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Autore: Roscoe24    09/07/2017    0 recensioni
Le piaceva la sua vita? Certo. Ma la sentiva incompleta. Non si sentiva del tutto parte di quel family business a cui in casa sua si dava tanta importanza.
Genere: Generale, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Bobby, Castiel, Dean Winchester, Nuovo personaggio, Sam Winchester
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione, Contesto generale/vago
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Quelle parole smossero il gruppetto rimasto immobile fino a quel momento. Zoe si liberò dalla presa di Aaron che l’aveva stretta a se nell’esatto momento in cui Max era stata afferrata per il collo e aveva capito che le intenzioni della ragazza erano andare in soccorso dell’amica. Si fece strada tra il gruppo e le corse in contro. Max vedeva la sua figura diventare sempre più grande, sentiva le suole delle sue converse nere stridere contro le piastrelle del pavimento; i suoi lunghi capelli, legati in spesse treccine, ondulavano come se stessero galleggiando in acqua. Zoe si inginocchiò al suo fianco.
“Sei pazza, Winchester!” la strinse a se in un abbraccio ferreo e disperato. Max sentiva il suo profumo fresco entrarle nelle narici e immediatamente si rilassò. Nell’esatto momento in cui si sentì al sicuro, tra le braccia dell’amica, cominciò a tremare, come se stesse espellendo tutta l’adrenalina accumulata nel giro di pochi attimi. Si stupì nel constatare quanto fosse doloroso quel processo.
“Tornerà.”
“Ti stava per uccidere!” la sgridò Zoe, sull’orlo di una crisi di pianto, mentre continuava a stringerla a se. “Non farmi mai più una cosa del genere, intesi??”
Max sciolse l’abbraccio per guardare gli occhi scuri dell’amica, erano di un castano intenso, come il cioccolato fondente: “Ci proverò.”
A Zoe tremavano la voce e le labbra. Max non sapeva se era per lo spavento che aveva provato o se fosse per quella punta di rabbia che aveva manifestato nei suoi confronti. Erano entrambi sentimenti giustificati, compresa la rabbia. Max era stata un’incosciente. Se suo padre fosse stato lì, l’avrebbe rimproverata nello stesso modo, se non peggio. E probabilmente le avrebbe impedito per sempre di avere a che fare con quel mondo, allenamenti e trattamenti curativi compresi. Se ci fosse stato zio Sam, invece, dopo averle fatto una bella ramanzina, le avrebbe spiegato come migliorarsi. Perché papà era emotivo e si faceva sempre sopraffare dal suo istinto. Zio Sam, invece, aveva la capacità di rinchiudere le sue emozioni in una scatolina che riusciva a mettere da parte e comportarsi nella maniera più razionale possibile. Lei, ovviamente, era come suo padre.
“Aaron mi ha bloccata,” confessò Zoe con un po’ più di calma, adesso, “altrimenti sarei intervenuta prima.”
Max si immaginò il ragazzo inglobare Zoe tra le sue braccia e imporre la sua forza su di lei, intrappolandola contro il suo petto. Ovviamente, pensò Max, con la sua fisicità imponente e le braccia muscolose, non doveva aver trovato nessun difficoltà a tenere Zoe lontana da quella situazione.
“Devo ringraziare Aaron di avere avuto un po’ di sale in zucca, allora.”
“Avrebbe dovuto lasciarmi andare.”
“Così adesso saremmo in due ad aver rischiato la morte.”
“Ma tu…”
“Niente ma, Zoe. Non mi perdonerei mai se vi succedesse qualcosa per colpa mia,” e della mia impulsiva stupidità aggiunse mentalmente, ma non lo disse ad alta voce.
Le due rimasero qualche secondo a guardarsi, come se volessero percepirsi, come a dirsi siamo ancora vive, siamo ancora insieme e poi si alzarono. Max vacillò, sentendo la testa girare e Zoe l’afferrò al volo circondandola con un braccio. In una volata, Benjamin le raggiunse. Zoe si fece da parte dell’esatto momento in cui il ragazzo strinse Max a se. La giovane Winchester sentì un braccio intorno alla schiena che la tratteneva con forza, mentre l’altra mano era sulla sua nuca, le dita artigliate tra i capelli. Era una stretta bisognosa, come se Ben avesse voluto fondere i loro corpi. Sentiva il suo respiro affannoso sul collo, i capelli lunghi del ragazzo che le solleticavano le guance. Max percepiva la fisicità di Ben su di se, le braccia robuste, forgiate da anni passati a picchiare sulla batteria, il petto saldo, in cui adesso batteva un cuore impazzito, e nel quale l’aveva rinchiusa, come a volerla proteggere, come ad impedirle di allontanarsi da lui anche solo di un centimetro; quell’odore strano, diverso, un misto tra il solito profumo che aveva la pelle di Ben e quello aspro del sudore. Lo strinse anche lei, bisognosa di sentirlo contro di se. Necessitava di percepire il suo corpo caldo contro il suo, voleva sentirlo reale, vero, vivo.
Ben rimase in silenzio. Il ragazzo percepiva il corpicino di Max contro di se, delicato, ma non per questo fragile. Sentiva sotto i polpastrelli, in cui il proprio cuore pulsava dandogli la sensazione di tanti piccoli pizzicotti, i capelli umidi di lei, il calore che emanava il suo collo e fu grato a qualsiasi entità vivesse in cielo di averla ancora con se, di poterla stringere ancora tra le sue braccia e sentire il suo respiro che gli provocava un’ondata di brividi sulla pelle. Si sentì un idiota ad aver pensato che ciò che li legava fosse una menzogna, o una contorsione della realtà fatta da se stesso. Si vergognò come avrebbe potuto fare se avesse camminato per strada nudo in pieno inverno: come poteva aver veramente dubitato di ciò che lo legava alla ragazza che stava trattenendo a se? Come poteva aver dubitato di colei che completava il suo essere ed era diventata il fulcro centrale della sua intera esistenza?
“Sei ancora qui.” Sussurrò così debolmente che nonostante la sua bocca fosse vicina all’orecchio della ragazza, Max fece comunque fatica a sentirlo. Ebbe l’impressione che quella frase fosse più che altro un pensiero che non era riuscito a trattenere ed era uscito dalla sua bocca senza che lui effettivamente volesse.
“Non sapevo che fare,” non la lasciò, il suo viso era ancora nascosto nell’incavo del collo di Max, “eri lì, stavi rischiando la morte e io non sapevo che fare.”
Ben si stava… incolpando. Max sentiva una disperata rabbia nella sua voce, rabbia rivolta solo a se stesso.
“Non è colpa tua. Non potevi farci niente, Benji.” Sciolse la stretta per guardarlo in viso. Le sue mani andarono a chiudersi a coppa sulle sue guance, “Non potevi farci niente.” Ripeté, facendo scorrere i pollici sulla sua pelle, una delicata carezza che provocò al ragazzo un piacevole, leggero brivido.
“Mi hai spaventato a morte, Maxie.”
“Ben, mi dispiace se io…”
Lui la interruppe: “Non dispiacerti di niente. Avevi ragione. Lo stupido sono io.”
“Quello nessuno l’ha mai messo in dubbio,” disse JJ. Lui, Aaron e Zoe si erano avvicinati a loro, raggiungendoli. L’unico che rimase in disparte fu Kevin, che ancora si sentiva pervadere da quella sensazione di estraneità che provava nei loro confronti. Era grato di ciò che stavano facendo per lui, ma non voleva intromettersi tra di loro, in quel legame che li univa e si mostrava sacro anche agli occhi di qualcuno che, come lui, li conosceva poco.
Max sorrise all’amico. Vide il suo volto cereo e gli occhi cerchiati, come se il terrore glieli avesse marchiati a caldo. Lo vide protendersi verso di lei e abbracciarla. La strinse forte, così tanto che a Max mancò il respiro.
“Ci hai spaventati a morte tutti, Max. Non fare mai più una cosa del genere!”
“Mai,” ripeté Aaron per calcare il concetto. “Come hai fatto a scacciarlo?” le domandò poi.
La giovane alzò la mano sinistra mostrando l’anello. “È fatto di ferro e argento. Serve in situazioni di emergenza come queste: il ferro allontana i fantasmi, l’argento, invece, è dannoso su molte creature.”
I presenti studiavano quel piccolo oggetto che avevano sempre avuto sotto il naso con una prospettiva diversa. Il fatto che fosse così scuro, adesso, aveva tutto un altro significato. Se prima pensavano fosse un gusto di Max, adesso capivano che in realtà era una necessità. Improvvisamente sentirono dentro di loro qualcosa di diverso, come se avessero sviluppato una seconda vista che gli permettesse di vedere cose che c’erano sempre state, ma a cui prima non prestavano l’attenzione adeguata.  
