Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: Blablia87    27/05/2017    5 recensioni
“Everything you know about fear, about love, about connection, about identity is about to change. You are no longer just you.”
(Tutto ciò che sai a proposito della paura, dell'amore, della connessione, dell'identità sta per cambiare. Tu non sei più solo tu.)
[sense8!AU - Non è necessario conoscere o aver visto la serie, per la lettura]
[Johnlock][Accenni Mystrade]
[Mini long in tre parti]
Genere: Introspettivo, Science-fiction, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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"The real violence… the violence that I realized was unforgivable is the violence that we do to ourselves, when we’re too afraid to be who we really are."

["La vera violenza, quella che ho capito essere imperdonabile, è quella che facciamo a noi stessi, quando siamo troppo spaventati per essere ciò che siamo realmente."]

(Nomi a Lito – sense8 – 1x09)
 
 
 
 
 
 5. 
 
 
 
Nella penombra, la sagoma di Mycroft Holmes è poco più di una macchia scura che si confonde con le altre. Attorno a loro il silenzio è completo, e Sherlock ha la sensazione di essersi risvegliato in un limbo sospeso nello spazio e nel tempo.
«Cos’è questo posto?» chiede, sentendo le parole sparire non appena uscite dalle sue labbra. «Non riesco a capire dove siamo.»
«È una camera di privazione sensoriale. Un luogo senza alcun tipo di indizio utile al suo riconoscimento. Senza input, di nessun genere» risponde Mycroft, e la sua voce sembra sgorgare direttamente nei timpani di Sherlock. «E siamo qui perché non far capire dove mi trovi è esattamente quello che voglio.»
«Perché?» ribatte il fratello ma, in parte, è convinto di possedere già la risposta.
«Whispers. Viene a farmi visita, ogni tanto. Cerca di trovarmi» conferma Mycroft e, per un attimo, il vuoto che li circonda sembra tremare.
«Chi è, Whispers?» Sherlock non è certo di come il proprio corpo sia distribuito nello spazio. Potrebbe essere seduto come disteso, e la cosa lo irrita e turba in equale misura.
«Whispers è un cannibale.» La voce del maggiore si abbassa, come il tremore della sua eco nelle orecchie di Sherlock. «Lui si nutre di quelli come noi, in cerca della propria evoluzione personale. Vuole possederci… comandarci… e, nel caso non sia possibile soggiogarci alla sua volontà, distruggerci.»
«Un cacciatore» cerca di riassumere Sherlock, ma il termine scelto gli sembra – non appena pronunciato - terribilmente inadeguato, carente.
«È un predatore. Un distruttore» lo corregge Mycroft. Tuttavia, da quanto il detective riesce a capire dal suo tono di voce, il fratello apprezza il suo tentativo di trovare una definizione adatta a descrivere Whispers senza ricorrere a troppi aggettivi. «Vuole capire come divenire simile a noi, per poi condurre il resto della nostra razza all’estinzione.»
Per qualche secondo un silenzio completo, irreale, li avvolge.
È così denso, così pieno, che Sherlock lo avverte entrare sotto la pelle.
«Da quanto… lo sai?» chiede, quando sente persino la propria coscienza sul punto di sparire, fagocitata da quel vuoto smisurato.
«Da quando sono nato. O meglio, da quando la mia natura si è rivelata con la mia seconda nascita.» Mycroft sospira. Sembra così lontano nel tempo, quel momento. Eppure, nella sua memoria, è così vicino da apparire ad un solo passo – un rapido battere di ciglia - da loro.
«Avresti dovuto dirmelo» ribatte Sherlock.
«Mi avresti creduto?» risponde prontamente l’altro, una lieve ironia nella voce. «Ci avresti creduto, senza poterlo vedere
«Perché adesso? Perché io» domanda il detective, cercando di ritrovare la percezione di se stesso all’interno di quel buio mutevole quanto immobile, statico. Costante.
«Quello che siamo è una semplice evoluzione biologica. Non si sceglie il proprio DNA, come non si può decidere quando verremo al mondo. Non ho mai avuto prove che, un giorno, la tua natura si sarebbe rivelata simile alla mia. Eppure, evidentemente, la genetica influisce su questo meccanismo in modo sostanziale.» Mycroft sembra più vicino, adesso, ma è poco più di una percezione.
«Con Greg ne abbiamo parlato a lungo, sai? Ci siamo chiesti per anni se io e te avremmo mai avuto modo di affrontare questo discorso. Lui era convinto che, prima o poi, saresti nato. Da uno di noi, probabilmente, perché eravamo gli unici a conoscerti così bene da riuscire a comprenderti.» La voce del maggiore si incrina leggermente, e Sherlock ha la sensazione che si stia mordendo le labbra fino a ferirsi.
«Greg? Intendi l’Ispettore Lestrade?» chiede, capendo solo in quel momento il rapporto che legava il fratello all’uomo al quale – quasi dieci anni prima – lo aveva presentato, chiedendogli di coinvolgerlo nelle sue indagini.
«Eravamo gli ultimi, della nostra cerchia. A quest’ora avranno già trovato il suo corpo, a St. Dunstan…» Mycroft si interrompe. Fatica a respirare. Boccheggia, in cerca d’aria. «Ma prima dovevamo tentare un’ultima volta. Un’ultima nascita, per cercare di fermarlo. Avrei dovuto essere io, ma… Greg vi stava già cercando. È sempre stato più bravo di me, in questo. A… dare la vita. Anche dopo aver visto morire ogni figlio al quale aveva dato la luce, riusciva ancora a credere che, alla fine, saremmo sopravvissuti.»
Di nuovo il silenzio li avvolge, nascondendo una lacrima che, solitaria, si abbandona oltre le ciglia abbassate di Mycroft. L’uomo la sente scendere lenta lungo la guancia destra e, grato al buio che lo nasconde, attende che trovi da sola la strada verso le sue labbra, dove – in un tremito - muore pochi attimi dopo.
«Perché…» riprende Sherlock, titubante. «Perché dovevate provare un’ultima volta?» chiede, e sa che la verità più grande, quella fondamentale, è racchiusa nella risposta che riceverà.
 
«Perché molto di quello che Whispers conosce, lo conosce per colpa mia.»
 
