Vi riporto, qui seguendo, i fatti che mi sono stati chiesti
di trascrivere senza riassunti né interpretazioni poiché giudicati d’importanza
elevata da elementi la cui posizione e autorità è ben maggiore rispetto alla
mia. Mi prendo però la libertà di aggiungere una piccola nota per coloro che
leggeranno queste mie parole –parole sulle quali probabilmente trascorrerò gran
parte di ciò che mi resta da vivere-: tenterò di dimostrarmi il più imparziale
possibile sulle vicende che seguono sebbene ne abbia fatto parte e, dunque,
abbia preso uno schieramento e dato un colore al mio vessillo, almeno per un
certo periodo. Non posso dunque assicurarvi di essere capace di eliminare ogni mia
opinione sull’uno o sull’altro protagonista, sebbene tenterò quest’ardua impresa.
Ci tengo inoltre a dire che, sebbene l’ordine di scrittura di questo testo mi
sia giunto dall’alto, ho deciso di tenerne per me una copia, copia che alla mia
morte sarà resa pubblica se le condizioni da me poste non verranno rispettate:
non sto scrivendo di questi eventi per diletto, ma nemmeno per puro e mero
obbligo. Ritengo infatti che gli uomini di tutto il mondo abbiano il diritto di
conoscere queste vicende poiché parti integranti della loro storia, ma non è
questa l’unica ragione. Vorrei che qualcuno, leggendo queste parole, capisse
gli sbagli che tutti noi –e non mi escludo da questo insieme poiché sono
colpevole come tutti gli altri- abbiamo fatto e i disastri che abbiamo causato.
Mi piace credere che forse tutto questo servirà a qualcosa e che nessuno farà
più i nostri errori. Probabilmente m’illudo: noi umani siamo alla fin fine
naturalmente portati alla distruzione e amiamo ripetere gli sbagli passati per
perpetrare l’una o l’altra causa, ma pensare di poter fare qualcosa di buono,
anche dopo e nonostante il male che ho fatto mi farà chiudere gli occhi un poco
più serenamente. Dunque, per tornare al punto iniziale e dare senso a tutto
questo discorso, provvederò di persona a rendere pubblico tutto questo, in un
modo o nell’altro, se coloro che sono più in alto non lo faranno, come invece
abbiamo pattuito.
Come ultima cosa oserei chiedere a tutti voi che state leggendo di non cercare
di capire come abbia ottenuto le informazioni tanto dettagliate –compresi
pensieri e sentimenti di ognuno dei personaggi- che sto per riportarvi poiché,
almeno questo, è un segreto riservato a pochi e che spero venga perduto alla
morte di questi: non è cosa che debba essere ricordata.
***
L’uomo davanti a lei sputa e un grosso grumo di saliva mista
a sangue sporca il pavimento di legno ammuffito prima di venir assorbito: un
attimo dopo al posto di questo resta solo un alone un poco più scuro del legno
stesso. Sparito nel nulla, consumato e risucchiato da qualcosa di più grande.
C’è qualcosa di poetico e filosofico in quella banalità, almeno ai suoi occhi,
probabilmente chiunque altro sarebbe solo schifato dalla puzza del legno
marcio, non che lei non lo sia. Per un momento si sofferma a pensare a quanti
microbi e batteri si nascondono in ogni singola particella di quel luogo e le
viene da rabbrividire, la pelle coperta dagli spessi strati di stoffa che
inizia a pizzicare.
Scruta intorno a sé con gli occhi da demone che si è ritrovata alla nascita e
valuta l’idea di andarsene. Che ci fa lei, lì, lontano dalla sua città, dalla
sua base, dal suo capo, dal suo territorio? Un carico di armi, sì, un giro di
droga migliore, certo, tutti argomenti validi, ma non sufficienti.