“Max, cosa voleva da te quel mostro?” domandò cauto JJ.
“Non lo so. Ha detto che ho qualcosa di suo, ma non so a cosa possa riferirsi.”
“Ha detto la stessa cosa a me,” confessò Kevin, rimasto in disparte dietro di loro.
“Dobbiamo leggere quella documentazione,” affermò Max, “e viste le circostanze, passare un attimo dal mio armadietto.”

I passi del gruppetto risuonavano regolari nel corridoio. Dopo aver recuperato tutte le carte che Kevin aveva con se, si erano diretti all’armadietto di Max. Non appena lo raggiunsero, la ragazza compose la combinazione e, dopo aver sentito scattare la serratura, lo aprì. I ragazzi la guardarono infilare tutto il braccio dentro a quella scatola rettangolare di metallo e trafficare con qualcosa che sembrava una seconda serratura proprio in fondo, dove il metallo si appoggiava al muro.
“Che stai facendo, Max?” le domandò Zoe, sbirciando alle sue spalle.
Max, con la lingua stretta tra le labbra e la fronte aggrottata, rispose: “C’è una seconda parete, nel mio armadietto. L’ho modificato al primo anno, durante le vacanze di Natale..”
“Ma la scuola è chiusa!” la interruppe Kevin, quasi scioccato. Non tanto dal fatto che qualcuno fosse andato a scuola durante le vacanze natalizie, quanto dal fatto che aveva capito come Max fosse entrata. Per un tipo intuitivo come lui, rendersi conto che aveva forzato la porta non fu tanto difficile.
Max gli rivolse un sorrisetto furbo, che celava un pizzico di orgogliosa malizia. Ben notò in quell’espressione una somiglianza con suo padre.
“So entrare in un sacco di posti.” Disse, aprendo lo sportellino del suo fondo, “Non che abbia mai usato questa capacità per fare niente di illegale.”
“Entrare in una scuola pubblica nei periodi di chiusura e modificare un armadietto che appartiene allo Stato è illegale, Max.” le fece notare JJ. “E lo è ancora di più se ci tieni una pistola!” continuò il rosso, gli occhi sgranati e la voce che tradiva la sua ansia.
Max chiuse lo sportello secondario e poi anche quello principale. Le due serrature scattarono una dietro l’altra come un perfetto meccanismo di protezione che adempie fedele al suo compito. Poi, leggendo una più che normale titubanza negli occhi dei presenti (James era quasi verde in faccia) si affrettò a spiegare: “Me l’ha data mio zio Bobby. Per le emergenze. Non è carica e le pallottole,” mostrò dei bossoli che teneva sul palmo aperto della mano, “sono piene di polvere d’argento.”
Il gruppo di avvicinò ancora di più. Guardarono incuriositi l’arma che Max mostrava: piccola, ma dall’aria così letale. Il manico era di un lucente bianco perla su cui erano incisi dei simboli dal significato sconosciuto. La canna, invece, era di un metallo più scuro e opaco.
“Non l’ho mai usata. Se fosse stato per me non l’avrei nemmeno portata qui, sapete che non sono permesse armi a scuola, ma Bobby ha tanto insistito. Diceva che se avessi modificato il mio armadietto, nessuno se ne sarebbe accorto e avrebbe fatto sentire più sereno il mio vecchio.” Max pronunciò l’ultima parola con l’intenzione di far capire che era una citazione. Bobby, infatti, si era espresso proprio in quel modo. Lei non lo chiamava mai vecchio perché non le piaceva. Ricordava quel momento come se non fosse passato nemmeno un giorno.
Si rivide in piedi nella sua stanza mentre sistemava i libri dentro lo zaino. Ricordò la sensazione sgradevole della lana del maglione a collo alto che indossava e che le faceva prudere la pelle, Bobby che bussò discreto alla sua porta e che entrò a passi silenziosi. I passi controllati e leggeri di un cacciatore.
«Ti prepari per l’ultimo giorno?» aveva detto.
Max, chiudendo la cerniera dello zaino aveva annuito: «Non è un vero ultimo giorno, però.»
Bobby soffocò una risata: «All’estate manca ancora molto, eh?»
«Sì.» E Max ricordò di aver pensato che non vedeva l’ora arrivasse, l’estate, almeno avrebbe potuto smettere di sentire il freddo entrarle nelle ossa, come se volesse mangiargliele con i suoi denti aguzzi e affilati, chiudere i maglioni pungenti in un angolo dell’armadio e cominciare a sentire il sole caldo di luglio che faceva bollire il sangue dentro le vene.
«Tua madre amava l’estate,» sussurrò Bobby, come se non volesse farsi sentire. E in un certo senso era così: nessuno parlava mai di sua madre perché sapevano che Dean ne soffriva e, di conseguenza, quando capitava che il vecchio cacciatore dicesse cose come quella, lo faceva piano, per non farsi sentire dal maggiore dei Winchester, evitandogli in questo modo una sofferenza. Ma sicuramente diceva quelle cose per far conoscere a Max un pezzetto di sua mamma. «Questo devi averlo preso da lei.»
La giovane ricordò benissimo che, dopo quella frase, avrebbe voluto chiedergli com’era mamma? ma non ne ebbe il tempo perché Bobby si avvicinò cautamente a lei e sfilò da sotto la camicia un piccolo astuccio di pelle nera consumata. Glielo porse e Max lo aprì d’istinto. La sua prima reazione fu un sospiro sorpreso, seguito da un’espressione confusa.
«Vorrei la tenessi,» spiegò Bobby non appena incrociò i suoi occhi, che cercavano una spiegazione a quel gesto. «Conosco bene la politica di tuo padre, ma difenderti senza armi è impossibile, tesoro mio. Ho pensato che potresti portarla a scuola, dato che è il posto che frequenti più spesso ed è privo dell’adeguata protezione, a differenza di questa casa.»
Max provò a protestare, ma Bobby la interruppe ancora prima che riuscisse a farlo.
«So che non si possono portare armi nelle scuole. Ma se la nasconderai, nessuno scoprirà che ne hai una in tuo possesso.» Fece una pausa, guardandola con un’apprensione che assomigliava tanto alla paura, paura che potesse accaderle qualcosa e lui non fosse lì a proteggerla (perché Dean non era l’unico a volerla sapere al sicuro), «Fai stare tranquillo il tuo vecchio, bambina.»
Max si trovò a dirgli di si, non riuscendo in alcun modo a contraddire una proposta del genere. Bobby non era un tipo che si spaventava facilmente, anzi lui non si spaventava mai, e vederlo in quelle condizioni le faceva pesare il cuore. E dal momento che l’ultima cosa che voleva era farlo stare in pensiero, accettò la sua proposta.
«Non devi dire niente a tuo padre, però.»
Con riluttanza – visto che odiava mentire a suo padre – trovò ad accettare anche quella condizione.
Max fissava l’arma come i suoi amici, sentendo ancora l’eco della voce di Bobby nelle orecchie. Solo una mano su una spalla la portò alla realtà: Benji la stava guardando con aria preoccupata.
“Stai bene?”
“Sì, stavo solo….”
“…Pensando,” concluse lui. “Ultimamente lo fai spesso.” Un sorriso fulmineo guizzò sul suo volto mentre lei gli lanciava un’occhiata complice. Gli si accostò, appoggiando la testa contro il suo petto. Benji le passò un braccio dietro la schiena. Per quanto Max si sentisse in dovere di agire, per quanto le fosse stato insegnato ad essere forte, a reagire, per quanto il suo stesso carattere prediligesse l’indipendenza e la capacità di stare in piedi da sola e con le sue uniche forze, avere il sostegno di Benjamin in un momento simile, un momento di confusione e smarrimento, non le faceva altro che bene.
“Ci sono un sacco di cose che ho in testa.” Confessò.
“Tipo un fantasma assassino che vuole qualcosa che non sappiamo cosa sia?” Aaron parlò con un sarcasmo che di solito apparteneva a James. Evidentemente, passando così tanto tempo insieme, era una caratteristica che aveva acquisito. Max si trovò a pensare che non gli stava affatto male, gli era estraneo, ma non per questo non si fissava bene sulla sua persona. Se avesse dovuto paragonare quella sensazione ad una già vissuta, avrebbe pensato a quella volta in cui Benji gli aveva prestato una camicia di flanella verde e blu: gli stava bene, ma usciva completamente dallo stile di Aaron, che era più il tipo da t-shirt e felpe con il cappuccio. T-shirt che quella volta si era zuppata di gassosa ed era ridotta ad uno straccio appiccicoso e dall’odore dolciastro.