Mycroft si scuote, prendendo un profondo respiro. «Quando l’ho conosciuto, il suo nome era James Moriarty.» Si ferma, richiamando a sé forze e ricordi. «Era un geniale e giovane professore di Oxford, e sapeva di noi. Aveva dedicato quasi tutti gli anni della sua formazione accademica a raccogliere dati, a ricercare tracce dei Sensorium attraverso i secoli. Mi chiese di coinvolgerlo nel progetto BPO
«BPO?» lo interrompe Sherlock.
«Biologic Preservation Organization.» Mycroft si blocca e, con lui, sembra trattenere il fiato il buio stesso che li avvolge. «Un organismo multi-nazionale e multi-governo di ricerca» riprende poco dopo, la voce affaticata. «Oggi la BPO studia soggetti Sapiens in cerca di mutazioni genetiche che possano renderli potenziali Homo Sensorium. Sensates, come noi. Una volta individuati, i soggetti vengono persuasi ad unirsi alla causa dell’organizzazione. In caso di rifiuto è prevista la lobotomia o, nella peggiore delle possibilità, la morte.»
Sherlock sente il respiro bloccarsi. Deglutisce, ma il nodo che gli stringe la gola non si allenta.
«In origine l’opera della BPO era completamente diversa…» riprende Mycroft, e spera di riuscire a raccontare la storia per intero. «Venne fondata nel 1952 dalla Dottoressa Ruth Al-Saadawi, una Sapiens. Sua sorella gemella, una Sensorium, era stata perseguitata, tacciata di stregoneria ed uccisa nel loro villaggio di origine, in Egitto» continua, le parole improvvisamente veloci. Sente, sa, di non avere più molto tempo, prima che Whispers torni a trovarlo. E, per allora, Sherlock dovrà già aver terminato la propria visita. «Per scongiurare che un destino simile potesse toccare a qualcun altro, convocò vari rappresentanti dell'Alleanza Atlantica, del Patto di Varsavia, della Lega Araba e della Cina. Si incontrarono nella base militare britannica di Cipro, per discutere l'esistenza dei Sensates – termine coniato proprio per quell’occasione dalla comunità scientifica che stava compiendo studi in merito alla loro natura – e, dopo settimane di dibattito intenso, tutte le delegazioni furono d'accordo ad estendere i diritti umani e di protezione anche alla nuova razza scoperta. La BPO avrebbe avuto il compito di proteggere e studiare i Sensates ed i loro potenziali benefici sull’evoluzione umana in generale. Tutto questo sotto nella massima segretezza, in modo da evitare panico e rivolte tra i Sapiens.»
«La BPO avrebbe dovuto proteggerli… proteggerci» analizza Sherlock a mezza voce, ripercorrendo velocemente quanto appena detto dal fratello. «Cosa ha cambiato il progetto iniziale?»
«Quello che ha cambiato ogni cosa nel mondo: l’11 settembre. Con la Guerra al Terrore, è cominciata tra i Sapiens una ancor più marcata diffidenza riguardo ai progetti secretati e verso il potere in generale. I Sensates iniziarono ad essere visti dai Governi come una minaccia ma, anche, come un bene potenziale. La funzione della BPO cambiò, come le sue priorità: passarono dal proteggere i Sensorium, al localizzarli per poterli rimuovere come minacce. Molti Sensates comprarono la propria sicurezza personale dalla BPO, vendendo le identità di appartenenti ad altre cerchie. I più onesti, ancora legati alla causa iniziale, si nascosero.»
La voce di Mycroft comincia a tremare, morbida come una fiamma piegata dal vento. Sherlock ha la sensazione, forte, irrazionale, che lo stia allontanando da sé. Vorrebbe chiedergliene il motivo, ma una parte di lui già lo conosce. Lo capisce.
«Anche se la maggioranza della BPO ha dimenticato la missione originale cominciata a Cipro, una fazione forte all'interno dell'organizzazione sta lottando per ritornare alla visione della Dottoressa Al-Saadawi…» continua il maggiore, le parole sempre più distanti.
«E tu sei tra quelli.»
«Sì. Ma ho commesso un grave errore. Ho creduto a Moriarty. Al fatto che desiderasse compiere studi sui Sensorium per aiutarci a svelarci, con lentezza e accortezza, ai Sapiens. Per venire allo scoperto e, finalmente, non aver più bisogno della BPO e dei suoi segreti. Invece gli ho fornito tutti i mezzi necessari per distruggerci. Ho messo io tra le sue mani gli strumenti che ha usato per analizzare, sezionare, mutilare e distruggere i miei stessi figli. E, alla fine, anche Greg.» La voce di Mycroft è quasi un sussurro, ora, e Sherlock sa di doverlo lasciare andare. Ha avuto tutte le informazioni necessarie per poter comprendere la natura del proprio avversario, e tentare di rimanere più a lungo in contatto con lui metterebbe solo maggiormente in pericolo la vita di Mycroft, se non quella di entrambi. E, con la loro, quella di John.
«Dimmi dove posso trovarlo» dice solo, in fretta, sentendosi scivolare via. Sta perdendo il contatto con il fratello, e non riesce quasi più a sentirne la presenza.
«Quando sarà il momento, sarà lui a trovare voi» risponde Mycroft, con la stessa intensità di un ricordo sbiadito dal tempo.
«Dovrei semplicemente aspettare?» ribatte l’altro, ma è già troppo tardi. Il 221b di Baker Street è di nuovo attorno a lui, vuoto.
Il camino si è spento.
E John dorme con le braccia di una donna bionda strette attorno al petto. Sherlock lo vede per un attimo, con la coda dell’occhio. Il loro letto è comparso sotto la porta tra il salotto e la cucina, mentre lui è solo un’ombra fugace nella camera dell’altro, di fianco all’armadio.
Un secondo, ed il contatto scompare.
In silenzio, lentamente, Sherlock si trascina fino al divano, lasciandocisi cadere sopra.
Le prime luci dell’alba filtrano attraverso la finestra, e il detective si domanda se la morfina potrebbe aiutarlo a dormire. Dopo qualche riflessione, desiste dall’idea di iniettarsi una nuova dose. Non è sicuro di come funzioni esattamente, la condivisione con John. Se lui è riuscito a sentire il dolore di una ferita sulla mano dell’altro, il medico potrebbe risentire degli effetti della morfina durante il proprio turno in clinica.
È la prima volta, riflette stupito, che pensa a come una sua azione potrebbe influire sulla vita di un’altra persona.
Non si è mai posto il problema, mai, neanche sulla scena di un crimine, con Lestrade a pochi passi da lui e…
«Lestrade…» sillaba, rialzandosi di scatto.
 
A quest’ora avranno già trovato il suo corpo, a St. Dunstan.
 
Sherlock, ancora in vestaglia, si dirige quasi correndo verso la propria camera.
Ne riemerge poco dopo, completamente vestito, ancora intento a sistemarsi la camicia nei pantaloni.
Frettolosamente afferra il cappotto, appeso dietro la porta del salotto, e si precipita giù per le scale.
Deve correre, se vuole arrivare in tempo.
Prima che la scientifica sposti ogni cosa.
Prima che Anderson, o Donovan, inquinino la scena senza nemmeno rendersene conto.
 
Prima che portino via Gregory Lestrade, impedendogli di salutarlo un’ultima volta.
 
 
 
 6. 
 
 
 
