Nota
dell'autrice:
È
doveroso che inizi con le
mie scuse più sincere ai lettori che avevano recensito o
inserito questa storia
fra le seguite o le preferite: stavo provando ad aggiornare il
prologo e -
dando prova di assoluta inettitudine - ho accidentalmente
cancellato tutto.
Sono sinceramente mortificata e mi scuso profondamente del
disagio arrecato.
Spero di potermi far perdonare.
I
personaggi di Saint Seiya
appartengono a Masami Kurumada e alle altre persone giuridiche
competenti; i
personaggi storici e mitologici sono di dominio pubblico; i
personaggi
originali appartengono a me. Questa storia non è scritta a scopo
di lucro. Ulteriori
note al fondo.
La rosa dei venti
Prologo
Il
nostro giardino
Il
faut cultiver
notre jardin
-
Voltaire, Candide
ou De l’Optimisme -
Santuario,
17 aprile
1987
Aphrodite
amava l’ordine.
Amava
l’ordine perché Ordine
è Bellezza; e la Bellezza è l’ordine, sottile e misterioso,
nascosto nella
trama delle cose, l’ordine silenzioso che segna ascisse ed
ordinate
nell’amalgama indicibile del caos – e fa il Sublime.
Aphrodite
dall’alto vedeva,
contemplava. Dall’alto della sua Dodicesima Casa, dalla quiete
del suo
santuario di petali e rovi, dalle contraddizioni quasi sopite,
quietate, che
aveva sentito, sofferto, compiuto e talora anche amato; da lì,
dall’alto, anche
la vita gli sembrava bella – più bella di quanto avesse mai
visto e capito
prima.
Ma
la pienezza languida e
matura d'un pomeriggio calmo è sempre troppo breve: seguita il
tramonto; e
l'orizzonte placido e brillante segna il confine d'un
presentimento. Non che
Aphrodite credesse alle sensazioni: aveva abbastanza precedenti
per veder le
premesse e trarne le dovute conclusioni. Però questa volta era
sorto,
inaspettato, un giorno nuovo, un giorno diverso, un giorno
ch'era stato una
sorpresa: questo tramonto era d'un'altra sorta.
Dall'alto,
Aphrodite vedeva;
ma non si vede mai dove finisca il cielo: l'altitudine diventa
una vertigine,
lo sguardo coglie solo linee tremolanti – ed i dettagli, che
celano gli dèi,
non sono più che miraggi indistinti.
“Cosa
rimugini?”
Il
tepore secco e noto d’una
mano amica, familiare, di una pelle la cui consistenza, la cui
trama, avrebbe
saputo ridire a memoria, gli si posò sull’incavo tra la spalla e
il collo, là
dove palpita una favella ancora di vita. Quella mano forte, che
– discretamente
– prendeva la sua quando questa tremava, era la mano cui
rivolgeva la sua più
sincera, intima gratitudine, l’unica mano che potesse toccarlo
così – entrambi
disarmati, pronti a ferirsi, a lasciarsi far male, trovandovi
una forma di
piacere, o di consolazione –, nonostante tutto, tutti gli
sguardi e le parole
dette male o per scherzo crudele, privato, tra loro, nonostante
tutti gli
errori, nonostante tutte le carezze scambiate, troppo tenere –
spesso – per non
essere brutali per il fondo del cuore – o forse proprio per
questo. Era l’unica
mano che avrebbe voluto l’accompagnasse, stringendo la sua, fino
alla fine dei
suoi giorni, ancora una volta – mano non di rose ma di sole e di
ombre
indicibili; mano tanto amica, tanto nota.
Perso
nei suoi pensieri,
perso nel pomeriggio, non l'aveva sentito arrivare; non l'aveva
visto salire.
Sapeva benissimo come avesse trascorso il suo giorno fra le
macerie della Casa
che gli appartenne, fermo al passaggio che dovette custodire, il
suo museo, il
suo cimitero; sapeva benissimo che voleva andare.
“Stavo
riflettendo,” rispose,
con un sorriso accennato, nella voce più che sulle labbra:
voleva quel che
voleva, ma s'era risolto a venire – forse per farsi convincere,
forse per farsi
tentare; forse soltanto per salutare. Convincerlo, Aphrodite
poteva, e farlo
ragionare; tentalo era quasi banale... ma era impensabile
doverlo salutare.
“Fin
qui c’ero arrivato pure
da solo, sai?”, Cancer gli sedette accanto, sull'ultimo gradone,
nell'angolo
che volge alla roccia, dove la montagna si schiude appena con un
cenno segreto,
un occhiolino, e lascia intravedere uno scorcio di mare in
lontananza. Vestiva
un ghigno che imitava il solito, ma era più stanco, un po' più
finto, troppo
poco violento per rassicurarlo che tutto fosse come sempre, che
nulla fosse
cambiato; probabilmente Deathmask intendeva solamente
rassicurare sé stesso – e
i muscoli tirati della faccia, in una smorfia che tenta appena
d'essere
l'usuale, son meglio di niente. Eppure, stavolta non osava
guardarlo: si
fissava le mani, pigramente giunte fra le gambe aperte – in una
posa
studiatamente lassa, scomposta, un po' arrogante –, e le punte
dei piedi, per
evitare di scorgere le nuvole vaganti e l'azzurro più in basso,
più profondo e
assai più invitante, che lo chiamava dallo squarcio nel monte; o
forse solo gli
occhi intelligenti di Aphrodite, quasi di mercurio in quella
luce dorata e
calante. In un'altra vita, Saga gli aveva detto che
all'imbrunire aveva gli
occhi duri di un inquisitore.
Deathmask
sapeva che allo
sguardo d'Aphrodite è difficile sfuggire – e che, per capire
lui, non aveva
neppure bisogno di osservare. Così sapeva anche che Aphrodite
non amava girare
intorno alle questioni: elegante, gli avrebbe dato uno spazio,
un'apertura per
parlare, usandogli il tatto che ci vuole verso un parigrado e –
occasionalmente
– verso un vecchio amante; ma, al suo silenzio, non avrebbe
indugiato a
domandare, senza tentennare, senza dargli tregua, come si fa con
gli amici di
sempre.
Con
Aphrodite, in fondo, fra
indulgenza e tortura non c'era una netta distinzione: faceva
sempre quel che
credeva ci fosse da fare, non si curava di quanto facesse male –
almeno non a
sé stesso: per loro, serbava un poco di riguardo, quel po' di
compassione che
troppo di rado riusciva a mantenere –; metteva in conto tutte le
conseguenze,
sapeva ch'è inevitabile soffrire. Ma non era Shaka: non s'illuse
mai di non
sentire.
Forse
era anche quella una
forma d'amore; lui, dal canto suo, d'amore non se ne intendeva:
facevano
l'amore a modo loro, un amore che entrambi non erano avvezzi a
dire – la
tenerezza sovente un sottinteso. L'amore d'Aphrodite era come un
pugnale che
affonda nella piaga, con una mano ferma, per farla sanguinare,
finché non sia
purgato tutto il marcio; se necessario, l'avrebbe riempita anche
di sale, per
disinfettare... L'amore di Aphrodite era un amore facile da
odiare.
