New
York City.
Fu
da lì, che iniziò tutto.
La
culla del nuovo male, il ventre che aveva nutrito per anni il seme
della malvagità, che aveva atteso nell'ombra, covando odio
fino al
momento della vendetta.
E
nella ricerca di essa, ogni cosa attorno venne trascinata
giù e
spazzata via.
Era
stata tutta colpa loro.
Avevano
fallito, miseramente, e quella sconfitta aveva scatenato una reazione
a catena, conseguenze catastrofiche che non si erano immaginati, non
avrebbero mai potuto immaginare.
Erano
due mesi che ogni istante se lo ripetevano, cercavano di espiare
quella colpa, ma in cuor loro speravano fosse solo un incubo... come
potevano le cose essere cambiate così drasticamente, e
orribilmente,
in soli due mesi?
La
porta del razzo si chiuse davanti al loro muso, subito dopo che Karai
vi era passata, tenendo tra le braccia l'Utrom Ch'rell, meglio
conosciuto come Shredder.
L'aria
si fece elettrica e una scarica di adrenalina e paura li pervase.
Donatello
tirò prontamente fuori dal suo borsone il piccolo palmare
dove la
memoria del dottor Honeycutt risiedeva e inserì uno spinotto
nella
presa della porta.
“Ci
penso io” esclamò la voce metallica del dottore,
mentre scritte
cominciavano ad apparire in veloce successione sullo schermo.
Il
rumore degli scontri alle loro spalle, tra gli uomini di Shredder e i
soldati di Bishop continuavano a riecheggiare. Tra gli spari si
udì
la voce di Bishop risuonare.
“Buttate
giù quel razzo! Non deve partire!”
I
suoi elicotteri accolsero il suo ordine con celerità e
spararono
contemporaneamente quattro missili contro l'imponente nave spaziale
che si ergeva dal soffitto aperto del palazzo di Oroku Saki.
“Arrivano!”
urlò Michelangelo, puntando il dito verso il cielo.
Donatello
stava staccando il palmare, con un sorriso soddisfatto.
“Bravissimo,
Professore” mormorò, prima di udire il grido del
fratello e
accorgersi della minaccia.
I
missili si schiantarono contro il ponte di collegamento tra la
piattaforma e il razzo, mandando tutti all'aria.
I
detriti volarono in tutte le direzioni e le esplosioni bruciarono
l'aria.
Leonardo, Raphael, Michelangelo e Splinter atterrarono incolumi sulla piattaforma, un po' intontiti, mentre Donatello, che si era gettato verso la direzione più vicina, penzolava precariamente dalla porta aperta del razzo.
Quello
iniziò a sussultare, mentre la fiamma propulsiva si
accendeva alla
sua base. Lentamente, si mosse verso l'alto.
“Ragazzi!”
strillò preoccupato Donatello, cercando di non lasciare
andare la
presa.
Gli
altri osservavano sconvolti la partenza, in bilico sul bordo.
“Dobbiamo
saltare!” gridò Leonardo.
Presero
tutti una rincorsa all'indietro e si tuffarono spericolatamente nel
vuoto.
Splinter
si aggrappò alle gambe di Donatello e i suoi figli fecero lo
stesso
con le sue formando una catena mutante.
Il
razzo stava prendendo sempre più velocità,
scagliato verso il
cielo.
Leonardo
si diede una spinta per scalare i suoi fratelli, ma il dondolio
prodotto gravava tutto su Donatello, sulle mani che perdevano la
presa.
“Fate
pres-”
Le
dita sudate scivolarono, le mani mulinarono nel vuoto cercando
nuovamente l'appiglio, ma ormai era tardi: caddero nel vuoto, con un
grido che venne inghiottito dal boato del motore del razzo. Ancora
pochi secondi e sarebbero morti tutti, arrostiti dalle fiamme.
Qualcosa
si avvolse fermamente al polso di Donatello e frenò la loro
caduta,
bruscamente.
Leatherhead,
tornato dalla sua lotta contro Hun, tirò la corda che aveva
usato
per agganciarli e li portò al sicuro, prima che le fiamme
della
navicella inondassero tutto l'ambiente.
Scapparono
più veloce che poterono, sconfitti e con l'amara
consapevolezza che
Shredder sarebbe riuscito ad arrivare al pianeta degli Utrom e
avrebbe così ottenuto la sua vendetta.
Si
ricongiunsero ad April e Casey che li attendevano all'uscita del
palazzo, con un'espressione di delusione nei volti da far male.