“Tipo quello,” fece eco Max. “Dobbiamo raggiungere la mensa: lì prenderò del sale da mettere nelle pallottole e studieremo il caso.” Il suo linguaggio tecnico uscì senza che lei se ne accorgesse. Non aveva mai partecipato alla caccia, ma aveva partecipato all’organizzazione con Bobby. Molte volte, infatti, mentre suo zio e suo padre erano in viaggio, Bobby le chiedeva di raggiungerlo nel suo studio per insegnarle il modo di pensare e organizzarsi.
“Il caso…” fece Zoe, “Sembri Horatio Caine.”
“L’unico qui che potrebbe essere scambiato per David Caruso è JJ.” Puntualizzò Max.
Il diretto interessato fece una smorfia di disappunto che gli accartocciò tutta la faccia, come se avesse appena succhiato uno spicchio di limone: “Ma David Caruso è vecchio. Non potevate nominare qualcun altro, chessò, Magneto?”
“Ian McKellen o Michael Fassbender? Sai meglio di me che la storia degli X-Men non va data troppo per scontata. Ci sono cose da puntualizzare nell’arco temporale e non pu-”
“Dacci un taglio, Max,” la interruppe James. “Mi riferivo a Fassbender: occhi chiari e capelli rossi.”
“Ma Magneto non risolveva casi,” puntualizzò Zoe, “perché avremmo dovuto parlare di lui in questo contesto?”
“Oh mio Dio, ragazzi, vi prego piantatela!” Aaron roteò gli occhi al cielo, “Non vi sembra una conversazione un tantino fuori luogo?”
I tre si chiusero in un muto, colorato di imbarazzo, silenzio. Aaron aveva ragione e loro si sentirono incredibilmente stupidi.
“Andiamo in mensa.” Disse Max, incamminandosi. I suoi compagni la seguirono in silenzio.

La mensa scolastica puzzava di cibo bollito male e disinfettante gettato in quantità spropositate sul pavimento e nelle stoviglie. Le sedie erano riversate sui tavoli con le gambe rivolte verso il soffitto e l’unico rumore che si sentiva era la musica ovattata e appena percepibile che proveniva dalla palestra. In effetti, si trovò a pensare Max, riusciva a sentire la musica solo perché sapeva che in palestra c’era una festa, altrimenti, non ci avrebbe nemmeno fatto caso. La mensa e la palestra, infatti, erano quasi ai poli opposti di tutto l’edificio scolastico. I loro passi echeggiavano sul pavimento, mentre l’aria increspava la pelle di Max in tanti piccoli brividi che le riempivano le braccia. Le si rizzarono i capelli sulla nuca con il vago presentimento che quel freddo potesse essere dettato da una presenza sovrannaturale, ma quando, di proposito, sbuffò aria dalla bocca e non la vide uscire in una nuvoletta condensata, capì che quella temperatura era dovuta al fatto che, chiunque avesse fatto le pulizie, doveva aver lasciato aperte le finestre per un bel po’. Niente di sospetto, dunque.
Si diresse verso uno dei tavoli e mise le sedie a terra. I ragazzi presero posto intorno al tavolo, mentre Max copriva la superficie di plastica con tutti i fogli di Kevin.
“Bene,” cominciò, “Ce ne sono abbastanza per tutti. Fingiamo sia una ricerca di gruppo e cerchiamo di sbrigarci. Rufus potrebbe tornare da un momento all’altro.” Gettò un’occhiata intorno, costatando che erano ancora soli.
“E se colpisse di nuovo la palestra?” Domandò Ben.
“Dobbiamo sbrigarci per questo: Rufus è convinto che noi abbiamo qualcosa di suo, appena scoprirà che non lo abbiamo cambierà obiettivo. Dobbiamo toglierlo di mezzo prima che ciò accada. Non so se posso gestire una marea di studenti in preda al panico.” Era l’unica rimasta in piedi. La schiena dritta e i muscoli tesi, la posizione di un soldato. Sentiva il collo che le doleva, ma era determinata ad ignorarlo. Lanciò uno sguardo in direzione della cucina, alla sua destra, dopo aver adocchiato l’uscita di sicurezza davanti a loro. Nel caso Rufus si fosse presentato più agguerrito di prima, avrebbe potuto far uscire i suoi compagni da lì. Con ogni probabilità, non avrebbe potuto seguirli e sarebbero stati salvi. Il suo istinto le diceva che qualsiasi cosa legasse Rufus a quel posto, era ancora dentro alla scuola.
“Max..?” la chiamò Benjamin cauto e… incerto. Non l’aveva mai vista così: rigida, con i muscoli che lanciavano tremiti guizzanti di tanto in tanto, come se fossero pronti a scattare in qualsiasi evenienza. Gli occhi verdi scuri e duri come pietre scrutavano quel posto, guardandolo diversamente, come se stessero percorrendo un campo di battaglia e non un luogo nel quale, solo poche ore prima, discuteva rilassata con i suoi amici. Era marmorea come una statua e sembrava imponente come la facciata di una chiesa gotica.
Max lo guardò e i suoi occhi tornarono della solita sfumatura familiare, quella che a Ben ricordava i prati irlandesi, o gli smeraldi.
“Dimmi.”
“Cominciamo?”
Lei annuì, “Devo andare in cucina, torno subito.”
Gli altri cominciarono a prendere un foglio a testa e leggerlo. Benjamin, invece, non staccò gli occhi da Max nemmeno un istante. La seguì per tutto il suo percorso, la gonna svolazzante ad ogni passo accelerato, come una corsa trattenuta, gli stivali che scandivano un ritmo regolare sul pavimento. La guardò fare un balzo e passare, strusciando le cosce, sopra il ripiano di acciaio che divideva la cucina dal resto della mensa. Sentiva il cuore che gli martellava in petto, temendo che da un momento all’altro quel mostro potesse ricomparire e prenderla nuovamente per la gola. Sarebbe intervenuto, questa volta. Non avrebbe permesso che le rifacesse del male. Un istinto di protezione lo inondò come una marea selvaggia e violenta insieme alla consapevolezza che l’impotenza che l’aveva sopraffatto poco prima era stata seppellita nella parte più remota di se. Osservò Max allungarsi verso la dispensa. Anche in punta di piedi, qualsiasi cosa stesse cercando era irraggiungibile. Fece per alzarsi ed andarle in contro per aiutarla, ma in quello stesso istante la vide fare leva sulle braccia, portare un piede sopra al ripiano, seguito dall’altro, ed ergersi in piedi come un’acrobata professionista. Max sapeva cavarsela da sola. Questo lo aveva sempre saputo ed era una delle cose che più le piaceva di lei. Sapeva sostenersi, sapeva contare sulle proprie forze. Ed era una cosa che le aveva sempre invidiato perché alla loro età riuscire a trovare tanta forza solo dentro loro stessi era una cosa rara, se non impossibile. Ma Max ci riusciva. Lei era speciale. Sorrise, guardando la sua schiena che si inarcava mentre si metteva in ginocchio per scendere dal ripiano d’acciaio. Sentì una sensazione di calore scaldargli il petto. Improvvisamente, quella sensazione di calore si trasformò in un alone che gli sembrò percepibile al tatto e risentì il corpo di Max attaccato al suo, il suo braccio intorno alla schiena della ragazza, le sue forme che aderivano al suo petto e gli facevano mancare il respiro. Quante volte l’aveva abbracciata senza che lei si rendesse conto dell’effetto che gli provocavano i loro contatti. Quante volte aveva dovuto asciugarsi di nascosto i palmi delle mani ai pantaloni perché starle vicino lo rendeva nervoso. Quante volte aveva dovuto pregare che non gli si leggesse in viso che ogni volta che lei lo guardava il suo sistema nervoso andava in tilt e le sue gambe diventavano molli come burro al sole.
“Hai intenzione di dirglielo, prima o poi?” una voce lo distolse dai suoi pensieri: Aaron.
Quel ragazzo aveva la sfacciata capacità di leggergli nella testa e di non farsi nessun problema a manifestarlo al mondo. Discrezione stava ad Aaron come i cetrioli stavano al tiramisù. Due universi opposti che non si sarebbero mai incontrati.
“Non so di cosa tu stia parlando.” Borbottò Ben, lanciando un’occhiata in direzione di Max. Si era arrampicata in un altro scaffale. Chissà quanto sale le serviva per riempire le pallottole.
“Invece io credo di sì.”
