“Drive
In
Me.”
Era
Autunno, nel Maine, la prima volta in cui baciò
Sherlock. Un venerdì sera già di per
sé fantastico, ma che dopo quel tocco di
labbra si elevò tranquillamente allo status di memorabile.
Non che la vita di
John Watson fosse stata costellata da una vasta gamma di momenti
elettrizzanti,
prima di conoscere quel ragazzo enigmatico dagli spessi capelli scuri
come la
pece: aveva sempre vissuto un’esistenza tranquilla, forse
mediocre sotto
svariati punti di vista; ma lui la reputava non male, ecco. Si era
sempre
accontentato, John, senza nemmeno dispiacersene troppo.
Comunque
quella sera era quasi mezzanotte, ed il suo
coprifuoco era inevitabilmente sforato di una buona mezzora. Il film
che si
erano goduti dall’interno della Cadillac nera di Sherlock era
ormai arrivato ai
titoli di coda ma, come al solito, il moro non dava segni di volersene
andare.
“Alle
nove ti vengo a prendere, John.” gli aveva
detto quello stesso pomeriggio, aspettandolo all’uscita del
doposcuola.
Sherlock non partecipava mai a quegli incontri che appellava con non
troppo
gentili termini che andavano dal ‘noioso’ al
più specifico e cruento ‘atto di
lobotomia legalizzata’. Ma era lì ogni
lunedì, ogni mercoledì ed anche ogni
venerdì. John varcava sempre la porta principale
dell’istituto pervaso da una
vaga euforia, certo di poter scorgere quella usuale figura appoggiata
sul
cofano della sua costosa macchina, con una perenne sigaretta incastrata
tra le
labbra.
“Alle
nove? Lo sai che non posso fare tardi, la
sera.” era stata la sua iniziale e moralistica reazione.
“Oh,
andiamo, John. Hai davvero sedici anni oppure
ne hai quattro?” Sherlock lo aveva schernito di rimando,
infilandosi al
contempo dentro la macchina ed iniziando ad avviarsi.
John
non riusciva a ricordare il quando ed il come
si fosse instaurata quella piacevole routine, fra di loro. Molto
probabilmente
la naturalezza con la quale si era venuta a creare avrebbe dovuto
destargli
qualche senso di timore o di preoccupazione; la realtà era
che l’unica cosa che
riusciva a pensare in quel periodo riguardava la prepotenza con cui
Sherlock
Holmes era entrato nella sua vita cambiando tutto, sì, ma
sicuramente in
meglio: a partire dalla mezzora di bicicletta per andare e tornare da
scuola
che gli risparmiava con i suoi passaggi, fino ad arrivare alla
particolare e
strana contentezza che ormai lo pervadeva ogni giorno sin dal suo
risveglio. John
Watson non si era mai svegliato così arzillo alla mattina,
proprio no.
***
Oh,
Sherlock era davvero un tipo strano, di certo
non passava inosservato. John ne era rimasto colpito subito, quel primo
giorno
di scuola del suo secondo anno che oramai gli sembrava distante anni
luce; ed
invece erano appena passati soltanto due miseri mesi, questa
consapevolezza
aveva un che d’incredibile. Comunque aveva notato prima la
sua auto, piuttosto
che lui stesso, doveva essere sincero: da amante dei motori quale era,
come non
potersi fermare a rimirare quel gioiellino della meccanica verniciato
di nero
brillante? Era estremamente raro, il vedere certe macchine in paese,
figuriamoci davanti al suo liceo.
“Hei,
cerca di non sbavarci sopra, quattrocchi.”
aveva udito alle sue spalle dopo attimi interminabili di osservazione,
quella
mattina, e tale voce lo aveva indotto a girarsi di scatto trovandosi
davanti
colui che altri non poteva essere se non il proprietario di quella
favolosa
Cadillac serie 62: uno spilungone dai capelli perfettamente impomatati,
munito
di quella tipica giacca in pelle nera che tanto andava di moda nel
’55 ma che
John disprezzava con tutto sé stesso poiché non
se la sarebbe mai potuta
permettere; proprio mai, eh. In più gli mancava
l’atteggiamento giusto per
indossarla, credeva.
“Scusa,
ma è veramente fantastica.” era arrossito
parlando, solo un poco, ma quel tanto bastava per fargli abbassare lo
sguardo e
battere in ritirata all’istante verso l’ingresso
dell’istituto.
“Aspetta!”
si era sentito richiamare dalla medesima
voce, ma con un tono molto meno acido e tagliente. Quindi, quasi
d’istinto, si
era voltato ed aveva riportato lo sguardo sul volto
dell’altro ragazzo. “Ti va
di farci un giro?” aveva continuato il moro, ed un
“eh?” sconcertato gli era
uscito fuori dalla bocca ancor prima che le sue sinapsi fossero capaci
di creare
un collegamento cognitivo.
“Non
mi va di entrare a scuola.” aveva spiegato lo
sconosciuto, accendendosi un Marlboro rossa con fare svogliato. John in
quel
momento non aveva proprio potuto evitarsi il riflettere su quanto fosse
scontato il trinomio composto da abbigliamento di marca, macchina di
lusso e
sigaretta alla bocca. Ma stranamente non lo aveva infastidito, anzi.
“Ti
ricordo che è il primo giorno di scuola, e poi
non so neanche il tuo nome.” gli aveva risposto dopo qualche
secondo di
silenzio riflessivo.
“Noioso.”
si era limitato a sillabare l’altro,
inspirando tabacco, e John aveva sgranato evidentemente gli occhi.
“Sei noioso,
John Watson.”
“Come
fai a sapere il mio nome?” gli aveva chiesto,
con sincera e quasi sconcertata curiosità.
“La
tua adorabile cartella ricamata dalle mani di
tua madre, ovvio. Una casalinga, suppongo.” il moro gli aveva
regalato un’altra
occhiata vagamente sorpresa, vedendolo pendere dalle sue labbra.
“Vuoi che
continui?”
John
aveva semplicemente esalato un flebile ed inevitabile
“sì”.
“Hai
una sorella, maggiore, direi. I tuoi accessori
di seconda mano, la bicicletta dalla struttura femminile. Tuo padre
è un
militare, oppure un marine, sicuramente un uomo appartenente alle forze
armate,
comunque.” gli aveva elencato tutto a ripetizione,
indicandogli con qualche
cenno di mano prima la bici, poi il golfino sformato che indossava ed
infine la
medaglietta militare che portava al collo ma che veniva nascosta dal
colletto
della sua camicia a quadri. “Ho sbagliato qualcosa,
John?”
“No.”
lo aveva continuato a guardare fisso e basta,
sinceramente sconvolto. “Straordinario.”
Lo
sconosciuto - Sherlock
- aveva quindi sorriso, e John non aveva potuto fare a meno di
sorridere a sua
volta. Era andato proprio così, il loro primo incontro, e
quel che era avvenuto
poi era stato semplicemente un susseguirsi di eventi per la maggior
parte
scontati; John che entrava a scuola perché era ovvio, non
avrebbe mai bigiato
il primo giorno, nemmeno per un tipo come Sherlock Holmes. John che
però non
era in grado di prestare attenzione neanche ad un misero quarto
d’ora di
lezione poiché troppo impegnato nel pensare a quello strano
ragazzo che aveva
approcciato lui; lui!, davvero, un
tipo così ordinario da poter essere catalogato quasi come
‘invisibile’. John
che usciva dall’istituto nel primo pomeriggio, a quel punto
quasi convinto di
aver avuto un’allucinazione mattutina, ed invece trovandoselo
inaspettatamente
davanti di nuovo.
“Hai
qualche altro inutile impegno, John Watson?”
gli aveva detto subito con tono scaltro e no, certo che non lo aveva,
certo che
voleva provare quella bomba di macchina, certo che voleva passare del
tempo con
quel tipo eccentrico dallo sguardo strano. Quindi
John era montato sulla sua macchina ed essa
era partita all’istante, senza cognizione di meta o di tempo,
semplicemente
andando. Così viveva Sherlock Holmes, in fondo, anche se lui
non lo sapeva. John
Watson non sapeva niente, ancora.
