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Autore: ArtistaDiStrada    09/03/2017    1 recensioni
Quanto essere donne, nella nostra società, può essere difficile? Quattro casi, i più lampanti, di ciò che le donne spesso e volentieri si ritrovano a subire in 3749 parole. Quattro casi, incarnati dalle nostre donne di Teen wolf: Malia, Lydia, Allison e Kira.
Una one shot senza pretese, volta solo a rimarcare ciò che non sarà mai ripetuto abbastanza: la donna è una persona.
-dal testo-
Non era colpa sua. Lei non aveva fatto nulla di male.
Era difficile. Dannatamente difficile a volte. Sorridi come una modella, cammina come una regina, fingi come un’attrice e non sarai sola. Non sarai sola. Fingi solo un altro po’.
Solo allora il mondo le crollò addosso, rompendo in mille pezzi ciò che per anni era stata la sua forza.
Quanto era pronta a sacrificare? Quanto era disposta a perdere?
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Allison Argent, Kira Yukimura, Lydia Martin, Malia Hale
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Note dell'autrice.
Piccola avvertenza: nella storia verrà trattato un modello di uomo che obbligatoriamente doveva essere comune in ognuna della quattro storie per forza di trama, MA questo non vuole dire che tutti gli uomini siano così. 
Buona lettura! Ci vediamo di sotto:)






Malia

Si asciugò con rabbia il naso e gli occhi, arrossati per le lacrime. Tirò su con il naso, guardandosi attorno, prima di cercare di rimettersi in piedi. Era buio e fu costretta ad acuire un po’ la vista, strizzando gli occhi, per controllare che non ci fosse nessuno.
A destra, il nero del vicolo che non faceva che inoltrarsi in ulteriori stradine secondarie verso il nulla, accerchiato dal buio. A sinistra, la strada trafficata, le luci dei lampioni pronti ad inquadrarla, illuminandola, rendendola visibile. Per quanto volesse scomparire, nascondersi in una di quelle vie secondarie, nell’ombra, dove nessuno potesse vederla, i suoi piedi si diressero verso la strada principale.
Sentiva l’eco della musica del pub risuonare nell’aria lieve e attutita. Represse un conato e stringendosi nel cappotto freneticamente, si immerse nella vita serale della città. Si concesse solo il tempo di osservare rapidamente la direzione da prendere, prima di mischiarsi al mare di persone con passo malfermo e rapido.
 
Ripensare a quello che era appena successo fu inevitabile. Quello che era successo di nuovo, la corresse la sua mente.

Si trovava in una discoteca come le altre. Le piacevano quei posti; le piaceva ballare e lasciare andare i pensieri una volta tanto. Sulla pista era solo lei, nessun altro. Niente problemi familiari, niente fantasmi del passato, niente di niente.
Quando accadde non se ne accorse subito. Era così presa dal sentire nel profondo la musica, con gli occhi chiusi e l’espressione rilassata, che non si accorse di essere stata abilmente circondata. Solo quando intorno a lei i ragazzi si iniziarono a stringere, iniziò a percepire una sensazione di disagio. Non ci volle molto da quando aprì gli occhi, ritrovandosi lo sguardo famelico di tre ragazzi a fissarla, a quando sentì chiaramente una mano palparle il sedere.
Si scostò come bruciata, non interessata ad alcun tipo di contatto umano se non quello strettamente necessario delle discoteche. Provò a svicolare con noncuranza, ma venne afferrata saldamente per un polso da uno dei ragazzi. Lo sguardo che le rivolsero le fece rivoltare lo stomaco. Non era la prima volta, sapeva che quando qualcuno la guardava così stava pensando soltanto ad una cosa.
Strattonò prima delicatamente il braccio, sperando in una ritirata una volta che avessero capito che non era interessata, poi più forte quando la presa sul suo polso si accentuò. Un altro la strattonò in avanti, avvicinandosi pericolosamente al suo viso, mentre il terzo l’afferrò per i fianchi costringendola a ballare in un modo che di casto non aveva un bel niente con quella musica che ora sembrava essere diventata assordante.

