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Autore: Larrystattoos    09/02/2017    0 recensioni
Sherlock è morto e John non riesce ad andare avanti senza di lui.
Mary lo vede seduto su una panchina e si ferma a parlare con lui.
(Post Reichenbach, Johnlock)
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Hello everyone!
So che da poco è finita la quarta sagione ed io mi presento con una post Reichenbach, ma che devo farci hahah ho iniziato a scriverla circa sei mesi fa, senza mai trovare il tempo di finirla e il coraggio di postarla.
Dopo ciò che è successo nella 4x01 ho modificato leggermente qualcosa (capirete leggendo) ma di fondo è pronta da circa due mesi.
Ci tenevo a ringraziare Rossella che ha letto in anteprima e mi ha sopportata pazientemente, senza di lei probabilmente non avrei mai postato. 
Passando alla storia, è ispirata al libro "Le notti bianche" di Dostoevskij, che ho amato.
Credo di aver detto tutto quello che c'è da dire, perciò vi lascio alla lettura. Spero che a voi piaccia almeno la metà di quanto a me è piaciuto scriverla.. :)


 

Era una serata incredibilmente calda a Londra. Mary camminava spedita verso casa, immersa nei suoi pensieri. Stava attraversando il parco di fronte il Bart’s quando la sua attenzione venne catturata da un uomo seduto su una panchina, lo sguardo rivolto all’ospedale, il cui volto era solcato da lacrime silenziose di cui lui sembrava non accorgersi.
Dimenticata la fretta di poco prima, Mary si fermò, indecisa sul da farsi. Sentiva il bisogno di avvicinare quell’uomo e magari cercare di farlo sentire meglio –deformazione professionale, si disse-, ma allo stesso tempo non voleva imporgli la sua presenza. Era pur sempre una sconosciuta, nonostante avesse buone intenzioni.
Si avvicinò lentamente, cercando di capire cosa fosse meglio fare. La decisione, per sua fortuna, venne quasi da sé. Era ad una decina di passi dall’uomo, quando un’altra figura emerse dall’oscurità e si avvicinò allo sconosciuto, sedendosi sulla sua panchina. Mary, quasi inconsciamente, si fermò. Sentiva distintamente le voci dei due uomini.
-Sapevo di trovarti qui- disse quello appena arrivato. L’altro non diede segno di averlo sentito.
Si udì un sospiro. –Non è colpa tua, John.-
Mary sorrise leggermente. Così, lo sconosciuto che piangeva si chiamava John.
Finalmente l’uomo– John, si appuntò mentalmente Mary, parlò. -Va’ via, Greg.-
-Devi reagire, John, non puoi continuare così. Lui… lui non lo vorrebbe- continuò imperterrito l’altro.
John scattò. –Non possiamo sapere cosa vorrebbe o non vorrebbe che io facessi, come ben sai- sbottò acidamente, alzandosi. L’uomo chiamato Greg fece lo stesso. Mary lo vide alzare le mani. –È solo che mi fa male vederti così. E sapere che è anche un po’ colpa mia mi fa stare ancora peggio.-
John sembrò traballare leggermente. Si sedette di nuovo, sotto lo sguardo indagatore di quello che era chiaramente un suo amico, e ribatté quasi stancamente, come se avessero avuto quella conversazione innumerevoli volte.
-Greg, non voglio parlarne. Ti prego, lasciami in pace.-
 L’altro, dopo una lunga occhiata, lo assecondò. –Come vuoi. Se avessi voglia di parlare, chiamami. A qualunque ora.-
John però si era chiuso di nuovo in un ostinato silenzio e non replicò. Per un attimo Greg sembrò esitare, ma poi iniziò ad allontanarsi. Nel momento in cui imboccò l’uscita, John appoggiò la schiena alla panchina, portandosi le mani al volto. A Quel punto, Mary si avvicinò cautamente. –Va tutto bene?- chiese a voce bassa. Era una domanda stupida e ne era consapevole, ma non voleva sembrare più invadente di quanto già non fosse.
L’uomo, notò Mary, aveva dei capelli che, sotto la luce dei lampioni, sembravano quasi dorati. Nel sentire quella domanda, John incrociò il suo sguardo. I suoi occhi erano di un colore indefinibile eppure, anche venati di rosso, li trovò bellissimi.
Guardandola, John sorrise leggermente, di un sorriso triste ma gentile. Mary ne rimase colpita. –Grazie, è tutto okay- le rispose.
-Sa che parlare con degli sconosciuti aiuta? Vi sono più probabilità di avere un consiglio obbiettivo e si ha meno paura del loro giudizio rispetto a quello degli amici- azzardò, rispondendo al suo sorriso con uno di quelli più rassicuranti che riuscì a fare.