***
Sherlock
Holmes puzzava sempre di sigarette e di
gelatina per capelli; John odiava questi due odori
sin dall’infanzia, davvero, ed era certo del
fatto che non si sarebbe mai abituato ad essi. Imparò a
conviverci, diciamo. In
realtà il passare del tempo con Sherlock implicava il
convivere con un sacco di
cose, oltre che con il suo smisurato ego.
In
primis, non vi erano dubbi, stare con Sherlock
significava ascoltare musica quasi ventiquattr’ore su
ventiquattro. Sherlock
era musica alle sette di mattina, alle cinque del pomeriggio ed anche
alle
undici di sera. Per John, che fino ad allora aveva al massimo udito
qualche cassetta
di suo padre durante i viaggi in auto più lunghi delle
vacanze estive, tutto
ciò non poteva che essere davvero insolito: non aveva mai
ascoltato così tanta
musica in tutta la sua vita, e mai si sarebbe immaginato di farlo.
Perlomeno
all’inizio della loro conoscenza, comunque. Poi ne fu
inevitabilmente
affascinato perché Sherlock non si limitava ad ascoltare o
fischiettare
motivetti, Sherlock cantava.
Anche
quel venerdì sera d’inizio Novembre, in quel
drive-in che ormai frequentavano abbastanza assiduamente, John sapeva
bene che
sarebbero stati gli ultimi a rimanere nel parcheggio. Sapeva che
avrebbero
fatto tardi, sapeva che Sherlock non avrebbe messo in moto la macchina
finché
il grosso schermo del cinema all’aperto non si fosse oscurato
completamente.
Lui,
e quei suoi film strani. John conviveva anche
con i suoi gusti assurdi, e con quelle abitudini impossibili da
modificare o da
levigare almeno un poco. ‘Quarto potere’,
s’intitolava così, la pellicola
proiettata quella sera; alla regia un tale Orson Wells presentatogli da
Sherlock come un ‘visionario futurista’. John si
era impegnato, davvero, ma
quando a circa metà film si era reso conto di non averci
capito letteralmente
niente aveva semplicemente lasciato perdere, spostando la sua
attenzione su altro.
Su
Sherlock, in realtà, che non distoglieva mai lo
sguardo dall’enorme schermo posto davanti a loro. Il sedile
fatto scivolare
completamente all’indietro, le gambe totalmente distese nel
senso contrario;
anche John se ne stava così, ma non riusciva ad avere lo
stesso portamento, la
medesima naturalezza. Sherlock Holmes, nonostante la sua eccentrica
personalità, non era mai fuori luogo. Anche quando cantava;
John al suo posto
si sarebbe vergognato tantissimo, ma Sherlock no, e non ne aveva
davvero
motivo. Sherlock cantava, cantava sempre, qualunque cosa facesse ed in
qualsiasi posto si trovasse.
Anche
i film gli piacevano, certo, ma ciò che più
apprezzava di essi era la loro conclusione; quando la canzone
più importante
della colonna sonora si prendeva il suo spazio personale accompagnando
i titoli
di coda. Parole su parole che comunque Sherlock leggeva e che poi,
quasi
magicamente, ricordava a memoria. John si era sempre chiesto come
diavolo
facesse, ma aveva già appurato questa sua abilità
attraverso vari interrogatori
di sfida.
Quindi
quando si recavano al drive-in rimanevano
sempre lì, fino alla fine, e di solito il moro gli
canticchiava il motivetto di
turno per tutto il tempo del tragitto fino a casa. Non accadeva troppo
spesso,
ma quando succedeva le cose tendevano ad andare così.
“È
stato meraviglioso, John.” gli disse Sherlock
quella sera, quando ancora lo scorrere incessante di nomi e di sigle
accompagnate da una sinfonia classica non era giunto al suo termine; e
questa loquacità
precoce era strana, in realtà. “I flashback, le
immagini, i suoni disturbanti,
ed infine Bach..” fischiettò appena, sorridendo
con un angolo della bocca.
“Fantastico, non trovi?”
“Credo
di non averci capito niente, ad essere
sincero.”
Sherlock
rise all’istante, una risata
incredibilmente di gusto; a John piaceva davvero tanto l’idea
di rendersi
ridicolo o di sminuirsi, se farlo significava guadagnarsi
l’automatica visione
di tali reazioni.
“Oh,
John. Mio piccolo e tardo Watson.”distolse lo
sguardo dallo schermo, guardandolo con due occhi profondi, ma chiari
come ghiacciai.
“Sei tu ad essere meraviglioso, John.”
Ecco,
quella frase John non se l’aspettava, proprio
no; tutto ciò non era ‘il solito’, tutto
ciò non accadeva mai. Tutto ciò gli
fece contrarre le budella, e forse fu per questo che si
avvicinò mantenendosi in
silenzio, con uno Sherlock immobile intento ancora nel fissarlo. Il suo
sguardo
seguiva perfettamente il movimento d’avvicinamento delle sue
labbra: John
guardava i suoi occhi, ma i suoi occhi guardavano la sua bocca; la
guardarono
per tutto il tempo, finché non fu troppo vicina.
Finché, semplicemente, non lo
baciò.
***
Fu
John, a baciarlo, quindi. Sherlock non se lo
sarebbe mai aspettato, davvero, ma la verità era che
l’unicità di John Watson
risiedeva soprattutto nella sua capacità di sorprenderlo
sempre; sorprenderlo
come mai nessuno aveva fatto prima. C’era riuscito sin
dall’inizio, e per tale
motivo l’aveva scelto e se lo era preso.
L’aveva preso, sì, perché lui
ciò che voleva lo otteneva: andava così da
sempre,
la sua vita da giovane ribelle di buona famiglia. Un paradossale gioco
di
parole che però descriveva al meglio la sua inusuale
situazione. Sherlock
Holmes, un ricco viziatello dai modi sgarbati e munito di una bella
dose di
sfacciataggine; così lo descriveva spesso suo fratello, mal
celando una vena
disprezzo. In realtà, gliene importava ben poco.
Ma
John gli era sembrato davvero così piccolo,
quella mattina in cui l’aveva visto osservare la sua auto
come se fosse stata
la cosa più bella del mondo. Un ragazzo semplice, quasi
ancora un bambino,
vestito con abiti d’infima qualità piuttosto ben
tenuti e nascosto dietro
occhiali dalla montatura scura con spesse lenti da miope. Un folto
strato di
capelli dorati gli incorniciava il volto e Sherlock, ogni volta che si
ritrovava a ricordare tale immagine, non poteva evitarsi una leggera
leccata di
labbra.
Desiderare
John Watson era stata la sensazione più
esaltante di tutta la sua vita. Desiderare, sì, senza mai
ottenerlo. Senza mai possederlo.
Eppure
‘possedere’, per Sherlock Holmes, era davvero
una bella parola: uno come lui, sempre pieno di desideri, voleva
possedere
subito le cose. L’ultimo LP di Presley, l’ennesima
giacca di pelle borchiata,
un’intera collezione di prodotti igienici per la sua
macchina; che differenza
poteva fare? Lui chiedeva, e poi otteneva.
Il
possedere, Sherlock lo aveva capito col tempo,
gli arrecava però una grandissima tristezza: ottenere
qualcosa significava
arrivare a considerarla propria in una maniera quasi ovvia;
all’improvviso non
c’era più quel senso di eccitazione, quella spinta
del desiderio che lo aveva
inebriato in precedenza. Quindi, inevitabilmente, non era mai sazio.
Sherlock
era un mostro vorace che si cibava di
aspettativa e di attesa, perché ogni cosa che voleva la
otteneva, e dopo averla
ottenuta si ritrovava ogni volta a desiderare altro, qualcosa di nuovo,
qualcosa di più.
