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Autore: Athena_89    08/03/2017    5 recensioni
Sherlock e John sono cresciuti insieme ed con loro è cresciuto un sentimento che sembra andare al di là di una semplice amicizia, ma con cui nessuno dei due vuole fare i conti a causa della società, che non potrebbe mai accettarli, e del difficile periodo che stanno vivendo. La Seconda Guerra Mondiale complicherà le cose e li terrà separati in questo momento tanto delicato. Saranno le poche lettere che riusciranno a scambiarsi in quegli anni a mantenere vivo ciò che provano l'uno per l'altro, nell'attesa e nella speranza di ritrovarsi un giorno.
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Dorchester 1926.
Mr O'Brien non aveva tutte le rotelle a posto, ma era un uomo buono.
Ogni estate, permetteva a Sherlock e Victor di giocare nel suo campo di granturco, luogo piuttosto affascinante per quelli che all'epoca erano solo due bambini. Le lunghe spighe di grano li sovrastavano per quasi un metro ed erano così fitte, ravvicinate tra loro, da risultare un ottimo nascondiglio. Perfette per giocare a rincorrersi e nascondersi, mentre le loro urla e risa riempivano il silenzio della fattoria del vecchio buon O'Brien.
Era rimasto solo cinque anni prima, sua moglie se ne era andata nella notte, silenziosa, senza soffrire. Non se ne era accorto subito, la mattina dopo, al suo risveglio. Mrs O'Brien aveva il volto sereno, con l'ombra di un sorriso a curvarle le labbra, e sembrava semplicemente addormentata.
Da allora gli era rimasto unicamente se stesso, non avevano avuto figli, lui e sua moglie, li desideravano, certo, ma sembrava che non fossero stati scelti per quel ruolo. Purtroppo dopo anni di tentativi avevano rinunciato, rassegnati al fatto che non potessero avere bambini.
Tutti gli altri parenti dell'uomo erano lontani, nell'Irlanda del Nord, da dove lui veniva. Conosceva parecchie leggende di quel suo luogo natio e altrettante ballate che non si stancava mai di cantare ai due bambini, quando nelle ore più afose li invitava a ripararsi sotto il patio a rinfrescarsi con una limonata. Aveva raccontato loro delle fate, li aveva messi in guardia sui Changeling e gli aveva cantato più volte Black Velvet Band, la canzone che i due preferivano tra tutte.
Mr O'Brien credeva davvero a tutte quelle storie, aveva assicurato loro di aver visto le fate, lì in Irlanda, una volta. Raccontava del suo incontro con loro ed ogni volta Victor lo guardava affascinato, la bocca leggermente aperta e la bandana da pirata sull'occhio che iniziava a scivolargli lentamente su una guancia.
Sherlock era invece troppo scettico e razionale, nonostante i suoi sei anni, non credeva nell'esistenza di tali cose, ma non osava contraddire Mr O'Brien per rispetto.
A volte Mr O'Brien raccontava loro della Grande Guerra e quelle erano storie vere, ed entrambi i bambini pendevano dalle sue labbra, con gli occhi pieni di curiosità e domande.
“Siete stati fortunati, voi due, a nascere dopo”, ripeteva sempre.
Il buon vecchio non era solo un pozzo pieno di racconti interessanti, da ragazzo era stato un musicista, uno dei più bravi dei suoi tempi. Aveva iniziato ad insegnare ai due bambini qualcosa, ma Victor non aveva per niente orecchio musicale e si era ben presto stancato di quelle lezioni a cui invece Sherlock non mancava mai. Con il tempo era diventato abile nel leggere il pentagramma ed il solfeggio non aveva segreti per lui. Chiave di basso, chiave di violino, piano, forte, andante, allegro, bemolle e diesis, non c'era niente che alla soglia dei suoi sette anni non sapesse riguardo la musica. Aveva imparato a suonare il pianoforte ed il violino e si era particolarmente affezionato a quest'ultimo migliorando con una velocità impressionante. Mr O'Brien aveva capito subito di non trovarsi davanti ad un bambino come gli altri. Sherlock era più intelligente ed era avido di sapere. Alla sua età aveva già letto libri adatti ad un bambino di dieci anni, sapeva fare calcoli matematici con velocità e precisione e la sua intelligenza mnemonica era più sviluppata del normale.
A volte costringeva il povero Victor a passare giornate nella biblioteca del paese, con la scusa che lì facesse più fresco, quando il sole era alto e picchiava forte sulla testa.