Tutto quello, l’improvviso trasferimento, gli ordini contradditori e confusi,
la riunione montata per caso, quella casa di periferia degna dei peggiori film
di terza categoria, il berciare sconnesso e ripetitivo dell’omuncolo che ha
stabilito di essere il suo nuovo capo –quando, caro lettore, il massimo che
avrebbe mai potuto dirigere sarebbe stata una fabbrica di surgelati- tutto
quello la sta irritando. E Beatrice Pazzi odiava essere irritata, le provocava
sempre una fastidiosa sensazione d’insoddisfazione, una sorta di prurito lì
sotto le bende e la carne bruciata.
Beatrice non s’irritava quasi mai, questa era la verità: amava essere calma
tanto quanto amava il profumo dei chicchi di caffè appena tostati. Era una
ragazza semplice, lei, amava crogiolarsi nei piccoli piaceri della vita: la
morbidezza di un asciugamano nuovo, la comodità di un letto a una piazza e
mezza, l’odore di pulito di lenzuola e vestiti appena lavati, il sole che
filtra dalle tapparelle come una lama e le accarezza il viso con la sua leggera
e tiepida carezza, l’acqua gelida che le ruscella sulla pelle e le pizzica ogni
nervo del corpo, che la fa sentire un semplice pezzo di carne come tutti gli
altri.
Quelle erano cose che Beatrice apprezzava, si accontentava di poco, non aveva
mai preteso una casa più grande né una carica importante, ma quando loft e
promozione erano arrivati aveva ringraziato come le si confaceva sebbene quei
doni non le avessero donato alcuna soddisfazione a livello personale.
Aveva anche brindato, quella sera, si era abbassata la maschera e aveva bevuto
un sorso d’aspro vino rosso e corposo, chiudendo gli occhi ricordando il
passato e immaginando di star bevendo il sangue dei suoi nemici.
E dunque le era inevitabile domandarsi se, per caso, avesse fatto qualcosa di
sbagliato. Le sembra praticamente impossibile, in verità: lei è impeccabile
–non che la ritenesse una lode o un vanto, era un semplice dato di fatto, per
lei come per gli altri-, ma come molti è fatta anch’ella di carne, ossa e sangue
e dunque forse qualcosa le era sfuggito –e Beatrice non negava
quest’opportunità remota poiché aveva imparato a non escludere nulla-. Ma
perché sbatterla lì come se fosse tornata ad essere feccia e non punirla in qualche
altro modo? Il boss aveva sempre saputo quanto certe situazioni la
infastidissero.
L’uomo è grasso, grassa è la faccia, grasso il collo, grasse
le dita, le mani ed i polsi, grasso è il ventre e grasse sono gambe, polpacci e
piedi. E grassa e gonfia è la lingua che da ore s’agita prendendo aria,
sprecando ossigeno e il prezioso tempo di tutti i presenti.
Un uomo di cui Beatrice ha già scordato il nome, più giovane del grasso ma di
certo più anziano di lei e il terzo in una stanza di cinque persone, scoppia a
ridere scuotendo la testa, le braccia incrociate al petto. Vari tatuaggi gli
ricoprono le dita e la ragazza dai capelli castani si domanda se siano quelli a
fornirgli quell’insulsa spavalderia tipica di chi crede d’esser immortale.
«Ti sei rivelato ridicolo esattamente come c’era da aspettarsi, ma guardati, ti
eri preparato tutto il discorso, vero? Magari te lo eri anche provato davanti
allo specchio.»
Un ragazzo parecchio giovane –non era mai stata brava con i nomi-, ha stampato
in faccia un ghigno impertinente e le mani nelle tasche. Beatrice ha capito di
averne davanti uno nuovo quando ha notato un rigonfiamento nella giacca: una pistola
infilata in una fondina, probabilmente entrambe nuove di zecca e comprate
apposta per quella magica serata.
Probabilmente sarà lui a sparare il colpo, le sembra il più adatto tra i tre suoi
“colleghi” –tali li vedete qui definiti, poiché non trovo altre parole, ma sappiate
che a Beatrice quel termine non aggradava-.
Il grasso guarda confuso il tatuato, le sopracciglia aggrottate. Poi realizza e
il rosso cangiante che fino a poco prima gli ha colorato le gote svanisce per
lasciare spazio ad un grigio cinereo.