“Invece io credo tu debba concentrarti sul foglio che hai davanti.” 
“Andiamo, Jones,” sbuffò James, con la voce carica di superiorità, “Ce ne siamo accorti tutti.”
Se Ben fosse stato il tipo che arrossiva, sarebbe stato viola.
“Vi accorgete di cose che non esistono.”
“Come i fantasmi?” incalzò Zoe, il sorriso beffardo di chi la sa lunga. Gli occhi accesi di una sadica consapevolezza. Benji rabbrividì. Tenere a bada Aaron e JJ era una conto, ma Zoe… lei era un altro paio di maniche. Se Aaron era indiscreto, ma gestibile, Zoe era uno squalo onnisciente. Sapeva, vedeva, percepiva, sentiva, ogni dannatissima cosa. E, proprio come uno squalo che, una volta sentito l’odore del sangue, divora la sua preda a morsi, Zoe riusciva ad estorcere ogni minimo pensiero fino a farti cedere e confessare qualsiasi cosa lei volesse sentire. Cercare di nascondere qualcosa a lei era come cercare di nascondere qualcosa alla propria immagine riflessa in uno specchio: impossibile.
“Sta tornando,” li informò Kevin in tono neutro, gli occhi fissi sul foglio e le mani conserte sopra al tavolo.
I quattro si zittirono all’istante.
“Eccomi, ho il sale.” Alzò cinque piccole saliere come se fossero trofei, “Ci sono novità?”
A parte il fatto che tutti i nostri amici hanno capito che sono innamorato di te e faccio schifo a negarlo... “No, nessuna novità.”
Max si sedette proprio accanto a Ben. Prese un foglio e cominciò a leggerlo. Il ragazzo si perse un attimo a seguire la linea del suo profilo: le lunghe ciglia scure che circondavano gli occhi come una gabbia che custodiva gelosamente le gemme più belle di un preziosissimo tesoro, il naso piccolo, tondeggiante, la bocca piena, con una leggera sproporzione tra il labbro superiore – più sottile – e quello inferiore, le lentiggini sulle guance. Il cuore gli balzò alla gola, proprio sotto l’ugola. Pulsava così intensamente che sembrava volesse soffocarlo.
Zoe, davanti a lui, si schiarì la voce in modo un po’ troppo marcato perché risultasse davvero casuale. Lui la incenerì, mentre lei, invece, gli rivolse un’occhiata eloquente che stava a dire: non puoi negare con me, cocco.
Ben alzò gli occhi al cielo e prese un foglio dal mucchio. Tanto valeva darsi da fare.

“La sua passione per l’educazione si manifestò fin dall’adolescenza quando, nel giardino di casa, impartiva lezioni di lettura al fratello minore. Rufus era un ragazzo paziente, dedito al sapere e credeva fermamente nell’importanza di tramandarlo, dote ereditata dalla madre, che fin da bambino lo spinse all’apprendimento.” Benjamin leggeva ad alta voce mentre Max era impegnata a fabbricare pallottole di sale. Il coltello che aveva preso in cucina non era certo il più affilato del mondo, ma in mancanza di altro se lo faceva bastare. Lo stava usando per aprire il fondo delle pallottole e mischiare il sale alla polvere d’argento, già a sua volta mischiata con quella da sparo.
“Partecipò alla costruzione di molte scuole, tra cui la River High School, nel South Dakota – parla di noi! Commentò Ben, – L’istituto fu uno dei suoi lavori migliori. Rufus ne andava molto fiero, tanto che portò la madre all’inaugurazione per mostrarle la creazione di cui andava orgoglioso. – A quanto pare era molto legato a sua madre.”
“Sì,” disse Kevin, “Viene nominata in ogni documento presente.”
Avevano letto ormai tutti i fogli che il preside Chapman aveva assegnato a Kevin, ma apparentemente non c’era niente che potesse mostrare cosa Rufus stesse cercando. Per adesso, Max sapeva che alla sua morte Rufus era stato cremato, quindi non doveva cercare un cadavere da bruciare, bensì un oggetto.
“Era legato a sua madre e a questa scuola,” ragionò Max ad alta voce, “ma questo non spiega davvero perché lui sia ancora qui. Se fosse stato legato alla scuola a tal punto da non averla voluta abbandonare per passare qui il resto dell’eternità, non avrebbe detto che abbiamo qualcosa di suo. Non si può possedere una scuola.” Almeno non nel senso che si era immaginata: da come Rufus aveva parlato, sembrava si stesse riferendo a qualcosa di piccolo, qualcosa che è possibile tenere in tasca, o in borsa – qualcosa da poter tener nascosto con facilità. E una scuola non rientrava certo in questa categoria. Quindi, nonostante Rufus fosse in parte proprietario della River High School, non era la cosa che andava cercando. Ne fu sollevata, onestamente, dal momento che l’idea dare fuoco alla sua scuola più che una cacciatrice di demoni la faceva sentire una piromane squilibrata.
I suoi occhi vagarono sui fogli sparpagliati ovunque. Non erano riusciti a cavare un ragno dal buco e se non avessero sbloccato questa situazione di stallo, avrebbero solo passato dei guai. Rufus voleva qualcosa di suo e non avrebbe smesso di cercarlo. Doveva essere successo qualcosa, di recente, che aveva smosso il suo spirito dormiente. Sicuramente, la soluzione era davanti ai suoi occhi, ma non riusciva a vederla. Era certa che fosse nascosta in quei documenti che celavano il motivo per cui Rufus si era risvegliato e si comportava come qualcuno affetto da disturbo ossessivo-compulsivo a cui è stata rubata la sua cosa più preziosa, il suo tesoro. L’immagine di Gollum le balenò in testa, ma la scacciò via. Era inopportuno e ridicolo fare un’associazione simile in un momento del genere.
“Max riesco a sentire il rumore degli ingranaggi del tuo cervello che collidono tra loro.”
La giovane cacciatrice spostò lo sguardo dai fogli a Zoe.
“Ci siamo vicini. Così vicini che non riesco a vedere.”
“Allora allontanati,” le suggerì la ragazza con un’alzata di spalle.
Max lo fece. Le avevano provate tutte, tanto valeva provare anche quella. Si alzò e guardò dall’alto i fogli, la luce rimbalzava sul bianco lucido, accecandola. Solo una cosa stonava in quell’esplosione di candore: un angolo grigio e scuro che sbucava da sotto quella coltre di carta. Max allungò una mano per estrarlo e realizzò che si trattava di una fotografia in bianco e nero: ritraeva Rufus, gli zigomi erano pieni di carne e la pelle non cadeva a brandelli, gli occhi non erano infossati nel cranio e i capelli erano tutti attaccati alla testa, ordinatamente pettinati all’indietro. Era diverso dal fantasma che l’aveva aggredita, ma era lui. Non aveva dubbi. Era in piedi, dietro ad una donna seduta su un imponente e pomposa poltrona. Lui le teneva una mano sulla spalla, ma lei non ricambiava il contatto in alcun modo. Teneva lo sguardo severo fisso in avanti, il naso aquilino così sporgente che avrebbe potuto uscire dalla fotografia ed entrare nella terza dimensione. I capelli scuri raccolti in maniera così stretta che Max ebbe l’impressione che le sue sopracciglia fossero più in alto del normale. Era una donna austera, altezzosa, composta. Era la madre di Rufus.
Non c’era niente di particolare, in quella foto. Erano madre e figlio, quest’ultimo legato a lei quasi in maniera morbosa, chissà per quale motivo. La donna non sembrava molto affettuosa e quindi Max trovò difficile concepire come si potesse provare una tale venerazione per qualcuno di così… freddo. Ma immaginò che l’amore che si prova nei confronti di una madre è irrazionale e istintivo. La stessa Max sentiva di amare sua madre sebbene di lei avesse solo ricordi sfuocati. Studiò quella foto: la poltrona appoggiata sopra ad un tappeto decorato in maniera esagerata, un quadro appoggiato alla parete dietro di loro che raffigurava un paesaggio di campagna e poi, ovviamente, Rufus e sua madre.
Devi darmi quel che è mio, cacciatrice. Dammelo!
Ma cosa? Cos’è che vuoi Rufus??? – strillò una voce frustrata nella sua testa. Chiuse gli occhi e fece un profondo respiro. Perdere il controllo non l’avrebbe agevolata in nessuno modo. Li riaprì e tornò a concentrarsi sulla fotografia. Parlami, Rufus. Cosa potrebbe farti diventare tanto violento da aggredire una ragazza nella scuola che tanto amavi?
