Rupophobia
Fermo
davanti all'uscio, si liberò degli stivali con gesti
composti e risoluti,
tipici di chi non è abituato a perdere tempo. Dai corridoi
del quartiere
generale si sollevavano pochi rumori lontani e mormorii sommessi:
sebbene li
avesse visti vincitori, la battaglia era stata ardua e le vittime
sempre
troppe, gli animi erano ancora troppo scossi e destabilizzati per
permettere
chiacchiere inutili e
leggere. Aprì la
porta ed entrò nell'alloggio privato portandosi le calzature
appresso,
percependo il mondo esterno ovattarsi man mano che il battente si
accostava. Il
peso del completo silenzio lo avvolse come una calda coperta, l'odore
tipico
delle sue stanze immacolate lo pervase facendogli girare la testa.
Chiuse gli
occhi, godendosi in un sospiro la sensazione di essere tornato, per
l'ennesima
volta, salvo. Il suo cuore vigile, però, non gli permise di
lasciarsi andare
oltre il tempo di un respiro che, accompagnato dalla mente complice,
gli fece
rammentare come lui, a differenza di tanti altri,
tornasse sempre vivo. Lo stomaco
gli
si chiuse e un vago senso di nausea gli salì in gola, una
smorfia gli si
disegnò in volto sentendosi immediatamente colpevole per i
pensieri e la
debolezza appena provati. Sistemò le scarpe fuori dal
balcone per una pulizia
successiva e si diresse nella stanza da bagno, le spalle leggermente
ricurve.
Lo specchio sopra il lavandino rifletté uno sguardo freddo e
distaccato. I
vestiti erano luridi ed inzaccherati, li tolse con fastidio e
velocemente,
cestinandoli senza troppe cerimonie: non avrebbe nemmeno provato a
lavarli, non
voleva tenere nulla che appartenesse a quella giornata. Accese il getto
dell'acqua e si infilò senza troppi preamboli nella doccia,
una sferzata gelida
lo investì facendolo rabbrividire e i muscoli si
irrigidirono. Un sospiro gli
scivolò tra le labbra quando percepì la
temperatura alzarsi e con slancio
afferrò la spugna poggiata su un ripiano accanto, iniziando
ad insaponarsi.
Si
sentiva terribilmente sporco, impregnato fino al midollo di polvere e
fango.
Frizionò con energia le braccia, godendo del liscio contatto
del sapone sulla
pelle. Il vapore generato dall'acqua calda occupava l'aria come una
nube che
promette tempesta, gli ricordava il sangue titano che, imperterrito,
aveva
continuato ad evaporare dal suo corpo per tutto il tragitto dal campo
di
battaglia. Il suo fisico era bianco e intatto, non una goccia di
efflussi
nemici e non una ferita imbrattavano il suo candore, eppure le sentiva
bruciare
quelle cicatrici fantasma, pulsare sotto la cute; passò la
morbida schiuma sul
petto e gli sembrò corrosiva come un acido, i muscoli la
assorbirono e la sentì
pungere negli organi interni, ferire i polmoni, il fegato, il cuore,
circolare
insieme al sangue ed irrorargli ogni cellula, ogni fibra del suo
essere. Il
profumo del detergente era pungente alle narici e sperò con
tutto se stesso che
potesse rimuovere il lerciume da ogni anfratto interno ed esterno del
suo
corpo. Frizionò con energia le mani, le gambe, i piedi,
l'addome: la pelle
rossa disturbata dal contatto. Passò la spugna sulla
schiena, sul viso. Più la
cute si arrossava, più lui strofinava, insisteva, raschiava
quello sporco immaginario
che sentiva vivo in tutto il suo
essere, vedeva sangue invisibile scorrere dai suoi nervi tesi, lungo la
linea
dei suoi fianchi e finire negli anfratti sconosciuti dei tubi di
scarico, in
profondità nel terreno. L'odore acre della guerra si
mescolava alla fragranza
dei sali da bagno risultando quasi nauseabondo, costringendolo a
fregare con
più foga: non voleva più sentirlo,
doveva toglierselo di dosso, annientarlo, dimenticarlo.