In Beatrice, unendosi all’irritazione, sopraggiunge la noia: la farsa è finita,
ed era già durata fin troppo, ma qualcosa dentro di lei le dice che quella
situazione durerà ancora per un po’ e che, di conseguenza, dovrà aspettare
ancora almeno un paio d’ore prima di rientrare nell’appartamento che le hanno
assegnato e farsi una doccia fredda.
La mente inizia a vagare mentre s’appoggia a una delle mura cigolanti della
casa di legno. Una casa delle bambole, quella, o almeno, tale le era sembrata
quando v’era sgusciata dentro con il favore delle tenebre. Una casa delle
bambole vecchia e cadente, un tempo il giocattolo preferito d’una bambina
viziata, piccolo pargolo di una tra le più ricche ed importanti famiglia della
città. Una casa delle bambole finemente intagliata e che era stata protagonista
delle più grandi storie d’amore tra bambole che il Cielo avesse mai avuto
l’onore d’ammirare. Una casa delle bambole che aveva visto la piccola bambina
crescere e che era stata abbandonata al suo destino come lo erano tutti i
giocattoli ad un certo punto.
A Beatrice, per un momento, torna in mente la casa per le bambole di legno
d’acero che aveva avuto lei, da bambina. Era stata bella, bellissima, con tutti
i mobiletti intagliati in legno più e meno scuro e le stoffe, tovaglie, tende e
lenzuola, ricamate dalla sua tata. E Beatrice, sebbene paia impossibile poiché
tutto quello lo ha perso quando aveva appena sette anni, ricorda con spaventosa
chiarezza le belle bambole di porcellana dal viso bianco ed immacolato con cui
giocava. Le ricorda tutte e trentasette, tutti i loro abiti, i loro nomi, il
colore delle loro pupille. Le ricorda mentre le pettina e le fa sedere intorno
al tavolo insieme a lei per prendere il tè. Ne ricorda i vestiti di pizzo
ricamati, gli occhi fissi e sgranati che l’avevano sempre un po’ inquietata. Ne
ricorda i bei capelli a boccoli che avevano preso fuoco, quel giorno.
Un urlo strozzato la distrae e le palpebre sbattono una singola
volta sugli occhi bicromatici così da mettere a fuoco la stanza e la grottesca
scenetta che vi si sta svolgendo: il ragazzino ha estratto la pistola che ora
tiene protesa davanti a sé, puntata contro l’uomo grasso. Il tatuato persiste
nella sua posizione a braccia incrociate esattamente come nell’espressione
strafottente che ha stampata in volto. Beatrice ha sempre detestato chi trae
piacere da quelle situazioni: uccidere non avrebbe mai dovuto essere un
piacere, le persone dovevano essere uccise per i crimini ed i peccati che
avevano commesso, non per la propria sadica sete di potere o vendetta.
L’ultimo individuo nella stanza pare pensarla all’incirca come lei, o più
probabilmente è semplicemente disinteressato alla sorte di quell’uomo e,
esattamente come lei, si è ritrovato lì per pura scena, senza nemmeno un
compito abbozzato come quello toccato in sorte a Beatrice.
L’uomo grasso indietreggia strascicando i piedi a terra e con le mani in alto,
sempre più pallido ogni secondo che passa. Biascica qualche parola
incomprensibile e si guarda intorno alla ricerca della porta o di una qualunque
altra via di fuga.
A Beatrice il tanfo di legno marcio e piscio inizia a dare la nausea e, dopo
poco, un fastidioso mal di testa inizia a torturarla facendole pulsare le
tempie. Probabilmente è i pressante desiderio di allontanarsi al più presto da
quel posto che spinge Beatrice ad aprire bocca.
«Muovetevi, non ci tengo a sprecare altro tempo.»
La voce risuona metallica e raschiante, un poco ovattata a causa della
maschera, ma basta per attirarsi addosso gli sguardi dei quattro uomini nella
stanza.
Terrore, timore, irritazione, curiosità.