Eppure,
Deathmask non l'odiò
mai: avrebbe voluto solamente poterlo ringraziare, avere le
parole, saper come;
essere in grado di dire che, per lui, la tenerezza era la
gratitudine di non
aver dovuto vederlo morire, di non aver dovuto ricomporlo in un
abito formale,
avvolgerlo in un sudario bianco più della sua pelle, piantarlo
troppo in fondo
nella terra, assieme alle sue rose. La tenerezza era l'immenso
sollievo di non
aver dovuto volergli fare compagnia fino alla fine, per poi
lasciarlo andare,
guardandolo cadere, senza riuscire a distogliere lo sguardo –
no, non avrebbe
potuto smetter di guardare, neanche nell'orrore: togliere gli
occhi di dosso ad
Aphrodite è quasi impossibile, comunque è un errore, sovente
letale. Deathmask
non aveva smesso di guardarlo neanche sprofondando insieme:
fisso, solo lui,
come se invece che all'Inferno si stessero tuffando nel piacere.
Sarebbe stato
intollerabile non poterlo seguire, dover rimanere; adesso gli
pareva
altrettanto intollerabile non poter andare - né avere il
coraggio di chiedergli
se lo volesse accompagnare.
Anche
volendo, Deathmask non
sapeva da dove cominciare.
Però
oggi anche Aphrodite
aveva bisogno d'interrogarsi interrogando lui, ad alta voce, per
mettere ordine
in mezzo ai propri pensieri, tirarseli vicini: talvolta, se si
sta troppo in
alto, si è troppo lontani per vedere; talvolta quel che si
chiede non è una
domanda, ma una conferma, o una rassicurazione.
Tutto
era quieto, si muoveva
appena: i suoi capelli lunghi, li scostava la brezza – mite,
accennata – che
soffia quasi pigra a metà aprile; il sole arrossato, declinando,
glieli
infiammava d'oro brunito, un riflesso più scuro che scivolava
via di secondo in
secondo. Voltandosi a guardarlo, Deathmask pensò che non ci
fosse nulla di più
bello al mondo: bello come un segreto condiviso; bello come le
cose troppo
esili per essere fragili, che restano sempre e sono spietate.
Neanche lui era
un uomo di pace, neanche lui lo sarebbe mai stato: se glielo
avesse detto,
avrebbe capito; se l'avesse invitato, forse l'avrebbe seguito.
"Questa
pace sospesa non
potrà durare", Aphrodite andò diritto al cuore della questione,
senza
preavviso, esattamente come era solito fare. Non era altro che
una
constatazione, una presa d'atto, una premessa su cui ragionare –
ed un ricatto:
non te ne potrai andare –; ma era anche un fatto bruto e
vero: neppure
Deathmask lo poteva negare. Aphrodite non era incline ad essere
gentile, ad
indorare la pillola, a consolare, a rassicurare; ma con lui
pareva sempre
funzionare – in fondo Aphrodite, da bravo giardiniere, estirpava
i problemi
alla radice.
"Il
che ti
rincuora", non era una domanda, ma un'osservazione: le mani
d'Aphrodite
erano sporche, erano tagliate; la sabbia e la terra s'erano
infilate sotto le
sue unghie appena troppo lunghe, sempre curate. Non era stato
mai capace di
tollerar l'inerzia, di stare inoperoso, o d'aspettare un ordine
o una
spiegazione senza preoccuparsi, senza ragionare: la sua
insofferenza
nell'attesa dei marmocchi, gli invasori, fu di quelle che per
anni si sarebbero
potuti rinfacciare; s'era anche offerto d'andare a trucidare
Cepheus e i suoi
innocenti, soltanto per avere qualcosa da fare. Deathmask non
aveva provato
neppure a commentare: sapeva che le rose e il sangue l'aiutavano
a calmarsi ed
a pensare – in questo, si riuscivano a capire.
"Cercavo
di rincuorare
te", gli fece notare. "Siamo tornati indietro. Sai meglio di me
che
non è stata Athena, che non ne ha il potere. Siamo tornati
indietro... Può
esserci soltanto una ragione".
"Un'altra
guerra..."
"La
guerra. La guerra
che aveva da venire", Aphrodite lo corresse, con un mezzo
sorriso,
piuttosto divertito: si dilettava anche a correggere e
giudicare, ma – per
fortuna sua – solo raramente a predicare.
"Un'altra
guerra...",
insistette lui, per abitudine e l'usuale spirito di
contraddizione. "Forse alla fine niente dovrà cambiare", mormorò
quasi a sé stesso – forse con speranza, forse con terrore.
"È
già cambiato tutto.
Siamo cambiati noi", Aphrodite gli rispose con un'evidenza e con
rassegnazione. Come sempre, aveva anche ragione; Deathmask aveva
solo la
propria stanchezza ed un po' di rancore.
"Cosa
ti fa credere che
io sia in grado di combatterla, questa tua nuova guerra? Cosa ti
fa credere che
ci sia posto per me, tra queste fila? Non sono un santo, non
sono un eroe...".
Soltanto allora si rese dunque conto che, ancora una volta,
Aphrodite era
riuscito a farlo confessare, a fargli dire tutto quel che voleva
sapere – con
garbo, con una rosa rossa che all'apparenza non faceva male, ma
che ora gli
lasciava uno strappo nel petto, tra lo stomaco e il cuore.
Ancora
un'altra volta, aperta
la ferita, a modo suo Aphrodite la volle ricucire: "L'Inferno,
il Muro dei
Pianto, e che hai fatto sempre quello che c'è da fare. Cancer ti
ha punito, non
ti ha abbandonato; neanche tu ci puoi abbandonare."
"Ho
abbandonato Mei...
Cosa ti fa credere che non possa disertare?"
Aphrodite,
allora, parve
riflettere per qualche secondo, prima di sorridere, dolcissimo e
tagliente,
come la sera d'aprile, da mozzare il fiato in quel sole morente:
"Mei ...
al Chrysos Synagein chiederemo l'autorizzazione formale
per andare a
riprenderlo e farlo investire: se questa guerra sta per
incominciare, avremo
bisogno di tutti i guerrieri che riusciremo ad arruolare."
"Non
voglio mandarlo a
morire".
Non
era stato certo un
abbandono, ma solo il desiderio di poterlo risparmiare, la
sciocca conseguenza
d'un'insensata affezione: non voleva ammetterlo, ma non lo
poteva refutare;
Aphrodite, insolitamente magnanimo, non glielo fece notare.
"Allora
fa in modo di
essere qui per assicurarti che non accada".
"Sono
queste le tue
buone ragioni?", avrebbe dovuto essere sospettoso, non
incredulo.
"Oh,
no! C'è anche che
non hai nessun altro luogo in cui poter scappare: l'Inferno è in
subbuglio; e
la vita di provincia ti farebbe annoiare".
Quando
Aphrodite s'ammantava
di quell'aria saputa, superiore, Deathmask voleva solamente
cancellargli
quell'indifferenza un po' affettata dalla faccia, trascinarlo in
basso insieme
a tutti loro, farlo urlare; con gli anni escogitarono un sistema
che garantiva
a entrambi la giusta soddisfazione. Quell'aria saputa, ora
sapeva che voleva
dire; si devono scambiare le formule di rito, stereotipate ma
non sempre vuote:
"Potrei viaggiare, fare il gran signore... O dar retta a mio
nonno e
magari fare il console, o l'ambasciatore..."
La
risata d'Aphrodite ebbe la
consistenza della luce: ampia, spiegata, sembrava invadere la
valle; la valle,
gioiosa nella primavera, sembrava rispondere.
"Quanti
anni sono che
ormai ti conosco? Sei molte cose, amico mio, ma non sei un
vagabondo, né un
diplomatico: ti piace troppo l'ebbrezza della lotta, il senso di
potere che
spetta solamente al vincitore; sai vincere le guerre, ma saresti
atroce ad
evitarle", ridacchiò ancora, riprendendo fiato. "E poi tuo nonno
sarebbe il primo a rimandarti al fronte."
Deathmask
non si sarebbe mai
spiegato come Aphrodite fosse riuscito ad abbindolare quel
vecchiaccio arcigno,
né come a sua volta ne fosse rimasto abbindolato.