Sollevarono tutti il viso al cielo, dove il razzo brillava come una
stella, allontanandosi sempre più.
Almeno,
sperarono, forse quella sarebbe stata l'ultima volta che avrebbero
visto Shredder.
Ma le speranze, si sa, sono sempre vane.
Erano
passati quattro mesi, dal
loro fallimento, e Shredder era tornato, anche troppo in fretta: dopo
aver facilmente conquistato il pianeta Utrom, era tornato sulla terra
con la loro immensa tecnologia, con robot giganti ai suoi comandi,
con piani di conquista spropositati; contrastarlo era stato impossibile.
Si era preso New York City, in
una sola notte.
Senza che loro potessero fare
niente, senza che nemmeno la polizia o l'esercito potesse fare
niente.
Da due mesi provavano e
riprovavano a combattere per riprendersela e sconfiggere Shredder, ma
invano: era troppo potente e loro solo quattro mutanti.
Mai come in quel momento si
erano sentiti inutili e soli.
Gli umani
si erano arresi quasi
subito e obbedivano ciecamente ad ogni ordine di Shredder, qualsiasi
ordine: i pochi che non lo avevano fatto erano spariti nel nulla,
senza molto clamore. E ancora, a volte, alcuni continuavano a
sparire.
C'era tanta paura, la città non
era mai stata così cupa e silenziosa.
E sapevano che non gli sarebbe
bastato, che stava progettando di conquistare lo stato e poi tutta
l'America e alla fine si sarebbe preso il mondo. Perciò
sentivano la
pressione pesare tutte sulle loro giovani e provate spalle,
perché
chi, se non loro, conosceva e aveva combattuto contro Shredder
così
tanto e così a lungo da avere una minima chance di vincere?
Donatello
quella pressione la
sentiva tutta, la sentiva costantemente.
Dover rappezzare i suoi fratelli
feriti ogni volta che tornavano sconfitti era straziante, percepire
il loro umore cadere sempre più in basso senza poter fare
niente era
doloroso.
Aveva pensato a lungo, tanto da
non dormire o riposare, a cosa potessero mai fare: in passato avevano
battuto sempre Shredder, alla fine.
Sconfitto i suoi uomini,
sconfitto le sue convinzioni, la sua cieca follia, perciò
cosa c'era
di diverso, quella volta?
Senza i suoi robot e la
tecnologia degli Utrom lo avrebbero battuto facilmente.
Era quello
il loro maggiore
ostacolo ed era quello il punto da eliminare se volevano vincere, e
solo lui, Don, poteva fare qualcosa a riguardo: erano settimane che
ci rimuginava.
Erano settimane che ci lavorava.
In silenzio, per non alimentare
false speranze, nel laboratorio, aveva pensato ad un'invenzione che
potesse aiutarli contro gli enormi robot che pattugliavano e
terrorizzavano la città; ma era complesso ed era difficile.
Non sapeva esattamente come
funzionassero, quindi era anche un azzardo.
Ma era tutto ciò che avevano.
Si deterse
il sudore dalla
fronte, fermandosi per la prima volta da ore, forse da giorni,
osservando con stanchezza e occhio critico la sua invenzione composta
di pezzi raccattati e parti di altri progetti sacrificati per
l'emergenza: mancava ancora qualcosa, qualcosa di importante. Ma
ormai non c'era nient'altro che potesse smontare.
Sospirò, sfregandosi forte gli
occhi, pensando in fretta: era ad un passo, un piccolo passetto,
c'era quasi. Gli rimaneva solo una cosa da fare.
Doveva uscire e sfidare la sorte
e cercare il pezzo che gli serviva nella discarica.
Il rifugio
era deserto, come
sempre erano tutti fuori a pattugliare e scivolò fuori
indisturbato,
il sensei probabilmente era nella sua stanza a meditare.
La superficie era silenziosa,
era perfino terribile tutto quel silenzio.
Non una voce, non un rumore,
neppure un piccolissimo movimento.
Si accucciò nelle ombre,
slittando nel buio senza fare rumore, cauto. Le strade tremavano
sotto i passi dei robot che perlustravano implacabili e alteri, alti
almeno tre metri, dalle fattezze di Karai e gelidi quasi quanto il
suo cuore.
Non
incontrò nessuno e riuscì
fortunatamente ad evitare di essere scorto a sua volta; entrare nella
discarica fu un po' più difficile, dato che era sorvegliato
su ogni
lato e ad ogni angolo, circondato da un'alta recinzione
elettrificata. Rimase nascosto per molto tempo, cercando il momento
giusto, poi con uno scatto puntellò il bastone nel fango,
scavalcando facilmente come un atleta di salto in alto.