Quattro espressioni per altrettanti uomini. Vede un lampo di curiosità negli
occhi del silenzioso, uno d’astio in quelli del tatuato, l’incertezza in quelli
del ragazzino e la muta disperazione illumina lo sguardo dell’uomo grassottello
che, seppur solo con lo sguardo, la prega di salvarlo, come se lei fosse
realmente una speranza.
«Non sono qui per vedere un bamboccio che si diletta ad usare una pistola come
se fosse un giocattolo.»
«Tu qui non hai diritto di parola.»
Quella parole la gelano il sangue nelle vene e le parole in gola.
«Come, scusa? Non credo di aver capito bene.»
Il ghigno beffardo del tatuato si allarga ancora di più alla replica della
ragazza.
«Ho detto che non hai alcun diritto di parola: il comando per questo giro lo
hanno assegnato a me, tu devi solo far rapporto, sta al tuo posto, cagnetta.»
Il giovane, che è esattamente in mezzo a loro e tiene ancora puntata la
pistola, è visibilmente sbiancato fino a raggiungere la medesima tonalità
dell’uomo grasso.
«Come, scusa? Non credo di aver capito bene.» ripete le medesime parole facendo
un passo in avanti. Per un attimo, quando si muove, pare che il tatuato voglia
arretrare, c’è qualcosa nel suo sguardo che lo suggerisce –Beatrice era sempre
stata incredibilmente brava a capire cosa passasse per la mente delle persone,
sapere come queste avrebbero agito era parte fondamentale del suo lavoro-, alla
fine però continua a restare immobile, le gambe leggermente divaricate e le
braccia incrociate al petto. Dalle labbra gli sfugge quella che dovrebbe esser
una risata strozzata, ma che assomiglia molto di più a un grugnito.
«Oltre ad essere menomata sei pure scema? Sei solo il fottuto cane da riporto
del quartier generale, chiudi la bocca e aspetta fino a quanto non ti dirò di
andartene.»
Beatrice tiene gli occhi spaiati –uno color nocciola, l’altro di un grigio
talmente chiaro da apparire violetto alla tenue luce della luna- puntati su di
lui. Quella è l’unica parte di se stessa che mostra al mondo sebbene,
soprattutto i primi tempi, avesse desiderato nascondere anche lo sguardo
bicolore che, durante la sua infanzia, l’aveva fatta etichettare come figlia
del Diavolo. Ma ora il luogo è diverso come è diverso il periodo e sono diverse
le persone, ma soprattutto è lei ad essere diversa: adesso i suoi occhi sono
solo una delle tante stranezze esistenti al mondo.
Lo sta fissando, lo fissa per attimi che paiono interminabili, poi, un battito
di ciglia dopo, una delle mani guantate tiene protesa una pistola fresca di
lucidatura, la canna rivolta verso il tatuato.
«Come scusa? Non credo di aver capito bene.»
Le stesse parole, un disco rotto dalla voce gracchiante.
L’uomo tatuato alza le mani e indietreggia di un passo, improvvisamente
pallido. Il ragazzino con in mano la pistola trema, Beatrice lo sa anche senza
vederlo.
«Cosa cazzo pensi di fare con quella?!» la voce che il tatuato sta cercando di
mantenere ferma è in realtà stridula, probabilmente si è reso conto della
ridicola distanza che li separa, talmente minima che anche il più incapace dei
tiratori potrebbe fare centro. «Abbassala immediatamente o giuro che…»
Cade in ginocchio un momento dopo, un urlo di dolore che trapana i timpani di
tutti e che fa storcere le labbra a Beatrice: ha sempre odiato i rumori forti
ed improvvisi. Le mani che si tiene strette sulla gamba sono lorde di sangue.
Tre battiti di ciglia e c’è un nuovo sparo, ma questa volta nessun urlo. L’uomo
grasso cade a terra con un buco in fronte e dopo aver dipinto il muro dietro di
lui, tende piene di tarli incluse, con un colorato schizzo di sangue e
cervella.
Il ragazzo giovane lascia cadere la pistola e arretra fino a che non inciampa
sui suoi stessi piedi e cade a terra, il viso sporco della stessa sostanza che
ha imbrattato le pareti.