Odiava quella sensazione, era come polvere sottile che ad ogni respiro
entrava
e gli si intaccava nelle vene ostruendole, sporcandogli l'anima. Doveva
eliminare ogni residuo di lerciume, ogni fetore. Le mattonelle della
doccia
erano sabbie mobili, fanghi densi che inesorabilmente lo trascinavano a
fondo
ad ogni movimento. Doveva riemergere, prosciugare la palude in cui era
incagliato il suo essere. Con stizza si frizionò i capelli,
quasi tirandoseli,
provando dolore, rabbia, sconforto per quel mondo sudicio e spietato
che giorno
dopo giorno gli aveva imposto di essere forte, di dover lottare, avere
responsabilità che richiedevano decisioni e scelte sempre
troppo grandi,
difficili, ingiuste. Essere il più potente, combattere e
difendere l'umanità,
intere società composte da persone che non conosceva e che
disprezzavano il
lavoro del corpo d'esplorazione e non poter fare nulla quando a
soccombere erano
i pochi umani a cui avrebbe rivolto
l'intera protezione. E poi tornare, sempre, vivo
e con una zavorra lercia più pesante sulle spalle.
Lanciò
con stizza la saponetta contro il muro, la vide spezzarsi e finire
arenata in
un angolo. Poggiò la testa alle fredde mattonelle della
doccia, gli occhi
chiusi e il respiro affannato. Lasciò che l'acqua gli
massaggiasse le spalle,
la pelle scorticata, che gli lavasse via i pensieri, gli incudini dal
cuore,
che risucchiasse la palude ai suoi piedi e lentamente si
sentì affiorare in
superficie. Nessun odore solleticò le sue narici se non il
profumo vellutato
del bagnoschiuma, le invisibili cicatrici si richiusero e
più nessuna goccia di
sangue osò zampillare lungo le curve del suo corpo. Il
contatto fluido con
l'acqua rilassò l'epidermide disturbata e
trasportò, insieme agli ultimi
residui di schiuma, gli istanti di desolazione che prepotentemente
avevano
cercato di affluire all'esterno. Abituato da tempo, si ricompose e
riprese il
controllo di sé, alzando lo schermo protettivo ed
impenetrabile che lo separava
dal resto del mondo. Se molti commilitoni lo avessero visto in quello
stato avrebbero
stentato a riconoscerlo, abituati a vederlo freddo e vigile in ogni
occasione, il più forte
dell'umanità, un esempio
per le reclute e i gradi inferiori: nessuna piega solcava il suo viso
quando le
cose si mettevano male, nessun sentimento interferiva nelle decisioni,
niente
di privato poteva contrastare il suo esito in battaglia.
Era
il pensiero comune, quello in cui tutti credevano fermamente e a cui si
aggrappavano con affanno: per quanto critiche potessero essere le
condizioni,
c'era sempre il Capitano Levi a mantenere il decoro e la
lucidità opportuna in
battaglia.
Non
quel giorno, però. Aveva permesso alle sue ombre di
apparire, aveva spostato la
corazza e una piccola fessura era rimasta aperta: aveva lasciato che i
sentimenti e le paure trapelassero, decidessero per lui, per il suo bene. Aveva permesso all’uomo di apparire alla luce del sole. Era
la decisione giusta per il bene dell’esercito,
dell’umanità, si era ripetuto
più volte sul campo. O per il suo?
Afferrò
l’asciugamano e si cinse la vita, fece un passo nel bagno e
lo scalpiccio dei
suoi passi echeggiarono nella stanza vuota. Si guardò allo
specchio, i ciuffi bagnati
a circondargli il viso e le occhiaie pesanti ad incorniciare lo sguardo
spento.
Comunque
sia, la decisione era stata presa, non si poteva tornare indietro, come
sempre.
Un
passo avanti per l’umanità, forse. Ma una vita in
meno sicuramente.
Da
wikipedia:
La
rupofobia è un disturbo di ansia che rivela, secondo
l'interpretazione
psicoanalitica, che non riusciamo a sopportare le nostre mancanze,
"ombre" (Jung), cioè le parti "nascoste" di noi; nel rito
della pulizia cerchiamo, pertanto, di sbarazzarcene.”
…riconoscete
per caso qualcuno? ;)
Ho
scritto questa storia con un contesto chiaro in mente (quindi no, non
parlo di
una battaglia a caso) e delle allusioni specifiche disseminate nel
testo, ma
man mano che procedevo nella stesura ho iniziato ad ampliarne il senso
perciò
non mi sento, alla fine, di indicare un momento o un pairing specifico
in cui
collocarla in quanto penso sia molto versatile.
Ma,
se qualcuno di voi dovesse aver captato qualcosa, sarei molto contenta
di
sentirne il parere. ^^
Purtroppo
la sottile arte dello scrivere tra le righe non mi appartiene, ma
è con la
pratica che si ottengono miglioramenti!
Un
grazie di cuore,
hibou.