Non c'erano estati troppo calde in Inghilterra, a dire la verità. Ma in alcune giornate le temperature sfioravano i trenta gradi e la pelle pallida dei due si scottava facilmente.
La mattina presto, però, i due si incontravano al solito posto, la casa sull'albero che avevano costruito con l'aiuto di Mr Holmes, pronti per l'ennesima avventura piratesca, armati delle loro spade di legno e i capelli da capitani della nave che Mrs Holmes aveva cucito per loro.
“Non la passerai liscia questa volta, Barbarossa!”
“En garde, Barbagialla!”
Sherlock rientrava a casa sempre sporco di terra e con le ginocchia sbucciate, ma mai stanco, pieno delle energie che solo un bambino poteva avere, ignorando le lamentele della sorella minore, Eurus, per non essere stata resa partecipe al gioco (“Sei corso via senza di me! Ti avevo detto di aspettarmi!”) e le occhiate di superiorità di suo fratello maggiore, Mycroft (“Ancora questo stupido gioco dei pirati. Quando ti deciderai a crescere?”).
 
Una mattina di luglio, dopo aver trangugiato in fretta la sua colazione, si era precipitato fuori casa, ancora una volta inseguito dalle proteste della sorella più piccola, ed aveva lasciato che le lunghe gambe piene di graffi lo portassero al solito luogo di incontro. Si era incrociato con Victor a metà strada e, dopo essersi lanciati una sfida silenziosa, nessuno dei due aveva accennato ad arrestare la propria corsa, cercando di prevalere l'uno sull'altro, in una gara a chi sarebbe arrivato prima alla casa sull'albero.
Ma Victor era decisamente più bravo nelle attività fisiche e ben presto si lasciò l'amico alle spalle, ridendo del suo grugnito contrariato e sapendo quanto detestasse perdere.
Tuttavia non raggiunse l'albero per toccarlo e gridare la propria supremazia su Sherlock, si bloccò, scorgendo una figura che girava attorno al tronco, studiando con curiosità la casetta di legno.
“Un intruso! In guardia, intruso!”, gridò allora Victor facendosi avanti, la spada di legno sguainata e il duro cipiglio da pirata sul viso.
“Uo! Uo! Calma! - esclamò l'intruso alzando le mani in segno di resa - Stavo solo dando un'occhiata”
Avvicinatosi, Sherlock notò che non era altro che un bambino come loro, forse di una manciata di anni più grande (ma non grande quanto Mycroft). L'osservò incuriosito, lasciando vagare lo sguardo sulla sua figura senza alcuna discrezione. C'era un gioco che faceva spesso con Mycroft, l'unico che il fratello maggiore gli concedeva, ma solo per fargli vedere che era più bravo di lui, ed era quello di capire tutto di una persona solo studiandone l'aspetto. Doveva ancora esercitarsi in quel gioco per arrivare ai livelli del fratello, ma era già bravo a modo suo, abbastanza da capire che il ragazzino era di buona famiglia, aveva ricevuto un'educazione rigida e studiava a casa con un tutore privato.
Non era figlio unico ed era un fratello maggiore, ma di questo non era certo.
Sherlock era alto quanto lui, ma essendo più alto per la propria età, deduceva che l'altro bambino dovesse avere almeno nove o dieci anni. Indossava un paio di calzoni fino al ginocchio ed una camicia bianca, immacolata, di ottima fattura. I capelli biondi erano freschi di taglio, ordinati e le scarpe sembravano nuove di zecca, senza nemmeno una macchia, probabilmente comprate il giorno prima. Era certamente nuovo di lì, perché non lo avevano mai visto prima da quelle parti.
“Mi chiamo John. John Watson. - si presentò dopo un attimo di silenzio in cui si erano scrutati tutti e tre - L'avete fatta voi?”, indicò incuriosito la casa sull'albero.
“Ci ha aiutati suo padre - rispose Victor, indicando Sherlock con un cenno della testa - Io sono Victor Trevor”
“Sherlock Holmes - si limitò a dire il compagno di giochi, togliendosi il cappello da pirata dalla testa e incastrando la spada di legno tra la cinta e i pantaloni - Non sei di qui.”
