“Di
panico e di paura.”
Carino.
Non
è sicuramente un termine che mi è capitato spesso
di usare, durante tutta la
mia vita. Carino, già. L’utilizzo presuppone forse
una sensibilità percepita
dai più come tipicamente femminile; un elevato accumulo di
serotonina nel
cervello, magari.
Ma
John Watson è realmente carino, stasera. (L’ho
pensato, davvero?) Una riflessione istantanea, inevitabile, improvvisa.
Primo
dogma incrollabile in una lista di osservazioni probabilmente patetiche
ma
sicuramente oggettive. No, quasi certamente non mi sarei dovuto trovare qui,
adesso:
pessima idea, quella di partecipare ad una di queste tradizionali cene
che John
si ostina a denominare con lo stupido appellativo di classica
e divertente serata fra amici al pub. Birra, cibarie fritte
col venti per cento minimo di grassi saturi e partita di calcio sul maxi
schermo. Magnifico, davvero. (Sensazionale.)
“Dai,
Sherlock. Sono due giorni che non esci di
casa.”
Già,
due giorni di vuoto totale, due giorni di pura
noia.
“Ti
farà bene. Ti divertirai, fidati.”
Occhi
speranzosi, sopracciglia corrucciate. John mi
guarda ed io, ovviamente, lo guardo a mia volta. Sbuffo rumorosamente,
ma John
mi sta pregando. Non a voce, non a gesti. Mi guarda e, solamente con
l’ausilio
del suo sguardo, mi prega. (Carino.)
Quindi
mi sono lasciato convincere da uno sguardo.
(Adorante. Implorante. Irresistibile.)
Ma adesso.. adesso, inevitabilmente, me ne pento.
John è particolarmente carino questa sera, per una serie di motivi praticamente ovvi ed evidenti a tutti; forse a tutti tranne che ad Anderson. Rettifico, Anderson non vede oltre il suo adunco naso, ergo ignora sicuramente ogni possibile e palese motivo così facilmente esplicabile:
1.
John
è contento, azzarderei felice. È scientificamente
provato che l’aumento della
produzione di endorfine in un qualsiasi soggetto apporti miglioramenti
sia in
senso estetico che nell’ambito della salute fisica, ma John
Watson è
sicuramente un caso a parte. I suoi tratti sono estremamente rilassati
e
ridacchia per ogni minima cosa.
Esempio
pratico ed istantaneo: bevo
un sorso di birra, lui di rimando mi fissa e sogghigna. (Sembro
ridicolo? Gli
piace il fatto che io beva? Non lo so, ma non importa.) Andiamo avanti;
adesso
osservo la TV gigante, ci provo, davvero. Chiunque fa così,
qui dentro. Non mi
interessa in realtà, ma lo faccio. (Lo faccio per te, John.
Vorrei dirtelo,
quando torniamo a casa. Apprezzeresti e magari mi guadagnerei un bel
bacio con
la lingua.)
Ma
l’osservazione di quei ventidue
individui, sicuramente in forma ma proverbialmente scarsi in termini
d’intelletto; no, davvero, non ce la faccio. I miei occhi si
costringono da
soli a distogliere lo sguardo ed il mio cervello invoca
pietà a gran voce.
Allora guardo John e lui guarda me, ancora. Ride, ride di gusto. I
solchi sulla
pelle del suo volto vengono messi in risalto
dall’ilarità della sua
espressione, ma Dio, quant’è carino. (Invecchi
bene, John. Continua pure ad
invecchiare ad ogni sorriso, aggiungi tranquillamente ruga dopo ruga.
Va veramente
bene così.)
Ma
io cosa realmente dovrei farci
qui, alla fine? Devo guardare la televisione oppure continuare a far
ridere
John con la mia visibile inadeguatezza sociale? Non so. Nel dubbio bevo
la mia
birra tutta d’un sorso e non mi sorprendo affatto che questo
mio gesto sia
accompagnato da un altro risolino soffocato di sottofondo.
2.
John,
stranamente, stasera si è vestito bene. Non elegante, non
sportivo, non troppo
da tipico ometto inglese poco attento al vestiario, convinto che
sobrietà
faccia rima con anonimato. Ma purtroppo erra, erra sempre. (I colori,
John. Gli
accostamenti cromatici sono importanti e tu non lo comprendi.)
Comunque.
La polo blu scura che indossa mette in risalto le sue spalle ed il suo
ben
messo busto. Fa terribilmente caldo, qui dentro: una maglietta a
maniche corte
è sicuramente una scelta azzeccata. Io annaspo dentro la mia
camicia troppo
abbottonata. (Uno a zero per te, John, ma dopotutto giochi in casa.
Linguaggio
calcistico, sto forse delirando? È adatto al contesto,
perlomeno.)
I
suoi jeans chiari sono semplici e
dal taglio leggermente fasciante. Un bel figurino, il mio
John. Carino, sì. (Bello. Bello, davvero.) Un
bell’uomo
sicuramente non molto alto ma con niente fuori posto. Apprezzo i nasi
importanti e quel suo sprizzare eterosessualità da tutti i
pori. (È fantastico
sentirsi l’Eccezione.