Sentiva le voci dei suoi amici bisbigliare tra loro, ma li percepiva lontani. La sua attenzione era tutta su Rufus e su quella mano appoggiata alla madre. Una figura fondamentale nella sua vita, la donna che l’aveva avviato a quella che sarebbe diventata la sua passione: l’apprendimento e l’insegnamento. Era grazie a quella donna se aveva deciso di costruire delle scuole. E se… se stesse guardando il soggetto sbagliato?
Max venne colpita da un fulmine di consapevolezza: Rufus era morbosamente attaccato alla madre, l’amava più dei suoi edifici, più di questo edificio. L’oggetto in questione, quindi, potrebbe essere qualcosa lasciato da lei, magari dopo la sua morte – un evento troppo difficile da sopportare, dopo una vita passata al suo fianco. I suoi occhi, quindi, guizzarono frenetici dalla figura di Rufus a quella di sua madre. Osservò la donna e… eccolo lì, l’oggetto dannato: la signora Kray portava un anello all’anulare destro. Era discreto, ma la pietra – di un colore scuro – era ben visibile. Era quel genere di oggetto che si tramanda ai figli, se non con un’utilità ben specifica, almeno con l’intento di farsi ricordare. Quell’oggetto era un cimelio di famiglia ed era stato sottratto ad uno spirito dormiente che era stato risvegliato dall’avidità di riavere indietro qualcosa che gli era appartenuto sempre.
“L’anello!” sbraitò Max, la sua voce uscì più squillante di quanto volesse. “Sta cercando l’anello!”
Appoggiò la foto al tavolo, indicando l’oggetto in questione. Cinque teste si avvicinarono, sporgendosi per osservare quella fotografia.
“Non ho visto niente del genere, però.” Fece notare Kevin, “Sei sicura che sia proprio questo ciò che cerchiamo?”
“Per distruggere un fantasma, di solito, bisogna coprire il suo corpo con il sale e dargli fuoco.” Spiegò Max, “In questo modo, tutto ciò che lo lega a questa dimensione terrena viene distrutto, impedendo così anche alla sua parte spirituale di vagare in terra senza pace. Ma quando i corpi sono già stati cremati e i fantasmi abitano ancora nella parte dei vivi, significa che c’è un oggetto al quale sono legati in maniera così profonda da impedirgli il trapasso nell’aldilà. Rufus era attaccatissimo a sua madre, quindi penso proprio che sì, sia quello l’oggetto che stiamo cercando.”
“Bene, ma dove possiamo trovarlo? Se Kevin non l’ha visto…” cominciò Ben e Max fu colpita da una fulminea consapevolezza, come se Thor in persona le avesse lanciato una saetta in testa.
“Chapman,” sussurrò pensando che le uniche persone, prima di loro, ad aver maneggiato con i documenti di Rufus erano stati solo il preside e Kevin. I documenti che avevano in loro possesso  erano originali, tenuti impeccabilmente. La carta, infatti, era soltanto un po’ ingiallita ai lati, quindi dovevano essere stati tenuti rinchiusi chissà dove, magari in una scatola di latta nella cassaforte che si trovava nella cantina della scuola e nella quale, di solito, venivano depositati i fondi scolastici… se così fosse stato, quando per la prima volta Chapman ha trovato i documenti, deve aver anche trovato l’anello e averlo preso. Non suonava un comportamento appropriato per un uomo con la sua rigorosità, ma, si sa, l’occasione rende l’uomo ladro.
“Cosa c’entra adesso il nostro odiosissimo preside, Maxie?”
“Ce l’ha lui l’anello. Pensaci: Chapman e Kevin sono stati i primi a leggere quei documenti, ma se Kevin non ha visto nulla e Rufus cerca qualcosa che ritiene gli sia stato rubato, e sappiamo che nessuno dei due sta mentendo, significa che deve essere stato Chapman a prendere quell’anello.”
“Ha senso,” osservò Ben.
“Certo che ha senso!” esclamò Kevin.
“Dobbiamo andare in palestra,” disse Max, “dobbiamo impedire che Rufus faccia del male a Chapman.”
“Non sarà certo contento di sapere che qualcuno ha giocato con le cose di mammina,” fece JJ, ma il suo tono era cupo e tetro, per nulla sarcastico come avrebbe voluto suonare.
Max all’improvviso sentì le dita di Kray intorno alla gola, come se fosse tornato e le sue mani putrefatte la stessero stringendo di nuovo, questa volta con più forza, ritenendola colpevole quanto Chapman di quel furto, se non in maniera maggiore. Era colpevole di non aver capito prima cosa fosse successo e per questo la puniva. E stringeva, stringeva e la soffocava. Le mancava l’aria, respirare diventava sempre più faticoso. Non riusciva a capacitarsi del perché stesse rischiando di rimanere in apnea senza avere effettivamente qualcosa che le ostruisse le vie respiratorie, ma poi quando due mani le si chiusero sopra al viso, si rese conto che l’unica cosa che non la faceva respirare era un’ondata di gelido ed incontrollabile panico.
“Maxie, calmati.”
Era Ben.
Le sue mani le scaldavano le guance e la sua voce le arrivava forte e chiara, l’unica cosa in grado di sfondare quel muro che l’aveva ingabbiata e separata dalla realtà.
“Non ci riesco.” Boccheggiò.
“Sì, che ci riesci.” Il tono fermo e gli occhi incatenati ai suoi. Erano duri, quasi severi, ma non ci leggeva alcun tipo di rimprovero. Quello era lo sguardo del ci penso io a rimetterti in carreggiata, quello che le riservava nei momenti di debolezza, dove perdeva il controllo di se e l’aiutava a ritrovarlo.
“Non so gestire tutto questo,” la voce le tremò, mentre ricacciava indietro una crisi di pianto.
“Si che lo sai gestire. Sai gestire cose anche più grandi.”
“Non sono mio padre..” gli occhi lucidi e la gola che le bruciava per il pianto trattenuto. La mente vagò alla figura paterna: a Dean che impugnava la pistola e colpiva il bersaglio, al coraggio impavido che leggeva nei suoi occhi ogni volta che lo vedeva partire per una missione. Invidiò la sua sicurezza, la sua ferocia, la sua totale mancanza di paura. Invidiò la sua capacità di gestire le situazioni e la sua intelligenza in battaglia.
“Ciò non vuol dire che tu non sappia affrontare questa cosa.”
“Sono quasi morta, prima, perché non sapevo come comportarmi. E ho rischiato di far uccidere anche voi.”
“Ma adesso sai cosa fare, no? Hai studiato un piano.”
Max abbassò lo sguardo. Non riusciva a reggere quello di Ben, in quel momento, così carico di fiducia nei suoi confronti. Finché dovevano scoprire come fare a distruggere Kray, la cosa era rimasta tutta sul piano teorico e quindi non tanto diversa da quella che viveva a casa, con Bobby. Ma poi, una volta arrivati alla soluzione, questa volta non avrebbe chiamato suo padre per fargli fare il lavoro sporco, questa volta avrebbe dovuto farlo lei. Toccava a lei estrarre la pistola dal fodero e premere il grilletto. Toccava a lei dare fuoco all’oggetto maledetto. Toccava a lei fronteggiare il mostro.
La verità era che non era mai stata in prima linea e la cosa la terrorizzava più di quanto avrebbe voluto ammettere. C’erano molte vite, in gioco, non solo la sua. E se avesse fatto una mossa stupida come quella in corridoio poco prima, le avrebbe compromesse tutte.
Ma che altro puoi fare, Max?
Già, che altro poteva fare se non intervenire?
“Maxie,” Ben si chinò per entrare nel suo campo visivo e allora lei alzò di nuovo gli occhi su di lui. Le iridi erano così scure che si confondevano con le pupille, rendendo i suoi occhi simili ad un pozzo nero e profondo. Avrebbe voluto gettarcisi per sentirsi al sicuro, protetta.
Ma non sarebbe stata al sicuro da nessuna parte, finché non avesse imparato a proteggersi da sola – finché non avrebbe imparato a controllare quella paura paralizzante che l’aveva assalita.
Era il cambiamento, che temeva. L’uscita dalla sua quotidianità e l’entrata negli affari di famiglia. Era un salto che avrebbe dovuto fare prima o poi e adesso, in questo momento, con le mani di Ben ancora chiuse sul suo viso, decise di saltare.
Non sapeva se sarebbe stato un salto definitivo, non era ancora sicura di essere totalmente pronta per cominciare la caccia al sovrannaturale, ma una parte di lei sapeva che era pronta ad abbattere questo ostacolo. Bastava un balzo più intenso e un piano meno impulsivo, doveva solo ragionare un po’ di più.