“Lasciatemi.” Disse, ma fu paragonabile a malapena ad un sussurro in tutto quel caos di corpi, musica e voci presenti. La presa sui suoi fianchi era diventata sempre più opprimente e a nulla valsero i suoi tentativi di divincolarsi.

“Lasciatemi andare!” urlò alla fine, strattonando più forte. Questa volta ogni presa su di lei sparì improvvisamente, troppo. Lo slancio la fece, infatti, cadere a terra e quando alzò lo sguardo vide chiaramente i ghigni divertiti dei tre ragazzi.

Per sua fortuna, prima che i tre potessero ripensarci, intervenne un buttafuori, avvisato chissà da chi, che si premurò di allontanarli. Gli fu grata, seppur non poté evitare di notare lo sguardo di… rimprovero? Che l’uomo le rivolse.
Una volta rialzatasi, si passò le mani sulla gambe per pulirsi dalla polvere del pavimento, ma non riuscì ad evitare neanche di udire i mormori di disappunto provenienti dalle persone a lei più vicine.

“È colpa sua. Guarda come si veste!”

“Se lo doveva aspettare. Non può pensare di andarsene in giro conciata a quel modo e non provocare alcuna reazione.”

Rabbrividì a quelle parole e cercando di non darlo a vedere trovò il modo di andarsene il prima possibile da lì. Recuperò un cappotto abbandonato lì vicino e lo indossò velocemente. Non era colpa sua. Non doveva credere alle parole di quelle persone. Aveva indossato una semplice maglia e degli shorts. Molte ragazze andavano in giro così e nel pub aveva visto ragazze vestite con molta meno stoffa, tanto da doverle quasi definire svestite.

Non era colpa sua. Lei non aveva fatto nulla di male. Quello che indossava non aveva niente a che vedere con quello che era successo. Non era colpa sua. Non era colpa sua. 

Continuava a ripetersi quelle parole come un mantra, ma non riuscì ad impedirsi di coprirsi meglio con quel cappotto sconosciuto. Non voleva essere vista. Era un riflesso incondizionato. Ormai nella sua mente si ripeteva un altro mantra: se ti copri, non ti vedono. Se non ti vedono, non ti faranno del male, non ancora. Mai più.
 


Lydia

“Ehi, Dave.” salutò un ragazzo dai capelli biondo ossigenati, ignorando bellamente la ragazza dai capelli ramati in compagnia del ragazzo e passandole davanti.

“Jackson.” ricambiò quello, scambiandosi una pacca sulla spalla. Nell’abbraccio Jackson le rivolse un sorriso falso. “Ehi, bambolina. Non ti avevo vista!”

Cazzata, pensò la ‘bambolina’, facendo seguire un’occhiata indispettita e lanciandosi i capelli dietro la spalla con gesto plateale.

Al piccolo gruppetto si aggiunsero come un tornado un gruppo di cheerleaders, sei per l’esattezza, di cui ognuna si accaparrò una qualche parte del corpo del biondo.
Il sorriso sghembo che lui rivolse loro, intente a guardarlo adoranti, le fece rivoltare lo stomaco, ma il suo sorriso freddo e distaccato mascherò bene i suoi reali pensieri.

“Comunque. Darò una festa a casa mia. Questa sera. Ci sarai?” parlò Jackson, che dopo poco ricevette un segno d’assenso da parte di Dave. “Ah, e porta anche la bambolina!” gli sussurrò complice con una gomitata allusiva, lanciando occhiate alla suddetta ragazza. “Ci sarà da divertirsi. Le signore porteranno da bere.” Gli annunciò, per poi rivolgersi alle ‘signore’. “Non è vero, ragazze?”

Ricevette sospiri innamorati e solo alcune annuirono energicamente, non troppo distratte dal tastargli i muscoli delle braccia. “Oh, sì. Devi venire, tesoro.” Aggiunse una di loro alla volta della rossa. “Assolutamente.” Convenne un’altra.