"Voi
due andate
d'accordo perché siete stronzi uguale".
"Il
frutto non cade mai
lontano dall'albero", si limitò a sottolineare. "E poi tuo nonno
è un
fine giocatore: se t'interessassi un pochino agli scacchi,
magari non avrei
bisogno di cercare tanto spesso la sua compagnia, tra l'altro
piacevole",
concluse e si alzò lentamente, indicando con un cenno del capo
il suo giardino
privato, dove il veleno cede il passo solo ai fiori e alle spine
– soltanto uno
stolto si sarebbe illuso che non fosse quello il giardino più
rischioso.
"Vieni, ho risistemato il roseto".
Lo
scintillio nei suoi occhi
chiari – mentre gli tendeva una mano per aiutarlo ad alzarsi –
era malizioso e
invitante, ma nascondeva un fremito di dubbio: Deathmask lo
conosceva e se ne
accorse; s'avvide di quella sorta di timore, il tarlo del
pensiero che nemmeno
le cose fra loro fossero più come prima e non potessero più
esserlo, che
neppure Aphrodite lo potesse aiutare né trattenere. Ma la
proposta gli si serrò
intorno alla bocca dello stomaco come un pugno di ferro, con
tutta
l’eccitazione dell’attesa, della caccia o della danza: quello
che Aphrodite gli
stava offrendo era un rifugio cui ritornare, un buon motivo per
restare –
l'unico argomento stringente, ma che non voleva esporgli
apertamente. Afferrò
come stordito, inebriato, le dita protese, che si ritirarono
subito, scivolarono
via dalle sue; e, mentre Aphrodite si incamminava verso
l'ingresso – un brivido
nelle caviglie il solo sentore che temesse di non essere seguito
–, lui si
perse per un momento a contemplare la linea dei suoi fianchi
sottili, così
chiaramente maschili, e – con un piglio d'artista – non poté
fare a meno di
stupirsi di quanto fosse naturalmente lasciva quella bellezza,
di come potesse
stregare tutti i sensi senza nemmeno provarci, senza far niente.
Lo raggiunse
in un paio di falcate, gli afferrò un polso: doveva fermarlo,
non poteva
tacere.
"Ti
avrei chiesto di
partire con me", ammise, con lo stesso coraggio disperato che
disperatamente
aveva invocato nell'uccidere la prima volta, tanti anni prima,
quando era un
bambino.
Aphrodite
parve spiazzato: lo
fissava con gli occhi spalancati, nudi, stupiti; era uno sguardo
grato – era lo
sguardo di chi l'avrebbe portato nel suo orto chiuso, l'avrebbe
fatto stendere
sul terriccio morbido, su un manto di petali, su un letto di
rovi, e ce
l'avrebbe piantato, affondando le sue radici, annaffiandole,
tagliando quel che
avesse dovuto, solo per farlo restare.
"Grazie.
Grazie anche di
non averlo fatto", perché sapevano entrambi che cosa gli avrebbe
risposto.
Ma un'ammissione vale un'ammissione: "Qui c'è bisogno di noi,
questo è il
nostro posto. Ho bisogno di te: da così in alto, non sempre so
vedere."
Deathmask
capiva che cosa gli
voleva dire, ma era passato il tempo per parlare: "Sarebbe
comunque
rimasto Shura: figurati se quello si muove", la prese a
scherzare.
"Shura
è tutta un'altra
gatta da pelare". E già vedeva la mente d'Aphrodite mettersi a
intrigare,
a pianificare; ma anche lassù il tramonto s'era ormai consumato:
domani sarebbe
stato un altro giorno, e quasi tutto il resto poteva aspettare.
"Adesso
andiamo:
dobbiamo coltivare il nostro giardino."
*
Un
luogo nascosto,
Grecia; una notte di mezza estate agli albori del Tempo del Mito
"Su
cosa intrattieni i
tuoi pensieri, o nobile Athanasios?"
La
notte di mezza estate,
senza luna e senza stelle, era mite ed opprimente; un soffio di
brezza appena
smuoveva l'aria pesante, gravida d'umidità, che prometteva
pioggia; ma il passo
del nuovo venuto era leggero, come se appena sfiorasse la terra.
Dall'altura su
cui il nobile e prode Athanasios sedeva profondamente assorto,
si avvertiva
salmastro il sentore del mare, portato dal vento, e il profumo
dolce e pungente
dei fiori selvatici – crochi, oleandri, ginestre; mirti e
carrubi, qualche
giovane ulivo... – che avevano conquistato le rocce
tutt'intorno, indomiti,
orgogliosi e incuranti dell'ambiente ostile. Sì, quello era un
buon posto per
un baluardo, elevato e protetto, pensò il nuovo venuto dai passi
leggeri –
quello che aveva parlato –, accomodandosi anch'egli sulla nuda
roccia accanto
al nobile Athanasios vestito di oro. Entrambi volgevano al mare,
uno scorcio di
pece brillante incastrato tra il nero dei monti e il nero del
cielo, che il
nobile e saggio Athanasios non aveva più occhi per vedere. Era
bello,
Athanasios l'Ario, bello, forte e nel rigoglio degli anni,
quando la giovinezza
è virile e matura, non ancora avvizzita: aveva il profilo regale
ed aguzzo del
suo popolo di magi e di cavalieri; fra i fini capelli corvini,
increspati dal
sale e dal vento, non si celavano che pochi fili d'argento,
quasi preziosi; e
gli occhi dorati che aveva perduto, quegli occhi come
l'orizzonte un momento
prima dei bagliori dell'aurora, occhi da gatto, le donne avevano
detto che
rubassero l'anima – e si erano segnate contro la sciagura, senza
tuttavia poter
smetter di guardare. Non aveva bisogno dei suoi occhi di oro e
di rame il
nobile e virtuoso Athanasios, perché l'universo dentro di lui
era immenso; né
mai aveva guardato le donne e nessuno di rimando. Con quei suoi
occhi aveva
contato e dato un nome alle stelle, ne aveva studiato il moto
lento e costante,
nelle notti insonni e febbrili, con il suo amico accanto,
sfidandosi a quanto
lontano potessero arrivare a scovare il più remoto bagliore; con
il cuore, di
quelle stelle, entrambi avevano abbracciato il potere, e si
erano riconosciuti
e riscoperti come universi che si schiantano. Ed ora il suo
amico era di nuovo
lì, il suo cosmo così mutato eppure lo stesso... Quei capelli
biondi – che mai
Athanasios avrebbe rivisto, non in questa vita – non sarebbero
sbiaditi coi
segni del tempo; né quella pelle bianca, soffice e forte, da
uomo di pace,
sarebbe avvizzita; i suoi occhi blu come il cielo sopra le
steppe in un mattino
sereno non si sarebbero spenti nelle nebbie della vecchiaia o
nel buio della
morte. Athanasios non aveva bisogno di occhi per guardare le
stelle: ne sentiva
il moto e il potere, e non credeva ai presagi. Non c'erano
stelle nel cielo
quella notte, ma Athanasios le maledisse tutte.
"L'incantesimo
è
completo: non ci vedranno qui, né per questi monti, dal grande
ingresso fino al
mare, mio .... non so se chiamarti nobile o divino, amico mio",
rispose,
con un sorriso amaro. E l'altro gli prese una mano, sulla roccia
e la ghiaia, e
la strinse forte, continuando a guardare lontano, dove il cielo
incontrava il
mare e il nero era più scuro e profondo.
"Non
te ne dolere, non
tu che sei caro al mio cuore sopra ogni altro."