«Che ci fai qui, strambo?» Sally Donovan, in piedi oltre il nastro giallo e blu della polizia, inclina la testa da un lato e abbassa gli angoli della bocca verso il basso, in una smorfia di malcelato disgusto.
«Troppo tardi…» sospira Sherlock, in piedi a qualche passo da lei, prendendo un respiro profondo e chiudendo per qualche attimo gli occhi, cercando di tenere sotto controllo il fastidio.
«Ripeto: cosa ci fai qui, strambo? Hai ascoltato ancora una volta le trasmissioni radio della polizia? È un reato» insiste la donna, e il detective riapre gli occhi. Accanto a sé, i capelli spettinati e un pigiama azzurro di una taglia più grande, John Watson si blocca con lo spazzolino da denti ancora in mano.
«Non sembri andarle a genio» mugola, il dentifricio a riempirgli la bocca.
«È solo una piccola, triste, inutile, donna» risponde Sherlock, con fare irritato, comparendo dietro il medico nel suo bagno. John ne vede il riflesso nello specchio, ma continua a lavarsi i denti senza scomporsi.
«Come hai detto, scusa?» Donovan scioglie le braccia, che aveva incrociato sul petto solo un attimo prima, e il suo volto diviene una maschera d’ira. «Vuoi che ti arresti? Perché non ci sarà Lestrade ad impedirmelo, questa volta!» minaccia, e sia Sherlock che John sentono lo stomaco contrarsi.
«Vuoi che le dia una lezione?» domanda il medico, dopo aver sputato nel lavandino dentifricio ed acqua. «In missione ho imparato qualche mossa che potrebbe farle passare la voglia di parlarti così» spiega, appoggiando le mani al lavandino e guardando il riflesso di Sherlock dietro di lui.
«No, grazie» risponde il detective, rivolto al medico.
«Bene. Allora sparisci» gli intima Donovan, e Sherlock si porta le labbra tra i denti, cercando di calmarsi in modo da trovare le parole adeguate per farle capire quanto la disprezzi. Non ha mai faticato tanto, prima di quel momento, ma Lestrade è a pochi metri da loro, morto, e riesce quasi a sentire l’eco della sua disperazione arrivare fino ai pensieri, bloccandoli.
«È un suolo pubblico, quello dove mi trovo» comincia John, ma il detective sente la propria voce pronunciare le parole. Si volta verso l’altro, sorpreso, ma non è più accanto a lui. È, in un modo che non riesce a capire, né a spiegare, dentro di lui. «E sono a più di cinque metri dal nastro dietro alle tue spalle. Quindi, almeno che tu non abbia il potere di arrestare qualcuno per il solo fatto di esistere, rimarrò qui. E tu, te ne farai una ragione.»
John è di nuovo di fianco a lui. Osserva con occhi attenti la donna a pochi passi da loro, e tutta la sua natura di ex soldato è in mostra nella schiena dritta e le spalle tese.
«Fa’ come vuoi» ribatte dopo qualche secondo Donovan, la voce leggermente mal ferma. «Goditi pure il tuo ultimo spettacolo, sottospecie di psicopatico. Tanto non vedrai un’altra sola scena del crimine in tutto il resto della tua vita.»
«Psicopatico? Che razza di competenze mediche ha, questa donna?» scuote la testa John.
«Sociopatico ad alta funzionalità, Donovan» la corregge Sherlock, ed il medico si volta verso di lui, annuendo appena.
«Ecco, sociopatico mi sembra già più adatto, sì» conferma, passandosi una mano tra i capelli per riuscire a dargli un ordine.
«Grazie…» sussurra il detective, di nuovo dietro di lui, in bagno. A St. Dunstan, intanto, Sherlock dà le spalle a Donovan, in modo che non possa vederlo parlare.
«Come mai sei già sveglio? Hai fatto il turno di notte…» domanda e John, per un attimo, sembra perso.
«Ho la prova dell’abito, questa mattina» spiega, ma non sembra particolarmente entusiasta. Sherlock glielo legge nelle pieghe accennate attorno agli occhi, e in quelle più profonde vicino alle labbra.
«Certo. Ti sposi.» Sherlock si domanda come abbia fatto a non capirlo. Aveva percepito che l’altro fosse teso, che si sentisse in trappola. Che stesse mentendo, soprattutto a se stesso. Ma non aveva capito da cosa, o chi, stesse fuggendo. Adesso, immobili a pochi passi da dove - solo poche ore prima - qualcuno ha dato loro la vita, la luce, privandosi della propria, il detective riesce a vedere.
«Puoi sempre non farlo…» prova, e non saprebbe dire il perché, ma l’idea che possa succedere davvero gli accende una fiammella tiepida al centro del petto.
«No, non è vero.» John si sfila la maglia del pigiama. Sopra la spalla destra, una cicatrice infiammata si allunga fino a sfiorargli il collo. Sherlock socchiude le labbra, ma non ribatte. Continua a seguire il cheloide rosso che deturpa il rosa della carne sana dell’altro.
«E quello che stai fissando è esattamente il motivo per il quale devo farlo» spiega il medico, alzando uno sguardo veloce su l’altro. Sono di nuovo nel suo bagno, e afferra la maglietta appoggiata al lavandino per indossarla.
«Mary mi ha salvato la vita, in Afghanistan. Non posso… dirle semplicemente che ero confuso. Spaventato. Che era una bugia, e che l’ho capito solo adesso.»
«Era nel tuo gruppo?» domanda il detective, imbarazzato per l’essere stato scoperto, spostando lo sguardo per la stanza in attesa che l’altro si rivesta.
«No. Era una delle volontarie dell’infermeria.» John infila la maglietta con un movimento veloce. «Mi ha letteralmente salvato la vita.»
«Riconoscenza. Capisco» ribatte Sherlock. «Ma non condivido. Decidere di passare la vita con qualcuno non dovrebbe essere una moneta di scambio» continua, tornando con gli occhi sul viso dell’altro.
«Hai una ragazza?» gli chiede John, inclinando la testa da un lato.
«No. Le ragazze non sono esattamente il mio campo.» Sherlock piega il capo a sua volta, serio.
Il medico, per una frazione di secondo, appare spaesato. È solo un’ombra che gli scurisce gli occhi, ma il detective riesce a vederla distintamente.
«Un… ragazzo, allora? Andrebbe bene comunque» riprende John, dopo essersi schiarito la gola.
«Lo so, che andrebbe bene» ribatte il detective, brusco. «Ma no.»
Il medico resta immobile qualche secondo, cercando di capire cosa il suo corpo stia cercando di dirgli. Da quando, la sera prima, quell’uomo dagli occhi chiari è entrato nella sua vita, non è più sicuro di avere il pieno controllo delle proprie emozioni.
«John? Sei pronto?» Un leggero bussare alla porta del bagno li coglie entrambi di sorpresa. Si voltano, di scatto, e Sherlock scompare subito dopo.
John si ritrova a fissare l’uscio attraverso il punto dove, fino a qualche attimo prima, si trovava il corpo alto e magro dell’altro.
«John?» prova ancora Mary, a voce più alta.
«Arrivo!» le risponde lui, dopo poco.
Finisce di vestirsi in fretta, ma, per la prima volta dopo mesi, si domanda se stia davvero facendo la cosa giusta.
 
 
 
 7. 
 
 
 
Il corpo di Lestrade viene portato via un’ora più tardi.
Sherlock, per tutto il tempo, resta in piedi a distanza di sicurezza dal cordone della polizia, osservando gli uomini della scientifica, Anderson in testa, muoversi avanti e indietro tra l’esterno e l’interno della chiesa diroccata.
Il sole inonda i marciapiedi, una delle rare tregue dal maltempo londinese che però – in quel momento – gli appare quasi una beffa.
Sotto il cielo più limpido degli ultimi mesi, l’uomo che li ha messi al mondo viene spostato su una barella scura verso il carro funebre del coroner.
In una boutique di moda di Soho, John si immobilizza di fonte allo specchio, nel camerino.
Compare davanti a St. Dunstan poco dopo, un’ombra in abito elegante e sguardo serio che osserva i paramedici spostarsi attorno alla lettiga. In silenzio si avvicina a Sherlock, lasciando che le loro spalle si sfiorino.
Il detective si accorge solo in quel momento di quanto le sue siano tese, contratte. Espira profondamente, cercando di rilassare i muscoli.
«Dobbiamo parlare» gli sussurra dopo qualche secondo, senza staccare gli occhi dalle operazioni attorno al corpo di Lestrade.
«Lo so.» John si allenta la cravatta, con un gesto nervoso. «Sherlock…» aggiunge, esitante, poco dopo.
L’altro si volta verso di lui, rimanendo in silenzio.
«Sta succedendo davvero… non è vero?» chiede il medico, e la voce trema appena sotto l’onda della pressione. «Non sto immaginando ogni cosa… Non sto immaginando te» precisa, e non sa nemmeno bene perché lo stia facendo.
«Non lo so.» Sherlock scuote la testa. «Tu cosa senti?» domanda dopo un attimo, ma il medico è già sparito.
Alla sua sinistra, il viso segnato da una profonda sofferenza, è invece comparso Mycroft. I vestiti sembrano gli stessi della sera prima e, a giudicare dalla lieve peluria che gli adombra il viso, non ha potuto provvedere alla rasatura mattutina.
«E tu, fratello caro? Cosa senti?» gli chiede, osservando un uomo della scientifica chiudere il portellone della lunga berlina.
«Riguardo a cosa?» ribatte Sherlock, fingendo di non aver compreso a cosa il fratello stia facendo riferimento.
«La nascita è sempre un momento destabilizzante. Sovverte una situazione già esistente, la trasforma in modo profondo e totale. È come spalancare mille porte su parti di noi alle quali non abbiamo mai voluto dare ascolto. L’istinto. Le inclinazioni. Gli impulsi. All’improvviso è tutto lì, nelle nostre mani.» Mycroft attende di vedere l’auto sparire oltre una curva, prima di voltarsi verso il fratello. «L’incidenza di appartenenti ad una cerchia che finisce con l’istaurare un rapporto di tipo sentimentale, oltre che emotivo, è molto alta. C’è un motivo, se gli individui nascono in certi gruppi e non in altri. Potremmo chiamarle… affinità elettive
«Sei venuto fin qui dal tuo bunker per parlare di amore?» sbotta Sherlock, continuando a tenere gli occhi fissi davanti a sé.
«Sono venuto per dirgli addio» ribatte l’altro, con voce calma. «Ma la tua domanda all’appartenente alla tua cerchia mi ha ricordato di non averti spiegato una cosa di fondamentale importanza.» Mycroft chiude gli occhi, cercando le parole adatte. «Quello che ci unisce agli altri appartenenti del nostro gruppo è qualcosa che va oltre quello che decidiamo di tenere in superficie, di mostrare. Il legame è viscerale, atavico. Il più primitivo ed ancestrale istinto della nostra specie: la condivisione. Arriverà un momento, presto, nel quale troverai insopportabile l’idea di non condividere qualsiasi cosa con lui. Ti sembrerà di non poter respirare, senza che lui lo faccia a sua volta. Di non poter pensare, se lui sarà distratto. Più le cerchie sono ampie, più questa pulsione può diluirsi, nascondersi. Greg ed io siamo riusciti a nascondere ciò che provavamo per anni. Ma la tua cerchia è molto piccola. La più piccola unità possibile.» Mycroft si interrompe. Non è certo di essere riuscito a far capire a Sherlock cosa intenda trasmettergli.
«Stai dicendo che siamo destinati ad avere un legame sentimentale, perché è così che funziona?» risponde il detective, irritato.
«No. Sto dicendo che c’è un motivo se siete voi, gli ultimi rimasti. Innamorarsi non è un obbligo. Non lo è mai, per nessuno. Ma se dovesse accadere… combattere quello che provi potrebbe mettervi in pericolo più del cedervi. Basta un solo momento di debolezza, uno soltanto, per cadere nelle trappole disseminate da Whispers.»
«Hai sempre detto che i sentimenti sono una distrazione. Che sono loro, la debolezza» ringhia Sherlock, girandosi con sguardo collerico verso il fratello.
«Per i Sapiens, sì. Lo sono. Gli impediscono di vedere lucidamente, di capire. Per noi, invece, le emozioni sono la forma più alta di limpidezza di pensiero e di azione.» Mycroft prende un respiro profondo. La sua immagine, nel chiarore della fredda mattina londinese, trema appena. «Presto Whispers capirà dove sono, e manderà qualcuno a prendermi. Non ci vorrà molto, prima che abbia accesso alla mia mente e, in parte, ai ricordi che la abitano. Allora, verrà a cercarti. E se non potrà catturarti, cercherà di incrociare il tuo sguardo. Perché, una volta che vi sarete visti, potrà farti visita come chiunque altro appartenente ad una cerchia esterna. Nessun posto, a quel punto, sarà più sicuro.»
«È un Sapiens... come può fare una cosa del genere?» domanda Sherlock, spostando gli occhi da una parte all’altra, veloce, inseguendo un pensiero che sente vicino ma che non riesce del tutto ad afferrare.
«Le sue ricerche stanno dando i loro frutti. Non appena avrà capito come far nascere da solo una cerchia, sterminerà il resto di noi senza alcuna pietà. Gli archivi della BPO conservano ogni dato. Ogni nascita. Ogni nome, indirizzo, identità. Tranne…»
«Le nostre. Non conosce la nostra identità…» termina il detective. Tutto, all’improvviso, è divenuto estremamente chiaro. Luminoso, come il cielo sopra di loro.
«No. Greg si è ucciso prima che Whispers potesse carpire i vostri nomi. Ed è per questo che è importante, fondamentale, che tu capisca che non è quello che provi, ciò che devi combattere. Il nemico non sono le tue emozioni, anche se hai passato una vita intera a trattarle come tali.» Mycroft accenna un sorriso stanco, stremato. Desidera ardentemente che il fratello capisca. Che lo perdoni per ogni bugia. Che comprenda nei suoi silenzi perché – quando Whispers capirà dove si nasconda – non esiterà a far fuoco contro se stesso, nella speranza che basti a dare a lui e alla sua cerchia il tempo sufficiente a trovare un modo per fermarlo.
«Stai per morire… non è vero?» chiede Sherlock, atono, un nodo stretto in gola che cerca con ogni mezzo di ignorare.
«Se sarà necessario» è la lapidaria risposta dell’altro, e nessuno dei due ha bisogno di aggiungere altro.
Si guardano, muti, e per entrambi quello sguardo difficile è un addio velato.
«Non tornerò più a farti visita. È troppo pericoloso» riprende Mycroft dopo qualche secondo.
Sherlock annuisce, senza trovare le parole adatte ad un saluto che non si sente pronto a fare.
«Ho sempre detestato i tuoi consigli» sussurra alla fine, abbassando gli occhi per un attimo.
«Lo so.» Mycroft allunga una mano verso di lui, appoggiandola velocemente sulla sua spalla. «Se puoi, ascoltami almeno questa volta» dice, e il suo tocco si è fatto già più leggero. Sherlock annuisce, le mani affondate nelle tasche e la mente piena di parole che – lo sa – non usciranno mai dalle sue labbra piegate in un sorriso amaro.
Il tempo di un battito di ciglia, e Mycroft scompare.
Davanti alla chiesa resta qualche curioso, ed un agente incaricato di delimitare la zona fino a nuovo ordine.
Il detective, con le mani ancora in tasca, lancia un’ultima occhiata attorno a sé. Poi, lento, si avvia verso Baker Street.
In cerca di risposte.
 