-È una psicologa?-
-Sono un’infermiera, ma sono una buona ascoltatrice. E la prego, mi dia del tu, non sono così vecchia!-
Il sorriso di John si fece più rilassato. –D’accordo, anche tu allora.- Mary annuì.
Con un cenno, John la invitò a sedersi accanto a lui.
 –Mi chiamo John- disse, porgendole la mano. Mary la strinse, presentandosi a sua volta.
Vi fu un istante di silenzio, in cui entrambi si lasciarono trascinare dai loro pensieri.
Mary iniziò a rimpiangere di essersi avvicinata. Insomma, cosa poteva dire ad una persona che quasi sicuramente aveva perso qualcuno senza sfociare nel banale? John era un uomo gentile, l’aveva capito subito, ma chiaramente non desiderava la sua compagnia.
Stava per inventare una scusa e andare via da lì quando, inaspettatamente, fu proprio l’uomo a rompere il silenzio. –È lì che ci siamo conosciuti, ed è lì che è finita. Amo quel posto perché me l’ha fatto conoscere ma lo odio perché me l’ha anche portato via. Da allora, non sono più riuscito ad entrarci.- rise amaramente. -Un medico che non riesce a varcare la porta di un ospedale. Bella questa.-
Mary non rispose, consapevole che John, in quel momento, stesse parlando più a se stesso che a lei.
Il silenzio scese di nuovo su di loro, ognuno distratto da pensieri rimasti sepolti per un lungo periodo.
-Sai, anche io ho perso qualcuno di caro.- esordì la donna con un sussurro, incapace di trattenersi. Conosceva John da quanto, un’ora? e già sentiva di potersi fidare, al punto da confessargli anche quel grande segreto di cui nessuno era al corrente.
John si girò a guardarla. Mary lesse chiaramente una muta richiesta di aiuto nei suoi occhi. –Come l’hai superata?-
-Non l’ho fatto. Ogni giorno c’è… qualcosa… piccole cose, anche quotidiane, come un avvenimento, un oggetto, una persona… che mi fa venire in mente quando facevo quelle cose con loro, o che in ogni caso me li ricordano.- Parlare di loro e soprattutto farlo con uno sconosciuto la turbava, ma allo stesso tempo confidarsi con John le procurava un certo sollievo.
Lo sguardo di John esprimeva comprensione. Gliene fu grata: non voleva compassione, non da lui.
-Chi era? Voglio dire… chi hai perso?-
La donna ci pensò a lungo prima di rispondere. –Colleghi. Amici. Loro tre erano la mia famiglia, la mia vera famiglia.-
John annuì e Mary ebbe l’impressione che avesse compreso perfettamente. Distolse poi lo sguardo per riportarlo sull’edificio di fronte a loro, di nuovo pensieroso. Mary se ne accorse e poggiò la mano sulla sua coscia, carezzandola leggermente.
-Sono passati quasi due anni da quando il mio ragazzo è morto- confessò allora John. –Due anni che lui non c’è e ancora non sono in grado di gestire la sua assenza- mormorò con voce rotta.
Mary stinse la presa sulla sua gamba. –Non devi dirmi nulla se non vuoi.-
-Forse però…- il mormorio di John si interruppe bruscamente quando una lunga macchina nera si fermò davanti il Bart’s. L’uomo trattenne il fiato, il volto tirato, la mascella serrata. Mary si accorse della sua tensione ma non riuscì a comprenderne il motivo. Immaginava solo fosse a causa della macchina, ma non riusciva a vedervi un nesso. Cercò tuttavia di calmarlo, sviando l’attenzione  dalla limousine. –Va tutto bene?-
John si riscosse. –Sì, io… Scusa, devo andare.-
Mary non capiva il motivo di tanta preoccupazione, ma non replicò. -Va bene.-
L’uomo sembrò tentennare prima di voltarsi verso di lei. -Domani sera… sarò di nuovo qui, se vorrai.-
La sorpresa le si leggeva sul volto. –Okay- disse, accennando un sorriso. –A domani allora, John. Buonanotte.-
-Buonanotte.- L’uomo si alzò. In piedi non era così alto come sembrava –la postura rigida, forse, contribuiva a farlo sembrare tale- e recuperò da vicino il bracciolo della panchina un bastone, che Mary non aveva notato in precedenza. Con quello, John si allontanò, zoppicando vistosamente.
 
John era ormai davanti casa e non aveva avvistato la nota macchina nera neanche una volta. Sollevato e anche un po’ sorpreso dalla facilità con cui Mycroft l’aveva lasciato in pace, frugò nelle tasche in cerca delle chiavi. Non trovandole, si rassegnò al pensiero di averle dimenticate ancora una volta e si accinse a suonare il campanello quando una voce fin troppo familiare lo fermò.