Athanasios
strinse di rimando
la sua mano fredda come il marmo, e con la voce rotta da
un'angoscia non detta
gli chiese, senza guardarlo: "Perché ne hai bevuto?"
Quell'altro
alzò le spalle,
lasciandosi cullare un momento dal vento salmastro e pesante che
gli
schiaffeggiava la faccia. "Cos'altro avrei potuto fare? Non sono
mai stato
un guerriero, non come voi altri; e quel mostro ti stava
uccidendo... I tuoi
begli occhi...".
Allora
Athanasios si volse,
gli carezzò il viso, muovendolo verso di sé, e ripercorse il
contorno di una
guancia, l'incavo del collo, il profilo del suo naso con la
punta di un dito;
dischiuse le palpebre su due sfere di oro, uniforme e lucente.
"L'allievo
del fabbro me ne ha fatti di nuovi, ma non ho bisogno di occhi
per
vedere," disse sorridendo. "Ma tu ti sei condannato forse ad
un'eternità senza pace, e per cosa?"
"Non
potevo lasciarti
morire, non quando non siamo ancora sicuri che tu conosca la
strada del
ritorno. Dobbiamo porre rimedio a quel che abbiamo fatto: in
fondo, è colpa
nostra."
"Oh,
Hermes, ma io
invecchierò, e morirò, mille e mille volte ancora, e tu,
costretto in una stasi
senza tempo, non potrai far nulla, potrai solo stare a guardare
ed aspettare.
Questo mi spezza il cuore."
"Meglio
che vederti
morire forse una volta sola e non ritrovarti per sempre. E poi
c'era la
bambina, dovevo portar via la bambina e tu non eri in
condizioni, dovevo
portare al sicuro anche te...". Ripensava a quella figuretta
esile,
riversa al suolo, al sangue che imporporava il suo vestito
bianco, alle piccole
mani che non avevano più la forza di fare pressione sulla
ferita, le dita quasi
dischiuse nella spossatezza che precede la morte. Strinse la
mano morbida e
calda di Athanasios, la sua carne viva, un poco più forte. "Un'
innocente..."
E
Athanasios distolse il suo
sguardo cieco, ed abbassò il capo, quasi con vergogna. "L'ho
condannata,
amor mio, ho condannato un'innocente. Ma il padre l'aveva
trafitta per aver
protetto me, passata da parte a parte come se non avesse
importanza... E che
importanza poteva avere ormai? Cosa sono, a confronto
dell'immortalità ed un
infinito potere, le tre vacche per cui, fra qualche settimana,
l'avrebbe
venduta in sposa ad un uomo con tre o quattro volte i suoi
anni?". Tremava
di rabbia Athanasios magnanimo e nobile, tremava per
quell'ingiustizia; tremava
perché a quella fanciulla del villaggio vicino – inviata a
servire alla Casa
dei Saggi prima che raggiungesse l'età da marito – lui stesso
aveva insegnato a
leggere e scrivere, a fare di conto, e i nomi che alle stelle
andavano
imponendo, e i segreti dell'universo che pian piano scoprivano.
"Come
potevo lasciarla morire per me? Ho versato il nettare dalla
coppa sulla sua
ferita, amico mio, prima di sigillare quel maledetto calice in
un'altra
dimensione cui neanche io potessi accedere. Non ho pensato al
giogo che le
stavo addossando, solo che non potevo lasciarla morire senza far
niente... Ed
ora ho dannato lei e l'anima mia". Athanasios allora avrebbe
pianto, se
ancora avesse potuto. "Non si è ancora svegliata... dorme un
sonno
innaturale, sulla cima del monte. Non so come il suo corpo
reagirà, non so se
crescerà, per morire e ritornare, ancora e ancora... O forse non
c'è
differenza, forse è come se ne avesse bevuto, e allora rimarrà
così per sempre.
Anche nell'incoscienza, il suo cosmo è immenso, e ne provo
terrore". Nella
sua voce c'era tutta la disperazione che aveva covato nei giorni
trascorsi – o
erano già settimane? che fossero mesi?–, quando il suo Hermes
era in missione
ed Athanasios, Athanasios il forte, Athanasios il lungimirante,
Athanasios che
non vacilla, aveva sorretto quello sparuto gruppetto di loro che
era scampato
alla lotta – guerrieri e sapienti ormai rotti – raccogliendone i
pezzi, ed una
bambina che ora era una dea e dormiva un sonno come di morte; e
aveva costruito
un rifugio, gettato le basi di un forte, mentre guariva dalle
proprie ferite –
almeno quelle del corpo. Aveva perduto il senso del tempo: i
giorni e le notti
ormai uguali, le stelle cantavano un muto lamento, il suo cuore
a lutto.
"Quanto sei stato via?"
"Quasi
una luna".
Rispose Hermes, dolce, o così dolce, così calmo e fidato. "Si
sveglierà...
Si sveglierà e rimedieremo a ciò che abbiamo creato". La sua
stretta era
di ferro, che non si rompe, e Athanasios per un momento credette
alle sue
parole.
"Abbiamo
creato gli dèi,
amico mio. Che cosa avremmo potuto riversare di più terribile
sul mondo?"
"Le
nostre intenzioni
erano buone."
"O
Hermes, quando
inventeranno un inferno ci lastricheranno la strada con le
nostre intenzioni!
Sono come bambini crudeli, ma col potere dell'universo nelle
loro mani,
abbastanza per saltare al di là dell'ordine delle cose e le
leggi della natura.
Sono come bambini, e giocheranno alle loro guerre e tutti gli
altri ne pagheranno
il prezzo. Sono come bambini: scriveranno le proprie leggende ed
esigeranno
adorazione. Si spartiranno il mondo. Saranno adorati: per
timore, reverenza, o
fiducia malriposta, saranno adorati. Ed è colpa mia. Verranno
per lei, verranno
per noi, non oggi, non forse domani, ma verranno e verranno
ancora, e che cosa
potremo fare?"
"Athanasios,
anima della
mia anima, respiro del mio respiro, tu sei onorato come saggio e
lungimirante;
tu chiamasti le stelle prima che avessero un nome, ne studiasti
gli influssi
sottili, ma non sei un profeta: non credere di conoscere il
futuro. Che
vengano! Proteggeremo la fanciulla, proteggeremo noi stessi e
questo luogo,
proteggeremo tutti. Abbiamo creato un abominio, ripareremo alla
nostra colpa.
Le stelle e la terra mi siano testimoni, li squarcerò tutti con
le mie stesse
mani, drenerò fino all'ultima goccia del loro sangue corrotto,
del mio stesso
sangue, se questo solo servisse a quietare il tuo spirito. Il
biasimo ricade
almeno altrettanto su di me; non farti carico di fardelli che
non ti spettano e
non disperare: è una stoltezza che poco si addice alla tua
saggezza e alla tua
lungimiranza". Quelle di Hermes erano parole formali e parole
d'amore,
perché non era solo l'amico e l'amante a parlare, ma l'uomo
giusto, Hermes il
pratico, Hermes il laborioso, e Athanasios lo sapeva – ma non
cambiava niente.