Sherlock
non era mai stufo delle sigarette, in
primis. Avrebbe fumato volentieri per un’eternità
intera, se questo non gli
avesse assicurato un brutto malanno polmonare ogni Inverno. Anche il
guidare la
sua auto non lo stancava mai; lo rilassava più di ogni altra
azione al mondo, e
se a ciò si aggiungeva l’ascolto di musica, il
binomio che si veniva a creare
era in grado di mandarlo direttamente in Paradiso. Non che credesse in
alcuna
religione, certo, ma un suo personale Eden mentale esisteva, eccome se
esisteva. Solo che era particolarmente difficile da raggiungere.
Sherlock
non era mai sazio dei ragazzi, e questa sua
tendenza l’aveva compresa molto prima dei suoi sedici anni.
Era affamato,
davvero: gli piaceva divertirsi in quella maniera un po' sporca che gli
dava un
certo senso di pericolo, un brivido freddo di eccitazione. Si poteva
tranquillamente ammettere che Sherlock Holmes amasse poche cose, nella
vita, ma
una di quelle era sicuramente il sesso; il sesso con giovani ragazzi
carini.
Ragazzi da rendere follemente innamorati, ragazzi da conquistare
velocemente e
da consumare, consumarli completamente.
Seguendo la regola secondo la quale non si dà da mangiare al
pesce che si è
pescato; ma senza cibo, lo sapeva bene, al pesce di turno rimanevano
soltanto
due possibilità: morire o scappare. A lui, qualsiasi cosa
accedesse, non
importava. Non gli importava niente, di quei giovani ragazzi carini. Ragazzi come John.
Ma
John Watson era diverso, lo era stato sin da
subito. John non voleva essere guardato; John era così
bello, ma non voleva
essere guardato, Dio, come faceva a
pensare questo? Sherlock non se lo spiegava. Ed anche se
aveva osservato la
sua macchina esattamente come avevano fatto i cinque ragazzi che si era
scopato
prima di lui, in quei suoi occhi spalancati era riuscito a leggere
qualcosa di
completamente diverso: non l’invidia, non
l’avidità, non la malizia.
Meraviglia, sola e genuina meraviglia.
Quindi
aveva fatto sì che non arrivasse per mesi,
quel momento: l’attimo in cui John si fosse dato a lui in
maniera palese,
donandogli sé stesso e quei sentimenti che Sherlock
ovviamente vedeva, ma che
ignorava volutamente. La verità era che a Sherlock piaceva
davvero, essere
amico di John in quella maniera particolare che si era praticamente
creata da
sola con semplice e bellissima naturalezza. Gli piaceva guidare con lui
accanto, scorrazzandolo ovunque senza mai avere un fine, se non quello
di stare
insieme. Gli piaceva cantargli le canzoni di Presley, domandandogli
d’indovinare il cantante, ed anche se era sempre lo stesso
lui immancabilmente
non ci azzeccava. Ma proprio mai, eh.
E
poi gli piaceva come John lo guardava. Con
degli occhi, in certi momenti. Occhi
adoranti, quasi.
John
si tirava su gli occhiali spingendoli con il
dito medio in prossimità della zona degli occhielli, quando
pensava cose sconce
su di loro. Poi arrossiva leggermente e non incrociava più
il suo sguardo. Era
terribilmente carino e Sherlock avrebbe sinceramente voluto vederlo
così per
sempre: sedicenne, quasi completamente glabro e vergine. Un
sogno.
John
arricciava anche il naso, ogni volta che lo vedeva
portarsi una sigaretta alla bocca. Distoglieva gli occhi e per qualche
secondo
si zittiva, qualsiasi discorso stesse facendo. Gli piaceva anche questa
sua
espressione contrita di routine, quasi standardizzata, ma adorava molto
di più
il sentirlo parlare. Quindi, quasi senza accorgersene,
diminuì gradualmente la
quantità di cicche fumate ad un pacchetto al dì.
Sherlock
lo voleva baciare, davvero, lo aveva voluto
subito. Ma la verità era che aveva paura; sì,
Sherlock Holmes
aveva provato la sensazione del
terrore per la prima volta in tutta la sua vita. Aveva timore che tutto
si
sarebbe rovinato, provava disgusto davanti alla prospettiva che lui
sarebbe
stato quel qualcuno capace di devastare ogni cosa così come
aveva sempre fatto,
in fondo: stancandosi dei suoi giocattoli, oggetti o persone che
fossero.
Smettendo di dar da mangiare al pesce, così faticosamente
pescato. Uccidendolo,
quel pesce. Ammazzando John.
Questo
aveva pensato per mesi, non aspettandosi
affatto ciò che realmente avvenne: il non riuscire a
riflettere su cosa ci
fosse di meglio al mondo rispetto al baciare John Watson. Niente,
davvero, dopo
quel bacio al drive-in non ci poteva essere niente di più,
né niente di meglio.
Dopo quell’attimo, dopo quelle labbra che aveva osservato
avvicinarsi
millimetro dopo millimetro, quasi terrorizzato, sicuramente col cuore
che
batteva a mille. Nient’altro.
Solo
John Watson.
Quindi
John lo baciò per primo, ma Sherlock prese il
controllo dell’atto subito dopo, tramutando quel tocco di
labbra in una
pomiciata vogliosa. Infilandogli la lingua in bocca con uno scatto
feroce, come
se la sua libido gli stesse facendo pagare il conto di tutti quei mesi
d’attesa. La bocca di John era vergine, calda, pulita: il
piccolo Watson era un
autentico maniaco della pulizia e delle buone abitudini. Sherlock si
era sempre
chiesto cosa ci avesse trovato in lui, un essere così
inquadrato nella società
e nei principi morali come John.
Eppure
eccolo lì, il candido Johnny, intento nel
risucchiargli la lingua in bocca soffocandogli ansiti pronunciati
direttamente
in gola. E Sherlock ci pensava, ci rifletteva, già lo
credeva, sì, ma in quel
momento ne ebbe la conferma: non si sarebbe mai stancato di John
Watson.
L’unico timore che iniziò a pervadergli
l’anima, da quel momento in poi, fu la
dolorosa consapevolezza che molto probabilmente sarebbe potuto
succedere il
contrario.
***
L’Estate
del 1956 fu veramente e straordinariamente
calda, nel Maine. John non ricordava di aver mai sperimentato
un’afa talmente
asfissiante in diciassette anni di vita. Sherlock, come suo solito, non
aiutava: nonostante il torrido calore esterno lo persuadeva ad uscire
lo
stesso, impossibilitato nel rinunciare al suo scorrazzamento in auto
giornaliero e facendogli fare dei bagni di sudore non indifferenti.
“No,
oggi mi rifiuto, Sherlock. Saranno
quarantacinque gradi all’ombra, mi vuoi forse
uccidere?” gli disse quel
pomeriggio, ancor prima di salire nella macchina che ormai accomunava
più ad un
forno a legna, parlandogli dal finestrino abbassato.
Sherlock
lo guardò inizialmente in maniera torva,
mantenendosi in silenzio, per poi occhieggiarlo con un preciso sguardo
diverso
che John aveva imparato a catalogare con il termine
‘pericoloso’.
“Allora
andiamo da me.”
John
acconsentì dopo qualche secondo annuendo e
basta, rincuorato dalla consapevolezza della presenza di vari
ventilatori
sparsi quasi in ogni stanza della villa del moro; in realtà
ne aveva visti
giusto due o tre, prima di entrare in quella casa per la prima volta.
L’abitazione di Sherlock era quasi un vero e proprio palazzo
monumentale,
enorme ma discreto, rallegrato dalla presenza di un’anziana
governante che
palesava sempre la sua presenza con un ottimo the e buonissime fette di
torta
di mele. Quel pomeriggio, però, ciò non accadde.
La
camera di Sherlock era, a suo personale dire, un
disordine ordinato: su ogni superficie disponibile erano poggiati
libri,
posacenere sempre stracolmi e vestiti stropicciati. Il moro amava
incondizionatamente lo starsene disteso sul letto, in silenzio,
perdendosi nei
suoni prodotti dal giradischi di buona fattura che il suo strano
fratello gli
aveva regalato per il suo compleanno; solo in tale occasione John ebbe
la
possibilità di ascoltare parole benevoli da parte di
Sherlock nei confronti di
quel Mycroft che, purtroppo o per fortuna, non aveva ancora incontrato.