-Dottor Watson.-
John alzò gli occhi al cielo. –Credevo di essere stato chiaro andandomene, signor Holmes- scandì con disprezzo.
Mycroft non diede segni di turbamento. –Ci sono alcune questioni che necessitano di essere chiarite, prima di incorrere in alcuni… inconvenienti.-
-Senti, qualunque cosa sia, non mi interessa.- lo interruppe, passando inconsciamente al tu.
Ansioso di allontanarsi da colui che, insieme a se stesso, reputava maggiormente responsabile della morte di Sherlock, frugò di nuovo nelle tasche alla ricerca delle chiavi.
-Oh, non le troverà, dottor Watson. Ha dimenticato di prenderle dopo aver messo in fretta la giacca. Ora, se gentilmente vuole seguirmi, ci sono delle cose che deve sapere. Non mi costringa ad usare la forza.-
-Per l’ultima volta, Mycroft: non mi interessa ciò che hai da dire.- sibilò John al suo indirizzo.
-John. Sono sicuro che vorrai saperlo.- Mycroft sembrava davvero sicuro di ciò che stava dicendo e John, per un istante, fu tentato di seguirlo. Ma il volto di Sherlock si sovrappose a quel pensieri, come un monito a non fidarsi di lui. Perciò, dopo aver suonato il campanello, si voltò verso di lui.
-Lasciami in pace.- si limitò a dire, prima di entrare.
Mycroft lo guardò sparire oltre l’uscio e, non appena fu solo davanti il 221B, sospirò pesantemente. Aveva evitato di spiegargli la situazione quando era così contrariato, sapeva che non l’avrebbe ascoltato o avrebbe dato di matto, così come era consapevole che l’unica persona da cui avrebbe potuto sentire la verità credendoci per davvero, fosse suo fratello. Scosse la testa, allontanandosi. Non sarebbe stato facile per Sherlock.
 
 
Erano le otto di sera quando Mary uscì di casa diretta al parco. Si era chiesta fino all’ultimo se incontrare una persona praticamente sconosciuta fosse la scelta giusta, ma la curiosità ed una strana attrazione per quell’uomo triste avevano deciso per lei.
Trovò John seduto alla stessa panchina della sera prima. Notò subito le occhiaie più accentuate e le mani che stringevano convulsamente il bastone. Si avvicinò lentamente e si sedette senza dire una parola. John la guardò accennando un sorriso triste. –Ciao, Mary.-
-John. Come stai?-
Gli occhi di John si oscurarono. –Starei bene se lui… se Sherlock…- provò a dire, ma alla fine sospirò scuotendo la testa.
Mary lo guardò turbata. –Com’è successo?-
La voce di John fu un sussurro. –Suicidio.-
Mary rimase pietrificata. Si era aspettata di tutto, essendo quell’uomo morto in ospedale –un tumore, una malattia incurabile, un incidente- ma non quello. Ora capiva meglio perché John non riuscisse a capacitarsene. –Mi dispiace, John- fu l’unica cosa sensata che sentì di dirgli.
John annuì distrattamente, di nuovo con la mente altrove.
–Sai, non faceva che ripetere di essere sociopatico- le labbra di John si piegarono leggermente in un sorriso triste, come se stesse ricordando un aneddoto divertente -e di non avere un cuore, ma in verità sapevamo tutti che non era così.-
John prese un respiro profondo, cercando di calmarsi. Mary vedeva le sue mani tremare, ancora strette intorno al bastone. –Sherlock diceva che ero la sua unica eccezione, ma io non ci ho mai creduto. Teneva anche a Mycroft, a Mrs Hudson, a Molly, a Lestrade, anche se non l’avrebbe mai ammesso.-
Mary sorrise leggermente. Non faceva fatica ad immaginare quell’uomo, una persona criptica, schiva, probabilmente controversa. E dalle parole di John traspariva anche tutto l’amore per lui.
–Era l’uomo migliore e più saggio che abbia mai conosciuto. Aveva una grande mente e un cuore ancora più grande. Tuttavia, il più delle volte era un grande stronzo.-
-Mi sarebbe piaciuto conoscerlo.-
John rise piano e rilassò impercettibilmente le spalle.  -Gli saresti piaciuta, ne sono sicuro. Anche se non l’avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura.-
 
Da qualche parte, un orologio annunciò la mezzanotte. Il sorriso svanì repentinamente dalla faccia di John che tornò a rivolgere tutta la sua attenzione al tetto del Bart’s. Mary distolse lo sguardo quando vide gli occhi di John inumidirsi. –Forse è meglio che vada- mormorò, alzandosi.