Estasi, pura
estasi.)
Deglutisco
birra ed un’improvvisa
voglia di fumare mi pervade dalla testa ai piedi. John continua a
mantenersi un
sorriso splendente stampato in faccia ma adesso il suo sguardo
è posato sul
match. (Peccato.)
3.
John
mi voleva qui da anni. Già, proprio seduto su questa
seggiola scomoda,
posizionato a capotavola nel suo (Triste.) pub preferito. Un luogo che
puzza
terribilmente di cipolla fritta e secrezioni di ghiandole esocrine
maschili.
(Nauseante, ed è dire poco.) Ma John mi voleva qui, presente
nel condividere
questo suo appuntamento fisso a cadenza mensile o settimanale a seconda
dei
casi.
“Dipende
dalla classifica,
Sherlock. Poi quest’anno anche il Leicester è in
Champions..” (Frammento di
conversazione di qualche tempo fa, viandante nei corridoi del mio
Palazzo
Mentale. Lo prendo tra due dita e lo scruto, infine lo
cestinerò.)
Insomma.
Se non conoscessi l’Islam e la sua lingua praticamente alla
perfezione avrei
potuto dire a John che tutto ciò che si è sempre
ostinato a volermi spiegare
sul calcio è come arabo, per me. Facendo più
volte mente locale di tutti gli
idiomi che conosco, l’unica cosa che mi è venuta
da dirgli in risposta è stata
dal suo punto di vista forse abbastanza esilarante, ma sicuramente
sincera. “Il
calcio è come l’indonesiano, John.” gli
dissi quel giorno, sperando che mi
capisse al volo. La sua espressione interrogativa fu però
più eloquente di
mille parole. “Non lo conosco e, francamente, non mi
interessa.” aggiunsi alla
fine.
Quindi
mi sono salvato tante volte da quest’obbligo
sociale non sicuramente desiderato. (Infinite volte, non calcolabili.) Ma non questa volta.
Anderson
si è ovviamente posizionato il più lontano
possibile da me, col suo sguardo che non m’incontra mai.
(Perfetto, davvero.
Continua così, ti prego.) Mike Stamford è alla
mia sinistra, intento principalmente
nell’ingozzarsi di untuosa roba fritta a ripetizione
piuttosto che nel guardare
la partita. (Le coronarie, Mike, attenzione. Mi costringo a non
comunicarti la
mia non molto positiva previsione sulla tua aspettativa di vita:
quattro anni,
sei mesi e qualche settimana di agonia in più se
l’ineluttabile infarto che
avrai non risultasse essere fulminante.) Lestrade è
praticamente di fronte a
me, ma se ne sta perennemente voltato verso il maxi schermo, attento a
non
distogliere lo sguardo dall’oggetto neanche per un attimo.
Sbocconcella qualche
patatina dal suo piatto in maniera estremamente distratta e poco
affamata,
sbuffando di tanto in tanto. (Stranamente silenzioso, inconsuetamente
distaccato.)
John
è seduto accanto a Mike. Mi guarda ogni
quindici minuti circa, forse per sincerarsi che io sia ancora qua,
magari
semplicemente col fine di bearsi della visione di me, con
l’ennesima pinta di
birra in mano, appollaiato su questa sedia terribilmente scomoda; un
comune
uomo in un comune posto con una comune partita in sottofondo.
È palese il fatto
che ogni tanto a John piaccia pensare che io sia una persona normale.
Che noi,
insieme, siamo normali. (È ok. Ti capisco, John. Lo posso
accettare.)
Ma. C’era una lista, nella mia testa. C’era una lista che mi teneva occupato e mi permetteva di non impazzire per colpa della tediosità di questa serata. Una lista degli ovvi motivi per i quali John Watson stasera è particolarmente carino:
4.
John
è carino perché, semplicemente, è
John. Per pensare ciò mi basta anche solo
rimirare il modo in cui mangia il suo doppio cheeseburger; lo affetta a
piccoli
pezzi, in maniera minuziosa, sicuramente con l’obbiettivo di
evitare in ogni
modo di sporcare la polo che indossa poiché è
riservata per le occasioni
speciali. La mia presenza, qui, è un’occasione
speciale. (Oh, John. Ti adoro.)
Mastica
con fare pensoso, la
mandibola evidente che si muove a scatti decisi. Se mi fosse
più vicino
l’accarezzerei con un dito, beandomi del leggero scricchiolio
provocato dai
legamenti ossei. Ipnotizzante, in un certo qual modo. Fastidioso,
anche, visto
che mi è impossibile farlo. Quindi distolgo lo sguardo
scacciando dalla testa
questo stupido istinto, ed è allora che lo vedo,
già. Smetto finalmente di
guardare ed inizio ad osservare.