“Però non indossare… questo.” le intimò una che disse di chiamarsi Kate, tirando con due dita il bordo del vestito della ragazza. Il suo viso esprimeva tutto il disgusto che provava per quel capo d’abbigliamento, vecchio solo di una stagione. “Ti dà minimo tre chili in più, tesoro.”

Lei arrossì violentemente. “Ma figurati! Questo è solo uno straccetto.”

“Anche se, però, sembra un vestito che veste attillato.” esaminò una, ignorando volutamente il commento della biondo ramata. “Non sarai mica ingrassata?!” esclamò infine con orrore, imitata subito dalle altre.

“Cosa?! Ma vi pare? È il vestito. Infatti avevo intenzione di buttarlo. È fuori moda ormai. Non so neanche io perché si trovava ancora nel mio armadio.” si affrettò ad interromperle lei, rassicurandole con un movimento svogliato della mano. Seguì un mormorio di assenso che sparì così com’era iniziato quando il biondo aprì bocca, mettendo un punto a quello scambio di battute. L’attenzione di ognuna fu calamitata interamente su di lui.

“Non sai cos’è successo alla mia Porsche!” esclamò infatti, alla volta di Dave, provocando dei mormori concordi da parte delle cheerleaders. “Oh, sì, raccontaglielo! Una cosa orribile.”

“Quel deficiente del mio meccanico mi aveva detto che con il sale sarei riuscito a rendere più lucido l’imbocco per la benzina. Un incompetente! Mi si è ingrippata la macchina!”

Seguirono altri mormori contro il pover’uomo, ma Jackson sembrò non accorgersi del vociare delle ‘sue donne’. “L’ho fatto licenziare.” Rivelò con un ghigno soddisfatto. “Mi hanno detto che ha trovato lavoro al mercato. È quello il suo posto! Non avrebbe dovuto prendersi gioco di me.” Aveva sputato fuori quelle parole con rabbia e arroganza.

“Credo ti sia sbagliato tu. Il sale funziona. Probabilmente l’avrai scambiato con lo zucchero.” mormorò la rossa sovrappensiero.

Appena finì di parlare calò il silenzio e otto paia di occhi la fissarono stupiti. Si rese conto del suo errore con un secondo di ritardo. “Voglio dire, la macchina ha i cavalli, no?. Non era lo zucchero che mangiano i cavalli?” domandò arrotolandosi con fare civettuolo una ciocca di capelli ramati intorno al dito, rimettendosi in carreggiata.

La tensione appena creatasi svanì quasi con sollievo da parte di tutti.

“Sei divertente, bambolina.” Le disse Jackson con un ghigno prima di voltarsi e andarsene, seguito dal suo sciame personale.

La rossa mantenne l’aria confusa finché il gruppo non sparì dietro l’angolo, traendo un respiro di sollievo quando anche l’ultima chioma bionda sparì dalla sua visuale.

Era difficile. Dannatamente difficile a volte. Sorridi come una modella, cammina come una regina, fingi come un’attrice e non sarai sola. Non sarai sola. Fingi solo un altro po’.
 


Allison

Un colpo secco colpì la scrivania. Un pugno, bianco come il latte, si stagliava sul legno scuro del tavolo. Una differenza notevole, che saltava anche all’occhio più inesperto. Come sempre, del resto. Sempre differenze quando riguardava lei.
Aveva trent’anni e da dieci si batteva in quell’azienda per poter dare il massimo e fare al meglio il suo lavoro. Aveva sacrificato molto per arrivare dov’era adesso: le mancava solo una firma sul documento che, bianco come lei, rimaneva immobile davanti al suo dirigente. Aveva sacrificato tanto e l’avrebbe rifatto, si meritava la promozione a redattrice! Era la meta che aveva sempre voluto raggiungere, ma che sembrava essere destinata ad un collega arrivato quello stesso anno.
Quell’uomo non aveva neanche raggiunto gli obbiettivi che lei aveva ormai surclassato, ma sembrava, a detta del dirigente, il migliore per quella carica.
“Signorina Argent, moderi i toni. La decisione è stata presa e questo e quanto.” L’ammonì l’uomo, guardandola da dietro gli spessi occhiali con cipiglio severo.