Inaspettatamente, una mano dell’uomo strinse la presa sul suo polso. –Resta, per favore.-
Negli occhi di John vi era una richiesta di sostegno così intensa che Mary non esitò a risedersi accanto a lui e stringerlo in un abbraccio, mentre l’uomo singhiozzava piano sulla sua spalla. Durò solo un paio di minuti, prima che John si allontanasse asciugandosi velocemente gli occhi. –Scusami.-
-Ma figurati- Mary sorrise rassicurante prima di tornare seria. –Che ne dici di parlarmi di voi? Ti aiuterebbe a stare meglio.-
John si irrigidì, facendosi improvvisamente circospetto. -Perché insisti affinché ti parli di Sherlock?-
Mary lo guardò sorpresa. –John, che ti prende?-
-Chi sei tu? Perché ti importa così tanto di Sherlock? Lavoravi per Moriarty?- l’uomo stava ormai gridando, in piedi di fronte a lei.
–Moriarty? Chi... John, ti giuro su quanto ho di più caro al mondo che non sapevo nemmeno dell’esistenza di Sherlock prima che me ne parlassi tu. Anche adesso, per me è solo un nome. Credimi.- Mary era sconvolta dall'improvviso cambiamento avvenuto in John e non sapeva cosa fare per dimostrargli che diceva la verità.
John la guardò a lungo, ancora furente, e la donna si sentì messa a nudo come mai prima di allora sotto al suo sguardo. Dopo qualche istante, l’uomo sospirò e tornò a sedersi. –Scusami. È che… con Sherlock non sapevi mai che razza di gente avessimo di fronte. Immagino sia rimasta quella diffidenza…- le scuse di John vennero interrotte dalla donna. –Va tutto bene. Non devi scusarti di nulla.-
John annuì, guardandola negli occhi.
Rimasero in silenzio per alcuni minuti, prima che John iniziasse a parlare. –Ero appena tornato dalla guerra in Afghanistan, quando lo conobbi. Ero un medico militare, congedato perché ferito. Ero depresso e con una zoppia psicosomatica ed in cerca di un alloggio economico. Mi venne presentato lui come possibile coinquilino. Gli bastò un’occhiata per capire tutto della mia vita.- sorrise, scuotendo la testa. –Era geniale. Semplicemente geniale. Sapeva dedurre gli aspetti più nascosti della tua vita solo da uno sguardo, vedeva cose che nessun altro a parte lui sarebbe in grado di individuare. Abbiamo collaborato con la polizia per anni grazie a queste sue capacità. Il giorno che lo conobbi, mi portò con sé sulla scena di un omicidio. Mi disse di essere un Consulente Investigativo. “L’unico al mondo”- gli fece il verso. Mary lo ascoltava rapita. John dava l’impressione di parlare più a se stesso che a lei, non la guardava e non si accertava stesse seguendo il suo discorso.
-Mi sono bastate poche ore con lui per sentirmi di nuovo vivo e per far sparire del tutto la mia zoppia. Da quel giorno l’ho seguito ovunque nei suoi casi, e ogni giorno che passava mi rendevo conto di quanto straordinario fosse e mi chiedevo come facesse la gente a non capirlo.-
John prese un respiro profondo. –Mi ripeteva spesso che io guardo, ma non osservo. Forse ha ragione, ma non su tutta la linea. Perché, dal primo giorno, non ho fatto altro che osservarlo, al punto da arrivare a capirlo soltanto guardandolo con la coda dell’occhio. E probabilmente è per questo che lo amo. Forse la gente lo guardava soltanto, e vedeva solo la sua facciata da bastardo senza cuore che si divertiva a risolvere omicidi e non era capace di provare emozioni. Ma, se lo avessero visto come l’ho visto io, se avessero prestato attenzione, avrebbero capito tutti che non è mai stato una macchina  e che, in fondo, è- era- la persona migliore che avessero mai avuto il privilegio di conoscere.-
Più John parlava, più Mary restava senza parole. Aveva ormai capito che Sherlock, per lui, era molto più importante di quanto chiunque avesse mai potuto immaginare. Il ritorno della zoppia ne era la prova palese.
-Da allora gestisco un blog in cui scrivevo delle nostre pazze e francamente ridicole avventure. Tutti i nostri casi, quelli risolti e non, quelli piacevoli e quelli raccapriccianti. Avrei voluto raccontare anche la nostra storia, ma lui non me l’ha permesso, sostenendo che sarei stato ancora più in pericolo se si fosse saputo che stavano insieme in quel senso. L’unico caso che non ho scritto è stato l’ultimo. Non ho mai avuto il coraggio di rivivere quei giorni.-
-È durante un caso che si è…?- sussurrò Mary. Parlava piano per non rompere quell’atmosfera di calma, quasi di attesa, che li circondava.