 
 
 8. 
 
 
 
«Ahi!» Mary allontana il piede da John e gli lascia le mani. Con un’espressione dolorante sul viso si china per toccarsi la zona dove, un attimo prima, l’uomo le ha dato un calcio senza rendersene conto.
«Dobbiamo ballare, non picchiarci!» scherza, ma il medico, fermo a pochi passi da lei, è diventato paonazzo.
«Non sono proprio capace, mi dispiace!» dice, avvicinandosi per toccarle un braccio.
«Imparerai…» sorride la donna, tornando in posizione eretta. «È il primo ballo, ogni novello sposo deve farlo!» aggiunge, prendendo nuovamente la mano dell’uomo e aspettando che John le poggi quella libera su un fianco.
«Pronto?» gli domanda, e il medico annuisce con poca convinzione.
«Prima che cominci il tuo turno voglio assolutamente riuscire a farlo almeno una volta.» Mary trattiene il fiato, in attesa che il suo cavaliere muova il primo passo.
John barcolla e, goffo e impacciato, comincia a muoversi lungo il salotto.
«Potresti abbassare la musica? Sto cercando di fare una ricerca sul deep web, e questo valzer di infimo livello non aiuta la mia concentrazione.»
John, gli occhi sgranati e il fiato spezzato, passa danzando davanti a Sherlock, immobile vicino alla porta di ingresso nella stanza. Controlla che Mary non lo stia guardando, e lancia uno sguardo furente in sua direzione.
«Tra l’altro stai sbagliando ogni passo» rincara la dose il detective, alzando gli occhi verso il soffitto. «Non è così, che si guida un ballo.»
John prende un respiro profondo, cercando di ignorare l’istinto di urlargli contro di sparire. Si sta vergognando profondamente di ballare, incerto e malfermo, davanti allo sguardo serio dell’altro. Vorrebbe solo potersi fermare e allontanarsi, ma sa che non è possibile. Mary, con gli occhi chiusi e un sorriso leggero sulle labbra, ha aumentato la presa sulla sua spalla, facendo leva su di lui per ogni movimento.
«Permetti?» chiede Sherlock dopo qualche secondo. John si trova improvvisamente dall’altra parte della stanza e, adesso, è il detective a ballare un lento con la sua futura moglie. Mary apre gli occhi quasi subito, stupita. «Quando hai imparato a ballare così?!» chiede, e Sherlock lancia un’occhiata veloce in direzione dell’altro. Resta in silenzio per qualche secondo, mentre John lo prega con gesti disperati di dire qualcosa di credibile.
«Volevo farti una sorpresa» risponde il detective, e Mary vede John fare altrettanto, stretto a lei.
Sherlock si volta di nuovo verso il medico, adesso più rilassato. «Grazie…» sillaba lui, aprendosi in un sorriso che, per un attimo, fa saltare un battito al cuore del detective.
In silenzio, Sherlock riporta gli occhi sulla donna di fronte a sé, continuando a muoversi come ha imparato a fare da ragazzo, durante i lunghi pomeriggi passati ad osservare i ballerini di una scuola di danza poco lontana dal collegio dove studiava.
John resta fermo di fianco alla porta, la testa inclinata da un lato e gli occhi puntati su Sherlock. È così distinto mentre balla, così incantevole, che l’unica cosa che il medico riesce a pensare è che vorrebbe poter ballare anche solo un secondo assieme a lui.
Lo pensa con così tanta intensità - un desiderio profondo, assoluto - da non rimanere quasi sorpreso quando, senza capire come, si trova realmente a stringere la mano dell’altro.
Sherlock socchiude la bocca, colto alla sprovvista. Le sue dita, adesso, non affondano più in un fianco morbido, ma stringono quello forte di un uomo.
Si guardano, in silenzio, continuando a muoversi attraverso una stanza che continua a cambiare.
È il salotto di John, poi Baker Street. Poi, di nuovo, l’appartamento del medico.
Un movimento fluido, e Mary è con John.
Un paio di note, veloci, e le mani della donna stringono quelle di Sherlock.
Un assolo di archi, e ci sono solo loro, solo John e Sherlock, che girano assieme alla musica, ai luoghi, ai respiri. E più la melodia si fa veloce, più vorrebbero avvicinarsi, fino a fondersi.
Un passo, e Mary è ancora lì.
Un altro, e John trova gli occhi di Sherlock così vicini ai suoi da sentirsi annegare in quell’azzurro cangiante.
Un altro ancora, e il medico è di nuovo vicino alla porta, e Sherlock sembra deluso. Infelice.
Quando – dopo più di un minuto – la musica si ferma, John poggia le labbra su quello dell’altro, riuscendo finalmente a respirare. Ma quando riapre gli occhi, il detective è scomparso. Al suo posto Mary, il viso in fiamme, lo guarda come non ha mai fatto prima.
«È stato…» comincia lei, con gli occhi lucidi.
«Incredibile…» ansima John, guardandosi attorno un’ultima volta.
La delusione di non scorgere Sherlock, di non riuscire a leggergli negli occhi se anche per lui è stato lo stesso, gli apre una voragine al centro del petto.
 