Non sono evidentemente l’unico a pensare che John Watson sia particolarmente carino, stasera. Ed anche questa mia teoria è perfettamente esplicabile per mezzo di un elenco di punti in tal modo sintetizzabili:
a.
L’arrivo.
L’arrivo potrebbe risultare come un qualcosa
d’insignificante, ma in realtà è
importante. (Essenziale, in questo caso.) Una sensazione flebile e
sfuggevole,
accantonata da una parte per poi essere analizzata insieme ad un quadro
di dati
più ampio. (Adesso.)
Lestrade
che ci guarda arrivare,
strabuzzando gli occhi in un misto di sorpresa e sgomento. Uno sguardo
inedito,
che sfuma sul deluso nel giro di un secondo. Poi, magicamente,
indifferenza e
sterile cordialità. Non lo osservo, ma lo vedo. Non lo noto,
ma lo registro
ugualmente. Saluta soltanto per mezzo di un cenno di mano e poi ci
dà le
spalle, entrando velocemente nel locale. Anderson mi blatera qualche
insulto in
una lingua che ai miei orecchi risulta incomprensibile. Lo metto in
modalità
muto ed il tutto procede verso un’unica ed ovvia direzione;
facciamo il nostro
ingresso, ci sediamo, ordiniamo. (Fino a qui tutto bene.)
b.
Il
silenzio. Il silenzio non è strano, non è
molesto. (A me piace.) Ma è insolito.
Io questo non lo so, non lo posso proprio sapere. John, evidentemente,
lo sa.
“Perché
sei così silenzioso
stasera, Greg?” glielo dice al sessantaseiesimo minuto della
partita, una
partita che Lestrade ha seguito sicuramente in maniera attenta con gli
occhi,
ma non con la mente. (Troppo perso nei suoi pensieri. Ma quali
pensieri,
Lestrade?)
L’Ispettore
sembra riscuotersi dal
suo status vegetativo soltanto grazie al suono della voce di John.
Sussulta
appena, si schiarisce la gola e sul suo viso si affaccia un sorriso
tirato. “Sono
solo stanco.” dice. Non nomina il lavoro, consapevolmente,
direi. Non vuole
parlarne. Non vuole conversare. Non vuole la mia attenzione. (Ma ce
l’hai,
Lestrade. Ce l’hai addosso da un bel po'; più
precisamente da circa quarantuno minuti
e venticinque secondi.)
Comunque.
John non si accorge di niente, ovviamente, e gli dona un sorriso di
sincera
comprensione. Quel suo tipico alzarsi di zigomi e occhi che
riscalderebbe anche
il cuore inesistente di un pezzo di marmo. Con me ci è
riuscito; inevitabile
che sortisca tale effetto anche su tutto il resto della popolazione
mondiale.
Quindi Lestrade si rilassa, osservando quel preciso sorriso di John e
considerandolo come dedicato solamente a lui. Sento questo suo intimo
pensiero
quasi come se l’avesse formulato a voce alta. (Non mi piace.
Non mi piace
affatto.)
c.
Lo
sguardo direttamente successivo. Una gocciolina di sudore denso
percuote la
fronte di Lestrade nello stesso istante in cui i suoi occhi incrociano
i miei.
Perché lo sa, certo che lo sa; sa che lo sto guardando, sa
che lo sto
studiando. (È inevitabile. Lo sapeva sin dal primo momento
in cui mi ha visto
arrivare insieme a John.)
Quindi
le sue pupille tremolanti
incontrano le mie per mezzo secondo circa e tutto improvvisamente si fa
più
chiaro e palese. (Gli occhi sono lo specchio dell’anima:
è vero. Applausi a chi
ha scritto questa massima.) Lo sguardo di un uomo diviso, strappato a
metà. Lo
sguardo di un uomo colpevole. Lo sguardo di un uomo ferito. (Ferito
dalla mia
presenza? O accoltellato direttamente al cuore da una triste ma
ineluttabile
consapevolezza?)
La
folgorazione derivante da tali riflessioni mi fa
d’istinto alzare in piedi con uno scatto veloce e nervoso.
Sbatto i palmi delle
mani sul legno scadente della tavola e tutti i presenti nel locale si
girano a
fissarmi, attirati dal leggero e sonoro tonfo da me provocato. Anche
John mi
fissa. Mi fissa, perché non sa.
“Sherlock.”
mormora, con sincera sorpresa.
Lestrade
è l’unico che non mi fissa. Non mi fissa,
perché sa. (Sa che io adesso so.)
“Vado
in bagno. La mia vescica sta trovando notevoli
difficoltà nel contenere i quasi due litri di birra che mi
sono scolato.” riesco
in qualche modo a dire, costringendomi a tirare le labbra in un sorriso
senza
emozione. Poi sfuggo da tutti questi occhi indagatori ed incuriositi ad
un’estrema velocità, senza sapere esattamente dove
andare.