John annuì. –Non so perché, non sono mai riuscito a spiegarmelo. Io… non capisco perché mi ha fatto assistere, perché mi ha chiamato. Sento che mi sfugge qualcosa, ma io non sono lui, non posso capirlo senza il suo aiuto!-
-Probabilmente voleva soltanto sentirti.-
-No, non credo. Lui non lascia mai nulla al caso. Cercava di dirmi qualcosa, ne sono sicuro.-
-Potrebbe essere stato il suo modo di dirti che ti amava. Da quello che mi hai detto, immagino non sia un tipo che esterna spesso i propri sentimenti.-
-Sì, forse…- John era ancora dubbioso, ma aveva evitato di replicare.
Mary se n’era accorta e, per non metterlo in difficoltà, aveva deviato il discorso. –Mi piacerebbe leggere quelle storie, quelle non pubblicate sul tuo blog. La vostra storia…-
John sorrise leggermente. –Magari, un giorno.-
-Sarebbe magnifico.- assentì Mary. Vedendo John a disagio, aveva di nuovo spostato la conversazione in argomenti “neutri”. –Quindi, avete iniziato a vivere insieme?-
L’uomo si rilassò leggermente. -Già. Era un coinquilino terribile, lo ammetto. Non faceva mai la spesa, faceva esperimenti con parti umane che teneva in ogni angolo della cucina, suonava il violino ad orari improponibili e, quando era annoiato, sparava contro il muro. Odiavo tutto quello, ma da quando non c’è più mi manca ogni singola cosa. Strano come ci si accorga di quanto siano preziose quelle piccole cose che prima si odiavano se poi non si potranno più avere.-
Mary mosse la testa in segno di assenso. Capiva benissimo ciò che John stava dicendo. –Non era esattamente il tipo di persona che si faceva amare, immagino.-
-No, direi di no.- John sorrise lievemente. –Appena l’ho conosciuto, mi hanno consigliato tutti di stargli lontano, di non affezionarmi a lui, ma io non ho dato loro ascolto. E ho avuto ragione.-
La donna si limitò ad annuire, non sapendo che dire. L’amore che John nutriva per quell’uomo era così totalizzante che riusciva a sentire il suo dolore solamente standogli vicino e, per la prima volta nella sua vita, non aveva parole di conforto sufficientemente significative. Così, decise che farlo sfogare sarebbe stata la cosa migliore.
-Come avete scoperto di amarvi?-
Il respiro di John si interruppe bruscamente per un secondo, accompagnato da un movimento impercettibile della mano. Mary temette di aver sbagliato. –Scusa, non volevo essere invadente. Ho solo pensato che ti avrebbe fatto bene parlarne.- disse piano.
-No, va… bene.- la rassicurò John, a mezza voce. –Dammi solo un attimo.-
Mary attese. Passò qualche minuto prima che John cominciasse.
-Eravamo appena usciti da un caso in cui un pazzo furioso ha cercato di farci saltare in aria in una piscina- esordì, con voce tremante. –Eravamo ancora lì quando quello ci ha lasciati a causa di una chiamata. Ricordo che ero seduto a terra, incapace di muovermi, e lui mi ha tirato su, esortandomi ad andarcene velocemente. Tuttavia, le mie gambe tremavano così tanto che mi sono appoggiato a lui con tutto il mio peso. E Sherlock mi ha tenuto stretto, rassicurandomi e continuando a ripetere che era tutto finito. Non l’ho realizzato subito, ma appena mi ha lasciato andare mi sono reso conto che stare tra le sue braccia era… giusto, in qualche modo. E che non avrei voluto staccarmi così presto da lui. Così l’ho tirato di nuovo verso di me. Sapevo che non era un tipo avvezzo al contatto fisico, però con me si è lasciato andare. Forse perché avevamo appena rischiato di morire, forse perché aveva capito i suoi sentimenti prima di me –anzi, sicuramente per quello- ma non mi ha respinto. Mi sentivo… sopraffatto, da tutto quello: e non mi riferisco solo alla morte scampata, ma anche a tutto quello che Sherlock mi stava facendo provare. Gli tremavo tra le braccia e lui, pensando fosse soltanto per paura, -come ho detto, non è bravo a capire i sentimenti, eppure, come ho scoperto più tardi, era stato in grado di decifrare i suoi con una precisione maniacale- mi ha preso il viso con le mani e mi ha ripetuto guardandomi negli occhi di non avere più paura, perché era tutto finito, che lui era con me e non mi avrebbe lasciato solo lì dentro. Poi mi ha baciato sulle labbra. Uno di quelli a stampo, che si danno i bambini. E lì non ho capito più niente. L’ho baciato a mia volta ma in modo più violento, e ho continuato a farlo finché la polizia non ci ha trovati. Siamo usciti mano nella mano, come se fosse la cosa più naturale del mondo. E lo era, Dio se lo era. Non ne abbiamo mai discusso davvero, ne abbiamo parlato solo una volta e solo per pochi minuti. Da allora abbiamo continuato a vivere normalmente. Solo con qualche bacio in più e la camera condivisa.-
John aveva parlato quasi senza respirare per l’intera durata del racconto e Mary l’aveva ascoltato rapita. Ogni sillaba pronunciata da John era pregna di amore per quell’uomo e riusciva a percepirlo benissimo.