Lo stesso abisso – a Baker Street – avvolge il detective, il volto arrossato e gli occhi liquidi.
Si appoggia un dito sulle labbra, premendo nel punto esatto dov’è rimasto il calore di quelle di John.
Abbassa gli occhi, scoprendo con turbamento che ogni parte del suo corpo ha reagito a quel contatto. Si sente fremere, smaniare per averne ancora. Si alza con violenza dalla sedia sulla quale si trova, rovesciandola dietro di sé.
Con passo veloce e testa china si chiude in bagno, aprendo il rubinetto dell’acqua e liberandosi in fretta dai vestiti.
Così, tremante, spaventato, si lascia andare nell’acqua gelata che sta riempiendo la vasca.
Si riempie le mani di liquido gelato, portandoselo al viso, ai capelli, al petto.
Con la coda dell’occhio, un’ombra fugace, vede John seduto a terra – le spalle contro la porta –    nel proprio bagno. Ha il volto nascosto tra le mani, e sembra perso quanto lui.
La vasca continua a riempirsi, rapida, ed il medico è già sparito.
Al suo posto, i vestiti che il detective ha lasciato cadere a terra.
 
Sherlock chiude gli occhi e si lascia scivolare giù, fino a quando l’acqua non lo avvolge completamente, richiudendosi sopra di lui.
 
John, a qualche miglia di distanza, sente Mary canticchiare oltre la porta chiusa dietro la quale – con la scusa di prepararsi per andare in clinica – si è trincerato. È felice, soddisfatta. Ignara.
Ignara che la gioia che ha scorto sul viso del suo fidanzato, chino sulle sue labbra, non era per lei. Che il rossore delle sue guance ed il suo respiro spezzato, non lo erano.
Ignara che l’uomo che sta per sposare vorrebbe solo poter ballare di nuovo con una persona che non ha mai visto prima e che – inspiegabilmente ma in modo totale, annichilente ed ancestrale –  sente scorrere sotto pelle come una malattia della quale non vuole liberarsi.
John prende un respiro profondo, cercando di allontanare i pensieri.
Poco lontano da lui, poco più di un’ombra fugace, Sherlock si alza dalla propria vasca da bagno, gli occhi bassi ed il corpo solcato da piccole gocce d’acqua gelata. John riesce quasi a sentirne il freddo sulla pelle, mentre le osserva muoversi lungo il petto dell’altro. Sulle sue braccia. Il suo viso.
Il tempo di deglutire a fatica, e il detective è scomparso.
Al suo posto, i vestiti che il medico deve indossare per andare a lavoro.
 
 

 9. 
 
 
 