Le
conclusioni della mia personale e silenziosa
ricerca serale vengono raggiunte in prossimità del lavandino
inquietantemente
unto di questo schifoso bagno maleodorante. Le metto insieme con
leggera
difficoltà, mentre al tempo stesso cerco di dare un ritmo
regolare al mio
muscolo cardiaco impazzito. (Polso sui centodieci battiti al minuto. Patetico.)
Ed
è sicuramente questo, l’aspetto peggiore di me,
di John e di tutto ciò che ci lega: il contesto emotivo. (Il
fottuto e sempre presente contesto
emotivo.)
John
Watson mi fa soffocare senza aver bisogno di
strozzarmi realmente, o tenere la mia testa sotto abbondanti centimetri
d’acqua. Lo so da tempo, ma questa constatazione mi spiazza
ogni volta e mi
spinge a guardarmi allo specchio mentre boccheggio alla ricerca di aria
che
razionalmente so non mancarmi. Occhi spalancati mi osservano
silenziosamente e
mi giudicano. (Ridicolo. Debole.) Sudo freddo. Distolgo lo sguardo ed a
questo
punto inspiro profondamente. (Le conclusioni, veloce.)
Quindi.
Lestrade
ha una palese cotta per John (Il mio John.)
ed io non me ne sono stupidamente mai accorto. Follia. (O forse no. Prevedibile.)
Sempre
così presente, sempre così gentile. Le cose
sono mutate con l’inesorabile scorrere del tempo, questo
è certo. Una
rispettosa e reciproca stima che pian piano si è evoluta in
una sincera
amicizia da ambedue le parti. Interessi comuni, attività in
compagnia, scene
del crimine, partite e birra a fiumi: tutto ciò ha fatto il
resto, è ovvio.
Sherlock Holmes come iniziale collante, messo da parte e rilegato al
suo ruolo
di macchina macina indizi in maniera graduale, senza destare sospetti.
(Complimenti, Ispettore. Davvero.)
Fin
qui ci siamo. Fin qui, il ragionamento si
produce quasi da solo, in maniera lineare e senza troppe sensazioni
sgradevoli.
(Aggiungere il divorzio di Lestrade nel mezzo. Allontanamento dei
figli: altro
punto sicuramente degno di nota.)
Cos’è
successo poi, mio caro Ispettore? Cos’è che ad
un certo punto ti ha fatto vedere cose, te ne ha fatte sentire e
pensare altre?
Forse.. magari.. certo. Banale.
Lo
vedo: siamo ovviamente sulla scena di un crimine.
Magari proprio una in particolare; quella del pescatore ritrovato
affogato
dentro la sua rete in prossimità della sponda Est del
Tamigi. Era stata una
bella e rara giornata di sole ed il tramonto che si stagliava di fronte
a noi
donava alle acque calme delle sfumature rossastre, quasi abbaglianti.
Io non ci
avevo proprio pensato, ma John me l’aveva detto sottovoce.
John l’aveva notato,
certo, e magari se n’era accorto anche Lestrade.
Anzi.
Vedo
che Lestrade si accorge di quel bel quadretto naturale, mentre le mie
attenzioni sono come sempre e del tutto concentrate sul cadavere. Non
ascolto
John che mi parla ed allora lui si avvicina al nostro caro amico
Ispettore,
chiedendo informazioni sul caso. Poi, come prevedibile, si lascia
andare ad un
commento su quel tramonto che tanto lo ha colpito. Infine, sicuramente,
sorride.
Ed
è a quel punto. Lo sento, lo vedo, me lo
immagino. È a quel punto che Lestrade guarda John e per la
prima volta lo pensa.
Sorridente, illuminato da quegli strani ed inconsueti raggi di sole
bellissimi,
con quella sua espressione calda, rassicurante ed accogliente. Lo
guarda e lo
pensa: carino.
Trattengo
a stento un conato di vomito liquido e
disturbante, che mi fa ovviamente ritornare al punto di partenza del
mio
malessere psicosomatico. Maledizione. Soffoco.
(Non userò mai più il termine
‘carino’ per descriverti, John: eliminato
all’istante dal mio vocabolario d’uso.)
La
tachicardia mi costringe ad appoggiarmi al lavabo
ed a rinfrescarmi il viso con un po' d’acqua gelida. Inizio a
contare
mentalmente; arrivo a ventitré ed il mio respiro si fa
più regolare.
(Metabolizzare. Difficile, ma non impossibile.)
Sputo
saliva acida ed esco dalla toilette regalando
un’occhiata sfuggente al mio orologio da polso: tre minuti
esatti di panico e
di paura. (Un titolo d’effetto che potrebbe sicuramente
funzionare per il tuo
blog, John.)
Faccio
il mio ritorno alla non tanto allegra
tavolata con indosso la migliore maschera d’indifferenza e di
neutralità che io
possa aver elaborato e posseduto in un momento come questo. (Il
risultato credo
che non sia dei più perfetti, ma poco importa.)
L’ennesima pinta di birra
bionda se ne sta posizionata in prossimità della mia
locazione.