“È passata, Benji.” Lo strinse a se, affondando il viso nella sua camicia e riempiendosi le narici del suo profumo. 
“Lo sapevo.” Le appoggiò il mento sopra alla testa e chiuse gli occhi. Max era forte, e questo lo sapeva, ma come ogni persona sul pianeta, aveva bisogno di qualcuno che glielo ricordasse. E se è vero che nei momenti di debolezza, come negli scacchi, la regina protegge il re, non vedeva perché anche il re non poteva fare altrettanto con la sua regina.
E Max, anche se lei ne era all’oscuro, era la sua regina e sempre lo sarebbe stata. Di conseguenza, lui l’avrebbe sempre protetta ogni volta che ne aveva bisogno.
“Sei pronta?” le domandò quando lei sciolse l’abbraccio.
“Sì.”
“Allora andiamo.”

                                                                             ***

La palestra brulicava di studenti, ma il morale non era più spensierato come qualche ora prima. Max notava nei visi dei suoi coetanei tensione, ansia e preoccupazione. Alcuni di loro le lanciavano occhiate furtive per poi bisbigliare qualcosa agli amici. Non sapeva cosa dicessero e, in quel momento, nemmeno le importava. Non importava che pensassero che era strana, o pazza, l’importante era che una volta preso l’anello a Chapman, avrebbe distrutto Kray e salvato questi ragazzi.
L’ansia cercò di distruggere la superficie di determinatezza che si era costruita, ma la cacciò ancor prima che le sue crudeli mani artigliate potessero fare anche solo una piccola crepa e disintegrare il suo scudo.
Basta panico. Basta ansia.
L’ostacolo andava abbattuto, al resto avrebbe pensato dopo.
“Non lo vedo, Maxie.”
Ben le stava vicino, una mano che sfiorava la sua. Avrebbe voluto stringergliela, riempire con le proprie dita gli spazi vuoti delle sue, ma non lo fece: doveva avere entrambe le mani libere per reagire più velocemente.
“Nemmeno io.” Adocchiò Dempsey tra la folla e si avviò verso di lui. I suoi amici la seguirono.
L’insegnate le rivolse un’occhiata severa, ma sorpresa. Guardò Kevin e, costatato che stava meglio, si rilassò. Il suo volto teso e bianco riprese colore.
“Dovrei sospendervi per quello che avete fatto!”
“Lo farà?” gli domandò Max.
Dempsey sospirò: “No. Anche se non sta a me decidere. Chapman è determinato a farlo, ma farò leva sul fatto che se non foste intervenuti, Kevin non starebbe bene.”
“Potrebbe obiettare che aveva chiamato un’ambulanza…”
“Su questo hai ragione, Max.”
“È arrivata? L’ambulanza, dico.”
Il professore annuì: “Chapman si è allontanato con un medico qualche istante fa. Penso spiegherà che Kevin è stato portato in infermeria, o qualcosa di simile.”
“Chapman è da solo??”
Il signor Dempsey aggrottò le sopracciglia, tre marcate linee orizzontali gli solcarono la fronte, facendolo sembrare più vecchio di quanto in realtà fosse: “No, Max. È con un medico…” il suo tono traspariva una certa preoccupazione, quel genere di preoccupazione che assale chi dubita del funzionamento delle capacità cognitive di chi ha di fronte.
“Dove sono, adesso?”
“Fuori, nel piazzale degli scuolabus.”
A Max gelò il sangue: se il preside era uscito dalla scuola con l’anello, significava che anche Kray poteva uscire dalla scuola. L’unica cosa positiva a cui riusciva a pensare in quel momento era che almeno in quel modo nessun altro studente sarebbe rimasto coinvolto.
“Grazie, signor Dempsey. Andrò a fare due chiacchere con il preside, sa, per scusarmi del mio comportamento inopportuno. Magari, così facendo, si limiterà solo a punirmi…” indietreggiò e si rese conto di quanto quella reazione potesse risultare sospetta, ma Dempsey si limitò solo a farle un cenno con il capo. Lanciò un’occhiata più che eloquente ai suoi amici, prima di uscire di nuovo da quella palestra.
Si ritrovarono ancora una volta in corridoio nel giro di qualche minuto. Max sapeva che per arrivare nel piazzale degli autobus doveva uscire dall’uscita sul retro, quella che dava anche sul cortile scolastico.
“Ragazzi,” cominciò guardandoli uno ad uno, “ora devo andare da sola.”
Si levò un coro di voci che Max riuscì a distinguere, sebbene tendessero a sovrastarsi.
“Cosa? No!” squillò Zoe con la voce stridula.
“Sei pazza, Maxie?” tuonò Ben secco, la voce colma di disapprovazione.
“Non ti lasceremo andare da sola da quel mostro!” Aaron la guardava con apprensione, la preoccupazione disintegrava i suoi occhi castano-dorati come fa il vetro colpito da una sassata.
“O andiamo insieme, o non vai.” Aggiunse JJ perentorio, “Non costringermi a chiamare tuo padre, Max.”
“Non chiamerai mio padre, Jay. Nessuno di voi lo farà.” Era determinata a non metterli in pericolo. Non questa volta. “Voi dovete badare a Kevin, mentre io mi occupo di Rufus.”
“No.” Ben fece un passo verso di lei, la voce ferma e lo sguardo fisso su di lei. La intrappolò con gli occhi. Il suo tono suonava deciso quanto un ordine. Max sapeva che quello era un tentativo disperato di proteggerla, di provare a persuaderla perché sapeva che Benji la conosceva abbastanza bene da aver captato quella parte di lei cresciuta come un soldato e quindi, forse, il ragazzo pensava che se avesse usato quel tono, lei avrebbe ubbidito. Però Max aveva sempre avuto suo padre sotto gli occhi: lui era un soldato eccezionale, ma non aveva mai preso ordini da nessuno. Aveva sempre fatto valere il suo libero arbitrio anche quando era stato un arcangelo ad avergli ordinato di accettare di diventare il suo tramite. E se suo padre poteva farsi valere contro Michele, l’Arma del Paradiso, lei poteva farsi valere con i suoi amici, che sicuramente sarebbero stati più comprensivi di un arcangelo un po’ fanatico.
Perciò quando Ben si avvicinò con la mano tesa verso di lei, Max si ritrasse. “Non puoi impedirmelo, Benji.”
Gli occhi del ragazzo si fecero lucidi e Max ebbe l’impressione che fosse sul punto di piangere.
“Tu non puoi costringermi ad accettare una cosa del genere,” la voce gli tremò e il tono duro usato poco prima svanì, distrutto dalla consapevolezza che provare a convincerla a fare qualcosa di diverso da ciò che lei aveva deciso di fare era inutile.
“Non posso esattamente come tu non puoi costringermi a portare voi con me.” Avrebbe voluto avvicinarsi a lui, stringergli le mani e dirgli che sarebbe andato tutto bene, ma non lo fece. Non si sentiva di dirgli una bugia. La verità era che non sapeva come sarebbe andata a finire e quindi era meglio tenerlo – tenere tutti  loro – lontano da Rufus Kray e la sua violenta follia.
“Badate a Kevin. Portatelo in cucina, c’è ancora abbastanza sale: prendetelo e fate un cerchio sul pavimento, poi entrateci. Tutti. Se anche Rufus dovesse tornare per completare la sua opera, non potrà attraversare quel cerchio e voi sarete salvi. Io vi raggiungerò.”
“Ma Max…” era Zoe. Gli occhi colmi di lacrime e il viso bagnato da esse. Si stava stringendo in se stessa, le mani appoggiate ai gomiti e le spalle rannicchiate. Sembrava spaesata, oltre che spaventata.
“Andate e fate come vi ho detto. Ci vediamo presto.”
Si voltò e cominciò ad incamminarsi verso il piazzale degli scuolabus.




                                                                         ***

L’aria era insolitamente fredda. Non che di notte, normalmente, facesse chissà quale caldo, ma in quel momento, Max percepiva più freddo di quanto non ne avesse mai percepito. Guardò i brividi percorrerle le braccia con un certo interesse, come se fossero stati in grado di indicarle la strada giusta da seguire – una specie di storia alla Hansel e Gretel, con le bricioline di pane da seguire e tutto il resto. Anche se, onestamente, si sentiva più come Teseo che segue il filo di Arianna per poter uscire dal labirinto dopo aver fronteggiato e sconfitto il Minotauro. Rufus poteva non avere la testa di un toro sopra ad un corpo umano, ma era altrettanto spaventoso, con gli occhi incavati, la pelle consumata e quell’odore nauseante di marcio e putrefazione che lo impregnava da capo a piedi. Max rabbrividì ulteriormente, anche se questa volta l’origine dei brividi non era il freddo, quanto piuttosto il disgusto.