“No, infatti. Sono arrivato ieri con la mia famiglia, da Londra. - John lo guardò attentamente e per un attimo Sherlock pensò che stesse facendo il suo stesso gioco, tanto profondo era lo sguardo che gli stava rivolgendo - Non ho visto molta gente in giro, quindi mi chiedevo se ci fossero altri bambini da queste parti”
“Non molti, siamo in campagna qui e sono poche le case nelle vicinanze. Ci siamo noi due”, disse Victor.
“Ed i miei fratelli, ma te li sconsiglio, specialmente Mycroft - aggiunse Sherlock con una smorfia. - Anche perché lui non ha tempo da perdere con i 'marmocchi', deve studiare, un giorno sarà un uomo importante, sai? Lavorerà a Buckingham Palace, o almeno così dice.”
Un sorriso curvò le labbra di John e nel suo sguardo si accese una scintilla di divertimento.
“Vuoi giocare? - Victor allungò la propria spada verso di lui, porgendogliela gentilmente. - Di solito io sono Barbarossa e lui è Barbagialla”
John esitò, guardando prima la spada finta, poi i due bambini, mordendosi le labbra e dandosi una certa aria di maturità, come se fosse ormai troppo grande, a nove anni, per giocare ai pirati.
“Oppure possiamo andare a giocare a nascondino nel campo di Mr O'Brien – suggerì Sherlock, cogliendo lo sguardo del nuovo arrivato, mostrando un'empatia che non gli era solita – Devi assolutamente conoscerlo, sa un sacco di storie assurde su fate e folletti. Ma anche storie vere sulla guerra.”
Il sorriso affiorò di nuovo sulle labbra di John, che gli rivolse un'occhiata di gratitudine a cui Sherlock rifuggì immediatamente, comportandosi come se non avesse fatto nulla di particolare.
Con un lieve cenno della testa, il nuovo arrivato accettò l'invito e si incamminò con gli altri due bambini, alla volta della fattoria di Mr O'Brien.
 
Divenne un incontro abituale, da quel momento. John non si univa a molti dei loro giochi, ma quando andavano dal vecchio O'Brien li raggiungeva sempre e come Victor e Sherlock, anche lui pendeva dalle labbra dell'uomo, completamente rapito dai suoi racconti.
Quando Sherlock rimaneva per la lezione di musica, si tratteneva anche John. Non era interessato ad imparare alcun strumento, ma gli piaceva starsene seduto su una poltrona ad ascoltare l'amico suonare. A volte Sherlock lo sorprendeva a fissarlo, con lo sguardo profondo e una strana luce nelle iridi, completamente rapito dalla musica e dalle mani del bambino che muovevano abilmente l'archetto sulle corde tese.
“Sarai un ottimo musicista da grande”, dichiarò John, mentre un tardo pomeriggio camminavano verso le rispettive case, di ritorno dalla fattoria.
“Non voglio diventare un musicista”, replicò l'altro, scrollando le spalle e scacciando i riccioli scuri dagli occhi.
“No? E cosa vorresti diventare?”
“Sarò un investigatore”
“Non stento a crederlo”
In quelle settimane, in cui la loro amicizia era andata a rafforzarsi sempre più, Sherlock aveva dato prova delle proprie abilità investigative, seppur legate a piccole cose, ma John ne era rimasto comunque sorpreso.
“E tu? Tu cosa sarai un giorno?”
“Un medico. Come mio padre”, rispose John mentre forzava le gambe a risalire la collina ora che il terreno si era fatto un po' più ripido ed era ancora scivoloso per la pioggia caduta quella mattina.
“Per renderlo orgoglioso di te?”
John lo guardò per qualche secondo interdetto, preso alla sprovvista, e quasi scivolò sull'erba umida dopo aver messo un piede in fallo.
“Voglio aiutare le persone”, dichiarò dopo un lungo silenzio ed aver recuperato l'equilibrio.
Sherlock non aveva replicato, ma non gli era servito molto per capire che John faceva di tutto per attirare l'attenzione di suo padre, che voleva essere disperatamente notato da lui e che, troppo preso dal proprio lavoro e dalle ore passate in ospedale, Mr Watson a malapena realizzava di avere una famiglia. Ma non era solo quello, c'era altro. Sembrava quasi che l'uomo non considerasse John all'altezza di tutto, aveva sempre una parola fuori posto per lui: John non era abbastanza forte, John non era abbastanza alto, John non era abbastanza intelligente.
Ma John intelligente lo era, eccome, e Sherlock non capiva come suo padre non riuscisse a notarlo.