“Così
rifai il pieno.” mi dice uno scherzoso
Stamford, toccandomi appena la spalla con il suo palmo destro. Con
l’altra mano
si porta alle labbra la centesima tapas fritta ed io sorrido
sinceramente di
fronte a tale scena, sedendomi senza alcuna esitazione.
Anderson
continua ad ignorarmi in maniera
imperterrita. (Ti voglio bene stasera, Anderson. Comportamento a dir
poco impeccabile.)
Lestrade non mi guarda ed io non posso fare a meno di pensare al
perché ed al
come io possa essere stato così cieco, così
ignorante. (Ho ignorato, sì. Ho
ignorato tutto questo per non so quanto tempo.)
Come
sei riuscito a fregarmi, Ispettore? Ti sei
celato dietro omicidi seriali, mi hai confuso attraverso raccoglimenti
di prove
e consulenze frequenti. Io intento a lavorare per te, tu ad innamorarti
del mio
uomo. Meschino, quasi perverso. Sicuramente masochistico.
Perché
lui è
mio. Lo sai, lo devi sapere per forza, ed infatti soffri.
Forse la notte
non dormi, non dormi e pensi a lui; pensi a lui e pensi a me. Vuoi
fermarti ma
non ce la fai. Ti rinfranchi con queste patetiche cene in compagnia e
riacquisti un po' di quello spazio vitale necessario per continuare a
respirare. (Soffochi anche tu, Lestrade?)
E
lo sapevi, oh quanto e come lo sapevi. Se io fossi
venuto, se io ci fossi stato. Qui, in questo locale, seduto esattamente
ove
sono. Annoiato. Senza scopo. Inerte e distaccato dal contesto, senza
distrazione alcuna. Io lo avrei capito, io lo avrei saputo subito. Io,
infatti,
so.
“Sherlock?”
John mi osserva con uno sguardo vagamente
perplesso. Io sto fissando Lestrade che a sua volta fissa il maxi
schermo con
la partita che si avvia verso l’ottantesimo minuto. Incateno
i miei occhi a
quelli di John Watson e mi sento mancare gli intestini. Spariscono,
tipo.
(Sensazione particolarmente strana da catalogare in seguito.)
“John.”
è l’unica cosa che riesco a mormorare.
Dovrei aggiungere altro, davvero, ne sono consapevole.
Infatti.
John
rimane a bocca aperta per qualche secondo, sicuramente in uno stato di
leggera
allerta. La richiude di scatto e si alza subito dalla sua seduta,
blaterando in
direzione degli altri commensali qualche frase sconnessa sulla mia
terribile ed
inevitabile astinenza da nicotina. Si avvicina, mi appoggia la mano
sinistra
sulla nuca e mi sussurra all’orecchio un “usciamo a
prendere una boccata
d’aria, sei fradicio.” (Ed in effetti è
vero.) Mi alzo in maniera quasi
meccanica, seguendolo fuori dal locale e notando lo sguardo di Lestrade
che ci
segue di sottecchi per tutto il tempo di questo breve tragitto.
“Tutto
bene? Ti vedo strano.” John me lo dice appena
varchiamo la soglia della porta, ancor prima che essa si sia richiusa
alle
nostre spalle. Alla stessa velocità con cui mi accendo una
Marlboro, in realtà.
Mi guarda in maniera torva ma la preoccupazione che prova lo induce a
non dar
voce all’ennesima e tipica paternale che mi riserva ogni
volta che mi vede
fumare. (Mi dispiace, John. Mi piaceva vederti contento.)
“Tutto
ok. Fa caldo, lì dentro.” inspiro tabacco e
sto meglio. (Paradosso irreale ma confortante. Le dipendenze:
bellissime e
crudeli.) John mi prende la mano libera da impicci e me
l’accarezza con tocchi
gentili.
“Eppure
sei così freddo, amore.”
Tremo
internamente, magari anche esternamente.
(Grazie, John.)
Come
posso sopportare che un uomo così vicino a noi ti
desideri? Come posso tollerare la consapevolezza dei suoi pensieri su
di te?
Non posso, davvero. Non lo gestisco. (Lo
odio.)
“Sto
bene. Solo che la partita è veramente troppo
noiosa.” un altro avido tiro alla sigaretta e mi sento
realmente rinascere.
(Dipendenze: vi amo quasi quanto amo John Watson.) “Mi sono
sbagliato, il
calcio non è come l’indonesiano, è
oggettivamente peggio. Potrei paragonarlo
all’idioma sconosciuto di una qualche sperduta isola
thailandese.” aggiungo,
con il mio tipico tono seccato.
John
ride appena, ma so che non è convinto. So che
lui non sa, è evidente, ma so anche che lui conosce me.
Troppo, veramente
troppo bene.
“C’è qualcosa che non va.” dice infatti, nello stesso istante in cui il silenzio torna ad essere sovrano. Non è più una domanda, è una semplice constatazione, accompagnata dai suoi occhi seri, limpidi e bellissimi che mi fissano con insistenza. La sua mano che ancora stringe la mia, adesso in maniera un po' più forte. Io lo osservo a mio volta e, banalmente, non so cosa fare. Le possibili opzioni d’azione si manifestano nella mia testa sottoforma di presagi vividi e maledettamente reali:
x.