Mentre camminava nell’oscurità illuminata solo da qualche lampione sporadico – gli abbaglianti del campo da football, ovviamente, erano spenti – ascoltava il meccanico rumore dei suoi passi per cercare di non dare peso a quel pungente stato d’allerta che le faceva rizzare i capelli sulla nuca, infilzandola come un pugnale che mandava scosse elettriche a tutta la colonna vertebrale. Il sudore freddo le appiccicava i capelli alla fronte e la maglietta alla schiena. Non voleva pensare all’odore sgradevole che poteva emanare in quel momento. Come non voleva pensare alla matita colata, il mascara impiastricciato e al segno che sentiva formarsi rosso sulla gola, come una collana di sangue secco. In realtà, quella era la cosa che più la preoccupava. Come l’avrebbe nascosta a suo padre? Come avrebbe giustificato una simile escoriazione? Come avrebbe spiegato a suo padre che aveva deciso di fronteggiare un fantasma tutta da sola quando la mossa più logica sarebbe stata, invece, fare una semplice telefonata? Decise che, se mai fosse uscita viva da quella situazione, non avrebbe fatto parola con Dean di nulla. Occhio non vede, cuore non duole. Padre protettivo non sa, padre protettivo non va su tutte le furie. Riusciva persino a vedere il suo sguardo inceneritore su di lei, quello che era in grado di farla sentire minuscola e tremendamente in colpa. Sapeva benissimo che in questo caso suo padre avrebbe avuto tutte le ragioni del mondo per sgridarla, ma non voleva procurargli preoccupazioni inutili. Non voleva che sapesse cosa aveva fatto perché sapeva che non l’avrebbe retto. Non stava scappando dalle sue responsabilità, o da quel principio secondo cui a determinate azioni corrispondono determinate conseguenze che vanno accettate, stava solo trovando il modo di non far soffrire suo padre per una cosa che sapeva gli avrebbe provocato dolore. Come avrebbe fatto a gestire tutto questo, ancora non lo sapeva. L’unica cosa che doveva fare, adesso, era occuparsi di Rufus Kray.
Continuò a camminare fino a quando non notò le sagome degli scuolabus, tutti in fila come tante processionarie. Il loro giallo normalmente acceso, alla luce della luna risultava sbiadito e smorto, dando una strana sfumatura spettrale a tutta la scenografia. Le sembrava di essere finita nel flashback di un film dell’orrore, dove la scena diventa più scura per rendere il tutto più inquietante. La cosa che la spaventava veramente, però, era il fatto che ciò che aveva davanti era reale: non aveva uno schermo che l’avrebbe protetta dall’apparizione improvvisa del mostro, adesso. Le sue gambe si fermarono non appena vide riversata a terra una figura: era un uomo, di questo ne era certa. Cominciò a correre ancora prima che il suo cervello realizzasse che correre era proprio l’unica cosa da fare. Si gettò in ginocchio accanto al corpo e costatò che non si trattava del preside Chapman, ma del medico di cui aveva parlato Dempsey. Era ancora vivo, costatò, misurandogli il polso. Con un sospiro di sollievo, cominciò a guardarsi intorno. Era convinta che l’oscurità non l’avrebbe agevolata nella sua missione, ma si sbagliava. Infatti, riuscì a vedere il bagliore azzurrognolo emanato da Rufus proprio perché tutto intorno a lei era buio. Quando si guarda una lucciola, la sua luce intermittente è molto più facile da distinguere se si è in piena notte. Rufus le dava la stessa impressione: la luce azzurra che emanava aveva una colorazione fredda e distante, come a testimoniare la sua provenienza dall’aldilà e il fatto che il suo corpo non fosse più caldo da un pezzo. Brillava ad intermittenza, illuminando il viso paralizzato dal terrore di Lex Chapman, come una macabra torcia.
“Sei un ladro!” sibilava Rufus, la sua voce suonò squillante ed acuta come una sirena spiegata e le penetrò così a fondo nei timpani che le fece venire voglia di mettersi le mani sulle orecchie per non sentire quel dolore insistente che le si conficcava in testa come tanti spilli. Ma resistette.
“Sei uno sporco ladro!!” il fantasma continuava ad inveire contro il preside, la sua voce si alzava in un grido che andava a mischiarsi con uno strano inquietante sibilo, come se la creatura avesse la gola tagliata e la voce uscisse dallo squarcio vecchio e mai rimarginato.
Max non fece in tempo a sentire la risposta di Chapman perché le bastò leggere nei suoi occhi la paura della morte che aveva preso il sopravvento su qualsiasi altra cosa per decidere di intervenire. Estrasse la pistola dal bordo della gonna e la impugnò con entrambe le mani perché, si rese conto, la sinistra le tremava troppo.
Le balenò in mente l’immagine di Dean che si metteva dietro di lei per insegnarle a mirare bene. Non fu facile per lui insegnarle a sparare con la sinistra, dal momento che era destrorso e la mano con sui agiva era, appunto, la destra. L’addestramento risultò più difficile di quanto si era immaginata. Max ricordava la voce dura di suo padre che le intimava di riprovare ogni volta che lei mancava il bersaglio e si rivolgeva a lui con gli occhi colmi di lacrime di frustrazione perché si sentiva un’incapace.
Devi avere pazienza, Max. Piagnucolare non ti porterà a niente. Non arrenderti e riprovare finché non ci sarai riuscita porterà dei risultati.
All’inizio le sembrava troppo duro e troppo poco comprensivo. Aveva l’impressione che suo padre pretendesse troppo, da lei, ma con il tempo aveva capito quanto la stava spronando a dare il meglio di se, i soldati non si addestrano con le coccole, ma con una rigida disciplina.
Mise nuovamente a fuoco la realtà e con entrambe le mani ben salde sull’arma, prese la mira e sparò. Il colpo andrò dritto alla testa di Rufus che si dissolse nell’aria in tanti coriandoli di polvere scura.
Chapman si voltò verso di lei incredulo. Osservò prima lei, poi la pistola e reagendo esattamente come Max si era immaginata reagisse, esordì: “Una pistola in una scuola non è ammessa, Winchester!”
“Se avessi rispettato le regole lei sarebbe morto, signore.” Si avvicinò al preside. Era grigio in volto, la fronte imperlata di sudore, gli occhi cerchiati ancora dal panico. La scrutava, studiandola, come se si aspettasse da un momento all’altro che potesse sparare anche a lui e in quel momento Max si rese conto di tenere ancora il braccio sollevato, come se avesse intenzione di prendere di nuovo la mira per premere il grilletto per una seconda volta. Lo abbassò con calma, evitando di fare movimenti bruschi che potessero far saltare i già precari nervi dell’uomo che aveva davanti.
“Signor Chapman…” cominciò Max con cautela, “Ho bisogno che lei mi dia quell’anello.”
“Perché?”
Max lo guardò. Il viso tirato dell’uomo era macchiato dalla vergogna, ma sapeva che ormai negare il gesto commesso era inutile. Le fece persino tenerezza, mostrandosi ai suoi occhi, per la prima volta, così vulnerabile. In quel momento, Max si rese conto che se un uomo rigoroso come Chapman aveva commesso un gesto simile, un motivo c’era e doveva essere più che valido.
“A lui non serve… io…” balbettò. Max non l’aveva mai sentito balbettare. Chapman, di solito, echeggiava come il rombo di un tuono, ogni volta che parlava. Era sicuro di se e imponente come una montagna che ogni uomo ha tentato di scalare senza successo, “..Io ne ho bisogno.”
“Perché?” gli domandò flebile, temendo che in qualche modo potesse respingerla.
“Perché è un oggetto di un valore tremendamente elevato, qui, nella nostra città. Il mese prossimo ci sarà un’asta e molti personaggi illustri pagherebbero fior di soldi per averlo. E io ho bisogno di quei soldi, Winchester, o si prenderanno la mia casa.”
Se il preside fosse stato un uomo tendente al pianto, Max era sicura che in questo momento il suo viso sarebbe stato rigato da due sottili fiumiciattoli che uscivano dai suoi occhi. Invece, sebbene la sua voce avesse tremato, crepando la facciata dura dell’uomo, Max notò che il suo viso era asciutto.
