Nota:
Salve a tutti! ^^
Eccomi
finalmente infiltrata anche nel Fandom xxxHolic. Se vi piacerò e vorrete
gentilmente accettarmi, vi farò il favore di restare. Il che sarà una bellezza
per me ed un grande onore!
Questa
mia prima fic è una DouWata, ma molto molto leggera (cioè, mi spiace per le fan
dello yaoi –tra cui me medesima-, ma niente roba spinta qui u.u) La prossima
credo verterà su Yuki *-*.
Comunque,
l’idea era quella di dare risalto ad una caratteristica di Watanuki che non
trovo spesso nelle fic: è un personaggio terribilmente tormentato e, anche se
non lo da a vedere, solo.
Parto
dalla vicenda marginale di uno dei primi volumi, ma spero che l’idea possa
piacervi.
Detto
questo, buona lettura. Lascerete una recensioncina?
Baci
a tutti.
Aki
Punta di Freccia
Io odio dover andare a
scuola.
Non lo dico con
l’arroganza fanciullesca della frase, ma a ragion veduta.
Nella mia scuola le
persone ridono e scherzano, si affollano, arrossiscono.
A volte penso che tutto questo
voglia dire semplicemente vivere.
Ma la loro spensieratezza mi ferisce e cancella
quell’ingenua bontà che è parte di me e lo è sempre stata.
Capire che nessuno -né ora né mai- potrà comprendere
appieno il dolore e l’angoscia di svegliarsi tra i fantasmi e andare a dormire
con la morte, mi fa sentire vuoto.
Vuoto e terribilmente solo.
Anche
questa mattina le ragazze e i ragazzi si spingono sul portone d’ingresso.
Alcuni di loro si
incrociano per caso, altri si scambiano occhiate eloquenti o baci fugaci.
Prendendo
l’abitudine di osservare questa gente, sono arrivato a riconoscere il
significato di ogni minimo gesto, da un colpetto sulla spalla ad un bacio
appassionato.
Questa mattina Yamanata
sta aspettando un ragazzo, forse il fidanzato. Si mangia le unghie e tocca
freneticamente i capelli, quasi potesse aggiustarli con il solo pensiero. Ogni
volta che le si avvicina qualche amica riprende il solito aspetto e sfoggia
l’abituale allegria spensierata, ma appena è sola torna a tormentarsi le mani.
Le passo accanto mentre
varco il portone, sperando per lei che il ragazzo arrivi in fretta. Odio quelli
che fanno aspettare le ragazze davanti alla scuola, perché mi rendono ancora
più insopportabile la permanenza.
Proprio quando penso di
essermi lasciato alle spalle il problema, Yamanata mi chiama.
«Watanuki-kun?»
Mi volto con lentezza,
anche se qualcosa nei miei occhi potrebbe suggerirle l’impazienza che ho
dentro.
«Dimmi, Yamanata-chan».
«Doumeki-kun ti cerca»,
mormora.
Senza dilungarsi oltre, torna
alla sua occupazione mattutina. Le mani continuano ad arruffarle i capelli, in
un circolo vizioso di dita e nuca che per un attimo m’intorpidisce i sensi.
Doumeki mi cerca?
Mi dispiace quasi doverlo
ammettere, ma non avrei mai pensato che Doumeki potesse agire di propria
volontà, chiedendo di me senza che fossi io ad avere bisogno di lui.
Anche se è del tutto contrario alla dignità e all’amor proprio, succede spesso
che io necessiti del suo aiuto. Quasi sempre quando rischio la pelle.
È frustrante sapere
che non potrai mai cavartela da solo; che anche quando, alla fine dei tuoi
giorni, sarà ora di affrontare la morte a spada tratta, ci sarà ancora qualcuno
che agirà per te, che sguainerà l’arma affilata e si getterà su quei pericoli
che tu hai il diritto di affrontare in pace.
Doumeki non può capire
che, invece di proteggermi, non fa altro che spingermi verso il baratro, ora
dopo ora, giorno dopo giorno, ogni volta che rischia la vita per me.
Esiste un limite tra la necessità
e l’eccesso. Doumeki l’ha perso di vista e l’ha superato, quasi
cancellandolo. Si è dimenticato che non è sua la vita che protegge, ma mia
ed è entrato a far parte di quel girone infernale in cui Yuko mi ha gettato
quando, quel giorno, mi ha attirato nel suo eccentrico negozio di desideri.