Dopotutto
anche i suoi genitori parevano essere continuamente in viaggio e quella
casa
era sempre vuota, maledettamente vuota.
Sherlock
era solo. Sherlock era pieno di cose e di
oggetti, tanti regali e tanti soldi.
Ma
era solo. Terribilmente.
Allora
quel pomeriggio salirono le scale ed
entrarono nella sua camera. Sherlock si mise subito a rovistare in una
delle
tante colonne di dischi in vinile presenti, tirandone fuori uno.
“È
nuovo.” disse, semplicemente. “È
fantastico.”
aggiunse, posizionandolo nel lettore.
John
si limitò a sorridere, mettendosi a sedere sul
bordo del letto. La verità era che non aveva alcuna voglia
di ascoltare musica,
ma non importava. Sherlock fece partire la canzone, per poi accasciarsi
sul
materasso con non molta grazia: si distese sulla schiena, piegando le
ginocchia
ed invitandolo ad appoggiarsi; non glielo disse a voce, certo, ma non
ve ne era
bisogno. John quindi si posò sui suoi stinchi e per un
istante chiuse gli
occhi. Poi la voce di Presley, e John ormai aveva imparato a
riconoscerla,
invase il perimetro della stanza.
Well, since my baby left me
Well, I find a new place to
dwell
Well, It’s down at the end
of lonely street
At Heartbreak Hotel
Where I’ll be
Where I get so lonely, baby
Well, I’m so lonely
I get so lonely, I could
die..
Sherlock
cantò, ovviamente, sussurrando quasi in
realtà ma per John fu più che udibile; anche se
gli dava le spalle, anche se la
sensazione che più avvertiva distintamente era il vibrare
delle sue ginocchia
secche. Quel che sapeva, o che perlomeno credeva di sapere, era il
fatto che
Sherlock non fosse realmente lì, lì con lui:
Sherlock era sicuramente dentro la
canzone, all’interno della sua melodia,
nell’incantesimo creato dall’intreccio
di quest’ultima con le parole pronunciate. Come
sempre.
Allora
si staccò dal loro contatto facendo
leggermente forza sugli addominali, ruotando di poco il busto. Il suo
sguardo
finì inevitabilmente su quello sterno nudo,
poiché Sherlock si era tolto la sua
usuale canotta bianca con l’intento di patire meno caldo;
provò a non
sbirciare, davvero, ma non riuscì proprio ad evitarlo.
Quindi si scosse
volontariamente, alzando gli occhi in un battibaleno ed arrivando al
volto: due
occhi stranamente spalancati lo colsero di sorpresa. Quelle pupille che
lo
fissavano; Dio, a John mancò il respiro. Sherlock
continuò a canticchiare, non
distogliendo gli occhi e legandolo a sé in maniera intensa,
quasi come se
stesse pronunciando un incantesimo.
Well, though it’s always
crowed
You still can find some room
For broken-hearted lovers
To cry there in the gloom
And they’ll be so lonely
They’ll be so lonely, baby
They’ll be so lonely, they
could die..
“If you
leave me, John. Well, I’ll be so
lonely, baby. I’ll
be so lonely, I could die.”
intonò alla fine, andando a
prendergli le mani con le proprie per mezzo di movimenti lenti e
calibrati, ma
stringendogliele poi con una presa forte e palesemente caratterizzata
da tensione.
John,
sul momento, non potette proprio credere a ciò
che i suoi sensi gli avevano appena fatto registrare. La sua vista che
gli
poneva davanti l’immagine di uno Sherlock mezzo nudo, intento
nel fissarlo e
basta. L’udito che gli aveva fatto sentire le parole, quella
specie di
dichiarazione inaspettata ed anche fin troppo romantica, conoscendo gli
standard del moro. Poi
il tatto, che
continuava a fargli avvertire quegli arti sudati attorcigliati
fermamente ed il
battito cardiaco dell’altro; forti e ritmici colpi accelerati
direttamente sul
suo palmo, il cuore di Sherlock nella sua mano. Gli mancò il
fiato,
semplicemente.
John
Watson non si aspettava niente di tutto ciò,
quell’afoso pomeriggio d’Agosto del ’56.
John non si aspettava mai nulla, anche
se erano passati quasi trecentosessantacinque giorni da quando la sua
vita era
stata completamente rivoluzionata da quel tornado denominato
‘Sherlock Holmes’.
Eppure quell’evento atmosferico umano riusciva a conquistarlo
sempre, ogni
giorno un po' di più; era veramente incredibile e
razionalmente inverosimile,
il modo in cui ogni ambito della sua vita ruotasse intorno a Sherlock.
Ma
nonostante ciò, sentiva di non meritarselo. Credeva di non
essere abbastanza. No, non lo era.
John
non riusciva neanche a permettersi di pensarlo,
il fatto di essere in grado di sortire a Sherlock tutto quel che
quest’ultimo
era invece capace di fargli provare anche solo con
l’ausilio di uno sguardo più intenso.
Era
troppo, per John. Sherlock era sempre troppo in tutto.
Sennò
non sarebbe stato lì, certo. Su quel letto,
con quel caldo, appoggiato alle sue gambe lunghe e perennemente tese.
Inspirò
profondamente, senza trovarne giovamento: John odiava la camera di
Sherlock, in
realtà; puzzava come una ciminiera e l’areazione
era sempre pari a zero, quasi
soffocava a volte. Quello era uno di quei momenti.
Però
sopportò, ovvio, non poteva far altro. Non
poteva proprio far altro, già, se quegli occhi continuavano
a guardarlo in
quella maniera. Anche se sapeva che mai si sarebbe dovuto trovare
lì, su quel
letto, con quel caldo, in quella casa tremendamente grande e vuota, insieme a Sherlock. Sapeva pure che
anche solo con i baci erano già andati troppo oltre; tutta
quella saliva che
ormai si scambiavano quasi settimanalmente, beh, era un guaio. Eppure
era stato
lui stesso a baciarlo per primo, dannazione! E l’aveva
ribaciato molte altre
volte, dopo la fatidica serata al drive-in. Gli era piaciuto
così tanto, ci
aveva pensato per notti intere. Anzi, si erano ribaciati,
poiché gli era
sembrato che Sherlock non stesse aspettando altro. Ed in quel momento,
nel
presente, cosa si aspettava? John se lo chiedeva sinceramente, ma non
riusciva
a trovare una risposta a tale domanda. Forse voleva una reciproca
dichiarazione
d’intenti?
Non
lo sapeva, davvero. John non sapeva come reagire
alle azioni del moro; ma non si sarebbe dovuto trovare lì,
su quel letto, in
quelle condizioni pietose, in quel preciso momento. Con Sherlock che
gli
provocava così tanto, così esageratamente troppo.
“Io
non ti abbandonerò mai, Sherlock.” gli
uscì
fuori dalla bocca alla fine, quasi in maniera inconsapevole,
stringendogli le
mani con forza mentre il giradischi era ormai muto da interminabili
secondi.
Perché in fondo John Watson era così: un ragazzo
capace di perdersi in migliaia
di elucubrazioni, ma che poi agiva principalmente mosso da semplice e
puro
istinto.
“Tutti
se ne vanno, John.” Sherlock gli rispose
quasi all’istante, guardandolo ancora dritto negli occhi, mal
celando però una certa
freddezza che riuscì quasi a fargli male.
“Io
no.” lo esalò piano, senza aggiungere altro,
poiché non voleva più parlare se farlo
significava rischiare di rovinare un
momento così raro e bello. La scelta delle parole da usare
con Sherlock a volte
non era facile, davvero. Quindi, molto spesso, era meglio il silenzio.
Anzi,
meglio ascoltarlo cantare. O baciarlo.
John
lo baciò, quindi; forse era davvero quasi
sempre lui, il primo ad avvicinarsi in quel senso, pensandoci un po'
su. Ma la
verità era che tale riflessione gli sovveniva alla mente in
contemporanea con
l’atto stesso, per cui la lucidità per rimembrare
risultava essere ampiamente insufficiente.