Il silenzioso non dice nulla, si limita a sorridere divertito e a rivolgere un
cenno alla ragazza, come dicendole che, per lui, è liberissima di andarsene.
Beatrice, dal canto suo, resta impassibile, anche davanti allo sguardo del
silenzioso che si sta… complimentando con lei? In verità non le importa.
«Questo casino lo ripulisci tu, il cane da guardia menomato deve tornare dal
capo a fare rapporto.»
E detto questo esce dalla stanza.
***
Il sorriso che Isaia De’ Medici ha stampato in faccia pare
gli sia stato incollato addosso e adesso gli si sia ghiacciato sulla pelle. Non
è un sorriso granché sincero, in verità, proprio per nulla. Però è un sorriso.
Isaia De’ Medici sta sorridendo sebbene la maggior parte delle persone in una
situazione come quella avrebbe detto qualche parolaccia e preteso un
risarcimento. La maggior parte delle persone vedendosi versare addosso
un’enorme tazza di caffè bollente che, oltre ad aver macchiato e rovinato
irreparabilmente la camicia di marca, lo aveva anche ustionato, non avrebbe
stretto i denti e sorriso cercando di apparire il più sincero possibile come
aveva fatto Isaia.
La ragazza che gli era capitolata addosso si sta scusando a ripetizione, ma è
ben evidente –per Isaia come per chiunque stesse assistendo a quel teatrino-
che in verità vorrebbe semplicemente scappare via e andare all’appuntamento per
la quale sta facendo ritardo. Quando infatti Isaia riesce finalmente ad
interrompere lo spasmodico flusso di parole della ragazza con un “Davvero, non
importa” questa non si prende neppure la briga di ringraziarlo o di lasciargli
il suo numero di telefono o di assicurargli un risarcimento per la camicia
rovinata, ma scappa immediatamente via correndo e facendo slalom nel bar
affollato lasciandolo lì con la camicia bianca completamente zuppa e un
problema non poco rilevante: come avrebbe fatto a tornare a casa, cambiarsi la
maglietta e arrivare in orario al suo nuovo posto di lavoro entro trenta minuti
quando questo distava quindici minuti di camminata veloce dall’università e
casa sua era ad altri dieci? Sarebbe arrivato in ritardo il primo giorno,
magnifico. Come poteva pensare di amministrare la giustizia, sconfiggere la
Mafia e il male nel mondo se a stento riusciva ad essere puntuale? Maledetto
lui quando quella mattina aveva pensato che sarebbe stata una buona idea girare
a piedi invece che usare la macchina o la metro. La verità era che aveva temuto
di perdersi per le strade di Milano, di sbagliare fermata o di restare bloccato
nel traffico e quindi aveva preferito andare sul sicuro facendo la strada a
piedi come sempre.
E adesso avrebbe fatto ritardo. Un mostruoso, terribile e spaventoso ritardo
per il suo primo giorno come salvatore della nazione.
Chissà come lo avrebbero guardato male i suoi colleghi! Avrebbero tutto pensato
che non prendeva la cosa seriamente e lo avrebbero isolato, giudicandolo un
poppante immaturo ricco e viziato che aveva accettato l’incarico governativo
solo perché s’annoiava. Un disastro, un completo e totale disastro!
Quando aveva comunicato al padre la decisione di
entrare a far parte della squadra anti-Mafia che il Governo stava istituendo,
questo si era dimostrato subito contrario —non che si dimostrasse mai
particolarmente favorevole o entusiasta di qualunque iniziativa presa dal
figlio, questo il lettore deve saperlo per capire al meglio Isaia-. Quando però
il ragazzo dai capelli rossi aveva affermato di non aver la minima intenzione
di rinunciare all'opportunità di essere utile alla nazione "proprio come
te, papà" (riportando le stesse parole pronunciate dal fulvo) —poiché il
lettore deve anche sapere che la famiglia De' Medici era da secoli dotata di
poteri e che, da secoli, li metteva al servizio de Governo-, e dopo un'accesa
discussione durante la quale persino la madre di Isaia, solitamente silenziosa
e remissiva verso le decisioni del marito, aveva sostenuto il figlio, il padre
del ragazzo aveva ceduto intimandogli con durezza di "tenere alto il nome
della famiglia" e di "dimostrarsi all'altezza delle aspettative".