Entro nell’edificio
mettendo un piede davanti all’altro, osservando le orme lasciate sul pavimento
bagnato. Ieri ha piovuto e oggi le conseguenze si ripercuotono sulle nostre
lezioni, portate avanti nell’insopportabile umidità.
Eppure la pioggia mi
piace: l’aria che si respira con il naso immerso nell’acqua ha un sapore unico
e indescrivibile. Qualcosa che sembra parlare di alberi, montagne inviolate,
laghi perduti in valli sconosciute.
Mentre continuo a fissare
il pavimento, quasi vado a sbattere contro la porta dell’aula in cui sono
diretto. Di solito non è chiusa, ma anzi spalancata il più possibile.
Incuriosito dall’anomalia,
alzo gli occhi e mi ritrovo ad osservare un braccio muscoloso appoggiato allo
stipite in legno, quasi con noncuranza. Ma in quel gesto sono certo che si
nasconda una motivazione ben precisa.
La divisa nera, identica
alla mia, fascia il corpo del giovane riflettendo la splendida forma del suo
fisico e la sua agilità. I tratti spigolosi del suo viso e dei suoi occhi
appaiono appena un po’ più su.
«Doumeki-kun».
Lui mi guarda atono.
«Oi».
Come pensavo, non è
cambiato niente. Le solite, noiose formule di saluto e di cortesia che servono
solo a farmi innervosire. Oggi, però, non ho alcun interesse a mettere in atto
una delle nostre abituali scenette comiche, che faranno solo ridere Himawari.
Nemmeno lei mi da più un
motivo valido per venire qui ogni giorno. È da tempo che mi sono scordato della
sua gentilezza e dolcezza, della sua attraente semplicità.
Deciso ad interrompere ora
i miei consueti battibecchi con Doumeki, abbasso la testa e tento di entrare in
aula, ma la sua mano mi blocca.
«Watanuki».
Anche se sono parecchio
innervosito, non riesco a trattenermi dal ridacchiare.
«Mi chiami per nome oggi?
A cosa devo l’onore?»
«Volevo chiederti una
cosa».
Il suo sguardo è il
solito: glaciale, indifferente.
Fa crescere solo la mia
irritazione.
«Se devi chiedere
qualcosa, fallo e basta, no?»
Dopo un attimo di silenzio
si volta.
«Scusa», mormora.
La sua mano molla la presa
e fa per andarsene.
Un attimo prima ho visto
il suo sguardo vacillare.
Non gli permetterò certo
di lasciarmi così su due piedi. Ma che gli prende?
Velocemente gli artiglio
il braccio e lo costringo a girarsi.
«Non dovevi chiedermi una
cosa?»
Per la prima volta sembra
smarrito, confuso.
«Sì… sì».
Ma rimane nel consueto
silenzio. Mi irrita ancora di più.
«Allora chiedi!»
«Hai ancora la punta della
mia freccia?», butta fuori tutto d’un fiato.
Per un attimo attende la
risposta, poi pare deciso a fuggire via, quasi come se io fossi un mostro da
cui è impossibile scappare se non lo si tiene a bada con il pezzo di carne.
Non mi ricordo a cosa si
stia riferendo. Punta di freccia?
Lo fisso un momento
stranito, cercando di ricordare. La mia mano lo trattiene ancora per il
braccio.
«La punta della tua
freccia?», domando.
«Quella che ti ho dato
quando ho vinto la gara».
Mi viene in mente che ho
accompagnato Doumeki ad una gara la settimana scorsa.
Cerco di pensare alla
freccia, alla punta e al ritorno a casa.
E finalmente capisco dove
sia finita.
«Ah, la punta della
freccia!», esclamo, sorridendo, «L’ho offerta al figlio di quella volpe».
Ho
fatto bene, in fondo. Il piccoletto ne aveva sicuramente più bisogno di me.
L’ha offerta al figlio della volpe?
Lo fisso un momento confuso e sono sicuro che i miei
occhi stiano vagando freneticamente alla ricerca di una via di fuga. Un riparo
dal dolore e dall’indignazione.