Infatti si dimenticò di tutto nel giro di pochi secondi,
andando a sovrastare
il corpo di Sherlock con il suo. Poco gli importò del caldo
e del sudore: gli
aprì le gambe facendo forza sulle sue cosce candide con
entrambe le mani e ci
scivolò nel mezzo, infilandogli la lingua in bocca ed
abbassando le palpebre. A
quel punto Elvis cantava ‘I was the one’, ma John
la musica non la sentiva
proprio più.
Sentiva
piuttosto il calore del fisico dell’altro
che andava ad aumentare esponenzialmente il suo. A John non sarebbe
dovuto
piacere il fisico asciutto di Sherlock, ne era consapevole, eppure
amava
toccare i suoi ossi sporgenti, soprattutto quelli in
prossimità dei fianchi:
aveva osato sfiorarli appena e poche volte, da nudi, ma in quel momento
li
arpionò e ne gustò appieno la consistenza. Un
brivido gli percorse la spina
dorsale all’istante, ed allora pensò ancora che
Sherlock Holmes non gli sarebbe
dovuto piacere così tanto, dannazione; non in quel senso
così sbagliato.
Eppure
eccolo lì di nuovo, John Watson, a leccargli
le labbra con un’ingordigia inopportuna. Nessuno gli aveva
mai fatto
quell’effetto, nessuno.
Nemmeno Mary,
l’unica fidanzata che aveva avuto all’inizio del
primo anno, una storiella di
due mesi giunta al suo epilogo ancor prima che lui potesse
accorgersene. Non aveva
mai parlato di lei con Sherlock, non perché non avesse
voluto, semplicemente
non ci aveva proprio più pensato: ma a John era piaciuta
davvero Mary, ai tempi.
Gli era piaciuto anche baciarla, prenderla per mano e, per
quell’unica volta,
affondare il volto nella sua abbondante seconda di reggiseno.
Ma
Sherlock. Dio,
Sherlock.
Sherlock
era troppo. Sherlock era tutto.
***
Se
John Watson voleva di più, Sherlock glielo
avrebbe elargito più che volentieri. Non aspettava altro,
era vero. Non voleva
altro, avrebbe anche potuto ammetterlo con tranquillità, se
il suo adorato
biondino avesse soltanto avuto l’ardire di chiederglielo. Ma
John non chiedeva
mai nulla, non era il tipo: John pensava, desiderava in silenzio,
fremeva. John
poi, di punto in bianco, si muoveva e scattava. Si avvicinava e lo
baciava con
un carico d’intensità talmente elevato che avrebbe
mandato in tilt chiunque,
persino uno come Sherlock Holmes.
Quindi
inizialmente lasciò che John esplorasse la
sua cavità orale in maniera passiva, inebriandosi ed
approfittandosi di quel
momento d’esplosiva passione. Poi, quasi preso da una strana
frenesia, ribaltò
le posizioni con un colpo di reni deciso e John sussultò
visibilmente nel
ritrovarsi sotto di lui, divampando in risposta.
“Che
cosa vuoi, John?” glielo soffiò sulle labbra,
andando ad intrappolargli i polsi sopra la testa con un movimento lesto
e
sentendolo contrarsi nervosamente.
“Baciarti.”
lo sentì mormorare dopo qualche secondo;
ma Sherlock non si poté di certo ritenere soddisfatto di
tale risposta, per cui
fece scivolare la sua gamba mezza nuda su quell’inguine
già un po' gonfio e lo
frizionò appena.
“E
poi?” gli alitò sul viso, scatenando un evidente
tentativo di divincolamento.
“Sherlock..”
un mesto ansito da parte di John, che
poi si spinse in avanti soltanto con l’ausilio del collo,
prendendosi la sua
bocca con irruenza.
Sherlock
però si staccò subito, aumentando la distanza
tra i loro visi.
“Voglio
prendertelo in bocca, John.” glielo disse
guardandolo negli occhi, osservando con gusto le sue guance arrossare
ed il suo
respiro mozzarsi all’improvviso.
In
testa aveva ancora quelle sensazioni amare,
quella paura di essere abbandonato anche dall’unica persona
che contava;
l’unico essere al mondo capace di farlo sentire amato, unico,
non sbagliato,
semplicemente speciale. Come faceva
John, a non vedere tutto il male che albergava in lui? Come poteva
rimanere al
suo fianco nonostante tutti i contro che inevitabilmente vi erano?
Sherlock,
forse per la prima volta nella sua vita,
non sapeva. Ignorava, semplicemente, ed in più temeva che
pure John Watson non
possedesse risposte chiare a quelle importanti domande. C’era
quasi sempre
confusione, negli occhi chiari e limpidi di quel ragazzo che teneva in
pugno la
sua stessa esistenza senza neanche rendersene apparentemente conto.
Ma
non in quel momento, su quel letto, con quel
fottuto caldo. C’erano sempre quei due occhi splendenti,
certo, ma ormai erano
piuttosto vacui e liquidi, un po' combattuti e visibilmente annebbiati
da un
desiderio che Sherlock decise all’improvviso di sfruttare a
suo pro. La realtà,
per quanto subdola e meschina, era che voleva legare John a
sé con ogni mezzo e
con qualsiasi stratagemma possibile: con l’amore, con il
sesso, con
qualsivoglia metodo che conosceva e che aveva sempre funzionato con gli
altri;
perché non avrebbe dovuto essere performante con John?
Quindi
fece scorrere le sue mani sotto la maglietta del
biondo in maniera lasciva, saggiando la pelle morbida e liscia del
bassoventre.
“Voglio
leccartelo, John.” continuò a far scivolare
le dita in prossimità del bordo dei pantaloni di leggero
cotone usurato,
trattenendogli lo sguardo puntato addosso. Stava per cedere, lo vedeva.
Allora
gli sganciò i piccoli bottoni che trattenevano
l’indumento senza doverci
prestare anche solo un minimo di attenzione. Era suo, quasi; ancora un
leggero
tocco, ancora un lieve sussurro in più.
“Voglio
succhiarti il cazzo, John.” lo disse, alla
fine, avvertendo un mezzo sorriso di vittoria affacciarsi direttamente
sul suo
stesso volto.
E
magari fu proprio quell’accenno, l’errore
più
grande. La spavalderia dell’aver pensato che ce
l’aveva fatta; che John era
alla sua mercé e che gli avrebbe preso
quell’uccello vergine in bocca, dando
vita ad uno dei momenti più belli passati insieme. Non andò così.
Nella
realtà John si divincolò velocemente sfuggendo
alla sua presa con poca difficoltà poiché
Sherlock, in essa, non ci aveva realmente
messo forza neanche per un attimo.
“Sherlock,
fermo.” biascicò alzandosi dal letto e
ricomponendosi con gesti nervosi. “Io.. io dovrei
andare.” aggiunse poi, senza
guardarlo e con un tono davvero fievole, ma che a Sherlock
sembrò quasi un urlo
nel silenzio più assoluto.
E
non riuscì a dire niente, davvero; il vuoto,
dentro la sua testa. Un oblio che gli pervase la mente, nonostante lo
sforzo
sovrumano che attuò nel riflettere su un modo per risolvere
immediatamente quel
disastro da lui stesso creato. Ma John infine gli lanciò
un’occhiata esitante,
poco prima di fiondarsi fuori dalla sua stanza senza più
proferire alcunché. Lo
lasciò lì, da solo, inginocchiato su quel
materasso, con quel caldo che ormai
gli donava quasi un sollievo se confrontato al gelo siberiano che aveva
invaso
i suoi lombi ed il suo cuore. Nel mentre, Elvis intonava le ultime
strofe di ‘I
forgot how to forget’, e tutto ciò gli
sembrò quasi un maligno scherzo del
destino.