“Sarai un medico fantastico, John”, disse alla fine, sorprendendo il nuovo amico, che non potè fare a meno di guardarlo con le sopracciglia alzate. In quelle poche settimane aveva imparato su Sherlock molto più di quanto l'altro credesse. Una di queste era che al giovane Holmes non piaceva prodigarsi in complimenti, nulla che potesse avvicinarlo troppo agli altri. Il suo era sempre un atteggiamento distaccato, persino con Victor con cui aveva un ottimo rapporto.
“Ci vediamo domani”
Prima che John potesse replicare qualsiasi cosa, anche solo un saluto, l'amico era già corso in casa, richiudendosi la porta alle spalle con un tonfo, quasi stesse fuggendo da quell'incoraggiamento che lui stesso si era lasciato sfuggire.
All'ingresso Sherlock tolse le scarpe sporche di fango, lasciandole accanto a quelle immacolate di Mycroft che sarebbe sicuramente impazzito nel vedere tale vicinanza.
Attraversò il salotto di corsa, raggiungendo la cucina, dove sua madre si affaccendava ai fornelli.
“Per l'amor del cielo, tesoro! Non vorrai sederti a tavola in quelle condizioni!”
“Cos'ho che non va?”, replicò il figlio di mezzo, dopo aver rubato una pagnotta di pane, appena sfornata e tolto una foglia dai ricci ribelli. Aveva chiazze di terra persino sul naso perfettamente dritto che aveva ereditato proprio da sua madre.
“Sherlock, hai decisamente bisogno di un bagno, adesso”, disse lei con calma, tornando ai fornelli.
“Sai, mamma, che è proprio entrando in contatto con l'antigene che gli anticorpi entrano in funzione portando il corpo a svilupparne di più e quindi a renderlo più forte e...”
“Sherlock, vai a lavarti”
Il ragazzino alzò gli occhi al cielo, ma nemmeno lui poteva fronteggiare l'autorità di una madre che non lo avrebbe ammesso alla propria tavola, se non si fosse presentato perfettamente immacolato. Marciò verso le scale, borbottando qualcosa su anticorpi ed antigeni e sul fatto che sua madre non capiva nulla di scienza.
Incrociò nel corridoio Eurus, che da quando era diventata amica della sorella minore di John lo apprezzava molto di più, e lo sguardo critico di Mycroft, che ovviamente non approvava che il fratellino tornasse ogni giorno ridotto in quelle condizioni.
“Anticorpi, Mycroft, anticorpi”, si limitò a dirgli Sherlock, indicando i propri abiti sporchi di terra.
“Chissà quante zecche staranno facendo campeggio tra quei vestiti -, replicò il fratello maggiore con una smorfia di disgusto. - ti ci vorrebbe un miracolo in quel caso, non degli anticorpi”
Il fratello replicò con una smorfia, prima di sparire nel bagno.
 
Quella di Sherlock non poteva definirsi una famiglia normale. I coniugi Holmes avevano avuto la fortuna (o sfortuna) di mettere al mondo tre figli con un quoziente intellettivo più alto della media, che non perdevano mai l'occasione di cercare di prevalere l'uno sull'altro, dimostrando ciò di cui erano capaci e a volte riuscendo persino ad umiliare i loro stessi genitori.
Mrs Holmes era una donna paziente, ma ferrea, che bene o male riusciva a tenere a bada i figli, seppur non fosse affatto un compito semplice. Combattere ogni giorno con tre bambini che la sapevano più di lei era tosta. Persino Eurus, che aveva solo cinque anni, sembrava già un'adulta nei modi di fare e pensare.
A volte, realizzare che i suoi figli erano già troppo più grandi dei loro coetanei, la spaventava. Sapeva quanto fosse difficile inserirsi in una società tanto chiusa, senza contare che vivevano in un piccolo paese dove la mentalità era ancora più ristretta, con un cervello come quello dei tre bambini, agli occhi degli altri così diversi, risultava ancora più complicato.
Specialmente per Sherlock e Eurus, che non avevano alcuna capacità di controllarsi, tenere a freno la lingua.
Non aveva mai chiesto loro di essere come tutti gli altri, non aveva mai imposto loro regole ferree, né che dovessero modellare la loro personalità in base a ciò che la società chiedeva. Ma soffriva nel vederli a volte emarginati. Soffriva nel sapere che Sherlock aveva problemi a scuola, che non sopportava di andarci e soprattutto, Mrs Holmes soffriva nel sentirsi dire dall'insegnante che forse avrebbe dovuto portarlo da uno psicologo, perché mostrava chiari segni di iperattività.