«Certo…», tento di rispondere, con scarso successo,
«Ho capito».
Mi volto velocemente e quasi corro via, spaventato
dalle mie stesse emozioni.
Sentimenti che non ho mai provato, un bruciore assurdo
alla bocca dello stomaco e i muscoli rigidi di quando tendo l’arco davanti a
tutta la folla muta in attesa.
Com’è possibile che le parole di Watanuki riescano a
scatenare tutto questo?
Gliel’ho letto negli occhi, poco fa, quando mi si è
avvicinato: c’è qualcosa che lo tormenta. Sono sicuro che abbia a che fare
anche con me. Ma in quel momento ero troppo concentrato sulla domanda che
volevo porgergli e non mi sono particolarmente preoccupato.
Anche adesso che sto correndo verso il tetto
dell’edificio non riesco a concentrarmi sulla sua espressione. Nella mia mente
sono impresse solo la sua voce e quelle poche parole. La punta della tua
freccia?
Qualcosa di insignificante per lui, che continuamente
in lotta con gli spiriti e i fantasmi del passato non può permettersi altri
pensieri.
Non gli importava nulla di quel modesto regalo, così
importante per me.
Avrei fatto meglio a donarlo a qualcun altro, a cui
facesse davvero piacere.
Ma a chi? Non esiste nessuna persona a cui tenga come
a Watanuki. Ma quello stupido non riesce a capirlo, non vuole capirlo,
barricato dietro quella sua assurda sofferenza di solitudine.
È così, Watanuki: si ostina a soffrire per sé e per
gli altri, a donarsi in ogni modo e a non tenere nulla per sé. Perciò non è in
grado di leggere dietro ai miei sguardi e ai miei gesti e ad interpretarli come
segni d’affetto.
Ultimamente le cose sono cambiate, però. Lui ha smesso
quella sua ingenua bontà, che ne è la caratteristica principale, e si è chiuso
in un silenzio sofferente che ne ha aumentato la solitudine.
Non reagisce più, né alle provocazioni né ai sorrisi,
ed è avvolto in una bolla di solitudine in cui è impossibile infilare anche
solo una mano.
La sua insofferenza è cresciuta, al contrario, e la
persona che sopporta di meno sono io, come al solito. Ma è diverso da prima: la
rabbia con cui mi attacca o, peggio, mi evita è incredibile.
Dietro tutta quella furia, però, c’è solo una grande,
enorme sofferenza. E io lo so bene.
Ma perché?
Dal tetto della scuola il giardino è ancora più bello.
Mi ritrovo a pensare agli alberi e a quei fiori
sparuti che accennano a nascere da un po’ di tempo. Sono soli, sperduti tra tutti
quei fili d’erba che li sparano l’uno dall’altro. Colorati: bianchi, rossi,
azzurri.
Watanuki deve essere quello laggiù, quello bianco.
Candido, puro come la neve appena scesa sulla terra e che presto si macchia del
nero dei nostri peccati. Solo, soffocato da tutta quell’erba che gli mangia
l’aria e lo divora pian piano.
Forse anch’io sono uno di quei fili d’erba che lo sta
uccidendo. Ma certo, io sono quello più vicino a lui: lo aiuto a sollevarsi e
ad esporre la sua corolla, ma prima o poi gli salterò addosso e lo strapperò
dal terreno che lo nutre.
No.
Io sono nato per proteggere Watanuki, non per
soffocarne la vita.
Sposto gli occhi da quei petali troppo bianchi e li
punto davanti a me, verso l’orizzonte. Il cielo è stranamente azzurrognolo: non
limpido, ma nemmeno scuro. Ricorda la pioggia di ieri e presagisce il sole di
domani: un attimo di mutamento, di passaggio. Un cielo gravido di malinconia.
Perché Watanuki ha abbandonato la mia punta di
freccia?
Con un moto di stizza, tiro un calcio al parapetto cui
sono appoggiato. Ma non c’è nulla da fare e nulla per cui arrabbiarsi.
Abbandono i gomiti al muretto e affondo il viso tra le mani.
Sono stato uno stupido, solo uno stupido. Ho pensato
che Watanuki avrebbe capito che quel regalo era qualcosa di speciale, di
intimo.