***
John
rivide Sherlock soltanto tre giorni dopo quel
pomeriggio in camera sua, e non nella maniera in cui si sarebbe
sicuramente
aspettato. Non che non avesse avuto voglia di chiarirsi con lui prima
di
allora, ma per forza di cose non aveva proprio avuto modo di andare a
trovarlo:
Sherlock era sparito completamente e casa sua era stata invasa dai
parenti del
Tennessee. Se n’era proprio scordato, di quella visita estiva
in realtà
programma da mesi. In più si era anche guadagnato uno
schiaffo a cinque dita da
suo padre, quel tardo pomeriggio in cui era tornato a corsa da casa di
Sherlock, entrando trafelato dalla porta sul retro e trovandosi davanti
zie e
zii, cugine e cugini inevitabilmente sconvolti dalla visione di lui
completamente madido di sudore ed allibito da quelle presenze
inaspettate. Che
misera figura, davvero.
Sherlock
non si era più presentato, comunque. John,
nonostante il suo essere chiuso in casa in ostaggio dei doveri
familiari, se ne
era stato tutto il giorno in prossimità della finestra,
regalando occhiate
frequenti alla strada in cui sperava sinceramente di vedere apparire
una
conosciuta Cadillac nera. Ma ciò non avvenne, neanche il
dì seguente.
Al
terzo e per fortuna ultimo giorno di visita dei parenti,
sua madre lo esortò a portare sua cugina Molly a fare un
giro in paese. Una
cara ragazza, niente da dire, però
che
noia. Sorrise di fronte a questo pensiero accomunandolo a
Sherlock, ma in
ogni caso accettò di buon grado, entusiasmato anche solo
dalla prospettiva di
prendere una buona boccata d’aria pulita. Decise di portarla
da Finn, un
piccolo fast food rinomato soprattutto per gli ottimi milk-shake.
“Milk-shake?
Cosa sono?” gli chiese in maniera
meravigliata la ragazza, un attimo prima di entrare dentro al locale.
John
abbozzò un leggero sorriso tirato, impegnandosi mentalmente
nel trovare le
parole adatte per spiegare ciò che per sua cugina pareva
essere un arcano
mistero: frullato di latte, vari gusti di gelato, un po' di panna, se
ti va.
Insomma, gli sembrò di parlare con una bambina, ma il
sentirsi per una volta il
più intelligente della situazione non gli dispiacque
affatto. Almeno per i
primi dieci minuti scarsi.
Poi
gli sembrò sinceramente che il tempo si fosse
come fermato, iniziando a scorrere ad una lentezza quasi disarmante.
Forse tornava
indietro, in realtà. Un buco temporale, un corto circuito di
tutti gli orologi
del mondo. Molly parlava, parlava ed ancora parlava: la stalla del
bestiame, i
campi di cotone, le pecore nel prato; wow, quant’è
buono questo milk-shake alla
fragola!
Sua
cugina Molly era veramente dolce, su questo non
vi erano dubbi o incertezze. Era anche carina esteticamente e vestita
piuttosto
bene per gli standard di una contadina del Sud: capelli lunghi e bruni,
sorriso
perfetto ed un fisico niente male. Anche il milk-shake al caramello che
stava
sorseggiando avidamente era buono; John gli adorava da sempre, i
frullati di
Finn, ma da quando Sherlock era entrato nella sua vita non aveva
più messo
piede in quel posto: il moro odiava andare per locali e la sua perenne
inappetenza
non aiutava di certo, poi. Sinceramente non gli era importato, alla
fine. Non
ci aveva neanche più pensato.
Anche
in quel momento, riflettendoci quasi
inconsapevolmente, avrebbe volentieri barattato quel milk-shake
squisito con un
rewind temporale fino al momento in cui aveva lasciato la stanza di
Sherlock,
sconvolto dalle sue stesse pulsioni e da tutto il turbinio di
sensazioni che il
moro gli aveva provocato con quel suo sfrontato comportamento.
Sfacciato,
sì. Sherlock era un dannato sfacciato
senza vergogna. Come aveva potuto dirgli quelle cose così,
guardandolo dritto
negli occhi? Come aveva potuto toccarlo in maniera talmente lasciva,
senza
esitare neanche per un solo secondo? Dio, lo aveva mandato
completamente fuori
di testa. John aveva esitato sul limite, quel pomeriggio. Un limite che
si era
imposto di non attraversare; perché cosa c’era,
dopo di esso? Era una domanda
difficile, era una domanda pericolosa. Per qualche attimo se ne era
completamente
dimenticato, con un meraviglioso Sherlock Holmes posizionato in
prossimità del
suo bassoventre, ma poi la consapevolezza di tutto ciò gli
era crollata addosso
come un pesante macigno e l’unico atto d’istinto
che gli era sovvenuto in
maniera spontanea era stato quello di scappare.
Scappare
da sé stesso, non da Sherlock. Quella sua
espressione ferita aveva complicato le cose, aveva aggiunto un tassello
al puzzle
intricato denominato a caratteri cubitali col suo nome. John non poteva
che
sentirsi una merda, ricordandolo, ma aveva avuto paura, una fottuta
paura:
terrore di sé stesso, dei suoi pensieri; di quella
incredibile voglia di
infilarglielo davvero, quel suo cazzo vergine in gola. Che
assurdità.
Gli
mancava. Gli mancava con ogni fibra del suo corpo,
ma anche con ogni grammo della sua anima. Gli mancava più di
quel milk-shake
che non si gustava da quasi un anno. La verità era che non
era riuscito a
pensare ad altro, durante quei tre lunghissimi giorni: il suo pene
nella bocca
di Sherlock. Sherlock che succhiava la sua asta. Sherlock che tirava
fuori la
sua lunga lingua e..
E
poi Sherlock entrò nel locale.
Fu
strano. Sherlock Holmes varcò la soglia e
l’attenzione di tutti i presenti fu immediatamente
catalizzata su di lui, quasi
fosse un essere soprannaturale vagante. Beh, in un certo qual modo lo
era, lo
era sempre. Con la sua bellezza oggettiva, con quel suo abbigliamento
perfetto;
poi la camminata, il portamento, la sigaretta in bocca, persino.
Anche
Molly lo guardò, seppur gli desse le spalle. Si
girò e lo osservò attentamente, seguendolo con
gli occhi mentre si sedeva ad un
tavolino poco distante dal loro, subito raggiunto da una giovane
cameriera sui
pattini che congedò con due parole nette.
“Lo
conosci?” gli chiese sua cugina dopo qualche secondo,
cogliendolo sinceramente di sorpresa.
“No.”
fu la sua risposta istantanea. “Perché?”
aggiunse poi, incapace però di concentrare la sua
più completa attenzione su di
lei.
“Ti
sta fissando da quando è entrato, John.” ecco,
forse Molly non era una poi così grande sprovveduta, alla
fine. Un minimo
d’acume le apparteneva.
O
magari era vero. Anzi, lo era, punto e basta:
quegli occhi che apparivano stanchi, ma che lo divoravano palesemente
da non
troppo lontano, seguendo ogni suo minimo movimento ed espressione. Con
quei
suoi capelli stranamente scompigliati e la bocca tirata in una smorfia
apparentemente
stoica, ma in realtà evidentemente nervosa. Lo vide spengere
la sigaretta, ma
subito se ne accese un’altra.
“Forse
è meglio se torni a casa, Molly.” disse a sua
cugina dopo circa cinque miseri minuti, che in realtà gli
parvero un’eternità.
“Io dovrei passare in biblioteca, credo farò
troppo tardi.” inventò sul
momento.
Non
sapeva proprio che altro dire ma Molly, oltre
che essere più sveglia di come l’aveva
ingiustamente giudicata, si comportò
anche in maniera molto discreta ed accettò il frettoloso
congedo senza fare
alcuna domanda. Uscirono dal locale insieme, sempre sotto lo sguardo
quasi
persecutorio di Sherlock, e si salutarono in prossimità
dell’incrocio più
vicino. Sapeva che ciò che si apprestava a fare era
l’ennesimo errore: suo
padre si sarebbe davvero arrabbiato, vedendo Molly tornare a casa da
sola. Ma
non gli importava. Non poteva fare altrimenti.