Mycroft – immerso nella penombra – si appoggia una mano all’altezza del petto, sentendo il metallo freddo dell’arma che nasconde sotto la giacca rispondere alla pressione incerta delle dita.
Non ci vorrà ancora molto, lo sa.
Lo percepisce.
Esattamente come aveva avvertito il dolore di Greg, riverso sul selciato di quella chiesa abbandonata.
Nello stesso modo nel quale – un anno prima - aveva intuito che Whispers, il Cannibale, era riuscito ad arrivare al resto della sua cerchia dopo aver catturato e torturato uno degli ultimi appartenenti al gruppo.
Una scarica elettrica su di lui, legato in un laboratorio, e tutti gli altri erano finiti a terra.
Greg durante un pattugliamento. Mycroft nell’anticamera del proprio ufficio. Lady Smallwood a pochi passi dal Primo Ministro.
Mycroft aveva visto Whispers apparire subito dopo - trionfante, un sorriso gioioso sul volto - a pochi passi dal suo corpo scosso dei tremiti.  Era entrato, e non si sarebbe fermato prima di averli uccisi tutti. Prima di aver rimosso l’ultimo ostacolo alla propria, incondizionata, libertà d’azione.
L’aiuto offerto da Greg nel tentativo di prendere tempo - il cercare di patteggiare, di rendersi merce di scambio, il sacrificio dei suoi stessi figli e, infine, della sua stessa vita - lo aveva solo rallentato, ma non arrestato.
«Posso sentire la tua paura, Mycroft.» Una voce allegra, squillante, compare all’improvviso alla sua destra. «Anche se ti ostini a nasconderti in questo buco, la tua angoscia è un segnale inequivocabile.»
«Io, invece, sento la tua frustrazione, Jim. Anche se ti ostini a cercare, la tua insoddisfazione nel non riuscire a trovarmi è un segnale inequivocabile» ribatte Mycroft, lento, pacato. Sorride appena, lasciando andare la testa all’indietro.
«Sai, mi sono chiesto spesso come tu possa vivere così. Rintanato come un topo. Di cosa ti nutri? Dove dormi?» cadenza Whispers, e sembra divertito. «Quanto grande è, realmente, questa stanza?» Si interrompe un attimo, il tempo di alzarsi, avvolto dal buio. Mycroft lo sente sollevarsi, poco più di un fruscio prolungato. «Così ho iniziato a muovermi lungo le sue pareti, un po’ di più ad ogni visita. Palmo… dopo… palmo…» sussurra il Cannibale, un tono di scherno nascosto in un ringhiare basso, divertito. «Non ci sono letti. Tavoli. Gabinetti. È una cella.» Ride, una risata aguzza, alienata, e Mycroft infila una mano sotto la giacca, pronto ad estrarre l’arma. Non ha bisogno che l’altro termini il suo discorso. Sa che la sua fuga è giunta al capolinea.
«Poi mi sono domandato dove, un uomo come te, potrebbe costruire una cosa simile. In quale luogo isolato, e a tua completa disposizione… Un luogo che, oltre a questo bunker insonorizzato, avesse anche un letto accogliente e una cucina» la voce di Whispers è di nuovo vicina, adesso, e Mycroft chiude gli occhi, lasciandosi andare ad un sorriso amaro.
«Assumi Bloccanti, quando esci, non è vero? Peccato che io ne abbia vietato la fabbricazione, qualche mese fa…» continua l’altro. «Quali usi? Quelli di contrabbando? È per questo, per via degli effetti collaterali, che preferisci star chiuso qui?»
Mycroft si lascia scappare uno sbuffo spazientito. Nell’ombra, può sentire l’altro irrigidirsi, confuso.
«Pensi davvero che io non conosca altri modi per avere i Bloccanti con la giusta composizione chimica?» ribatte, ricalcando il tono dell’altro con fare canzonatorio. «Credi davvero che sia costretto a vivere qui?» aggiunge, mentre sfila la pistola con attenzione da sotto la giacca. «Pensi davvero che ti permetterò di entrare nella mia testa?»
«Penso che non dovresti lasciare le tue armi incustodite…» è la risposta atona di Whispers. «Perché altrimenti qualcuno potrebbe manomettere il caricatore, e tu saresti solo e disarmato, al momento dell’irruzione dei miei uomini» gli sussurra all’orecchio, improvvisamente vicino, così tanto che Mycroft ha l’impressione che stia appoggiando la testa contro la sua. «Fra qualche ora saremo di nuovo insieme, amico mio. Non vedo l’ora» aggiunge il Cannibale, smanioso, famelico, prima di sparire inghiottito dal silenzio.
Le mani leggermente tremanti, Mycroft fa scorrere all’indietro il carrello della pistola. Dopo meno della metà della corsa, però, il caricatore si inceppa con uno stridio.
Prova di nuovo, e ancora. Con più forza, più rabbia, più disperazione. Si ferisce le mani, mentre i tonfi sordi che sente in lontananza si fanno più veloci, più pesanti.
«Stanno arrivando» sussurra, e Sherlock alza di scatto lo sguardo verso il centro del salotto.
«Stanno arrivando» ripete Mycroft seduto sul pavimento, la pistola abbandonata sulle gambe e gli occhi spenti. «Mi dispiace, fratello caro.»
Sherlock si allontana dal tavolo della cucina – sul quale stava lavorando chino sul microscopio - in fretta, portandosi all’altezza dell’altro. Dietro di lui, con il camice addosso, John compare sotto la porta che divide le due stanze.
«Che succede?» domanda, ma Sherlock è in ginocchio sul tappeto al centro della stanza, e non dà segno di sentirlo.
«Hai poco tempo. Un giorno. Forse due.» Mycroft sfiora la pistola, ancora inceppata. Con rabbia la scaraventa lontano, facendola sparire.
Nel buio dove si trova, la sente sbattere contro una delle pareti del bunker.
«Dimmi dove sei. Posso fermarli» gli dice Sherlock, ancora a carponi davanti a lui.
Il medico inclina la testa da un lato, e una ruga si disegna sulla sua fronte.
«Cosa sta succedendo?» chiede di nuovo, mentre qualcuno bussa alla porta del suo studio.
«Un attimo!» grida, ed è di nuovo nel salotto di Baker Street.
«Mio fratello. Whispers lo ha trovato» spiega Sherlock, veloce, senza voltarsi. «Dimmi dove sei, maledizione!» urla poi, rivolto a Mycroft.
«Tuo fratello è come noi…?» John si guarda attorno, senza riuscire a vedere altro che il detective in ginocchio davanti a lui.
«Sono troppo lontano, Sherlock» risponde Mycroft, con un sorriso. «Sono nel Sussex, nella nostra casa d’infanzia. E loro sono già… qui» termina, prima di sparire.
Sherlock si lascia cadere all’indietro, cercando di ristabilire un contatto, in modo da potergli fare visita. Chiude gli occhi, li serra al punto da sentire dolore. Si porta le mani alle tempie, premendo in cerca di una concentrazione maggiore.
Tenta, e tenta ancora, mentre John si porta a terra con un movimento lento, incerto, inginocchiandosi accanto a lui e appoggiandogli una mano su una spalla.
Nel Sussex, una squadra di cinque uomini solleva Mycroft – privo di conoscenza – e lo adagia su una barella. Una piccola goccia di sangue gli solca il viso, scivolando giù dalla ferita alla testa che gli hanno provocato con il calcio di uno dei fucili.
Sherlock prova un’ultima volta, chiudendo gli occhi con così tanta forza da sentir dolere le meningi.
John gli sfiora le tempie con un dito, cercando di distendere la contrattura che vede affiorare sotto la pelle, tra le mani rigide.
«Sherlock…» lo chiama.
Intanto nel suo studio Sarah, spaventata, apre la porta dopo aver bussato per l’ennesima volta, trovando il medico a terra, una mano sollevata nel vuoto.
«Ho bisogno di un attimo» le sillaba lui e lei, con il volto teso, annuisce. È successo qualcosa, lo capisce dallo sguardo scuro di John.
«Ok» gli risponde, indugiando qualche attimo prima di richiudersi la porta alle spalle.
«Sherlock» riprova il medico, ancora con una mano sul viso dell’altro.
«Ho bisogno di parlarti» reagisce di colpo il detective, voltandosi verso l’altro. «Ed ho bisogno che tu mi dica esattamente cosa ti ha detto la tua visita, ieri sera. Dobbiamo preparare un piano» butta fuori, tutto d’un fiato. Sono così vicini, adesso, che il medico riesce a vedere il suo viso riflesso nelle iridi dell’altro.
«Ok…» acconsente John, deglutendo appena. Sherlock lo guarda stirare le labbra, teso. «Posso venire lì, se mi dici dove…»
«No» lo interrompe il detective. «È troppo pericoloso, incontrarci di persona. Se Whispers arriva a me, e trova anche te…» si blocca, sorpreso dal pensiero che gli sta attraversando la mente.
Vorrebbe dargli voce, e corpo, ma appare così irrazionale, ai suoi occhi, che non sa come poterlo fare. Un attimo dopo, però, è il medico a farlo al posto suo. A farsi scivolare fuori dalle labbra ciò che lui non è in grado di dire.
«Se arriva a te, ed io non sono lì…» riprende John. «Non potrei mai perdonarmelo
Sherlock sente le parole dell’altro muoversi nella gabbia toracica, risuonando tra le pareti vuote del suo petto. Potrebbe averle dette lui stesso. Con la stessa voce, e lo stesso sguardo. Con la stessa paura e, insieme, lo stesso significato.
«Non voglio che tu venga qui» ribadisce, a fatica, poco dopo. «Ma cerca un posto sicuro per una visita. Ok?»
«Ok. Dico a Sarah che mi prendo il pomeriggio libero.» John si porta il labbro inferiore tra i denti, teso, preparandosi a terminare la visita.
«No… Stasera. Voglio continuare a cercare informazioni su Whispers, finché la mia posizione è abbastanza sicura.» Sherlock esita un ultimo momento sul viso dell’altro. Poi, a fatica, se ne stacca per potersi mettere in piedi.
«Perché… perché stanno facendo questo?» domanda John, alzandosi a sua volta.
«Te lo spiegherò quando ci vedremo.» Il detective si volta verso di lui, abbassando lo sguardo per qualche secondo. «Fino ad allora… non fidarti di nessuno. E se vedi quest’uomo - aggiunge, avvicinandosi al tavolo e prendendo una foto da un cumulo di carte, girandola poi in direzione di John - non guardarlo negli occhi. Non provare a fermarlo. Scappa e basta.»
«È Whispers?» chiede il medico, aggrottando le sopracciglia.
Sherlock annuisce. «Il professor James Moriarty.»
John si avvicina alla foto, allungando una mano verso il volto disteso che vede osservarlo dall’istantanea. «Non sembra un grande pericolo, vero?» sussurra, inclinando la testa da un lato. «Non lo sembrano mai.»
Sherlock socchiude gli occhi, senza riuscire a capire.
«Il proiettile che mi ha quasi ucciso…» comincia il medico, bloccandosi quasi subito. «Non importa» dice, un sorriso mesto a indurirgli il viso.
All’improvviso, un ricordo si affaccia alla mente del detective. Un ragazzo giovane, a terra. John, in tenuta militare, che si china su di lui, per capire se è ferito. Lo sparo. La caduta. Il dolore.
«Non era un ragazzino, John. Ma lo sembrava. Lo avevano scelto proprio per quello» inizia Sherlock, titubante, acquistando sicurezza via via che il ricordo diviene più chiaro, nitido.
«Lo so. Il mio gruppo scoprì poi che aveva quasi ventotto anni, ed era a capo di una delle fazioni più pericolose di insorti. Ma…» John si porta una mano alla spalla, sfiorando la cicatrice. «Sembrava così spaventato, così piccolo, lì a terra, coperto di sabbia.»
«Tutti possono mentire.» Sherlock abbassa il braccio, posando nuovamente la fotografia sul tavolino. «Le bugie sono il motore stesso di questo mondo.»
John annuisce, assorto. «Pensi che, data la situazione… se mentissi… te ne accorgeresti?»
«Non lo so. Non mi importa» risponde il detective, scuotendo la testa.
«Te ne accorgeresti… sì» ribatte John, e Sherlock socchiude gli occhi, osservandolo con aria interrogativa.
«Come puoi dirlo?» domanda, mentre sul viso dell’altro si affaccia un sorriso leggero.
«Perché io mi sono accorto che tu lo hai appena fatto.» John guarda il volto del detective aprirsi per la sorpresa. Così, con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati, sembra quasi un bambino posto per la prima volta di fronte alla vastità del mare.
«Devo andare, adesso...» Il medico chiude gli occhi, senza dare all’altro il tempo di ribattere.
Li riapre nel proprio studio, l’immagine dello stupore di Sherlock impresso al centro dei respiri, come un soffio candido.
 
 

 10. 
 
 
 