In quel momento più di prima si trovava a corto di parole, perché, insomma, cosa poteva dire a chi ha evidentemente perso la sua anima gemella? Passerà? Non ne era sicura. Così, ancora una volta, si limitò ai gesti. Gli prese una mano e la strinse, in una muta promessa di supporto. John sembrò capire, perché ricambiò senza dire nulla. Incredibilmente, John continuò il suo racconto, incapace di fermarsi.
-Litigavamo spesso, ma con Sherlock era impossibile non farlo. Quella volta, però, è stato diverso. Non avrei mai dovuto dubitare di lui, mai, eppure l’ho fatto. Per un secondo, ma l’ho fatto. E lui se n’è accorto. Dovevo capirlo che c’era Moriarty dietro tutto quello, dovevo aspettarmelo, e allora perché mi sono lasciato ingannare?- John si voltò verso di lei con le lacrime agli occhi. Mary non aveva una risposta e John ne era consapevole, per cui tornò a rivolgere la sua attenzione all’ospedale. –Non ha risolto quel caso, poiché da quel che sembrava i bambini rapiti pensavano ci fosse Sherlock dietro tutto questo. L’ultima volta che ho parlato faccia a faccia con lui gli ho dato del robot… non posso pensare che sia morto credendo che io pensavo questo di lui. Avrei dovuto baciarlo, rassicurarlo, promettergli che l’avremmo risolto insieme come ogni volta, solo io e lui contro il resto del mondo, eppure non ho fatto nulla di ciò e l’ho lasciato libero di salire su quel tetto e buttarsi.-
Le lacrime ormai scorrevano senza sosta sul viso di John, che se le asciugò stizzito con l’orlo della giacca. Anche Mary aveva gli occhi lucidi e il cuore pesante. Eppure, una cosa doveva dirgliela. –Non è stata colpa tua, John.-
L’uomo scosse la testa. –Lo è. Avrei dovuto prevederlo. È una testa calda, sapevo che poteva fare qualche cazzata e infatti…-
-Non potevi immaginare che avrebbe fatto una cosa del genere.-
-No, ma avrei dovuto. È Sherlock. Era.- si corresse velocemente, con un grosso sospiro. –Mi ha chiamato, dal tetto. E non sono riuscito a fargli cambiare idea. Non gli ho nemmeno detto che lo amo…- a quel punto, John sciolse la presa dalle loro mani per nascondere il viso tra di esse.
Mary gli passò una mano sulla schiena, tentando di consolarlo.
Non saprebbe dire quanto tempo passarono così, ma quando John tolse le mani dal volto, sembrava più tranquillo di quanto Mary lo avesse mai visto. Si sentì più rilassata per questo e stranamente felice. Gettò un’occhiata all’orologio quasi per caso e sobbalzò. Non si era resa conto di quanto tardi fosse. Le due erano passate da un pezzo e lei aveva il turno di mattina. -Dovrei andare ora, è tardi.-
John assentì. -Mi dispiace di averti trattenuto così tanto.-
-Ma figurati, è stato un piacere parlare con te.- lo rassicurò. –Allora... Ci vediamo, John.- Si alzò e rimase ferma, indecisa sul modo in cui salutarlo.
John agì per lei. Si alzò a sua volta e le baciò una guancia. –Domani sera sarai qui? Voglio sapere la tua storia, tu sai tutto di me.-
Dopo un attimo di esitazione, causato anche dai brividi che gli erano corsi lungo la schiena quando le labbra dell’uomo l’avevano sfiorata, annuì.
John le rivolse un breve sorriso. –Vorrei accompagnarti, ma temo di rallentarti troppo.- disse, alternando lo sguardo tra lei e il bastone al suo fianco.
-Grazie del pensiero, ma sono in grado di badare a me stessa- gli rispose, ricambiando il sorriso. –Piuttosto, va’ a casa e riposati. Sembri stanco.-
-Sì, certo.- L’uomo annuì senza troppa convinzione e, dopo averle dato la buonanotte, si allontanò. Mary rimase a fissarlo fin quando non lo vide sparire dentro un taxi.