Potrei
dirgli tutto. Non sarebbe una brutta prospettiva, quella di sputtanare
alla
grande il rispettabile Ispettore di Scotland Yard rivelando il suo
scottante
segreto.
“John,
Lestrade ti vuole. Il tuo
caro amico Greg ti desidera, è ovvio.” potrei
sputarlo fuori dalla mia bocca
con malcelato disgusto. John, chissà come reagiresti? Magari
con un’iniziale e
fragorosa risata, che si spengerebbe davanti all’inevitabile
constatazione che
no, non sto assolutamente scherzando. (Come poter scherzare su un fatto
tanto
grave? Come?)
Acciglieresti
lo sguardo, poi,
riflettendoci su. Forse ripercorreresti a ritroso tutti i momenti
più recenti
passati in sua compagnia, cercando segni e situazioni capaci di
avvalorare
questa mia folle tesi. (Non mi piacerebbe. Non mi piacerebbe affatto,
osservarti mentre pensi a lui.) E se questa mia rivelazione si
tramutasse in un
tarlo della tua mente? E se tutto ciò, invece che
allontanarti da lui, mettesse
distanza tra noi?
M’immagino
tutto, davvero, non
posso farne a meno. Ci sei tu, che dopo aver riflettuto mi mormori un
falsissimo “non è possibile, Sherlock.”
Per non farmi preoccupare, per non
cambiare la nostra vita già così scarsamente
equilibrata. Per non perdere quel
timido barlume di normalità, l’ultimo che ti
rimane, forse. Ma sai che ho ragione,
sai che non posso sbagliarmi, non su una cosa così. Sai che tutto ciò potrebbe farmi
impazzire.
Ed
ecco che il tarlo inizia il suo
devastante viaggio. Parte dal lobo frontale scavandosi un piccolo
tunnel nella
materia grigia fino a quello temporale; pensi a Lestrade mentre lavori
all’ambulatorio, rifletti sul vostro passato mentre ti mangi
un panino. L’acaro
raggiunge lentamente il tronco encefalico, ti divora il cervelletto.
(Ed a
questo punto credo che il danno sarebbe fatto ed irreparabile.)
Sei
sempre stato un volubile, John.
Chi mi assicura che io non sia altro se non la tua ennesima e stupida
donna? Chi mi
può convincere del fatto
che non cadresti in tentazione? Magari il tuo patetico pensare di non
essere
gay, ma solo innamorato di me? Non credo, anzi, tutto ciò
non mi basta. Non è
abbastanza.
Quindi.
Ti
vedo pensare a Lestrade da stasera in poi per giorni interi. Non so
quantificare quanto, né posso immaginarmi i possibili come e
perché. Tutto ciò
che ne deduco è che non posso permetterlo. Opzione scartata
e andiamo avanti;
y.
Potrei arrabbiarmi. Potrei
dare di matto,
davvero. Iniziare ad urlare, sbattere i pugni contro il muro.
“Voglio andarmene,
John.” blatererei ad alta voce. “Andiamo a casa,
subito.”
Così
sapresti che sì, certo, c’è
qualcosa che non va. In Sherlock Holmes c’è sempre
qualcosa che non va; anche se si impegna, anche se ci prova.
È solamente un
freak, un sociopatico iperattivo con pochi margini di miglioramento
sociale.
(Ti sei illuso, John. Ci hai creduto, ci hai sperato, ma non
è stato
sufficiente.)
Adesso
vedo la delusione, sul tuo
volto. Prende forma e si rende evidente per mezzo del tuo sguardo
corrucciato,
la tua smorfia di disappunto e di negativa sorpresa. La rabbia monta
feroce
dentro me e credo che potrei dirti cose che realmente non penso,
davanti alla
tua certa esitazione nell’assecondare questo mio attimo di
follia.
“Perché
non torni dai tuoi amici,
John?” già, i tuoi, non i miei. Sherlock Holmes
non ha amici. (Ho solo e
soltanto te.) “Perché non
torni da
Lestrade?” potrei addirittura osare.
Magari
staresti meglio, con lui.
Magari si prenderebbe cura di te a dovere, ti vizierebbe, ti scoperebbe
meglio
di quanto io possa aver mai fatto. (Dio, non ci posso pensare. Se ci
penso
soffoco.)
Alla
fine credo che non capiresti.
Non ti arrabbieresti nemmeno, probabilmente. Ti farei solo pena, nel
peggiore
dei casi. (Ritenta, Sherlock. Sarai più fortunato.)
È
troppo tempo che ti osservo senza proferire
parola. Ti dondoli un poco sui talloni, pazientando in maniera mite. Mi
aspetti
sempre, John. (Ammiro tantissimo questa tua capacità e non
te l’ho mai detto.
Non te lo dirò nemmeno stasera. Scusa.)