John si siede a terra, sentendo l’erba umida bagnare la stoffa scura dei pantaloni.
Il laghetto di St. James’s Park si apre davanti a lui, uno specchio d’acqua dove i lampioni accesi si riflettono, piccole sfere dorate che brillano ai margini del bacino.
Un nuovo messaggio di Mary appare sullo schermo del cellulare, che tiene sulle gambe stese.
Si è già scusato più volte, chiamandola per rassicurarla che non farà tardi.
“Un vecchio commilitone in visita”, le ha raccontato, ma lei non è parsa convinta.
La preoccupazione della donna cresce ad ogni messaggio. Vuole sapere dove si trovino. Cosa stiano facendo. Perché non può raggiungerli.
John non vuole ferirla, ma ha bisogno di un po’ di tempo.
Di un posto tranquillo, dove aspettare che Sherlock gli faccia visita.
Una folata di vento si alza dall’erba, scompigliandogli i capelli. Di fianco a lui, quando la raffica si acquieta, siede Sherlock, gli occhi fissi sul laghetto che riempie l’intero orizzonte di fronte a loro.
John sorride, mentre un gruppo di anatre si rincorre poco lontano dalla riva.
Si volta verso di l’altro, sentendo le gambe poggiare adesso su un materiale ben più duro dell’erba sulla quale si trova.
«Un tetto?» commenta, guardandosi attorno.
«Il tetto» risponde Sherlock, con voce calma, gli occhi ancora fissi davanti a sé. «Perché proprio St. James’s Park?» domanda poco dopo, e l’aria pungente della notte londinese è di nuovo attorno a loro, assieme allo starnazzare degli uccelli nell’acqua.
«Ho sempre amato questo posto. È…»
«…tranquillo» terminano insieme, sul tetto.
«Hai detto che dovevi parlarmi» lo incoraggia John.
Un nuovo messaggio di Mary compare sul cellulare. Il medico lo lascia cadere accanto a sé, guardandolo sparire a contatto con le tegole.
Sull’erba, il telefono è caduto a faccia in giù, lo schermo a schiacciare gli esili ciuffi d’erba. Il detective si sporge un attimo, per capire dove sia finito.
«Non ho molto tempo…» lo sprona il medico, mettendosi con il viso sulla traiettoria dello sguardo dell’altro.
«No, certo che no» ribatte lui e, per un attimo, sembra amareggiato. «Ti ho chiesto di incontrarci perché Mycroft mi ha raccontato molto, su Whispers. Sul suo scopo, e sul perché verrà a cercarci. Voleva che fossimo preparati.»
John annuisce, deglutendo con fatica. Il volto dell’altro, sotto la luce dei lampioni, appare quasi fatto di porcellana. Sembra sul punto di andare in frantumi, ed il medico non riesce ad impedirsi di appoggiare una mano sul suo braccio.
Per tutto il tempo del racconto, non interrompe quel contatto. Lo intensifica, alle volte, quando sente la voce dell’altro fremere di rabbia, o tensione.
Non sposta le dita neanche quando arriva il suo turno di dire quanto sa. Usa la mano libera per aiutarsi, la muove nell’aria per descrivere Sarah, la sua cucina, le sue parole. Alle volte dietro il suo palmo aperto intravede il blu scuro del lago. Alle volte i tetti dei palazzi attorno a Baker Street. Continua a parlare, fino a quando non è certo di aver esposto anche il più piccolo particolare, quello all’apparenza più insignificante.
Alla fine, stremati, rimangono in silenzio entrambi.
Sherlock può sentire la tensione di John irrigidirgli la schiena, chiudergli la gola.
La percepisce mischiarsi alla propria, e vorrebbe solo appoggiare la testa contro le sue gambe, e chiudere gli occhi.
Mai, prima di quel momento, ha mai desiderato un contatto umano fino a quel punto.
Forse, si ritrova a pensare, prima di quel momento non ne ha mai desiderato uno.
«Quindi, alla fine, Lestrade si è tolto la vita per niente… Whispers ci troverà comunque» dice il medico dopo qualche minuto, quasi destandosi dai propri pensieri.
«Ci ha dato il tempo di sapere. Di prepararci» ribatte Sherlock, mentre una nuvola passeggera oscura la luna, privandolo dell’immagine del viso dell’altro.
«Dobbiamo vederci. Stare assieme. Non voglio che tu debba trovarti ad affrontarlo da solo.» Il medico si gira verso il detective, sul volto un’espressione seria.
«Non sono mai solo» risponde Sherlock, e vorrebbe riuscire a dirlo con spocchia, altezzosità, ma quell’improvvisa epifania lo riempie di un calore che gli incendia i polmoni.
John si morde un labbro, annuendo. Sembra distratto, mentre un’anatra gli passa vicino, agitando le ali.
«Pensi che sarà così per sempre?» chiede dopo poco, la gola compressa e la voce incerta. «Se dovessimo riuscire a sopravvivere, certo…» specifica.
Sherlock abbassa gli occhi. «Così come?» domanda, ma non ce ne sarebbe bisogno.
«Così… tra noi.» Il medico tossisce un paio di volte, portandosi una mano alla bocca. «Le visite. Le… sensazioni. Perché…» si blocca. Una luce, nel palazzo di fronte, si è spenta. «Perché c’è sempre qualcosa che tira, esattamente qui – si porta un dito al centro del petto – quando siamo così vicini.»
Il detective annuisce, in silenzio. Il vento si è alzato, e il rumore dell’acqua che si increspa sulla superficie si è fatto più forte.
«Io…» John scuote la testa, mentre si apre in un sorriso amaro. «Non ho mai, mai… desiderato così tanto poter sfiorare qualcuno» butta fuori, e Sherlock – per un secondo - si vede attraverso i suoi occhi. Socchiude le labbra, il cuore in fiamme. Il medico, di fianco a lui, si chiude su se stesso, una mano al petto.
L’erba si muove attorno a loro, così come l’ombra di due persone nel palazzo di fronte a quello dove si trovano.
Restano immobili fin quando il dolore non si è esteso ai muscoli, all’anima stessa.
Sono a quel punto, quasi da quello dipendesse la sua – la loro - stessa vita, John si gira di scatto verso l’altro, appoggiando la bocca su quella dell’altro con foga tale da sentire i denti premere contro le labbra.
Sherlock resta immobile un secondo, un solo attimo, il tempo di chiudere gli occhi e lasciargli spazio.
Il mondo sembra fermarsi bruscamente. Una frenata ruvida, che li spinge l’uno contro l’altro con maggior forza. C’è ogni bacio passato, ogni bacio non dato, ogni paura ed ogni speranza, in quel contatto che sembra restringersi ed estendersi con loro, con l’universo stesso.
È come assaggiare una parte della propria anima, e John non riesce a trattenere una lacrima, mentre accompagna con gentilezza Sherlock a terra per potersi sdraiare su di lui, con la sensazione che non farlo significherebbe, semplicemente, smettere di respirare. Di esistere.
C’è l’erba, il vento, e ci sono le tegole. C’è il suono del traffico e quello dell’acqua, e c’è il suono dei loro vestiti che vengono abbandonati, sparendo, o accatastandosi.
C’è la prima spinta, il primo gemito, la prima goccia di sudore. John si sente sopra l’altro e sotto di lui, dentro e fuori allo stesso momento. Lo sente flettersi, inarcarsi, e allo stesso tempo chinarsi su di lui, per stringerlo mentre lo sfiora con le labbra.
Il tempo è un anello circolare, adesso, e lo sono anche loro. Ogni spinta è un cerchio perfetto, fluido, e li collega. Li unisce. Li lega.
Sherlock allarga le gambe, e l’erba fresca spunta adesso tra le tegole del suo tetto. Può sentire l’eccitazione di John dentro di lui, e fuori. Gli sta esplodendo nel petto, come in ogni altra parte del corpo. È il dolore piacevole che riceve il suo basso ventre, ed è il piacere totale che sta invece vivendo l’altro, aumentando ritmo e profondità ad ogni spinta.
John si china su di lui, lo abbraccia, usa il suo corpo come appiglio. Si muove, e sembra sapere esattamente come e quando andare più in profondità, o più veloce. Segue il suo stesso piacere, perché è fuso con quello dell’altro al punto da non capire chi dei due stia davvero decidendo fino a che punto arrivare, fino a dove portare l’altro, prima di lasciarlo libero.
Raggiungono la libertà insieme, dopo poco, un piacere totale, atavico, istintivo, ancestrale, che specchia in quello dell’altro, ampliandosi all’infinito.
John sente che potrebbe vivere solo di quello. Dei gemiti di piacere di Sherlock sotto le sue mani. Che potrebbe continuare a muoversi sopra di lui per sempre, sentendolo muoversi a sua volta.
I volti, i corpi, le bocche stremate, si staccano poco dopo e, per un attimo, l'infinito stesso sembra essersi svuotato.
Sherlock si passa una mano sulle labbra, la schiena graffiata dalle tegole e gli occhi lucidi.
John, ansimante, affonda le mani nell’erba, per cercare di rialzarsi.
«Devo vederti…» geme, debole. «Devo sapere che sei reale» aggiunge, lacrime di piacere e paura a scendere lungo le guance.
Sherlock si chiude su se stesso, guardandolo, in silenzio.
Vorrebbe dargli il suo indirizzo. Implorarlo di andare da lui. Riuscire davvero a sfiorarlo. Vorrebbe sapere che è vero, come il dolore che gli squarcia l’anima.
Ma qualcosa, ben nascosto tra le pieghe della sua coscienza, gli sussurra che è troppo tardi.
Che deve stargli lontano, o li condannerà entrambi. È una comprensione inconscia. Genetica.
Sa che Mycroft, alla fine, non è riuscito a nascondere la sua identità a Whispers.
Che sta facendo il suo nome proprio in quel momento.
«Sherlock…» lo chiama John. Lui lo guarda un’ultima volta.
Poi scompare, lasciandolo solo, i pugni affondati nel terreno.
 