Erano solo dei bambini, ed erano i suoi figli. Come si permettevano degli estranei di giudicare e di dirle cosa fosse meglio per loro?
“Per l'amor del cielo, Sherlock, taci una buona volta -, la voce altezzosa di Mycroft la riportò alla realtà, - non mi sembra il caso di parlarne a tavola!”
“Ma l'ho visto su quel libro di anatomia in biblioteca, il cuore del maiale è esattamente come il nostro. Sarebbe come mangiare una persona!”
Mrs Holmes abbassò lo sguardo sulla pentola piena di stufato di maiale che stava portando a tavola e sospirò.
“Dicono che anche il sapore della carne umana, sia lo stesso di quella del maiale”, intervenne Eurus, piuttosto interessata all'argomento.
“D'accordo, ragazzi, basta così, è ora di mangiare. Potremmo evitare di parlare di cuori e carne umana? Vostra madre ed io ve ne saremmo infinitamente grati”, tagliò corto Mr Holmes, afferrando la brocca d'acqua per riempire i bicchieri dei tre figli e della moglie.
“Sherlock, tesoro, piuttosto che leggere tutti quei libri per adulti, perché non ti concentri più sui compiti per le vacanze?”, azzardò Mrs Holmes, riempiendo i piatti di tutti.
“Noioso -, commentò il ragazzino alzando gli occhi al cielo, - devo proprio tornarci a scuola?”
“Ne abbiamo già parlato”
Con un sospiro contrariato, Sherlock abbassò lo sguardo sul proprio piatto e cercò di concentrarsi unicamente sulla cena. Non parlò più, fino a che non fu concesso loro di alzarsi da tavola. A quel punto si ritirò nella stanza che divideva con Mycroft, andando a chiudersi in se stesso e in qualcuno dei suoi strani libri.
 
Un pomeriggio di fine agosto, sedeva all'ombra di una grossa quercia con Victor e John, ed era intento ad intagliare un piccolo ciocco di legno, con un affilato taglierino che continuava a sfuggirgli di mano.
“E quello dove lo hai preso?”, domandò Victor quando lo vide.
“Casa degli attrezzi in giardino”, replicò brevemente il giovane Holmes, senza alzare lo sguardo, concentrato su ciò che stava facendo.
“Potresti farti male. Forse non è il caso...”, si intromise John.
“Sciocchezze – rispose Sherlock poco prima che il taglierino gli scivolasse di nuovo, andando a colpirlo sul pollice della mano sinistra – oh...”
Il ciocco di legno si macchiò subito di sangue, ma il ragazzino non ebbe alcuna reazione, totalmente preso dalla piccola ferita che si era aperta dalla sua pelle e dal sangue vermiglio che cadeva fuori in gocce.
“Fammi vedere”, intervenne John, afferrandogli la mano, il cipiglio da 'te l'avevo detto'. Sherlock non si oppose e anzi docile abbandonò la mano tra quelle dell'amico, che studiava il taglio con sguardo attento, lo stesso che gli era capitato di vedere sul volto di Mr Watson.
“Non è profondo -, dichiarò poi, quasi con tono professionale, tirando fuori dalla tasca un fazzoletto di stoffa. Ne strappò una striscia, per poi avvolgerla intorno al pollice di Sherlock, legandola stretta. - sopravvivrai”, aggiunse con un sorriso divertito, continuando a tenere la mano dell'amico tra le proprie, per qualche secondo. Si lanciarono uno sguardo, poi Sherlock ritirò il braccio, mordendosi le labbra a forma di cuore.
“Certo che sopravvivrò, sono il pirata più temibile di tutti i tempi”, distolse lo sguardo.
“Sono io il pirata più temibile!”, esclamò Victor saltandogli addosso per ingaggiare una lotta giocosa, “Fammi vedere cosa sai fare, Barbagialla!”
I due rotolarono sull'erba, cercando di atterrarsi a vicenda, tra grugniti vari e scoppiando di tanto in tanto in una risata. John li guardò rassegnato, ma con l'ombra di un sorriso a curvargli le labbra.
I due continuarono per un paio di minuti, mangiando un bel po' di erba a testa, finché non sentirono la madre di Victor chiamarlo da lontano.