 
Quella mattina, al lavoro, Mary fu distratta per la maggior parte del tempo. Non faceva che pensare a John e al modo in cui la faceva sentire. Era un uomo triste, ancora incapace di superare la morte del suo compagno dopo due anni, eppure era forte. Ammirava la sua perseveranza e ne era affascinata. Non aveva mai conosciuto nessuno che la amasse così e lei, a sua volta, non aveva mai avuto qualcuno di così importante al suo fianco. Sentiva di stare tra due fuochi, e che prima o poi si sarebbe scottata. Era consapevole di stare per innamorarsi di un uomo ancora a pezzi e che questo l’avrebbe distrutta e sapeva che, per evitare la delusione che sarebbe sicuramente arrivata, avrebbe dovuto saltare l’incontro di quella sera ma, semplicemente, non ne aveva la forza.
Alle nove era già seduta su quella che aveva ribattezzato la loro panchina. John non era ancora arrivato, ma poco dopo lo vide arrancare verso di lei. Quella sera, si accorse, la sua zoppia era più accentuata del solito.
Si sedette con fatica vicino e le rivolse un sorriso mesto.
-È tutto okay?- si azzardò a chiedere.
John rise senza nessuna traccia di ilarità. -No, non è tutto okay.-
Mary si fece più vicina. -Vuoi parlarne?-
-Non c’è niente da dire. Oggi sono esattamente due anni, questo è tutto. Due anni che non c’è più.-
-Oh.- fu l’unica cosa che riuscì a dire Mary.
John la guardò. –Ti prego, dimmi qualcosa di te. Distraimi. -
La donna ricambiò lo sguardo, titubante. –Sei sicuro di voler sapere la mia storia? Sono sicura che dopo non vorrai più vedermi.-
John voltò la testa verso di lei. –Sono un medico militare che appena tornato dall’Afghanistan ha ucciso un uomo a sangue freddo. Mia sorella è un’alcolista, il mio ex ragazzo un drogato che risolveva casi per mantenersi pulito, suo fratello è un maniaco del controllo, la mia padrona di casa era la moglie di un possessore di un cartello di droga. Come vedi, non mi manca nulla. Qualunque cosa mi dirai, non cambierò il mio giudizio su di te. In ogni caso, da quello che ho capito ora sei diversa.-
Mary lo fissò a bocca aperta. –Beh, non si può dire che le tue conoscenze non siano interessanti.- con sua sorpresa, riuscì a strappare una breve risata all’uomo. –Hai ragione.-
Quel breve momento di tranquillità venne rimpiazzato da un silenzio teso. –Bene, allora…- disse Mary, prendendo un respiro profondo. –Eravamo in quattro…- dovette fermarsi perché, in quel momento, un uomo si era fermato davanti all’ospedale e John era scattato in piedi.
La figura si guardò intorno un paio di volte prima di individuare la panchina e avvicinarsi velocemente. Più si faceva vicino, più John si tendeva. Mary non sapeva che fare. –Lo conosci?- sussurrò. John non diede segno di averla sentita. Fissava quell’uomo, ora fermo davanti a loro, a bocca aperta e con lo sguardo furente.
-John…-
John non rispose.
-John, posso spiegare…-
In quel momento, Mary capì. –No…- le uscì spontaneo.
John si voltò verso di lei, quasi avesse dimenticato la sua presenza. –Lui è..?-
Lo sconosciuto rispose alla sua domanda prima che lei avesse la possibilità di finirla. –Sherlock, piacere.- disse formale, tendendole la mano. Lei la accettò stralunata. –Mary.-
Finito lo scambio di cortesie, Sherlock tornò a rivolgere la sua completa attenzione a John, che ancora non aveva spiccato parola.
-Mycroft doveva avvertirti, ma evidentemente non l’hai fatto parlare- esordì con un sorriso. Vedendo che l’espressione di John si faceva più irritata ogni istante che passava, tornò serio. -Ho dovuto farlo, John, eri in pericolo e non potevo… non potevo permettermi di perderti…-
Mary percepì l’esatto momento in cui John scattò e gli assestò un pugno sul naso. –POTEVI AVVISARMI, COGLIONE! L’AVREMMO RISOLTA INSIEME COME SEMPRE! MA NO, FACCIAMO LA SOLITA SCENEGGIATA DA PRIMA DONNA E FINGIAMO DI ESSERE MORTO PER DUE ANNI E CHI SE NE FREGA DI QUEL DEFICIENTE DI JOHN WATSON!- urlò contro Sherlock, cercando di colpirlo ancora. Mary, però, lo fermò appena prima che il suo pugno si infrangesse contro la mascella dell’altro, che si teneva il naso con una mano e sembrava non avere alcuna intenzione di scansarsi.
-Credo che dovresti lasciarlo spiegare.- mormorò.