Quante ragazze avrebbero dato chissà cosa per avere
quella punta? La punta con cui il campione Shizuka Doumeki ha vinto il
campionato dell’anno. Tante, tantissime.
Ma Watanuki cosa ne sa? Lui non capisce niente del
mondo, è troppo ingenuo e inesperto.
Mi sfugge un sorriso che tento senza successo di
soffocare. È assurdo. Quel ragazzino è assurdo.
Ma il più assurdo di tutti sono io, che cerco di
dimostrargli affetto, quando nemmeno capisco cosa provo per lui.
«Doumeki-kun!»
Una ragazzina del primo anno, dal giardino, si
sbraccia in mia direzione.
È carina e probabilmente anche disponibile. Cerco di
pensare a cosa potrei fare del suo corpicino così grazioso, ma non mi viene in
mente nulla.
Lei è ancora lì che cerca di attirare la mia
attenzione.
Alzo un braccio, solo per dimostrarle che l’ho vista.
Nulla di più.
Arrossisce e il suo sorriso si accentua. Poi scappa in
direzione di un gruppetto, probabilmente amiche sue.
Non capisco proprio come, a volte, alle persone possa
bastare qualcosa come un saluto per andare su di giri. Il mio assurdo potere mi
spaventa.
Prima che raggiunga le compagne sono già sparito dal
parapetto, verso l’interno dell’edificio.
Mi sembra quasi di vederla. Scuote la spalla di una
sua amica, quella bruna. Le indica il tetto con frenesia, con emozione
incredibile. L’amica guarda, ma le dice che non c’è nessuno lassù.
Lei si volta, per dimostrare il contrario, ma io ormai
sono sparito davvero.
Il
sorriso le muore sulle labbra.
La classe è stretta e asfittica. Si soffoca qua
dentro.
L’umidità ascende pigramente verso il soffitto e rende
insopportabile la lezione.
Anche il professore sembra irritato.
Ma sono io quello che sopporta meno questa situazione.
E poi c’è Doumeki.
Ma che diavolo ha quello?
È scappato via velocissimo, appena gli ho detto che la
punta della sua freccia non ce l’avevo più.
Che cosa c’è di tanto sconvolgente in tutto questo?
Niente, no?
Quella punta non mi serviva a nulla e in fondo non era
nemmeno una freccia. Era spezzata e inutile e non sapevo che farne. Liberarmene
e offrirla a qualcuno a cui piaceva davvero è stata la cosa giusta.
Perché allora lui è sembrato quasi ferito?
Accidenti.
Lo stomaco mi si aggroviglia e mi regala un senso di
disagio che odio con tutto me stesso.
Era così importante per lui quella punta di freccia?
Beh, affari suoi. Se era così preziosa, non avrebbe
dovuto darla a me.
Il nervoso sta salendo a livelli pericolosi. Da una
parte sono certo di aver fatto la cosa giusta, dall’altra l’espressione di Doumeki
grava sulla mia coscienza. E questo dibattito interiore mi irrita come
nient’altro.
Ad un certo punto sbuffo sonoramente e il professore
si volta verso di me. Neanche due secondi e la sua irritazione dovuta
all’umidità mi sbatte fuori dall’aula.
Appoggio le spalle alla porta, sospirando. Sono
affranto, questa è la parola giusta.
Fino a questa mattina ero rinchiuso nella mia fredda
confortante solitudine, offeso col mondo intero e adesso mi ritrovo a ragionare
convulsamente su un’espressione di Doumeki. Non è possibile.
Eppure io penso davvero che lui mi stia trascinando
verso il baratro, che la sua volontà di salvarmi la vita non faccia che
peggiorare la situazione. Ma nonostante tutto ho paura di averlo ferito.
Forse una parte della mia ingenua bontà è rimasta,
incasellata in qualche anfratto della mia anima.
Mi passo una mano sul viso sciupato dalle lunghe
giornate di dolore.
Probabilmente è ora di tornare a vivere.
Se devo spiegare a Doumeki che deve smetterla di
salvarmi, lo farò. Se devo sconfiggere da solo gli spiriti, lo farò. Se devo
capire cosa passi per la testa ad uno stupido fissato con gli archi, farò anche
quello.
Essere stato sbattuto fuori dall’aula per una volta
serve a qualcosa.