“No! Io mi merito questa promozione. Lavoro per lei da dieci anni! Ha veramente intenzione di affidare l’azienda a qualcuno che è con noi solo da una manciata di mesi?”

L’uomo in questione, nient’altro che un ragazzino di ventitré anni, la guardò con aria di superiorità. “Evidentemente sono riuscito a fare in una manciata di mesi ciò che lei non è riuscita a fare in dieci anni.” Le rispose facendole il verso.

La mora prese realmente in considerazione l’idea di prenderlo a pugni. L’unica cosa che la frenò fu la presa di parola da parte del direttore, che, scocciato, aveva battuto le mani sul tavolo, alzandosi.
“Signorina Argent, la prego di accettare la cosa con maturità. Passerò sopra quest’insubordinazione solo perché è una donna.” Asserì tornando a sedersi.

“Cosa vorrebbe dire questo?” domandò la mora con una voce talmente bassa e calma da risultare innaturale.

L’uomo si scambiò uno sguardo d’intesa con il suo sottoposto, per poi distogliere lo sguardo divertito. “Beh, evidentemente deve trovarsi in quel periodo del mese. Non si era mai comportata così.”

Quella frase la colpì in pieno petto. Non era la prima volta che le veniva detto. Nel corso della sua carriera era stata appellata con nomi ben peggiori e trattata con modi al limite del volgare fin da quando aveva dimostrato di saper tenere testa di fronte alle difficoltà. Fuori mostrava la sua parte da dura, la sua corazza indistruttibile, aiutata anche dal fatto che mai quelle offese le erano state rivolte direttamente. Li sentiva, certo, i bisbigli che i colleghi facevano su di lei quando passava: sia di disprezzo, che di burla o estremamente di dubbio gusto. Quello che lei avrebbe dovuto fare, come si sarebbe dovuta comportare, come loro sarebbero stati in grado di rimetterla in riga, nel posto che le spettava.

Si tuffava, con il suo sguardo duro, nel lavoro per cercare di sfuggire a quei bisbigli che nel mezzo della notte le si ripetevano nella mente. Aveva smesso di versare lacrime solo quando aveva iniziato a versa sudore per distrarsi. Pensava, sperava, che dimostrando quanto valesse, tutto quello sarebbe finito. Non si era mai sbagliata così tanto nella vita e lo capì solo quando le parole del dirigente le si ripeterono per la seconda volta in testa, come un eco.
Tutto quello che voleva in quel momento era nascondersi nel letto e piangere tutte e lacrime che aveva ingoiato nel corso degli ultimi anni. Piangere per ognuno di quei soprusi che aveva sperato di far cessare.

“È perché sono una donna, quindi.” Non era una domanda. Era una pura e semplice constatazione.

L’uomo la guardò attentamente. Quasi non riuscisse a credere che lei se ne fosse resa conto solo in quel momento. “Signorina Argent, una donna a capo dell’azienda sarebbe troppo … pericolosa. Una mina vagante: non possiamo permetterci di cambiare sponsor ad ogni vostro cambiamento d’umore, che deve ammettere è particolarmente mutevole. Sa, le donne sono esseri instabili.
Ha sicuramente svolto un lavoro encomiabile, glielo riconosco, ma l’azienda necessita di un punto di riferimento stabile. Le devo forse ricordare che si era rifiutata di firmare l’obbligo dall’astenersi da gravidanze? Una nobile scelta, sicuramente. La veda come un’opportunità: se fosse avanzata in carica sarebbe stata occupata molte più ore. Accetti la cosa e si trovi un uomo. 
Ora, se vuole scusarci, io e il signor Lewis avremmo delle cose di cui parlare.”