John liberò la mano con uno strattone. –Mary, tu non sai di cos’è capace quest’uomo, quali pazzie fa per un po’ di…-
-Lascialo spiegare. Sono sicuro che avrà una motivazione valida.-
Detto questo si girò verso Sherlock, sfidandolo a contraddirla. –E tu, spiegati bene e in fretta. Spero di non dovermi pentire in futuro di averti evitato quel pugno.-
Il nuovo arrivato annuì, rivolgendole uno sguardo grato e ricomponendosi, tornando a fissare John. -Le mie motivazioni sono forti, non l’avrei mai lasciato se non fosse stato necessario.-
Rassicurata, Mary allora decise che era definitivamente di troppo. –Io vado a casa. Voi chiaritevi.-
John la ringraziò con lo sguardo. –Ti farò sapere.- le sussurrò. Lei annuì e, dopo un ultimo sguardo ai due, si allontanò velocemente.
Soltanto una volta a casa si rese conto che John non aveva né il suo numero, né il suo indirizzo. Non avrebbe mai saputo nulla.
 
La sera dopo Mary, tornando a casa, passò per il parco dove aveva trascorso le tre sere precedenti. John non era lì.
 
Passò una settimana prima che, di ritorno dal lavoro, Mary trovasse una busta nella sua cassetta delle lettere. Era piuttosto pesante, notò, sedendosi sul divano. Aprendola, le caddero in grembo due cose: un taccuino e una lettera.
Il primo era diviso in blocchi separati da dei post-it colorati, ognuno con un titolo diverso. Sfogliandolo velocemente, Mary capì subito e sorrise.
Si dedicò poi alla lettera.
 
Ciao Mary,
trovare il tuo indirizzo è stato semplice, quando hai Sherlock Holmes a cercare per te. Credo ci abbia messo venti secondi o giù di lì.
Mi sei stata a fianco soltanto per pochi giorni, ma tu più di chiunque altro mi hai aiutato quando sentivo il peso del mondo sulle mie spalle. Non mi ero mai sfogato con nessuno come con te, perciò credo che meriti di sapere com’è finita.
Abbiamo fatto pace appena mi ha spiegato. Non potevo non perdonarlo.
Se ha finto la sua morte è perché avevo un cecchino pronto a fare fuoco se non si fosse buttato. E non ero solo io, anche altri due tra i nostri più cari amici erano sotto tiro. Dovevamo credere tutti al suicidio o saremmo morti.
Avevo ragione: mi aveva fatto guardare per un motivo: dovevo crederci per davvero, alla sua morte. Sapeva che, se non avessi visto con i miei occhi, non ci avrei mai creduto. Lo conosco troppo bene e lui conosce me alla perfezione. Lo ha fatto per me e gli credo quando dice che stare sdraiato su quel marciapiede e vedermi crollare sia stata la cosa più difficile della sua vita.
Da allora ha passato gli ultimi due anni a smantellare quest’organizzazione criminale, per poter tornare il prima possibile da me. Ha sofferto tanto, anche più di me, era solo in posti che non conosceva, con una sentenza di morte certa in caso di un passo falso, il tutto per salvarmi la vita. Come potevo non perdonarlo? Sono ancora un po’ arrabbiato con lui, naturalmente, ma passerà presto. Lo amo così tanto che potrebbe fingere di suicidarsi altre mille volte e lo perdonerei sempre. E so che lui ama me, me lo sta dimostrando ogni minuto da quando è tornato.
Sono felice. Siamo felici. La mia zoppia psicosomatica è di nuovo andata via grazie a lui, abbiamo già risolto due casi (il nostro amico, il DI Greg –anche lui era un bersaglio- è al settimo cielo. Dice che ci mette un quinto del tempo con Sherlock ad aiutarlo. Dice anche che l’unica cosa che non gli manca è sentirsi dare dell’idiota tre volte al giorno, ma, anche se non lo ammetterebbe mai, in fondo gli mancava anche quello).
Mi piacerebbe passare altro tempo con te, sono stato davvero bene, per quanto in quei giorni fossi davvero con l’umore sottoterra. Anche a Sherlock hai fatto un’ottima impressione, come avevo previsto. Dice che non sembri noiosa come la maggior parte degli idioti senza cervello con cui ho a che fare, il che per lui equivale ad un complimento. Magari un giorno puoi passare da noi al 221B di Baker Street per un the.
Ti aspettiamo. A presto!
Con affetto,
John
P.S. Ti ho spedito quei racconti che volevi leggere. Mi auguro ti piacciano. Non li farei leggere a nessun altro.
 
Mary finì la lettera con il sorriso sul volto. Era felice per John, e anche per Sherlock, anche se non lo conosceva bene. Si vedeva che era innamorato e sperava che John lo perdonasse. Era felice di saperli di nuovo insieme. Una piccola parte del suo cuore faceva male perché sapeva di stare per innamorarsi di John, ma la mise a tacere subito. Magari sarebbe passata al 221B già il giorno dopo. Era ansiosa di conoscerli bene. , decise prendendo il taccuino per iniziare a leggere, il giorno dopo sarebbe passata da loro.

  
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