“Devo andare a finire i compiti – fece con un sospiro, alzandosi in piedi e liberando Sherlock che aveva appena schiacciato sul terreno con il proprio peso. - ci vediamo domani!”
Rimasti soli, John e Sherlock sedettero l'uno accanto all'altro in silenzio, in contemplazione del paesaggio circostante. Non parlarono per diversi minuti, senza alcun disagio, in quelle settimane avevano imparato a passare il tempo anche in quel modo e John doveva ammettere di trovarlo molto rilassante. Con un sospiro tranquillo, si sdraiò sull'erba, le braccia sotto la testa. Alzò gli occhi verso il cielo sereno, l'azzurro intenso spezzato di tanto in tanto da una nuvola bianca.
“Allora, pronto per il rientro a scuola?”, spezzò poi il silenzio, senza distogliere gli occhi dall'alto.
“Dio, la odio -, sbuffò Sherlock andando a sdraiarsi nella stessa posizione, accanto a lui. I suoi occhi chiarissimi rifletterono gli occhi del cielo, al punto che quasi non si potevano distinguere. - la trovo così noiosa”
“Non ne dubitavo”, John rise.
“Sono tutti così stupidi, anche gli insegnanti. Per fortuna c'è Victor, che alza un po' il quoziente intellettivo di tutta la scuola. E da quest'anno anche tu...”
Si voltarono a guardarsi e perdendosi negli occhi di Sherlock, a John sembrò di non averli mai distolti dal cielo. Arrossì leggermente per il commento dell'amico e si schiarì la voce, dopo qualche secondo, non sapendo cosa dire.
“Pensi che io sia intelligente?”, mormorò dopo un attimo di esitazione.
“Certo che lo sei, John!”
“Grazie”
Sherlock scrollò la testa, tornando a volgere gli occhi al cielo, per poi tirarsi a sedere. Scrollò i ricci con una mano, nel tentativo di rimuovere fili d'erba e foglie, che erano andati ad incastrarsi durante la piccola lotta con Victor. Cadde poi in uno dei suoi soliti silenzi, di nuovo. Joh non vi diede peso, chiuse gli occhi e inspirò gli odori portati dalla lieve brezza che gli accarezzava il viso. A quell'ora l'aria profumava di arrosto e di pane appena sfornato. Era un odore che andava ad unirsi a quello solito dell'erba fresca appena tagliata, dei fiori e dei campi che li circondavano.
Starsene lì, in silenzio con un amico, ad inspirare l'odore di quella che ormai considerava casa, non lo avrebbe mai potuto stancare. A volte riusciva ad avvertire anche l'odore di Sherlock. Era un misto di terra umida, abiti puliti, biscotti appena sfornati e anche del sigaro che Mr Holmes soleva fumare in casa, nonostante i rimproveri della moglie. Sherlock sapeva di scoperte, di cose nuove ed inesplorate.
“Devo andare”, la voce dell'amico lo riportò alla realtà.
John si mise a sedere quasi di scatto, come colto in flagrante nel bel mezzo dei suoi pensieri più segreti. Sherlock lo stava scrutando con gli occhi tranquilli.
“Domani ci vediamo giù al laghetto, ultimo bagno della stagione”, stava dicendo. Il più grande annuì.
“A domani, allora”
“A domani, John”
Sherlock si alzò e gli volse le spalle. John lo guardò correre via con quelle gambe magre e lunghe, lasciate in mostra dai pantaloni lunghi fino al ginocchio, sempre sporche di terra e piene di graffi. Si chiese quanto ancora sarebbero cresciute, se sarebbero diventate chilometriche come credeva.



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Contagiata dalla miriade di fanfiction che sto leggendo in questi giorni e particolarmente ispirata, ho deciso di cimentarmi io stessa nella stesura di una fanfiction. E' la prima che scrivo su Sherlock quindi sono parecchio in ansia. Ho avuto tantissimi dubbi mentre scrivevo questo primo capitolo e ovviamente non sono mancate le autocritiche, per la serie "ma cosa sto facendo? Questa storia è ridicola. Forse dovrei lasciar perdere", ma alla fine ho terminato il capitolo e lo sto anche postando. Insomma, spero non faccia davvero così pena come credo ><
Per adesso Sherlock e John sono solo due bambini, ma ovviamente nel corso della storia cresceranno :)
Athena.
   
 
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