"Guardati
intorno! Erano
tanti i saggi e siamo rimasti in tredici! E quasi tutti si sono
dannati! Lì, quasi
alla vetta, Alrischa ha piantato un
giardino sul cadavere del suo bambino. Povero piccolo, il suo
corpicino era
così velenoso che è tutto un veleno lassù. E lei non ne può
morire. Lo hanno
trovato a giocare vicino al laboratorio, un gruppo di loro. Non
sapevano della
coppa che è sempre piena, non sapevano che non era lì, cercavano
le giare che
avevamo riempito: hanno testato su di lui ogni elemento ogni
pozione. Non
parlava ancora, nemmeno il suo nome, oh mio Hermes: 'Vernalis' è
difficile da
pronunciare. Camminava da appena una luna! Quando Alrischa è
arrivata non piangeva
più neppure: era livido e gonfio, e quelli continuavano a fargli
bere a forza
ogni ampolla, ma non poteva più inghiottire perché era già
morto. Ridevano,
dicevano che era una questione di tempo, che avrebbero trovato
la bottiglia
giusta. Continuo a vederla nella mente di Alrischa,
quell'orribile scena. La
sua anima continua ad urlare il suo dolore ed io non la posso
fermare. Aveva
una fiala con sé, povera donna: andava a testarla sui fiori e
sul fuoco, non si
era accorta di nulla, non aveva sentito il pericolo. E ne ha
bevuto. Li ha
uccisi tutti, tutti tranne uno che le è sfuggito, a mani nude e
senza armatura:
ha strappato loro gli arti uno alla volta, ha aperto le
mandibole che avevano
osato ridere, come prugne mature; ha spappolato loro i cuori di
pietra ancora
nei petti. Ma il suo spirito grida ancora vendetta, è una fiamma
che non si
placa, che vuole bruciare il mondo perché non può estinguere sé
stessa. Laggiù,
quasi a valle, Mephitis, che del piccolo era altrettanto madre
che se fosse
uscito dalle sue viscere, continua a cercarne l'essenza nel
regno dei morti.
Non lo troverà, e non avrà mai pace: anche lei ha bevuto - non
ne so la
ragione, forse per non lasciare Alrischa da sola. E lì, un poco
più in basso,
Castor piange il gemello ucciso - il primo a cadere: pugnalato
alle spalle,
diritto nel cuore. Pollux non aspettava l'attacco: quando Castor
è andato a
recuperare il suo corpo lo ha trovato lì, alla sua scrivania,
riverso sulle sue
carte come se il sonno l'avesse sorpreso, ma niente in lui aveva
le sembianze
del riposo. È stato uno di noi, Hermes, un traditore. Lo vedo
ogni notte nei
sogni di Castor: il corpo di Pollux è una bambola di cera rotta,
che gocciola
sangue come una clessidra. Ed anche Castor aveva bevuto, il suo
tormento non si
spegnerà nel silenzio, non troverà mai pace né il fratello
nell'altro mondo: a
sé stesso Castor è morto e lo spettro di Pollux vive ancora.
Sargas trascinerà
uno squarcio nel fianco fino alla fine dei tempi, per proteggere
Bàn il
Bibliotecario, l'amico suo prediletto, che distruggeva le note
delle nostre
ricerche, perché quelli non potessero averle. Ma quelli erano
già giunti agli
Archivi, quindici, venti, cinquanta, tutti armati di daghe e di
lance bagnate
d'ambrosia e coperte di incantesimi che neanche io conosco né
posso spezzare -
armi che tagliano l'oro delle nostre vestigia, armi che tagliano
le carni
immortali. Bàn, quando ha visto Sargas accasciarsi, ha
trasformato la
biblioteca in un inferno di ghiaccio, così freddo da annullare
la materia: ogni
libro, ogni appunto, tutto il sapere che avevamo raccolto è
perduto; lo è un
po' più anche il cuore di Bàn per ogni giorno che Sargas non si
risveglia.
Niente sembra guarire la sua ferita – non il sangue immortale,
neppure la
stessa ambrosia –; ma l'anima non può lasciare il suo corpo. Bàn
veglia sul suo
sonno senza sogni, rinchiuso in un silenzio di morte. Bàn
veglierà il suo sonno
sino alla fine dei tempi, finché le stelle saranno tutte spente,
forse anche
dopo, se gli immortali continuano ad esistere senza spazio né
tempo. Nath il
grande, Nath il buono, a sua volta ha bevuto per impedire
all'allievo del
Fabbro di farlo ed ora attende a lui lì a valle, mentre quello
veglia smarrito
l'armatura del suo maestro senza osare vestirla. Quanto
smarrimento, quanto
terrore, sento nel suo giovane cuore... Nashira dal braccio e
dal cuore
affilati, Nashira l'inamovibile, è in preda al dubbio, la sua
risoluzione
vacilla, ed io non posso guidarla, non posso guidare nessuno di
loro! Kiffa il
temperante, che è il più saggio ed il più anziano di noi, non ha
bevuto: passa
i suoi giorni seduto lassù, assorto in profondi pensieri. Ci
aveva detto che
sperimentare con forze che non conosciamo era avventato, ci
aveva messi in
guardia; e noi, stolti che siamo, gli rispondemmo che troppe
cose non
conosciamo ancora a questo mondo, e come potremmo apprenderle se
non
sperimentando? Eppure, non ha avuto una parola di biasimo o di
rimprovero per
me e per tutti noi: semplicemente riflette, è rinchiuso in una
meditazione
senza calma. Neanche Zosma e Crotus hanno bevuto, non credo che
lo faranno da
quel poco che siamo riusciti a mettere in salvo. Zosma ha
voluto, ha dovuto
combattere nonostante il suo stato; il prezzo da pagare è stato
tremendo, ed io
e l'allievo del fabbro abbiamo dovuto riscuotere il conto:
perdeva sangue nero
a tre giorni dalla battaglia, era in delirio, stava morendo... E
noi abbiamo
dovuto strapparle dal ventre quel cadavere appena formato che
ancora si portava
dentro, mentre lei ci implorava di non farlo, di lasciarlo lì, e
Crotus – che
era il padre – le teneva la mano, le bagnava la fronte, la
teneva attaccata al
mondo. Si erano scambiati l'un l'altra voti infrangibili – gli
stessi voti che
pronunciai per te, e tu per me, con lo stesso ardore – che non è
ancora volto
un ciclo delle stagioni. Ora Zosma si aggira irrequieta di
giorno e di notte,
sorveglia il perimetro, mantiene la guardia, feroce come la
fiera delle sue
stelle; e Crotus dagli occhi acuti la segue da lontano, discreto
e in silenzio,
senza poterla domare né consolarla. Non so come dirle che il suo
ventre non
darà più frutto, non so come farlo, mio Hermes! E tutti gli
altri sono morti o
dispersi, ma forse la loro è stata una sorte migliore: io sento
tutto il dolore
di quelli che restano, il loro smarrimento, la disperazione. Che
consolazione
posso offrire io? Come puoi dire che non devo portarne la colpa,
per loro e per
tutti gli altri che seguiranno? Mi guardo intorno, Hermes! E
quello che vedo,
quello che sento, non lascia spazio alla lungimiranza: di tutti
i Saggi non restano
che dodici guerrieri in pezzi, molti col cuore in frantumi ed un
potere
terrificante; una bambina che io ho condannato; e tu, anima
dell'anima mia, tu
che sei il sacrificio più brillante e più doloroso di tutti".
Athanasios
tremava di rabbia e di angoscia, la voce piena di pianto in ogni
parola di quel
suo rapporto, di quella sua confessione. Abbassò il capo
sconfitto, con un
profondo senso di vuoto e di rassegnazione. "Dove posso guidarli
io, che
li ho portati a questo punto?"
Hermes
gli accarezzò i
capelli, ci affondò una mano con indulgenza, gli massaggiò il
cranio con
dolcezza, come in tante notti passate e notti a venire, quando
era troppo teso
per dormire, troppo stanco per sostenere il peso dei sogni; poi
lo tirò a sé, gentilmente,
a fargli posare il capo sulla sua spalla, e quello si lasciò
tirare con un
sospiro come di sollievo. La punta dello spallaccio di
Athanasios spingeva nel
suo fianco, ma era un fastidio gradito, il segno della vicinanza
e che erano
ancora lì, ancora armati, che si sarebbero rialzati.