Tanto non sarei riuscito comunque a seguire una parola
della lezione.
Mi stacco dalla porta e mi avvio per il corridoio.
Agisco sempre con una certa circospezione, perché in teoria a quest’ora non
potrei essere in giro. Non incontro nessuno.
Quando passo davanti all’aula di Himawari, la trovo
seduta con la schiena appoggiata alla porta.
«Himawari-chan! Che ci fai qua?»
Lei alza gli occhi stupita, poi sorride con la solita
cordialità.
«Punizione», risponde.
Sorrido di rimando, anche se confuso dalla situazione,
e mi siedo accanto a lei.
Profuma di rosa. È una cosa che non avevo mai notato,
nemmeno quando ero cotto di lei.
Forse è una novità. O forse alcune cose ci rimangono
segrete fino a quando non decidiamo di scoprirle.
Il silenzio che ci avvolge per qualche minuto è di un
dolce tepore. Mi ci abbandono dimenticando per un attimo anche di pensare.
È Himawari a riportarmi alla realtà.
«Va tutto bene?», chiede.
Non lo so nemmeno io. Davvero.
«No», rispondo, sorprendendo anche me stesso.
«Riguarda Doumeki?»
La nostra conversazione è assurda. È come se a parlare
al posto mio ci fosse qualcun altro. Le parole vengono fuori da sole, in
contrasto con i miei pensieri. E Himawari le guida, queste mie parole: le
assorbe e le comprende senza difficoltà. Forse è il gioco, lo scherzo di un
nuovo strano spirito entrato dentro di me.
«Watanuki?»
La guardo un secondo confuso.
«Sì», rispondo velocemente, «Sì, riguarda lui».
Himawari si rinchiude in una strana pausa di
riflessione, che la fa sembrare più adulta.
«Ti ha detto qualcosa che ti ha dato fastidio?»
I suoi occhi sono grandi e semplici, puri. Non c’è
morbosa curiosità, né altro nella sua espressione. Solo affetto e comprensione.
«No. Sono stato io a dire qualcosa di spiacevole,
credo».
Himawari piega la testa da un lato in una domanda
muta.
«Gli ho detto che avevo regalato al figlio della volpe
la punta di freccia che lui aveva lasciato a me dopo aver vinto la gara».
Lei rimane in silenzio. La sua espressione non cambia,
ma in realtà sembra deridermi gentilmente.
«Che c’è di tanto sbagliato?», continuo, quasi
affannosamente, «E’ così importante?»
Himawari sorride.
«Sai quante ragazze darebbero una mano per quella
punta di freccia?», chiede con semplicità.
Cosa?
Ma non è possibile. È solo la punta di una freccia!
«Quasi tutte quelle di questa scuola», completa da sé,
sempre sorridendo.
«Sul serio?»
Lei annuisce.
«E’ un regalo davvero importante. Se te l’ha fatto,
significa che tu sei davvero importante per lui, non credi? Per questo
si è sentito ferito quando gli hai detto che avevi regalato a qualcun altro la
punta».
Rimango a fissare la sua espressione serena per un
attimo.
Che stupido, sono stato. Anche se la cosa mi sembra
troppo incredibile, sono certo che Himawari non mente. E che quel regalo era
realmente una cosa molto importante.
Ma io non l’ho capito. Certo che Doumeki poteva
spiegarsi anche un po’ meglio! Che ne so io di gare, archi e punte di freccia?
Con slancio abbraccio Himawari che è ancora in
silenzio di fronte a me.
Come sempre, è un’amica incredibile. E a dispetto
della sua semplicità, capisce tutto del nostro piccolo mondo.
«Vai», sussurra al mio orecchio.
Mi alzo, separandomi da lei, e le sorrido con
gratitudine.
Ma prima di correre via ho ancora una parola da
dedicarle.
«Ti
voglio bene, Himawari-chan».
Il vento oggi non è troppo forte. Sussurra alle mie
orecchie una melodia indecifrabile e poi scivola via.
Non rimane a lungo. Ieri ha piovuto molto e ha già
trovato il tempo di sfogarsi su questo mondo immutabile.
Non avrei mai pensato di trovarmi qui, su un’altalena
del parco in un pomeriggio umido.