Per tutto il discorso, il tono di voce dell’uomo aveva rasentato il caritatevole, come se stesse cercando di spiegare ad un bambino perché è bene che non faccia qualcosa. Lo sguardo della donna era stato, invece, vacuo per tutto il tempo. Voleva solo andarsene da quella stanza, così non aspettò oltre e si voltò come un automa verso l’uscita. Era prossima a crollare appena possibile uscita da lì, ma fu raggiunta prima dalla voce dell’uomo che la richiamò un’ultima volta.

“Signorina, Argent, chiuda la porta prima di andarsene. Grazie.”

Solo allora il mondo le crollò addosso, rompendo in mille pezzi la facciata da lavoratrice modello che per anni era stata la sua forza.



 Kira

“Avanti, tesoro, non fare storie…”

“Mi scusi, ma devo andare.”

“Forza, tesoro. Non te ne pentirai, te lo prometto.” Le biascicò all’orecchio, provocandole un brivido di repulsione.

La ragazza da tratti asiatici cercò di divincolarsi docilmente. Non era la prima volta, che succedeva. Doveva solo mettere sufficientemente distanza per far morire le voglie dell’uomo anche per questa volta. Doveva solo resistere anche questa volta.

“Signore, la prego…”

Rabbrividì quando sentì chiaramente il ghigno del suo capo sulla pelle. “Mi piace quando supplichi.” Le mormorò sul collo lascivamente.

Lei odiava quei momenti. Odiava essere impossibilitata a rifiutare quelle attenzioni forzate con un bel calcio. Quando tornava a casa, dopo una giornata in cui sentiva lo sguardo incessante dell’uomo fisso su di lei, spesso si sfregava la pelle sotto la doccia così forte da lasciare segni rossi per ore. Dopo essere toccata si sentiva così… sporca. La notte si ripeteva che tutto quello non si sarebbe mai più ripetuto, ma regolarmente si ritrovava la mattina dopo davanti all’armadio a scegliere i vestiti che meno avrebbero attratto l’attenzione del suo datore. Ogni mattina si ritrovava lì, di fronte all’armadio, perché necessitava di quel lavoro. La sua famiglia contava su di lei: non poteva permettersi di perdere una fonte di reddito fissa.  

“Signor Dugglas, per cortesia, devo andare. Mi hanno chiamata.” Mentì, sfoderando un finto sorriso di circostanza, quando in realtà lottava contro se stessa affinché non le tornasse su la bile.

“Bugiarda.” Le sussurrò, però, lui con un ghigno saputo. “Ho dato ordine che ti lasciassero libera per tutta l’ora.”

Quella rivelazione la spaventò. Un’ora, un’ora intera con quell’uomo viscido… Non si eramai spinto fino a quel punto. Si era sempre accontentato di semplici e brevi incontri, ravvicinati, certo, ma grazie al cielo sempre di qualche minuto. Un’ora…

“Non pensare, tesoro.”

Era un anno che quella situazione andava avanti. Era iniziato tutto con dei semplici contatti. Strusciamenti casuali. Richieste inaspettate di documenti che non erano mia stati di sua competenza. Richiami sporadici nell’ufficio dell’uomo o durante le pause delle riunioni.
Più la vedeva, più il suo stipendio si alzava. Lei non se ne era accorta subito. Era stata assunta da poco, ma necessitava di quei soldi come il pane, perciò non aveva avuto obiezioni. In realtà pensava fosse dovuto agli straordinari che si era ritrovava a fare, nonostante non si fosse mai proposta per quei turni serali che tanto la sfiancavano.
Solo con il tempo aveva collegato i punti: la firma del datore di lavoro sullo schedario, tutti quei tentativi di instaurare un contatto, le ore serali in cui si tratteneva anche lui, nonostante lei non lo vedeva fare altro che guardarla ossessivamente.

Lui le aveva dato il tempo di abituarsi a quelle entrate, solo per minacciarla subito dopo di licenziarla se si fosse sottratta alle sue attenzioni. E lei ci era cascata. Era stata così cieca…

“Signore, è tardi. Devo tornare a casa.”