Si
nascose un poco dietro la macchina di Sherlock,
individuata con scontata facilità nel parcheggio del locale,
e non si stupì
affatto nel vederlo uscire dalla porta dello stesso nel lasso di
neanche un
minuto netto.
“Hei.”
lo chiamò subito, quasi inconsapevolmente.
Sherlock si girò immediatamente, abbagliandolo col suo
sguardo, nonostante
fosse leggermente rabbuiato da due profonde occhiaie.
Il
moro si portò l’ennesima sigaretta alla bocca e
l’accese con un scatto, raggiungendolo a passi calibrati. Gli
arrivò davanti,
osservandolo attentamente, ma non disse una parola.
“Andiamo
a fare un giro, Sherlock.” fu quel che si
decise di dire alla fine. “Però guido
io.”
Non
era affatto sicuro del preoccupante quantitativo
di nicotina presente nel sangue di Sherlock. Quest’ultimo
comunque non
obbiettò, e John prese il suo silenzio per un tacito
sì, porgendogli
immediatamente il suo palmo destro aperto. Sherlock gli ci
appoggiò nel mezzo
le chiavi del veicolo, quindi montarono in macchina e partirono. Senza
meta,
come sempre, ma stavolta con un preciso fine.
***
John
lo stava lasciando, era evidente, e quei tre
giorni appena passati erano stati soltanto il preludio
dell’Inferno che si
apprestava a dover vivere. Tutto, aveva rovinato tutto: scontato, in un
certo
qual modo. Devastante in tutti gli altri ambiti possibili. Ma non se lo
sarebbe
davvero mai potuto immaginare, il vederlo uscire da casa sua con quella
insipida ragazzetta evidentemente di campagna. Tra loro vi era una
certa
freddezza, era pur vero che parevano essersi conosciuti da poco; quindi
cosa ci
faceva nella sua abitazione, constatando questo fatto? Non riusciva
proprio a
spiegarselo.
Poi
l’aveva portata da Finn, e Sherlock sapeva
perfettamente quanto il biondo adorasse quel locale, anche se non vi si
erano
mai recati insieme. Sherlock odiava i milk-shake e quel loro
stucchevole gusto:
in essi riusciva a vedere solo carie ai denti assicurate entro due o
tre anni.
Per John ci sarebbe andato, comunque, se solo glielo avesse chiesto. Ma
John
non chiedeva mai, John non chiedeva
niente.
John
aveva preferito portarci una ragazza,
semplicemente. Era logico, era capibile, in fondo. Forse era meglio
così in
generale, per John Watson e per la sua stessa vita. Sherlock
formulò questo
freddo ed al tempo stesso doloroso pensiero da seduto, irrigidendosi
nel
seggiolino da passeggero della sua macchina, mentre John guidava in
maniera
concentrata e decisa. Gli piaceva sinceramente osservarlo guidare, ma
in quel
momento tale visione fu solamente in grado di ferirlo: non avrebbe
visto ciò
mai più. Mai più.
“Non
è come pensi, Sherlock.” fu così che
l’altro
ruppe il pesante silenzio che si era venuto a creare dopo qualche
kilometro di
viaggio senza meta, non distogliendo lo sguardo dalla strada resa
incredibilmente rossastra dalle forti luci del tramonto.
In
risposta abbassò il finestrino e si accese
l’ennesima cicca.
“Quanto
hai fumato in questi giorni?” fu il monito
istantaneo di John.
Inspirò
avidamente e non rispose, mentre il
paesaggio intorno a loro diveniva sempre più boschivo e
deserto.
“Sherlock,
parlami, dannazione!” sbottò il biondo,
quietandosi subito dopo. Lo sentì respirare profondamente.
“Mi dispiace, ok? La
verità è che ho avuto paura, io non sono come te,
Sherlock. Anche la mia
famiglia non è come la tua, e lo sai.” John
interruppe il suo monologo per
qualche secondo, ed allora gli osservò di sottecchi le mani,
trovandole quasi
tremanti nello stringere convulsamente il volante. “Lei
è mia cugina Molly, ho
parenti a casa da quel pomeriggio, tu poi sei sparito.
Perché non sei più
venuto?”
Sherlock
non rispose. Buttò la sigaretta arrivata solamente
a metà e se ne accese subito un’altra.
“Sherlock,
ascoltami, ho pensato molto, in questi
giorni. Io..”
Ecco.
Il
fatidico momento era arrivato.
“Stai
zitto.” lo chetò ancor prima che potesse
terminare la frase, artigliandosi il ginocchio destro con forza e
bisbigliando
appena. Lo sguardo di John si spostò immediatamente su di
lui, quasi sconvolto,
ma poi lo riportò sapientemente sulla strada.
“Cosa
hai detto?”
“Ho
detto che devi stare zitto, John.” lo disse
alzando il tono della voce. “Non voglio ascoltarti, non
voglio più sentirti.”
ripeté, continuando a non voltarsi verso il biondo.
John
virò all’improvviso, cogliendolo di sorpresa ed
accostandosi in prossimità di una piazzola sul ciglio della
strada. Spense la
macchina velocemente, per poi arpionargli la mano sinistra al mento,
costringendo la sua testa a ruotarsi leggermente.
“Guardami,
per favore. Non hai capito niente,
Sherlock.” sibilò tra i denti, e Sherlock a quel
punto avrebbe voluto chiudere
gli occhi, chiuderli per sempre, perché non lo voleva
proprio più vedere quel
volto che aveva il potere di ferirlo in una maniera così
atroce. Ma non li
chiuse, e John continuò a parlare. “Ho pensato che
archiviare questa cosa tra
me e te sarebbe la via più facile da prendere, è
vero, lo ammetto.”
La
presa sulla sua bazza si intensificò e Sherlock
deglutì inspirando aria dal naso, poiché la sua
bocca era serrata in una
stretta intensa e nervosa.
“Ma
non posso, Sherlock. Non ce la faccio e non ce
la farò mai. Io..” lo vide abbassare lo sguardo
per un attimo, per poi
indirizzarlo di nuovo direttamente dentro i suoi occhi. “Io
ti amo, Sherlock
Holmes. Io ti amo da impazzire.” esalò piano, e
Sherlock sentì distintamente il
suo cuore che perdeva un battito all’istante.
“Ridillo.”
gli disse sussurrando, poiché gli mancava
il fiato sufficiente per parlare a dovere.
“Ti
amo.”
Oh,
che dolce melodia per le sue orecchie.
“Dillo
di nuovo.” ripeté, quasi con voce tremante.
“Ti
amo, ti amo, ti amo, ti a-”
Si
lanciò su John, non permettendogli di continuare
quel rosario d’amore che lui stesso gli aveva richiesto. La
mano sul suo mento
allentò la presa nel medesimo momento in cui la sua bocca
andò a poggiarsi su
quella di John, spingendola ad aprirsi con una punta di lingua urgente
e
frettolosa. Lo baciò come se fosse il loro ultimo bacio,
sfogando in esso tutta
la viva disperazione che aveva provato in quei tre giorni; giorni in
cui si era
chiesto ripetutamente come avesse potuto vivere tutto quel tempo senza
lui e,
soprattutto, come avrebbe fatto a sopravvivere privo John per tutto il
resto
della sua misera vita. Misera, sì, perché senza
John Watson niente avrebbe più
avuto valore: anche la musica aveva perso la sua magia, durante quelle
settantadue ore insonni che si era costretto a passare in camera sua,
fumando e
camminando davanti alla finestra con la speranza di poter scorgere
all’orizzonte quella figura umana più che
conosciuta. Ma ciò non era avvenuto.
“John,
credevo che tu mi volessi lasciare.” gli
confessò direttamente sulla bocca, tenendolo stretto alle
spalle per mezzo di
un abbraccio possessivo. “Credevo.. credevo che lei fosse la
tua nuova
ragazza.” si vergognò un poco di tali parole, ma
la verità era che voleva
essere rassicurato ancora, di nuovo, per
sempre.
Il
terribile groppo in gola che gli aveva fatto
compagnia sin da quando John era scappato dalla sua camera non
l’aveva ancora
abbandonato del tutto e se il biondo non fosse stato tra le sue
braccia, in quel
momento, molto probabilmente si sarebbe acceso un’altra
cicca.