Quindi.
L’opzione denominata con la lettera ‘z’
prende forma direttamente nel presente
e nella realtà con naturalezza ed istintività.
Sfilo la mia mano dalla tua
presa e porto entrambi i miei arti in prossimità del tuo
volto, intrappolandoti
le guance tra le mie falangi con una presa decisa ma delicata. So che
non ami
questo tipo di esternazioni sentimentali in pubblico ma ora,
sinceramente, non
me ne frega un emerito cazzo. (Non sono solito utilizzare soventemente
termini
scurrili ma quando ci vuole, beh, ci vuole.)
Tu
mi guardi e sbatti le palpebre in maniera
veemente. Occhi blu, profondi come l’oceano che fin da
bambino ho sognato ed
adorato: non potevo che amare te, John Watson. Anche quando ancora non
ti
conoscevo, anche mentre eravamo impegnati a vivere le nostre vite
parallele che
si sfioravano appena, senza incrociarsi mai. (Eri e sei il mio solo
destino.)
“John.”
ti alito sul viso, avvicinandomi
gradualmente. Devi capire, devi comprenderlo; acuisci
l’udito, amplia il
cervello, donami il tuo cuore. Per sempre.
“Sei
mio, mio e basta.” è un sussurro flebile ma
scandito a monosillabi. Spalanchi gli occhi con evidente sorpresa e
stai per
aprir bocca, ma non te lo permetterò, John. Chiudo queste
tue labbra aride con
le mie grazie ad un movimento istantaneo ed improvviso; non mi importa
nulla
del fatto che siamo in mezzo ad una delle vie più trafficate
e popolose di Londra.
(Le persone, la gente: io non le vedo, John, io non le vedo
più.)
Non
m’importa di niente, solo della tua lingua che
finalmente incontra la mia ed a questo punto ti sento abbracciarmi, ti
sento
cedere. Sento che lo vuoi anche tu e ciò, davvero, mi basta.
Basta a placare il
mio animo in tumulto. (Per quanto? Non lo so.)
Basta
ad agitarmi le budella in una stretta
frenetica e pulsante. Ti prenderei direttamente qui, su questo
marciapiede, in
mezzo al mondo che ci guarda e capisce che sei mio, di nessun altro.
(Esibizionista? Forse, ma non vedo quale sia il problema.)
Basta
a farti capire quanto ti amo. (Vero? Giusto?)
Ti
stacchi da me per riprendere fiato ed i tuoi
occhi liquidi e socchiusi non possono far altro che sortirmi un sorriso
sulle
labbra inevitabilmente umide.
“Sherlock,
mi lasci sempre senza parole.” bisbigli
piano, senza lasciar andare la tua salda presa dai miei fianchi.
“Eppure
parli ancora.” ti rispondo con il mio
ritrovato tono beffardo, riappropriandomi delle tue labbra e mordendole
appena.
La tua lingua ricerca subito la mia e mi stringi più forte,
quasi a volermi
inglobare in un abbraccio ed in un bisogno disperato. Avverto
un’inequivocabile
protuberanza pigiarmi in prossimità della parte bassa della
coscia e, inibendo
un sorrisetto compiaciuto, ci esercito contro una leggera frizione.
“Oh,
Watson, qui abbiamo un problema.” ti sussurro
poi all’orecchio destro, distanziandomi d’un poco
ed abbagliandomi con la tua
espressione sorniona ed eccitata. (Bellissimo, davvero. Ripetitivo.)
“È
davvero un problema per te, Holmes?” sogghigni di
malizia, un attimo prima che la porta del locale si apra alle nostre
spalle,
rivelando l’apparizione inopportuna dei tuoi tre amici.
“Ragazzi.”dici quindi, allontanandoti
velocemente e cercando di ricomporti per mezzo di movimenti frenetici e
perlopiù completamente inutili. Io ti guardo
l’erezione estremamente evidente e
godo, sinceramente, godo davvero.
“Uuuh.”
è il basso lamento animalesco di Anderson.
(Non so proprio cosa possa significare e, soprattutto, non mi interessa
saperlo.)
“Vi
abbiamo interrotto, piccioncini?” dice invece
Mike con onesto divertimento e strizzando appena l’occhio
sinistro. “La partita
è finita da un pezzo ed il locale sta per chiudere.
Domattina, poi, la
sveglia.. Ah, non mi ci fate pensare!” continua poi, facendo
praticamente tutto
da solo. Stamford è davvero un uomo esilarante, devo
ammetterlo. Tu soffochi
una risatina di rimando, poco prima che un’espressione
perplessa si faccia
strada sul tuo volto. “Ma il conto?”
“Greg
ha insistito per offrire tutto.” è ancora Mike
a risponderti.
Già,
Lestrade. Il povero e mesto Ispettore immerso
nel suo eloquente mutismo serale se ne sta ancora in disparte, ma
abbozza un
flebile sorriso. (Un’altra prova. Un’altra
conferma.) Tu lo ringrazi
avvicinandoti e donandogli una pacca sulla spalla, accompagnata da un
tuo tipico
e riconoscente “a buon rendere, amico”.
