlo? Perché hai
preteso che io lo dicessi?”
“Ho
sbagliato,” lei sussurra a sua volta e gli occhi le si inumidiscono senza che
possa fare nulla per evitarlo. “Pensavo che – speravo che sarebbe stato più
semplice dirlo se tu lo avessi fatto per primo, ma non è stato così, lo ha reso
soltanto più difficile. Come avrei potuto dirti che ti amavo? Ti avevo appena costretto
a mentire, a fingere di provare qualcosa che non era vero.” Sbatte le palpebre
per disperdere le lacrime e sfrega con fastidio la traiettoria incandescente
che le solca la guancia. “Come potevo dire di amarti dopo aver fatto una cosa
del genere? Che tipo di amore è uno che ferisce e distrugge e –”
“E
uno che uccide?” lui la interrompe. “Che tipo di amore è, uno così?”
Le
lacrime le annebbiano la vista, ma non le impediscono di vedere, osservare.
“Sherlock,” dice con voce strozzata dall’emozione e si porta una mano alla gola
per soffocare un singhiozzo.
“Io
ti avrei uccisa.” La prospettiva gli fa serrare gli occhi e la sua espressione
è una di pura agonia, una che lei vorrebbe cancellare con carezze e baci. “Il
nostro legame, i miei sentimenti per te lo avrebbero fatto. Quel giorno, se tu
fossi morta, sarebbe stata colpa mia.”
“Dillo
ancora una volta.”
Lui
annuisce con aria colpevole, prendendolo come un ordine. “E’ stata colpa mia,”
ripete inespressivo.
“No,
non quella parte.” Lei scuote la testa. “Quella precedente, sui tuoi sentimenti.
Tu provi dei sentimenti? Per me?”
“Non
essere sciocca. Non è ovvio?” Lui aggrotta le sopracciglia, l’idea che lei non
lo abbia compreso fino a quel momento lo lascia di stucco, gli sembra ridicola. “Perché credi che –”
Molly
si alza sulle punte e lo abbraccia, non dandogli il tempo di finire.
Lui si irrigidisce come la notte in cui è andato a trovarla, fuggendo
dall’ospedale, la notte in cui doveva accertarsi che fosse davvero viva,
indipendentemente da quanto gli era stato riportato da terzi. E proprio come quella notte,
lui rilassa nel suo abbraccio l’istante successivo e lo contraccambia con
uguale vigore. Le sue braccia non tremano come allora per la spossatezza fisica
e mentale e se si chiudono attorno alla sua vita con più forza del necessario, Molly non
glielo fa notare. Ci sono nuovi incubi a disturbare le sue notti, ora lo sa.
Una nuova pena, di tipo diverso.
“Non
posso dirtelo di nuovo. Quello che è successo a Sherrinford mi ha segnato.”
Sherlock si scosta quel tanto che basta per osservarla negli occhi. “Non sono
più lo stesso uomo. Potrei non dirtelo mai più. Credi di poterlo accettare?”
Potrei non dirtelo mai
più. Le
parole affondano dentro di lei e fanno male, mentirebbe se dicesse il
contrario.
“Finché
potrò sentirlo, non servirà che tu lo esprima a parole,” lo rassicura e gli
passa le dita tra i capelli. Per quello, decide, basterà lei. “Ti amo,
Sherlock.”
Lui
prende l’altra mano, quella che lei aveva poggiato inconsciamente sul suo
cuore, se la porta alle labbra e bacia con devozione le nocche.
Il
suo sorriso è privo di spigoli, la sua voce è senza ombre. Il suo sguardo è una
dichiarazione sufficiente di tutto ciò che le serve sapere. “Lo so,” lui dice e
si china a baciarla.
N/A:
L’ho
finita perché avevo promesso che l’avrei finita quanto prima e perché so che se
non porto a compimento qualcosa subito, poi l’idea comincia a trasformarsi in
pietra e la seppellisco nel cimitero delle cose abbandonate. L’ho finita ed è
stato un parto. Non scrivevo qualcosa di così complicato (non a livello
narrativo o strutturale, mi riferisco piuttosto di complicato a livello
emotivo, come registro e gestione dei personaggi) forse dai tempi di Le
clausole di una scelta o anche La misura del sentire. Insomma è andata e non
posso che esserne contenta xD
Il
risultato mi lascia insoddisfatta in quella maniera che, a volte, mi
spronerebbe a cancellare e riscrivere tutto daccapo, assecondando la vocina
nella mia testa, ma questa volta la vocina può andare a farsi benedire.
Purtroppo non ho il tempo né la pazienza né la pertinacia, al momento e la mia
pignoleria va a scontrarsi contro il muro della realtà. [Ora ho solo voglia di
raggomitolarmi sul divano con una tazza di tè, un bel libro e un po’ di musica
in sottofondo. Oppure vedere un film, più tardi, con una porzione di patatine e
mezzo bicchiere di vino rosso. Non so, devo ancora decidere.]
Passando
alle cose serie. Nella storia, faccio riferimento al fatto che l’amicizia tra
John e Sherlock duri ormai da sette anni. Dovrebbe essere corretto, se i conti
che ho fatto corrispondono: le serie sono quattro, perciò quattro anni, ma tra
la seconda e la terza trascorrono due anni perciò sommiamo altri due anni ai
quattro precedenti e nel corso della terza, tra il primo e il secondo episodio,
passa un altro anno perciò in totale: sette.