“Sei
uno stupido.” John lo baciò con spavalderia e
Sherlock pensò che non lo aveva mai visto così,
in quella versione talmente
sicura, quasi adulta. Sul momento riconobbe a malapena il ragazzino che
per la
prima volta aveva visto nel parcheggio della scuola, colui che gli
aveva
inizialmente sortito ilarità ed un certo senso di quasi
meschina superiorità;
ormai tutto ciò gli sembrava passato remoto.
La
verità era che John lo aveva completamente
fottuto sin dal principio, e Sherlock se ne era accorto troppo tardi,
quando
ormai non vi era più alcun modo di tornare indietro e
custodire il salvabile.
Non vi era proprio niente, di salvabile.
“Ed
io sono più stupido di te.” aggiunse il biondo
poco dopo, abbozzando un sorriso. Sherlock si distanziò di
qualche centimetro,
quel tanto che bastava per far sì di poterlo guardare negli
occhi.
“Non
ti dirò mai più cose di quel genere, John, te
lo prometto.” glielo voleva dire il prima possibile, quindi
lo esclamò tutto
d’un fiato.
Il
pensiero di aver scatenato tutto quel che era
successo per colpa di quella che ai suoi occhi era stata soltanto una
piccola
provocazione lo aveva assillato quasi fino alla pazzia. Ma se John era
ancora
così frenato ed impaurito, lui si sarebbe sicuramente mosso
di conseguenza, non
vi erano dubbi a riguardo. Non gli faceva schifo, non lo voleva
abbandonare per
una scialba ragazzina di campagna; John lo amava, Dio, lo
amava. Davvero, bastava questo a renderlo assurdamente
felice e
contento.
“Che
intendi?” gli chiese di rimando, sbattendo le
palpebre più volte con un’espressione un po'
attonita. Per poco non gli scappò
da ridere, osservandolo faccia a faccia da pochi millimetri di
distanza, ma la
tensione era ancora troppo forte e l’unico suono che gli
uscì dalla bocca fu
uno schiarirsi di gola leggermente soffocato.
“Quelle
frasi sul volertelo prendere in bocca, è
ovvio, no?” spiegò, non riuscendo a trattenere il
suo tipico tono saccente
d’accompagnamento. Certi atteggiamenti si manifestavano in
maniera naturale,
volente o nolente. Comunque vide John arrossire vistosamente
all’istante,
mordendosi la guancia destra dall’interno. Sherlock si
sorprese alquanto ed
avvertì l’accelerazione dei battiti del suo stesso
cuore davanti alla visione
di tale inaspettata reazione.
“Non
voglio che tu mi prometta una cosa così,
Sherlock.” lo sentì dire, guardandogli le labbra
mentre scandiva la frase con
un filo di voce. Non potette credere ai suoi orecchi, quindi
spostò lo sguardo
agli occhi, trovandosi davanti due pozzi di pupille dilatate e liquide.
Si
eccitò nel pensare che tutte quelle reazioni
fisiche erano state provocate dalla sua tiepida sillabazione, composta
da poche
e misere parole che per lui erano niente, ma che per John evidentemente
rappresentavano molto altro. Ecco, a quel punto di fronte a lui rivide
il suo
piccolo e dolce Johnny, e si meravigliò ancora della
quantità di sfaccettature
che sfumavano e rendevano incredibile la personalità di John
Watson. Quasi un
enigma vivente, per Sherlock.
“Perché?”
gli chiese quindi in maniera volutamente
candida, continuando a fissarlo ma facendo scivolare le mani lungo
tutta la sua
schiena.
“Perché
vorrei che tu lo facessi.”
Così
lo prese in contropiede, sul momento. Non se lo
aspettava affatto, ma un sorriso di malizia gli nacque sul viso, senza
poterlo
evitare in alcun modo.
“Cosa,
John?”
John
distolse lo sguardo, ma poi lo riguardò con
fermezza, mentre le sue mani premute sullo sterno gli sudavano
direttamente
sulla pelle. Non disse niente.
“Voglio
ed ho bisogno di sentirtelo dire, John.” gli
disse con assoluta onestà, poiché glielo doveva,
punto e basta. John dilatò le
narici del naso respirando profondamente e gli occhiali gli scivolarono
leggermente sul setto.
“Voglio
che me lo lecchi, Sherlock.” mormorò alla
fine e Dio, Sherlock non aspettava altro, ma si trattenne ancora.
“Quando?”
“Adesso,
ora.” il suo pomo d’adamo si mosse
vistosamente. “Immediatamente.”
John
Watson era sicuramente munito della voce più
bella che avesse mai avuto il piacere di poter udire. Quella precisa
nota di
desiderio e di sicurezza che ascoltò in quel momento lo
deliziò e gli fece
venire i brividi sulle braccia.
L’abitacolo
della macchina era ormai invaso dal
buio; chissà che ore erano. In realtà non gli
importava perché a casa non aveva
nessuno ad attenderlo, la sua casa era
John. Questo pensiero fu in grado di fargli contrarre lo
stomaco ed il
desiderio venne oscurato dall’amore; un sentimento
così intenso, così
totalizzante da farlo quasi commuovere, e tutto ciò era
strano: non era
riuscito a piangere in quei giorni in cui pensava d’averlo
perso per sempre, ed
in quel momento sentiva di essere in procinto di belare dalla gioia di
averlo
di nuovo. Era una sensazione incredibile, ma allo stesso tempo
terrificante;
era come se fosse morto e rinato nel giro di poche ore. Era morto,
sì, e poi
grazie a John era rinato.
“Well, John, if you leave me
I’ll be so lonely
I’ll be so lonely, I could
die.”
Non
cantò, non parlò. Fu solo un lontano pensiero,
quasi un déjà-vu che percorse la sua mente con
velocità estrema,
accompagnandolo nel suo chinarsi sul bacino di John. A quel punto,
chiuse gli
occhi.
Chiuse
gli occhi, inibì il vorticare continuo della
sua mente e non pensò più a niente.
John
era lì. John lo amava. John voleva che glielo
prendesse in bocca.
Beh,
tutto ciò gli bastava, davvero.
Tutto
ciò, a Sherlock Holmes, sarebbe potuto bastare per sempre.
THE
END
Note:
Salve,
eccomi tornata con questa creatura narrativa
come mio solito molto particolare. Doveva essere una Greaserlock a
tutti gli
effetti, con dinamiche scolastiche, con un intreccio di situazioni
più ampio, ma
alla fine non so cosa sia successo dentro la mia mente. Fatto sta che
questo è
il risultato, e credo di esserne comunque soddisfatta:
l’ambientazione è quasi
del tutto assente, ma mi sono documentata sia sulla macchina di
Sherlock, che
sulla canzone di Presley (è contenuta in un LP del
’56, insieme alle altre due
citate). Il film l’ho scelto perché
c’è Bach nella colonna sonora e perché
credo
che potrebbe essere davvero una pellicola capace di attrarre i gusti
del nostro
detective, ma è del ‘49. :) Mi è
piaciuto molto scrivere di loro due in questa
maniera, anche se di solito non vengo attratta dalle ff adolescenziali,
ma
questa direi che è difficile catalogarla del tutto in quel
senso. Ovviamente mi
stava andando sul porno, ultimamente non riesco a far altro, ma mi son
voluta
limitare. Anche l’incursione di Molly in veste di cugina del
Sud non me la so
spiegare, ma si vede che doveva andare così. Comunque avrei
potuto continuarla,
in realtà, perché questo universo mi ispira. Ho
anche altre idee, quindi fatemi
sapere se vi potrebbe piacere un seguito, potrebbe darmi quella spinta
in più
che mi serve. :)
Che
altro dire? Nonostante l’ambientazione non credo
di essere andata OOC, ditemi un po’ le vostre opinioni, che
in ogni caso mi
fanno davvero un gran piacere. Spero che sia stata una lettura gradita!
A
presto,
AintAfraidToDie