Mi
costringo a non guardare. Mi costringo a non
osservare ogni minimo dettaglio della sua espressione. Mi costringo ad
ignorare, ancora, poiché posseggo già troppi
pensieri disponibili su cui
rimuginare per nottate intere. (Per ora, davvero, va bene
così.)
Quindi
sto in silenzio. Non ringrazio, né lo guardo.
Tiro le labbra a formare un sorriso senza esposizione di denti,
“tutto zigomi e
nient’altro”, così lo chiami di solito,
John. Mike mi saluta con un abbraccio
fraterno, Anderson per mezzo di uno sbuffo e Lestrade accenna un
semplice gesto
con la mano.
“Alla
prossima, Sherlock.” esclama Stamford ad alta
voce nel momento in cui le nostre strade si dividono. (Finalmente.)
“Ci
puoi contare, Mike.” ed è una delle poche frasi
sincere che io abbia sillabato durante
questa serata poiché è chiaro,
certo, è chiaro a me e credo che sia ben
noto anche a Lestrade. Adesso sorrido leggermente, riflettendoci su.
Ti
guardo, John, mentre camminiamo fianco a fianco percorrendo
la via per tornare alla casa che ormai riesco solamente a catalogare
come nostra. Ti prendo la mano
destra e la
stringo con la mia; tu distanzi le falangi e ti unisci
all’istante in questa
stretta dolce ma allo stesso tempo decisa. Mi guardi, ti guardo.
Sorridi in una
maniera che mi scalda sinceramente il cuore. Sei contento, di nuovo, ed
io sono
felice.
“Dovremmo
farlo più spesso. Queste serate in
compagnia, intendo.” mi dici, facendo ondeggiare le nostre
mani con movimenti
lenti, quasi infantili. Poi, improvvisamente, le fermi.
“Sempre che ti vada
bene, certo. So che ti sei annoiato e ti ringrazio,
Sherlock.” aggiungi, un
attimo prima di far ripartire il movimento oscillatorio. A pensarci su
credo
che sia la prima volta in cui ci ritroviamo a camminare mano nella
mano.
(Dovremmo farlo più spesso, certo. Dovremmo farlo sempre.)
“Non
mi ringraziare, John. Verrò anche la prossima
volta, se tu mi vorrai.” lo mormoro guardandoti negli occhi e
sperando di
poterci leggere dentro esattamente ciò che mi aspetto di
vedere.
Stupore,
in primis, poiché non te lo aspetti però lo
speri. Quindi contentezza, ancora. Un pizzico d’orgoglio
perché hey, non è
facile vedermi così accomodante, e se lo sono è
solamente per merito tuo: hai
ammorbidito il glaciale Sherlock Holmes, ti meriti
un’asticella in più nella
tua personale scaletta dell’autostima. (Non sono ironico, lo
penso davvero.)
Infine
un sorriso, senza aver bisogno di tante altre
parole, perché in effetti tutti i nostri momenti migliori
sono sempre stati
caratterizzati da piacevoli e soddisfatti silenzi.
(E
va esattamente così, John. Non mi
deludi mai.)
Perfetto,
quindi. La tua approvazione è importante,
anche se non essenziale. Perché mi dispiace ma è
impensabile per me, John. Ciò
che d’ora in poi succederà è un fatto
già deciso e immutabile.
A
queste cene, da solo, io non ti ci mando più.
The
end
Note:
Salve
a tutti! Eccomi qua con la mia ennesima OS
Johnlock; praticamente finisco di scriverne una e inizio subito ad
immaginarmene un’altra. Sarebbe un crimine non sviluppare
tutte queste idee che
mi sfarfallano dentro la testa. Questa, in particolare, non so davvero
da dove
mi sia uscita: volevo caratterizzare uno Sherlock dannatamente geloso,
ma non
di una donna, né di una persona sconosciuta. Tra le poche
possibilità offerte
dalla serie alla fine ho scelto Lestrade poiché reputo che
sia il personaggio
più vicino a John sotto vari punti di vista. Quindi non me
ne vogliate, non
volevo massacrarlo gratuitamente, ma in certi punti della stesura mi
immedesimavo così tanto in Sherlock che ho iniziato ad
odiarlo anch’io. Mentre
Stamford ormai mi si è inquadrato in questa
caratterizzazione da omone
simpatico e bonario. Anderson invece è soltanto una presenza
inquietante, ma ci
stava, dai. :)
Senza
aggiungere tante altre parole vane, spero
sinceramente che vi sia piaciuta. Io li amo troppo, davvero, ho
ventiquattro anni
e credevo che ormai certi deliri da fan girl non mi sarebbero
più successi, ed
invece.. come recita il detto, mai dire mai. Fatemi sapere se vi
è piaciuta o
no, che le vostre recensioni in ogni caso non possono che farmi
contenta. A
presto,
AintAfraidToDie