Sapeva di aver esagerato. Mai da quando tutto quello era iniziato si era scostata così bruscamente e con parole tanto instabili. Lo sapeva e lo schiaffo che ricevette ne fu la dimostrazione lampante. Non fu troppo forte da lasciarle il segno della mano, lui faceva attenzione a non lasciarle mai segni visibili, ma era sicura che l’anello che l’uomo portava sul dito medio le avrebbe lasciato un livido non indifferente sullo zigomo.
Era strano quanto in quel momento si preoccupasse più di dover trovare un modo per nascondere l’imminente segno, che tremare per la piega che la situazione aveva preso. Rabbrividì quando realizzò la quotidianità con cui quegli incontri avvenivano e quanto in fretta lei si fosse abituata.  

“Vai! Ma non venire a piangere da me quando i tuoi genitori si ritroveranno in mezzo ad una strada per causa tua!” gridò, furioso come lei non lo aveva mai visto. Lui sapeva. Sapeva e usava la famiglia contro di lei. L’aveva sempre fatto, sin dall’inizio, con le progressive aggiunte economiche che aveva ricevuto.

“Signore…” tentò con la mano ancora sulla guancia, come a cercare di far passare il dolore.

“Vai! Ma sappi che se esci da quella porta, puoi dire addio al tuo lavoro!” urlò lui, gli occhi rossi dalla rabbia e il sudore che colava dal viso al collo per le sensazioni che provava e che aveva cercato di sfogare su di lei.

La donna sussultò, facendo oscillare impercettibilmente i lunghi capelli corvini, la mano appoggiata sulla maniglia non ancora abbassata.

Sapeva che se fosse andata via, con buone probabilità sarebbe finita in mezzo ad una strada. Era una delle poche certezze che aveva, così come quella che se invece fosse rimasta, l’uomo non si sarebbe più accontentato di semplici strusciamenti e palpeggiamenti. Quanto era pronta a sacrificare per sé e la sua famiglia? Quanto era disposta a perdere?


 
***

 
Ci sono diritti, i diritti delle donne, che spesso non vengono considerati. Diritti che vengono sottovalutati, perché ritenuti “scontati” o inventati solo per richiamare attenzione, per strumentalizzare la società.
 
Nessuno ha il diritto di dirvi cosa indossare!
Nessuno può assicurare che con un paio di pantaloni invece di una gonna sareste state al sicuro. È raccapricciante sentire che la colpa è della donna con la gonna e non dell’uomo dalle mani troppo curiose.
 
Nessuno ha il diritto di emarginarvi solo perché siete intelligenti!
Nessuno dovrebbe fingere di essere ciò che non è solo per essere accettato. È impensabile che una donna debba sopprimere il proprio essere per ricevere attenzione.
 
Nessuno ha il diritto di dirvi che non potete fare qualcosa solo perché siete donne!
Nessuno può mettere bocca su come una donna reagisce al proprio essere. È spaventoso che una gravidanza possa essere vista come una colpa, così come lo è trattare una donna in modo diverso solo perché mancante di qualcosa tra le gambe.
 
Nessuno ha il diritto di minacciarvi sul lavoro con atti sessisti!
Nessuno si deve permettere di alzare le mani su una donna. Le attenzioni sul luogo di lavoro nei confronti di una donna, impossibilitata a difendersi, sono uno tra gli atteggiamenti più bassi e meschini che possano essere fatti. 
 
Essere donna è una sfida, una lotta continua per dimostrare di essere degne di attenzioni.

Essere donna vuol dire
Che non si riesce ancora a pensare a nessun altro crimine in cui si è così pronti a dare la colpa alla vittima: qui le donne sono ritenute responsabili del comportamento dei loro aggressore. E questo rivela quanto sia radicata la tendenza a dare la colpa alle donne nella nostra cultura.

Essere donna vuol dire
Essere denigrata se si è intelligenti. Una ragazza poco brillante ammira sempre le doti del proprio uomo, che per lei sono irraggiungibili: accresce l’ego. Se nella coppia la donna è intelligente come l’uomo, si crea una competizione che rovina il rapporto: si preferisce un rapporto sbilanciato! Una donna capace e ambiziosa come il suo uomo calpesta il suo senso di superiorità: questo l’uomo, anche solo inconsciamente, non lo accetterà mai. La donna intelligente potrebbe guadagnare anche più del suo uomo: è disdicevole portare avanti la casa in due. Una donna stupida si fa condizionare e pilotare più facilmente di una donna intelligente.