“Ci sono altri modi, signore. E poi i soldi non andrebbero a lei…”
“Una parte sì.” La interruppe, “Pensavano che quest’oggetto fosse stato perduto. Gli organizzatori dell’asta hanno annunciato che chiunque ne sia in possesso verrà automaticamente ritenuto anche proprietario e, di conseguenza, riceverà una parte del ricavato.” Infilò una mano nella tasca interna della sua giacca, estraendo l’anello. Era piccolo, con la montatura d’oro e la pietra viola scuro. Brillava come un piccolo polmone sotto la luce flebile della luna. “Una parte di quei soldi per me è più che sufficiente.” Si rigirò l’anello tra le mani. Sembrava ancora più piccolo, mentre Lex Chapman, con le sue imponenti dita robuste lo faceva girare su se stesso.
“Perché ti serve?” le chiese, gli occhi fissi sull’anello e la voce ancora corrotta dal tremito.
“Devo distruggerlo. È l’unica cosa che lega il fantasma di Kray alla dimensione terrena, signore.” Max gli afferrò le mani. Erano calde e ruvide, mentre le sue erano piccole, sudate e fredde. Si vergognò un poco sia del gesto che dello stato delle sue mani, ma non le ritirò.
“Ha visto cosa è successo a Kevin, signore. Non permetta che Kray faccia del male a qualcun altro.”
A quelle parole, gli occhi del preside caddero automaticamente sul collo di Max. Si soffermò sul segno rosso che stava diventando sempre più evidente e marcato. Max lo vide deglutire, prima di riportare di nuovo gli occhi nei suoi.
“Te l’ha fatto lui?”
Max annuì. “Se al mio posto ci fosse stato qualcun altro, sarebbe morto.”
Chapman non volle sapere altro. Non gli interessava, evidentemente, sapere come mai lei non era morta, ma gli bastava sapere che aveva rischiato la vita. E questo non poteva certo permetterlo, così le consegnò l’anello.
“Fai quello che devi fare, Winchester.”
Max annuì e afferrò l’anello che le veniva dato. Ma non appena le sue dita si chiusero intorno al metallo – la sue pelle era talmente fredda che non sussultò nemmeno, toccandolo, vista l’assenza di differenza di temperatura tra lei e l’oggetto – una forza incontrastabile la scaraventò all’indietro, catapultandola contro un albero. L’impatto fu così violento che le mancò il respiro per qualche istante. La vista le si appannò e tutto improvvisamente divenne buio.
Una voce lontana la chiamava, ma non riusciva a sentirla. Non percepiva niente se non la sua testa che girava. Con quanta forza era stata lanciata? Provò l’impulso di vomitare, ma quando ci provò, non uscì nulla dalla sua gola se non un rantolo soffocato.
“Dammelo!”
Rufus.
“No!” gli urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. I polmoni le bruciavano e la gola stava andando in fiamme. Si rese conto che il fantasma era di nuovo su di lei, una mano stretta intorno alla gola e l’altra mano era appoggiata al suo petto, all’altezza del cuore. Sentiva le dita di Rufus che le penetravano piano piano nella pelle, lasciando dei crateri di fuoco. Riusciva persino a sentire l’odore acre della sua carne bruciata. Doveva avere paura. Sapeva che doveva averne perché stava per morire, ma quel pensiero, anzi che terrorizzarla, le fece entrare in circolo un’ondata di adrenalina che la spinse ad afferrare il polso del mostro con la mano anellata e farlo sfrigolare di nuovo. Questa volta, però, il gesto servì solo a fargli mollare la presa. Rufus non si smaterializzò. Evidentemente, ora che aveva la certezza che era lei ad avere l’anello, la sua ferocia e la rabbia che provava nei suoi confronti erano più forti di qualsiasi altra cosa.
“Sei una ladra. Una lurida ladra!!” gridò impazzito, la voce stridula. Max era sicura che se Rufus avesse ancora avuto le corde vocali, urlando in quel modo isterico, le avrebbe danneggiate. Si gettò su di lei, ma Max ebbe la prontezza di spostarsi di lato e girarsi appena in tempo per afferrare la pistola e mirare una seconda volta. Il tremito alla mano si fece risentire, ma lo scacciò via, convincendosi che non era il momento adatto per titubare, e sparò. Rufus si dissolse di nuovo in un grido frustrato.
“Max!” gridò una voce e lei automaticamente si mise sulla difensiva, sollevando la pistola pronta all’attacco.  
“Sono io, calmati.” Era il preside. Max si era persino dimenticata della sua presenza. “Stai bene??”
“S-sì, ma tornerà. Devo distruggere…”
“…L’anello,” completò l’uomo per lei, “Dimmi come posso aiutarti.”
Max ci pensò su: “Sa sparare?”
“Sono stato nell’esercito.”
La giovane gli passò l’arma, ritenendo la risposta ricevuta più che sufficiente. “Quando lo vede comparire, gli spari. Intesi?”
Chapman annuì.
“Bene.” Max si accucciò a terra ed estrasse dalle tasche della gonna una piccola saliera e una boccetta d’alcol, che aveva preso quando erano stati in infermeria. Appoggiò l’anello a terra e non appena lo fece sentì Chapman sparare il primo colpo. Ne erano stati sparati tre, fino a quel momento e, di conseguenza, ne mancavano altri tre.
Ricoprì l’anello di sale e ci versò sopra l’alcol. Sentì uno sparo seguito da un’imprecazione: Chapman aveva mancato il bersaglio. Cercò di non concentrarsi su quel particolare mentre tentava di far partire l’accendino rubato dalla cucina, ma quello era talmente arrugginito che non ne voleva sapere. Le tremarono di nuovo le mani, che nel frattempo avevano anche iniziato a sudare, rendendo il tutto estremamente più difficile. L’accendino le scivolava ad ogni tentativo e Chapman aveva ormai solo un colpo a disposizione.
“Sta tornando, Max.”
LO SO! Avrebbe voluto gridare lasciando trasparire anche un po’ dell’isteria che sentiva crescere in se. Era tutto così frustrante che lasciarsi andare in un grido isterico le avrebbe fatto bene.
“Lo tenga sotto tiro.” Disse invece, cercando di risultare il più calma possibile.
Con il pollice premette sulla rotellina di metallo che avrebbe fatto scattare l’accendino e provò a ruotarla. Sentiva il polpastrello bruciarle a causa di tutti i tentativi andati a vuoto fino ad ora, ma questa volta la fiamma si alzò e, sebbene fosse alta meno di due centimetri, a Max sembrò grossa come quella olimpica. Era la luce della sua vittoria. Calò l’accendino sull’alcol appena in tempo: Chapman non dovette nemmeno sparare l’ultimo colpo che Rufus Kray si stava già sgretolando. Lo guardò prendere fuoco e contorcersi su se stesso, mentre le sue grida strazianti squarciavano la notte con l’acutezza di un allarme che penetra ad intervalli costanti nei timpani.
Una volta costatato che Rufus era scomparso una volta per tutte, Max avrebbe avuto voglia di accasciarsi al suolo e dormire per almeno due giorni. La stanchezza e lo stress di tutta quella situazione le gravavano sulle spalle, schiacciandola pesantemente a terra. Ma non poteva permettersi di cedere, non ancora.
C’era un’altra cosa che andava fatta.
Estrasse dalla tasca della gonna il cellulare e compose un numero. Una voce dall’altro capo del telefono rispose dopo due squilli.
“Max, stai bene??”
“Sì, Cas, ma ho bisogno di te. Non devi dire niente a papà, poi ti spiegherò. Puoi venire a scuola?” 



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Ciao a tutti e scusate per il ritardo! Ci ho messo veramente tantissimo a scrivere questo capitolo, ma sono stata presa dal blocco dello scrittore (uso questo termine impropriamente, perché i veri scrittori sono altri, ma passatemelo comunque xD). Non sapevo assolutamente come gestire la storia ed ero assalita da moltissimi dubbi. All'inizio pensavo che questo sarebbe stato il capitolo conclusivo, ma poi avevo paura che, oltre al fatto che sarebbe venuto lunghissimo, avrebbe tolto lo spazio necessario all'inevitabile passaggio nel passato di Max. Quindi ho deciso anzi di dividere le cose e occuparmi in questo capitolo solo della risoluzione del caso. Il prossimo, che tratterà di Max e Dean (finalmente il nostro adorato Winchester tornerà in scena), non so quanto verrà lungo perché, sebbene ce l'abbia in testa, non ho ancora cominciato a scriverlo (shame on me!). Mi scuso ancora per il ritardo e spero che abbiate trovato il capitolo di vostro gradimento! Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va! 
Come sempre, ringrazio chiunque legga/segua/metta tra i preferiti la storia perché mi fa davvero piacere! 
Alla prossima! <3 
   
 
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