"Allora
lascia che sia
io a guidarti. Sarò la tua stella polare, l'astrolabio e la rosa
dei venti;
troveremo insieme la strada". Si chinò a baciargli la fronte,
con
tenerezza e con devozione. "Tu vedi una manciata di uomini
rotti, io vedo
un manipolo di possenti guerrieri, di grandi sapienti,
sopravvissuti. Abbiamo
visto la battaglia, conosciamo il nemico, abbiamo doti e risorse
per
fronteggiarlo e tutto il tempo del mondo - letteralmente. È
doloroso, ma non è
un male. Qui costruiremo un rifugio, erigeremo un Santuario; di
qui
proteggeremo la bambina, gli oppressi ed ogni vita preziosa.
Faremo tutto il
possibile per mantenere la pace. Istruiremo le generazioni a
venire, perché
veglino su questo luogo e sulla piccola Athena se ce ne sarà
bisogno. E gli
altri verranno - come potrebbero non venire? è un'esca troppo
ghiotta! Saremo,
saranno pronti ad accoglierli. Ma quando saremo forti e
protetti, tu ed io e
quelli di noi che restano - noi i colpevoli, noi i primi -
partiremo a cercare
una soluzione lontano da occhi indiscreti. Forgeremo nuove armi,
inventeremo
nuove trappole, decimeremo le fila nemiche, finché non troveremo
la nostra
redenzione ed aggiusteremo il mondo. Ti giuro che lo faremo, lo
giuro su tutte
le stelle, sugli occhi che ti hanno strappato, sull'amore
infinito che porto
nel cuore e l'universo che mi brucia nel petto".
Athanasios
annuì, quasi
rincuorato, e gli adagiò le labbra morbide sul collo in un bacio
lievissimo.
"Dimmi che porti buone notizie...". Era un mormorio ed una
preghiera;
e si trovò quasi a sorridere di sé stesso: non aveva mai
pregato, perché aveva
sempre saputo che non c'era niente cui pregare ed era ancora
vero – niente al
mondo era degno d'essere pregato, se non quell'uomo al suo
fianco, che sempre
era e sempre sarebbe stato il suo unico dio.
"Hanno
il Fabbro".
Rispose Hermes, essenziale. "Lo hanno costretto a bere e lo
tengono in
catene in uno stato di semi-incoscienza, ma la sua volontà non è
piegata".
"Vogliono
che fabbrichi
per loro un esercito...Oh Hermes!"
"Lo
libereremo, abbiamo
tempo: Ephaistos è un giovane forte, temprato come i suoi
metalli, il suo
spirito è inamovibile. Lo riporteremo a casa, è la nostra
priorità".
Hermes era così sicuro delle proprie parole che Athanasios gli
credette, ma
ancora rimaneva l'inquietudine, l'orripilante sospetto:
"Sapevano come
trovarlo... come soggiogarlo...".
"Sono
d'accordo con te:
c'è un traditore. Non sono riuscito a scovarlo però: di tutti i
dispersi, il
Fabbro è l'unico che ho veduto".
"Se
vogliono un esercito
e il Fabbro non collabora cercheranno di conquistare il suo
popolo! Hanno il
segreto dell'alchimia e poteri immensi! Sono tutti in pericolo!"
"Ho
già avvisato
l'allievo: lui e Nath di Taurus sono partiti per Mu, con
l'ordine di metterli
in guardia, di supplicarli di andare in un posto sicuro, fra le
tue montagne
remote e nascoste alle mappe degli uomini, dove solo i rapaci
possano osare, e
di portare con sé i propri segreti". Hermes lasciò scivolare la
mano sulla
corazza di Athanasios e non vi sentì imperfezioni lasciate dalla
battaglia:
l'oro prezioso delle vestigia era caldo e sembrava cantare
amorevole al tocco
delle sue dita. "L'allievo del fabbro l'ha riparata. Ha fatto un
buon
lavoro".
"È
sempre stato solerte
ed è tanto saggio per i suoi anni. Ma gli manca il suo maestro".
"Glielo
ridaremo, e
ripareremo il resto. Per ora, quelli sono impegnati a litigarsi
l'ambrosia
rubata tra loro, a spartirsi territori e domini, a
gozzovigliare. Sono
selvaggi, con grandi poteri che ancora non conoscono bene né
sanno dominare.
Faranno le cose come sono abituati a farle, secondo il loro
costume. La guerra
tribale che già si prepara fra loro li terrà impegnati almeno
per qualche
tempo. Questa è la buona notizia. Saremo pronti".
Athanasios
allora rise e
nonostante tutto era divertito: "Devi lavorare alle tue buone
notizie,
Messaggero!"
Prima
di chinarsi a baciarlo,
col bacio che avrebbe dovuto dargli sin dal primo momento,
Hermes gli sorrise
di rimando: "Sei un uomo troppo esigente, o ingiusto Athanasios
che gli
stolti chiamano saggio! Mentì mai il povero e bistrattato Hermes
al tuo
cospetto? Mentirono mai le mie labbra alle tue o sulla tua
pelle?"
"Oh
Hermes scaltro e
mendace, e dalle dita leggere che vagano leste," gli disse
Athanasios,
quando ebbe ripreso fiato, "quante volte mi richiamasti dai miei
studi,
dall'arena, dai laboratori, pretendendo questioni della massima
urgenza, solo
per il piacere della mia compagnia nelle tue stanze? E non
promettesti forse
che mai il mio letto avrebbe conosciuto il vuoto della tua
assenza? Eppure,
ecco ora ritorni dopo quasi una luna...".
Ed
Hermes gli sorrise d'un
sorriso adorante e divertito, passandogli le mani sulla gola,
sulle ganasce,
sul collo sottile, su tutta la pelle che potesse trovare sotto
l'oro vibrante.
Athanasios poteva sentirlo, quel sorriso, vederlo così
chiaramente con occhi
più acuti e profondi di quelli che aveva perduto; e gli
rallegrava l'anima
tutta, gli stringeva lo stomaco.
"Mio
diletto Athanasios,
ognuno di quei richiami fu dalla mia mente alla tua, dal mio
cosmo al tuo, ma
mai al tuo cospetto... E forse il dolore della tua lontananza e
il desiderio
d'averti fra le mie braccia son ragioni da poco?" Ancora un
bacio leggero,
all'angolo della sua bocca. "Oh, iniquo, crudele Athanasios, hai
vegliato
sotto le stelle, ti sei assopito appena sulla nuda roccia per
quasi una luna.
Come avrebbe potuto il fedele Hermes riscaldare il tuo letto?"
"Sei
impossibile...", ribatté Athanasios, senza aggiungere nessuna
parola ma
solo un altro bacio profondo, guardandolo e guardandolo ancora,
guardandolo
tutto, con le proprie mani: i capelli ricciuti intrisi di vento,
le guance
rialzate, le palpebre chiuse su occhi d'un blu penetrante che
mai avrebbe
dimenticato, la forma della sua clavicola, il petto solido e
sempre accogliente,
la seta della sua tunica, l'incavo dolce della sua nuca, la
curva della sua
coscia...
Quando
si staccarono un poco,
sempre vicini, il più vicini che lì potessero stare, fronte
contro fronte,
erano entrambi affannati e accaldati come dopo una lotta.