Stando bene attento a non
attirare l'attenzione, iniziò a cercare nei cumuli di
spazzatura,
prediligendo la catasta di elettrodomestici e materiali tecnologici,
gettati alla rinfusa uno sull'altro; dovette faticare molto per
scavare e spostare e scalare, senza farsi vedere, né fare
rumore.
Verificava ogni pezzo che gli
sembrava interessante, lo smontava in fretta col suo fidato
cacciavite e controllava se potesse avere o meno l'elemento che gli
serviva o uno anche simile che avesse potuto adattare per lo scopo.
Ci vollero
tre ore, ma alla fine
trovò qualcosa che poteva andare bene, era un po'
più grande e
ingombrante, ma sarebbe andato bene e avrebbe finalmente finito la
sua invenzione; lo tirò fuori cautamente, poggiando la
carcassa che
lo aveva contenuto sulla pila al suo fianco.
Con una reazione a catena,
detriti su detriti iniziarono a collassare uno sull'altro, in una
valanga metallica inarrestabile: il fragore rimbombò
assordante,
ancora e ancora, propagandosi con un'eco.
Prima ancora che le vibrazioni
del metallo si fermassero, una sirena d'allarme esplose e l'intero
perimetro si illuminò a giorno: il rombo della terra sotto i
suoi
piedi anticipò l'arrivo dei robot guardiani.
Donatello
aveva poco tempo e
poche scelte: doveva scappare immediatamente e doveva portare via il
pezzo con sé. L'ingombrante, limitante pezzo.
Lo stringeva con entrambe le
braccia al petto, come un figlio primogenito.
Era un pezzo importante, era il
cuore, il nucleo, non poteva lasciarlo lì.
Caracollò via con difficoltà,
entrambe le mani impegnate e si diresse in fretta verso la
recinzione, cercando un modo di scavalcarla: dietro di sé, i
robot
erano sempre più vicini. Salì su una catasta di
rifiuti lì vicino
e con una piccola rincorsa si tuffò più in alto e
più in lungo che
poté, cadendo rovinosamente dall'altra parte sulle ginocchia.
Il tempo di
imprecare tra i
denti ed era di nuovo in piedi, un po' malandato, e di nuovo in
marcia per allontanarsi da lì più in fretta
possibile; ma i robot
erano dietro di lui, più veloci di quanto sperasse; in pochi
passi
lo raggiunsero, costringendolo a cambiare piani: non poteva entrare
in un tombino col rischio di essere scoperto e di far scoprire la sua
famiglia, poteva solo correre.
Ma per quanto scappasse, ben
presto si trovò accerchiato, altri robot risposero
all'allarme e
arrivarono da ogni parte, bloccando ogni sua via di fuga.
L'unica strada rimastagli era la
lotta, se non avesse già saputo che sarebbe stata impari e
sicuramente mortale; prima ancora che potesse afferrare il suo Bō,
comunque, era già finita: il robot più vicino
mosse rapidamente una
delle sue spade, dirigendola contro di lui.
La Katana lo trapassò da parte a parte, come fosse niente più che un foglio di carta.
L'aria
lasciò i polmoni con un
rantolo straziato, e il dolore era insostenibile, bruciante, ma si
attaccò alla vita disperatamente, non era quello il momento
di
cedere e morire, non ancora.
Il robot estrasse l'arma, e
Donatello urlò, mentre il sangue cadeva a terra
copiosamente. Senza
attendere un secondo, strinse i denti e lanciò una bomba
fumogena,
sapeva che non li avrebbe fermati, ma forse gli avrebbe concesso un
po' di tempo, per distanziarli. Scappò, non sapeva nemmeno
dove
stesse andando, ma di sicuro lontano, lontano dal rifugio, lontano da
tutto ciò che gli era caro.
Ogni passo e ogni respiro era
sempre più difficoltoso, ma non si arrese,
continuò a correre per
disorientarli, senza pensare davvero ad un dopo, perché
sapeva che
non ci sarebbe stato, un dopo.
Non per lui, ormai.
Quando
capì di essere ormai al
limite e abbastanza lontano, cercò un posto dove
nascondersi: i suoi
occhi catturarono il parco abbandonato poco distante, spettrale nella
notte.
Pregò che non lo vedessero,
lui, il razionale Donatello.
Arrivato nello spoglio parco di
periferia, piccolo e mal messo, le ginocchia stanche cedettero e lo
trascinarono giù, in una pozza di fango gelida e vischiosa,
tanto
quanto il suo sangue. Cadde a terra, il respiro sempre più
corto, il
corpo sempre più insensibile.