Essere donna vuol dire
Essere scambiata per la segretaria, per la donna delle pulizie, per l'hostess anche quando si ricopre un ruolo di alto livello.  
Non essere chiamata con il proprio titolo riconosciuto invece ai colleghi, ad esempio dottore o ingegnere, ma con il proprio nome o altro come "cara", "stellina" o "principessa".
Sentirsi chiedere a un colloquio di lavoro se si ha intenzione di avere figli, rischiare il posto in caso di maternità, trovare cambiamenti al rientro. Donna in età fertile e carriera non sembrano essere viste di buon occhio.
Subire discriminazioni che derivano da stereotipi sessisti come avere limiti, non poter accedere ad avanzamenti, a posti dirigenziali, essere sottopagate, non avere gli stessi scatti di livello rispetto ai colleghi.
Ritrovarsi con colleghi che esibiscono complicità da caserma, assistere a battute volgari e sciocche, modi per banalizzare l'autorevolezza di una donna, rimetterla "al suo posto", ridefinire i ruoli. Ricevere insinuazioni legate alla sessualità, ammiccamenti e anche palpeggiamenti.
Sentirsi dire di avere il ciclo quando si esprime un'opinione in modo fermo o ci si arrabbia per qualcosa.
Capire di non essere considerata attendibile, autorevole come un uomo. Veder richiedere la presenza di un lui per avvalorare le nostre idee, decisioni, comportamenti, competenze.
Essere messa in disparte, non avere voce in capitolo, non riscuotere credibilità, non avere responsabilità. Ricevere atteggiamenti di sufficienza, arroganti o di falsa cortesia finalizzati a mettere in discussione le capacità professionali.

Essere donna vuol dire
Sperimentare sulla propria pelle il significato della parola abuso.
Abuso:  quel comportamento che comincia da un agito ragionevole e che continua nel’uso improprio della forza fisica e psicologica. L’abuso riguarda tutte le forme di molestie includendo anche quella sessuale e quella relativa alla razza , inoltre riguarda il bullismo e il mobbing. La minaccia fa riferimento alla minaccia reale di morte o alla minaccia di danneggiare la persona o le proprietà della persona.






Note dell'autrice.
Ciao, parla qui una donna con la testa che le scoppia e la febbre alta. Per motivi tecnici mi è stato impossibile pubblicare questa storia ieri, l'8 Marzo, e per questo ho fatto i salti mortali per riuscire a pubblicarla almeno oggi.  
E' una storia con una tematica che mi sta molto a cuore e che spero di essere riuscita a spiegare e trasmettere al meglio. E' difficile trattare tematiche delicate nel rispetto di ogni parte in causa presente e chiedo scusa in anticipo se qualcuno dovesse averla vissuta in maniera negativa o se si dovesse sentire offeso.  
Come ho già preciasato prima, l' "uomo" di cui parlo non deve essere visto come un modello comune a tutti. Quel tipo di uomo trattato, sempre se di uomo si tratti, è un tipo che purtroppo è presente nella nostra società (pur non essendo obbligatoriamente in tutti gli uomini!)
Nei vari flash, non vengono dichiaratamente espressi i nomi, nè dal narratore nè dagli stessi personaggi, in quanto volevo sottolineare una cosa: solo gli oggetti non hanno nome. 
In più, l'assenza di un soggetto be definito permette la sostituzione dello stesso con ulteriori personaggi; in quanto in questa storia non si parla di quattro donne, ma dell'intero mondo femminile. 
Pareri positivi o negativi sono sempre ben accetti:) 
Grazie a chi è arrivato fin qui e ha speso tempo per leggere questo piccolo delirio di una donna -ne sono fermamente convinta- in fin di vita! :))
   
 
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