Sul tetto di Baker Street, Sherlock lascia che una sola lacrima si liberi dai suoi occhi.
Le permette di arrivare quasi alle labbra. Poi, con rabbia, l’asciuga con il dorso della mano.
Se Whispers ha potuto interrogare Mycroft così in fretta, probabilmente non si trovava molto lontano dalla loro casa, nel Sussex. Questo gli indica, in modo abbastanza preciso, quanto impiegherà ad arrivare a Londra, e a recarsi al 221B.
 
Ancora ansimante, raccoglie i propri vestiti, tornando in casa attraverso la finestra della cucina. Non ha molto tempo.
Dev’essere tutto pronto, quando Whispers arriverà a fargli visita.
 
 
 
 11. 
 
 
 
Alla terza scarica, il corpo di Mycroft – legato ad un lettino nel centro di una sala operatoria – si inarca, tendendosi. Un fiotto di sangue gli esce dalla bocca, mentre con le mani cerca disperatamente di ancorarsi al metallo freddo sotto di lui.
Le unghie scivolano sul fondo liscio del tavolo chirurgico, senza trovare nulla di adatto a fare presa per aiutarlo a resistere. Non appena la corrente si abbassa, il suo corpo si rilassa. Serra gli occhi, nella speranza di riuscire ancora a tenere lontano Whispers dalla propria mente.
«Ho bisogno di un nome…» gli sussurra lui, chinandosi fin quasi a sfiorargli la fronte con la propria. «Solo un nome.»
Mycroft accenna un sorriso, liberandosi dal sangue che sente ancora riempirgli la bocca con uno sbuffo soffocato.
Una piccola goccia arriva fino a Whispers, sporcandogli la guancia. Lui - con calma e movimenti misurati - si passa senza scomporsi il dorso di una mano sul viso, pulendosi. Poi, in silenzio, si avvicina alle manopole del macchinario, alzando il voltaggio fino al massimo punto consentito.
Fa un cenno ad uno degli uomini, coperti da tute bianche, che si trovano con lui nella stanza che, annuendo a propria volta, appoggia nuovamente le piastre sul petto di Mycroft.
La scarica è immediata. Annichilente. Mycroft sente la propria mente cedere, farsi liquida come il sangue che gli riempie nuovamente il naso, e la bocca. Ringhia, e vorrebbe riuscire a non pensare a nulla. Ma, nel momento in cui perde il contatto con se stesso e con la propria coscienza, il volto di Sherlock si affaccia tra le nubi del dolore che lo attanaglia.
Whispers inclina la testa da un lato, un sorriso soddisfatto sul volto.
Gli passa una mano sulla fronte, quasi una carezza.
«Trovate l’indirizzo di Sherlock Holmes, e preparate un elicottero» dice, continuando a far scorrere le dita tra i capelli madidi di sudore dell’altro. «Sei stato bravissimo, Mycroft. Adesso ti lascerò riposare…» gli sussurra.
Lui apre gli occhi, le viscere contorte dal dolore.
«Non preoccuparti…» bisbiglia ancora Whispers, dolce. «Non voglio che soffra. Ho bisogno, di lui.»
Mycroft cerca di alzare una mano, per fermarlo. I lacci che lo immobilizzano al lettino, però, non glielo permettono.
«Ti farò avere sue notizie» ride l’altro, allontanando le dita da lui. «Adesso riposa.»
Mycroft sente un ago - largo, freddo - entrare sotto pelle, all’altezza del collo.
Soffia sangue e saliva, cercando di parlare, ma Whispers è già vicino alla porta d’uscita. Ed il buio si ripiega su di lui, inghiottendolo.
 
 
* * *
 
 
Circa tre ore più tardi, una macchina scura si arresta davanti al 221B di Baker Street.
Whispers - in abiti eleganti - scende dalla berlina con movimenti misurati, sistemandosi il nodo della cravatta. Un sorriso allegro in bilico sulle labbra si avvicina al portone, trovandolo socchiuso. Oltre la porta, una luce tenue illumina l’ingresso.
«Aspettate qui» comanda, divertito, a due uomini in completo scuro usciti da un’auto appena arrivata. Loro, con passi rapidi, si portano ai due lati dell'entrata, immobilizzandosi.
In un silenzio completo, irreale, l’uomo scosta con una mano la porta di legno, spingendosi nell'atrio deserto. Dopo una rapida occhiata attorno a sé, comincia a salire i gradini che conducono all’appartamento al primo piano dell’immobile.
Ad ogni passo, nella quiete totale che lo avvolge, un piccolo scricchiolio riecheggia lungo le pareti delle scale, unendosi al suono del suo respiro.
Deliziato dal suono stridulo prodotto ad ogni suo movimento, carica il più possibile il peso su ogni gamba, in modo da sentire il legno flettersi e gemere sotto di lui.
Arrivato al pianerottolo scopre, senza molta sorpresa, che anche il salotto che si apre di fronte ai suoi occhi è immerso in un chiarore artificiale – dato da una grossa piantana accesa, posta di fianco ad una delle poltrone collocate in un angolo alla sua sinistra, vicino al camino - che si somma a quello che, faticosamente, filtra dalle finestre. 
Si ferma qualche passo oltre la soglia, guardandosi attorno e respirando a pieni polmoni l’odore di polvere, libri e inchiostro che impregna l’aria. Ad occhi chiusi, gli sembra quasi di riuscire a scorgere l’ombra del detective, immobile davanti ad una delle finestre. Non lo ha mai incontrato di persona - e non può quindi fargli visita - ma ha svolto varie ricerche mentre era in viaggio e, ora, conosce perfettamente il suo volto.
Lo immagina girare per la stanza, rapido, in cerca di qualcosa. O sedersi su una delle poltrone vicino al camino, il violino - che adesso si trova abbandonato in un angolo, muto - stretto al petto. Un sorriso, rapido, obliquo, nasce sul volto dell’uomo mentre riapre gli occhi. Solo qualche secondo dopo, riprendendo a muoversi per la stanza, mette a fuoco un piccolo biglietto lasciato esattamente al centro del tavolo in legno chiaro che si trova a pochi passi da lui. Con calma - il sorriso ancora in bilico sulle labbra - si avvicina, accarezzando la carta ruvida prima di stringerla tra le dita, portandosela a pochi centimetri dal viso.
Sul davanti del biglietto piegato, una grafia veloce ma curata ha scritto: “Jim Moriarty”.
L’uomo si lascia andare ad una risata piena, allegra. Non sentiva un Sensate chiamarlo per nome da anni.
Molti di loro lo conoscono come il Cannibale.
Pochi altri, la maggior parte nella resistenza, lo definiscono Whispers.
Nessuno, da tempo, si rivolge a lui con il nome con il quale aveva varcato per la prima volta – al fianco di Mycroft Holmes - le porte della BPO.
 
Apre il biglietto, leggendone il breve contenuto. Lo stesso tratto ha lasciato poche, semplici parole:
 
“St. Bartholomew's Hospital – Tetto.”
 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
mi sono domandata se fosse giusto utilizzare questo spazio per racchiudere un piccolo sfogo personale. In verità uso spesso queste righe finali per raccontare e condividere cosa mi stia accadendo, dove mi trovi, come mi senta. Quindi, alla fine, ho pensato che fosse giusto riportarvi le mie emozioni, anche quelle non proprio “positive”.
È successa una cosa (al di fuori del sito, ma strettamente collegata ad esso) che mi ha profondamente amareggiata.
Dopo parecchie ore di logoramento e un travaso di bile di discrete proporzioni (^_^’’), mi sono ricordata che quello che mi ha fatto avvicinare a questo luogo, e ancora mi lega a lui, vale molto più dell’amarezza, o dell’irritazione.
Partendo dall’amore per la serie tv che ci unisce (o almeno dovrebbe) e ci porta tutti in questi lidi, passando per il bene (in molte forme) che mi viene dallo scrivere, fino ad arrivare alla gioia immensa e al profondo arricchimento personale che mi procura il confrontarmi con chi si trova ad abitare, come me e con me, questi spazi, ciò che ha davvero importanza – mi sono resa conto – è così grande da far apparire tutto il resto (dispiaceri in testa) trascurabile.
 
Quindi ancora una volta, e con – se mai possibile! - ancora maggior forza, grazie a chiunque abbia letto fin qui, aggiunto la storia ad una qualche categoria, lasciato un commento.

A chi, più in generale, rende la mia esperienza su questo sito, e in questo fandom, un piacevole momento di rifugio dalla quotidianità.
 
L’appuntamento finale è per il 3 giugno. ^_^
 
A presto,
B.
 
 
 
 
   
 
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