È ora dell’allenamento, ma le forze se ne sono andate
tutte chissà dove. Una stanchezza pesante e fredda mi è crollata sulle spalle,
troppo difficile da scaricare.
Credo che sia colpa di quella punta di freccia.
So benissimo anch’io che non ha senso rimuginare su
qualcosa di così futile. Eppure per me quel regalo era importante, davvero
importante.
Mi dondolo avanti e indietro pigramente, trascinando i
piedi sul terreno fangoso. Le catene a cui è appesa quest’altalena cigolano
ritmicamente, accompagnando il suono frustrante dei miei pensieri.
Non capisco perché a volte persino io possa sentirmi
sopraffatto dal mondo.
Non sono l’arciere capace di domare gli spiriti?
Allora perché non riesco a domare anche l’inquietudine di un affetto non
ricambiato? Non dovrebbe poi contare molto per me.
In realtà conta troppo, questa è la verità. Forse
conta davvero troppo e c’è qualcosa di morboso e sbagliato in quello che
provo.
Watanuki è una persona assurda. Certo, assurda. Ma
anche terribilmente sola.
E sono sicuro che senta il bisogno di avere qualcuno
accanto.
Probabilmente non sono io. Io sono solamente quello
che lo difende dagli spiriti, una macchina di distruzione e nulla di più.
Il moto continuo delle ginocchia si è spento e
l’altalena si è fermata. Con le mani appese alle catene, lascio che il peso del
mio corpo si abbatta verso il basso. Con il capo chino, osservo il fango ai
miei piedi e i pochi fili d’erba appena nati.
Questa volta non c’è nessun fiore tra di loro. Ora
sono i fili d’erba ad essere terribilmente soli.
Il respiro lento del mio stesso corpo mi ipnotizza e
mi trascina via da quel luogo di desolazione che risplende di colori troppo
accesi.
C’è un punto di non ritorno oltre questa desolazione e
questa solitudine di affetti. Un punto che si chiama morte dello spirito e che
è qualcosa di incredibilmente invitante ora.
«Come mai solo?»
La voce mi fa sobbalzare, ma le mie braccia rimangono
appese alle catene e il mio capo chino.
So benissimo che è lui, ma la voce per rispondere è
rinchiusa dietro una porta che non so aprire.
Sento Watanuki sedersi sull’altalena accanto alla mia
e cominciare a dondolarsi lentamente.
«Mi dispiace», mormora dopo un po’.
Il mio silenzio non si rompe nemmeno adesso.
Vorrei davvero trovare una parola, anche una sola, ma
un tacito patto che lega la mia gola alla mia anima m’impedisce di farlo.
«Davvero, mi dispiace», continua, «Non avevo capito
quanto importante fosse quel regalo per te».
«Non era importante».
La voce torna all’improvviso, così come se ne era
andata.
«Cosa? Ma…»
Stringo i denti, mentre sento un’irritazione
inconsueta salire direttamente dal cuore.
«Non era importante, ti dico. E ora va’ via».
Tengo ancora la testa china e lo sguardo rivolto a terra.
So che se lo guardassi negli occhi mi mancherebbe ogni
coraggio.
«Ma Himawari mi ha detto…»
«Non m’interessa cosa ti ha detto. Non me ne frega
niente di quella freccia»
Una lacrima bruciante minaccia di scendere, ma la
ricaccio indietro con uno sforzo immane.
Watanuki rimane in silenzio un attimo, poi lo sento
alzarsi dall’altalena.
«Come non detto: sei il solito. E io sono stupido,
come sempre, a credere che tu possa provare un sentimento di qualunque tipo.
Che schifo».
Il mio silenzio si protrae e scende sulle sue parole.
Sono certo che anche il suo petto stia bruciando.
«Come vuoi. Ma un’altra volta non chiedere niente.
Eccoti la tua freccia».
La frase mi raggela e cancella ogni emozione. C’è solo
stupore, enorme.
Alzo la testa appena in tempo per vedere Watanuki
correre via attraverso il parco.
Sull’altalena
accanto a me rimane la punta di una freccia.
Sono stato un stupido. Un emerito cretino.
Pensare che Doumeki potesse essere ferito da qualcosa,
che a lui importasse di qualcosa.