"Conosco
un angolo ameno
dietro quell'altura, lungo il corso del torrente che mormora
piano",
sussurrò Hermes. "Vi crescono i crochi odorosi, belli come la
linea
dell'orizzonte all'alba o al tramonto; ginestre dorate dai fusti
sottili e
gelsomini selvatici, simili a quelli della tua terra, all'ombra
del mirto,
della salvia aromatica, di teneri ulivi... Lascia che ti conduca
lì a deporre
le armi, perché possa amarti su un letto di malva e papaveri e
riposare fra le
tue braccia, stanotte e ogni notte finché t'avrò costruito un
tempio e una casa
sotto la protezione delle tue stelle, oh Athanasios di Virgo."
Athanasios
si alzò, gli tese
una mano, lo sollevo e lo tirò a sé, non mollò la stretta.
"Mostrami la
strada".
Mentre
scendevano dall'altura
delle stelle e si incamminavano fianco a fianco lungo il pendio,
lasciandosi
alle spalle il mare con un passo appena affrettato che tradiva
impazienza e
batteva la roccia col ritmo di una promessa, l'aria era ancora
pesante, ma il
piede di Hermes era sempre leggero ed ora ancora più leggero era
il suo cuore.
Sì,
lì era un buon posto,
sicuro e nascosto dal mondo, per stare arroccati e aspettare – e
resistere
anche agli dèi.
*
Oltre
l'Inferno, lo
spazio ed il tempo (17 aprile 1987)
Non
aveva mentito: fu un
bagliore accecante, la vista assoluta che sorpassa gli occhi ed
i sensi e la
mente.
Bruciare,
insieme e tutt'uno,
come era stato nel grembo materno, quel calore avvolgente,
quell'essere
indistinti che sempre aveva cercato di ritrovare, da che era al
mondo, con
immenso dolore. In tanta luce che neppure lui adesso era più
un'ombra,
l'anelito era saziato in un altro anelito, non c'era più pena o
dolore.
Non
aveva mentito: fu
un'esperienza unica, che non lascia esperire nient'altro, che
svuota di ogni
sostanza ogni altra esperienza passata. Galassie che
conflagrano, si riempiono
e si svuotano, non sono più che un respiro pieno, così profondo
che dà alla testa,
dove non ci sia più aria o polmoni a respirare. Galassie che
conflagrano,
universi che si spengono ed esplodono... è tutto luce, luce la
sua stella
infausta, luce quella stella oscura, luce, luce e tepore, senza
distinzione.
Bruciare, bruciare infinitamente quando non c'è più nulla da
consumare e tutto
è completo.
Non
aveva mentito, ma quello
non era più un condividere, perché non c'era più divisione, non
più una morsa
di braccia e di gambe intrecciate, la schiena contro il suo
petto: erano e non
erano le sue braccia e le sue gambe, era e non era la sua
schiena e il suo
petto; e assieme era tutto un universo, un universo immenso, un
universo solo,
che bruciava così ardentemente, così dolcemente.
Bruciare,
bruciare, bruciare
insieme fino alla fine, fino oltre la fine, fino a dove la fine
e l'inizio, il
tu e l'io, non hanno più senso. E bruciare ancora, finché la sua
solitudine non
era più la sua - mai più, mai più solitudine! Il ricordo delle
mani di Saga e
di mille altre mani, di cento altre vite che aveva e non aveva
vissuto, di
amori profondi e sinceri andati alla polvere che aveva e non
aveva sentito; la
sua fedeltà e la sua ribellione; risvegliarsi ogni volta con la
morte intorno,
risvegliarsi senza Saga al suo fianco; cercare il sole, troppo
sbiadito e
troppo rovente per chi ne è tenuto lontano; essere un'ombra,
essere un fantasma
– non è poi così diverso –; la perdita e la privazione; le
labbra di Saga, il
tradimento e l'abbandono; la nebbia sulla campagna verde come
uno smeraldo,
sotto un cielo pallido che mai aveva visto e che era stato casa;
il Santuario e
l'Inferno; il sole sulle coste di Grecia; il fondo del mare
profondo sopra la
testa, un'altra prigione; promesse e promesse, mantenute ed
infrante; il suo
stesso viso che non era più il suo né quello di Saga, ma il viso
visto e
ammirato da un inconciliabile nemico; la giustizia, la
tristezza, la rabbia; la
misura, l'attesa, l'eccesso; fremiti uguali di desiderio per le
cose che non
possono essere mai... tutto era uno.
Non
aveva mentito - come avrebbe
potuto? -: non c'era più niente su cui potesse mentire, niente
da nascondere,
solo bruciare, bruciare, e bruciare ancora, insieme e tutt'uno.
Mai era stato
così sincero, più di sé stesso, così libero nel laccio mortale
di gambe e di
braccia che sono e non sono le sue, di stelle che non sono più.
Era quello che
aveva sempre voluto: essere intero di nuovo, essere uno, un po'
come essere
amato. Era quasi la pace. Avrebbe voluto piangere di tenerezza,
di gratitudine,
di una gioia inebriata. Bruciare, bruciare, così insieme e
tutt'uno, così per
sempre...
Fu
un morire così dolce, cui
dolce è abbandonarsi, lasciarsi andare, come alla risacca o
all'abbraccio di un
amante... fu un morire così dolce.
Poi
tutto finì e fu un vero
morire atroce e crudele, laddove la morte era stata tanto dolce,
tanto amata.
L'erba bagnata sotto la sua pelle nuda fu come uno schiaffo
doloroso, un pugno
allo stomaco. L'aria era umida e pungente: dopo la tenerezza di
tutto quel
bruciare, il freddo di quell'aria umida e pungente, il gelo di
essere uno, di
essere di nuovo solo, era peggio di mille ferite, peggio della
Cuspide
Scarlatta di Milo, peggio della linea diritta delle spalle di
Saga che si
allontanano senza voltarsi indietro per lasciarlo in una cella
senza uscita ad
annegare. Mai pena fu tanto grande che l'aver avuto quel che
sempre aveva
voluto, più vivido e così più assoluto del sogno sfocato d'uno
stato di
pienezza e di grazia prima dell'essere al mondo; di averlo
creduto per sempre;
di averlo perduto.
Dove
era stata luce, così
tanta luce, ora era buio: aveva gli occhi chiusi, aveva occhi
che erano suoi e
avrebbe voluto strapparseli – non osò aprirli, non subito, non
ora, non così,
no, no, no!
Cercò
disperatamente,
ciecamente, una mano, a tentoni fra l'erba bagnata, sulla terra
umida. Altre
dita, un poco ruvide, tiepide come della memoria di tutto quel
bruciare,
scivolarono fra le sue, spinte da un moto uguale e contrario.
Entrambi
strinsero forte, con un sospiro quasi di sollievo, per non
lasciarsi andare.
Non
era solo. Si fece
coraggio. Aprì gli occhi.
La
luce della prima mattina,
troppo bianca, troppo pallida, era tagliente, faceva male.
Insetti senza
colore, che sembravano ma non erano api, ronzavano pigri su
fiori senza colore,
fiori che non conosceva, sotto un cielo come di latte - senza
colore. Solo il
verde del prato, di qualche arbusto, di qualche stelo che
riusciva a vedere,
era incredibilmente intenso, lucido, quasi abbagliante; se
avesse alzato lo
sguardo avrebbe visto che il verde sui pochi alberi dai tronchi
pallidi sparsi
lì intorno era lo stesso: incredibilmente intenso, lucido, quasi
abbagliante,
in quel mondo pallido e senza colore. Per un momento fu troppo,
ne fu stordito.
Poi mise a fuoco le mura sullo sfondo, d'una pietra spessa e
grigiastra,
corrosa dal tempo; lo stipite intarsiato d'un portale gotico;
l'arco acuto
d'una trifora troppo bassa per essere stata progettata con cura;
la trama
neutra e discreta del tweed su due gambe piantate di fronte a
lui. Hortus
clausus, pensò, in una terra straniera che conosceva da
memorie non sue.