Trattenne il fiato e il dolore,
mentre percepiva i robot cercarlo, pregando ancora che non lo
trovassero, che se ne andassero.
Rantolò
nel fango, immobile, ma i battiti del suo cuore non si placarono.
Nemmeno
quando sentì i pesanti passi dei robot che si allontanavano.
Rimase
solo, solo col dolore e la morte a soffiargli sul collo.
Ogni
respiro era ormai inutile e sofferto e gli sembrava di non riuscire
più a sentire una gamba; era troppo fredda per percepire
qualcosa e
quel freddo saliva velocemente verso il cuore, e Donatello sapeva,
con tutta la sua intelligenza, che non poteva fermarlo.
Puntò
un piede nella melma e faticosamente, e mordendo un labbro per non
urlare, si voltò un poco, guardando la volta celeste sopra
di sé.
Stringendo a sé il componente metallico, unico suo amico,
solo amico
nella fine, vagò con gli occhi sofferenti sulle stelle.
Perché
doveva finire tutto in quel modo?
Se
avesse avuto il tempo, l'occasione, per finire il suo progetto,
avrebbero potuto battere Shredder, avrebbero potuto salvare New York,
salvare il mondo.
Invece,
sarebbe morto senza che nessuno lo sapesse, sarebbe morto portandosi
dietro il segreto di quell'invenzione e niente sarebbe cambiato.
Perché
era stato egoista e stupido, a non condividere la sua idea con gli
altri; era stato stupido a chiudersi nel suo laboratorio giorno e
notte, a chiudere gli altri fuori, a non stare più tempo con
loro.
Lo
avrebbero dato per disperso o avrebbero pensato che fosse scappato
dalla paura?
Avrebbero
mai saputo cosa gli era veramente accaduto?
Leonardo,
il pilastro solido del loro gruppo?
O
Raphael, la rabbia che non conosceva controllo, così
liberatoria e
sincera?
O
il piccolo Mikey, la molla che li spingeva a crederci sempre?
E
il sensei... cosa avrebbe pensato, suo padre, della sua sparizione?
Ne sarebbe stato dispiaciuto, si sarebbe sentito affranto?
Un
singulto spezzò il suo respiro e un urlo di paura e dolore
lasciò
le sue labbra, echeggiando nella notte solitaria. Gridò
finché
aveva voce, gridò fino a svuotare i polmoni,
perché c'era ancora, e
lui si sarebbe fatto sentire fino all'ultimo istante.
Poi,
il silenzio, spaventoso, lo circondò.
Il
respiro affannoso divenne sempre più breve, sempre
più calmo.
Una
lacrima si staccò dai suoi occhi lucidi e scivolò
lungo la guancia,
andando a schiantarsi nel fango. Le mani abbracciarono con uno spasmo
il macchinario che stringeva a sé poi, mollemente, caddero
al suolo.
Ultimo
respiro, ultima lacrima, ultimo pensiero.
E
poi, più nulla.
Le
stelle immobili si rifletterono nei suoi occhi spenti e la notte e il
fango inghiottirono il suo corpo ormai vuoto.
Donatello Hamato, la nostra ultima speranza, era morto.
Note:
Salve.
Ho deciso di pubblicare questa
storia, e un'altra, anche se sono ancora impegnata con la serie
Heart's Mutation. Perché sono nella mia testa da troppo
tempo e
vogliono uscire fuori e now or never è diventato il mio
nuovo motto.
Ripeto: non hanno nulla a che
fare con la serie heart's mutation.
Questa
storia è nata
dall'episodio “Same As It Never Was” (SAINW) della
serie 2003,
uno degli episodi più tristi e cupi che io abbia mai visto
in un
cartone animato e che credo che chiunque in questo fandom debba
conoscere.
Ci viene mostrato un futuro
alternativo in cui Donnie è scomparso da trent'anni, ma non
ci viene
detto che fine abbia fatto e io voglio colmare quella lacuna e anche
altre, a modo mio, come io ho pensato possa essere andata.
È molto angst, è molto crudo,
sarà una storia di dolore.
L'episodio in corsetto, che ho scelto come momento cardine per sviluppare questo futuro alternativo è “Exodus part 1” della stagione 3, ma qui Donatello perde la presa e perciò loro non salgono sul razzo e non fermano Shredder, che conquista quindi il pianeta Utrom e torna poi sulla terra, prendendo sempre più potere.
L'inizio di quell'incubo che è SAINW.