Invece, come al solito, sono tutte mie fantasie. Lui è
sempre il freddo insensibile se stesso e io sono sempre lo stupido rammollito
me stesso. Ma ora smetterò di indossare questi panni.
Ne ho abbastanza di essere umiliato.
Sono andato a casa della volpe e ho pregato il piccolo
di restituirmi la punta della freccia. Gli ho detto che era importantissima per
un mio amico e che non ne poteva fare a meno. Lui me l’ha consegnata con un
sorriso e ha detto: “E’ per la tua fidanzata, vero?”
Mi sono sottoposto a quell’umiliazione e a tutto il
resto. Per cosa, poi?
Per essere insultato e mandato via come un cane.
Non m’interessa… Non me ne frega niente… Parole taglienti che riescono solo a rompere quegli
incantesimi assurdi, quelli che camuffano la realtà.
Mentre esco di corsa dall’ingresso del parco, mi
sembra quasi di sentire la vergogna calarmi addosso a secchiate di acqua
fredda.
Infilo il primo vicolo che trovo e mi ci rifugio,
respirando affannosamente.
Non voglio che mi veda nessuno, perché nessuno deve sapere.
C’è un limite alla sottomissione della propria persona e io l’ho ampiamente
superato. Non voglio più umiliazione.
Mi appoggio al muro e scivolo a terra, con le
ginocchia al petto.
Una lacrima scende illuminando con il suo riflesso la
lente degli occhiali.
Per cosa piango? Per la vergogna? Per la freccia? Per
Himawari?
No. Piango per Doumeki.
Perché ho sperato stupidamente, ma con tutto me
stesso, di valere qualcosa per lui.
Sento un rumore provenire dall’ingresso del vicolo.
Non m’interessa cosa sia. Nessuno farà caso a me.
Ma qualcuno mi si siede di fianco. Il suo respiro è
affannoso.
L’immagine di Himawari mi riempie la mente, anche se
non ha senso.
«Mi dispiace».
È la sua voce, lo so. Ma mi mancano le parole per
rispondere.
E ha usato la mia stessa frase.
«Mi dispiace davvero di averti detto quelle cose. Non
le penso sul serio», aggiunge.
Davvero? Davvero non le pensi? E ora come faccio a
crederci?
«Ero stanco di non essere niente per nessuno. Per
questo ti ho respinto. Mi dispiace».
Alzo gli occhi su di lui. Una lacrima scende lenta
sulla sua guancia.
Senza alcun motivo, mi ritrovo a sorridere.
È assurdo. Io che sto seduto qui, in un vicolo, a
piangere insieme a Doumeki per una cosa stupida che non ha nessuna importanza.
Quando mi trovo ad osservarlo di nuovo, anche lui sorride stancamente.
«Questa è tua», dice.
Senza guardarmi mi riconsegna la punta della freccia.
La rigiro tra le dita e poi scoppio a ridere,
assurdamente. Doumeki si limita a sorridere, guardando le mie mani bianche.
«Sai cosa si dice tra gli arcieri?», sussurra ad un
certo punto, «Che se regali la punta della tua freccia a qualcuno alla prima
gara vinta dell’anno, sarai legato a lui per sempre».
«Assurdo», replico, «Con quante ragazzine urlanti
l’hai già fatto?»
«Tu sei la prima».
Lo guardo di traverso, offeso.
Ma non riesco a smettere di sorridere, per qualche
assurdo motivo.
Possibile che siano successe tutte queste cose solo
per la punta di una freccia?
Mah. Il destino a volte è davvero strano.
Dopo un attimo di silenzio, sento le parole salirmi
alle labbra spontaneamente.
«E sai cosa si dice tra gli spiriti?»
Doumeki si volta pigramente verso di me, pronto a
tutto.
Mi avvicino a lui, togliendo gli occhiali dal naso e
appoggiandoli a terra.
«Che se baci qualcuno in un vicolo buio non potrà fare
a meno di amarti».
Sento Doumeki ridacchiare e poi più nulla.
Solo
un dolce, pigro silenzio, che cala come un sipario alla fine di un’opera
teatrale su personaggi senza volto. Follemente innamorati.
Fine
Spero che tutto sommato il risultato sia buono.
Attendo critiche e commenti vari.
A presto!
Aki