Pensò anche che avrebbe dovuto provare terrore di quelle gambe
fasciate di
tweed, elegante e discreto, del cosmo disumano ed immenso che ne
proveniva;
pensò che avrebbe dovuto essere in guardia, pronto alla lotta.
Ma che poteva
far lui, che era di nuovo uno soltanto, nudo e indifeso su
quell'erba bagnata,
nell'aria umida e troppo pungente, in quel giardino troppo verde
e senza
colore? Che cosa poteva lui, che solo voleva tornare a morire,
così dolcemente,
insieme e tutt'uno? Strinse più forte la mano dell'uomo che
aveva accanto,
strinse più forte l'eco di quel tepore, per non lasciarlo
andare.
"Kanon
di Gemini... il
mio preferito, bentornato", disse una voce da sopra quelle gambe
terrificanti, fasciate di tweed elegante e discreto. Kanon
spalancò gli occhi,
con lo stupore improvviso che non si può celare: era una voce
che conosceva, da
un tempo remoto e lontano, dai giorni dell'addestramento, dai
suoi giorni di
ombra in terra di Grecia. Non aveva parlato con molti in quegli
anni lunghi, lunghi
come sono gli anni per i bambini e i fanciulli, ancora più
lunghi per lui cui
era precluso il contatto con gli uomini: Saga e sé stesso; il
loro maestro; più
tardi, un bambino biondo e silenzioso, che gli portava sempre
dolci strani,
tondi ed esotici, e non apriva mai gli occhi; una volta
soltanto, Aiolos; e poi
quell'uomo. Alzò la testa. Non era invecchiato di un giorno.
Quello gli sorrise
bonario, poi si rivolse al suo compagno - anche lui nudo
sull'erba - che gli
stringeva forte la mano per non lasciarlo andare, e il sorriso
si fece più
compiaciuto.
"Rhadamanthys,
vecchio
mio", fece mellifluo, "tu sei uomo giusto e leale, e noi avevamo
un
accordo".
Rhadamanthys
della Viverna,
Stella celeste della ferocia, guardiano del Tempio di Saturno,
Giudice Infernale
e Primo Generale dell'esercito di Hades, grugnì con irritazione
e
rassegnazione, nudo sull'erba, e aprì i suoi occhi di fiera come
se si fosse
appena svegliato assai controvoglia. Kanon si sentì scuotere da
un fremito
inappropriato. L'uomo dalle gambe fasciate di tweed sorrise
ancora di più:
"La guerra fra il tuo signore ed Athena è finita, il fatto che
stiamo
parlando e il sole splenda ancora – per quanto possa splendere
in questa terra
stramaledetta – ti lascia ben intuire il risultato. Ma io sono
ancora qui e tu
sei di nuovo qui, e c'è una pila di esami da correggere".
Kanon
sbatté le palpebre,
guardando dall'uno all'altro, spaesato. Rhadamanthys grugnì di
nuovo: "Non
credo che fosse previsto che tu mi riportassi qui".
Quello
rise di gusto:
"Non era escluso. Avresti dovuto riflettere meglio sui termini e
le
condizioni, mio caro! Kanon, ovviamente la tua collaborazione
sarebbe molto
apprezzata".
Kanon,
che continuava a
essere all'oscuro di ogni informazione rilevante, ma che intuiva
che non si
stesse parlando solo di chissà quali esami, annuì cautamente,
perché conosceva
quell'uomo.
"Perfetto!",
disse
tutto contento, sfregandosi le mani – non era invecchiato di un
giorno –,
dunque si fece più serio: "Poi spero che vogliate ascoltare la
mia
proposta".
"Che
ne è stato del mio
signore?", chiese Rhadamanthys, con la voce quasi sottile,
insicuro come
mai Kanon lo aveva visto, se non in memorie di infanzia che non
erano sue.
Kanon strinse più forte quelle dita che tremavano appena, mosse
le proprie
leggermente, in una minuscola carezza – non lo considerò fuori
luogo: erano
stati uno, avevano condiviso la furia, la fedeltà, la perdita,
morendo così
dolcemente.
Rhadamanthys
continuò:
"Se non sono sciolto dai miei vincoli, sai bene dove ripongo la
mia
lealtà". E lo sapeva anche Kanon.
"Credo
che tutto si
risolverà per il meglio: ora abbiamo ampi margini per
contrattare una soluzione
soddisfacente per tutti", fu la risposta serafica dell'uomo dal
cosmo
immenso e le gambe fasciate di tweed, elegante e discreto, che
non era
invecchiato di un giorno in più di vent'anni. "Per il momento,
direi di
dirigerci verso le nostre stanze: le vecchie cornacchie stanno
per svegliarsi,
sono quasi le sei, e verrebbe loro un colpo a trovarsi due bei
giovanotti come
mamma li ha fatti nel giardino dei fellow. Non che non
sia capitato, per
carità! Ma di solito si tratta di matricole irresponsabili dopo
una notte di
baldoria, ed io preferirei evitare di ritrovarmi coinvolto in
uno scandalo col
mio miglior dottorando".
"Sono
il tuo unico
dottorando", rispose Rhadamanthys, alzandosi e tirandosi dietro
Kanon.
"Dettagli!",
sventolò
una mano per tutta risposta quell'altro. "Sono sinceramente
mortificato per la mancanza di vestiti: le resurrezioni sono
difficili di per
sé, ed ho dovuto recuperare i vostri atomi tutti mischiati!
Spero che non me ne
vogliate. In ogni caso, mi auguro che tu abbia un paio di
completi di scorta
nel tuo ufficio: non credo che niente di mio possa entrare al
nostro comune
amico", ridacchiò, incamminandosi col suo passo tanto leggero,
dopo aver
squadrato dalla testa ai piedi il buon Kanon e lanciato
un'occhiata eloquente
al proprio allievo.
Rhadamanthys
provò a
respirare profondamente, strizzò gli occhi, si massaggiò il mal
di testa
incipiente in mezzo alla fronte, e per mantenere la calma iniziò
a ripetersi
che non si uccidono gli dèi – anche se probabilmente gli altri
due sarebbero
entrambi stati in sonoro disaccordo. Pensò che sarebbe stata una
lunga giornata
e tornò a rimpiangere quel morire tanto dolce – anche se, ora
come ora, gli
sarebbe andato altrettanto bene essere semplicemente morto.
Conscio della
propria nudità, si incamminò velocemente verso il portale
gotico, dallo stipite
intarsiato e l'arco acuto, attraverso quel giardino che mai gli
era apparso di
un verde così incredibilmente intenso, lucido, quasi
abbagliante, nella luce
pallida e tagliente, sotto un cielo senza colore.
La
mano di Kanon nella sua
era ancora tiepida di tutto quel bruciare, insieme e tutt'uno;
ed era
rassicurante.
Camminando
lesti, dietro a
quei passi così tanto leggeri, si strinsero ancora un poco più
forte, per non
lasciarsi andare.
Note
dell'autrice:
La
prima versione della prima
parte di questo prologo datava 2009. Da allora, la storia che -
molto molto
lentamente - sto raccontando è cambiata, si è evoluta, si è
espansa, ed io sono
diventata più risoluta nella mia operazione di
autoconvincimento. Dunque c'è
una nuova versione aggiornata e corretta dell'incipit.
So
che i miei tempi di
aggiornamento con questa storia sono biblici, ma spero che
riordinando le
vecchie sudate carte riesca ad avere una buona base cui
agganciare il resto.
Per ora, impegni a sorpresa permettendo, confido di avere la
seconda parte del
primo capitolo pronta entro maggio.