E di certo arrivare tardi e zuppo di caffè o sudore il primo giorno non era
quello che suo padre intendeva per "tenere alto l'onore dei De'
Medici".
L'appartamento che Guglielmo De' Medici aveva trovato al
figlio, quando anni prima questo l'aveva convinto, dopo mesi di trattative, a
farlo trasferire da solo a Milano per frequentare l'università, era davvero a
due passi dalla facoltà e, oltre ad essere di una vastità immensa ed esagerata
—con tanto di cameriera e cuoco-, era anche di una freddezza disarmante. C'era
qualcosa, in quell'attico ultra-moderno, capace di far rabbrividire Isaia in
piena estate.
Ci aveva provato, Isaia, a renderlo accogliente, ma pareva che per quante foto,
piante o dipinti da strada ci mettesse l'attico restasse sempre privo di
qualunque calore umano. Lo odiava. Lo detestava con tutta la forza e
l'intensità con cui si può detestare l'appartamento in cui si vive. Quel luogo
era semplicemente privo di qualunque conforto si potesse trarre dalla propria
casa.
L'unica cosa che lo aiutava a sopportare quella completa assenza di colore e
calore era Nocciolina, la sua piccola e dolcissima gattina trovatella che non
s'era più staccata da lui dopo che il ragazzo le aveva dato da mangiare un
pezzetto di prosciutto quando l'aveva vista, ancora piccola, al Lambro —che, se
il lettore non lo sapesse, è un parco milanese-.
La stessa gatta dal pelo fulvo come i capelli del suo padrone –che abbiamo
appena nominato-, salta addosso ad Isaia non appena questo apre la porta di
casa miagolando per chissà cosa: ma il ragazzo non ha un minuto da dedicare
nemmeno alla sua adorata gattina —alla quale, per altro, aveva dedicato
l'intera schermata home del suo cellulare e una cartella nell'album
fotografico-.
Corre in camera urlando un saluto alla cameriera impegnata a sistemare i libri
in salotto e si cambia la camicia alla velocità della luce strappando, per
altro, qualche bottone di quella sporca e abbandonandola sul parquet di legno
scuro.
Due minuti dopo sta guardando preoccupato le porte dell'ascensore che non accenna
ad arrivare e, dopo aver rivolto uno sguardo ansioso all'orologio, decide di
prendere le scale —nonostante l'attico fosse al settimo piano del palazzo-.
Sette minuti dopo è arrivato in università —tre in anticipo rispetto al tempo
che ci si impiegherebbe di solito-, ma a metà strada dal luogo
dell'incontro è costretto a rallentare la corsa fino a fermarsi perché ha
iniziato a sentirsi realmente male ed è conscio di rischiare di rimettere
colazione ed anima.
Dopo minuti di camminata interminabile —sotto quello che gli era parso il sole
più caldo della storia- arriva finalmente all'indirizzo che gli hanno indicato.
È sudato fradicio, ma grazie al Cielo aveva calcolato quell'eventualità poi non
così eventuale, e aveva deciso di portarsi dietro un'altra camicia bianca
fresca di bucato.
Isaia guarda l'orologio e si rende conto d'avere solo undici minuti di ritardo
e dunque di non essere in una situazione così disastrosa come invece aveva
temuto.
L'edificio dove hanno deciso sarebbe stato stabilito il
"quartiere generale" della squadra è un palazzo d'epoca abbastanza
imponente: la facciata è colorata di bianco (sebbene le case subito adiacenti
abbiano l'intonaco rosso), e il cancello d'ingresso —vicino al quale c'è
un'enorme lista di campanelli e una quantità ancora più enorme di targhe in
ottone con sopra nomi e titoli di vari professionisti presenti nello stabile- è
di legno scuro con finiture in ferro battuto. Isaia apre con le chiavi che gli
hanno spedito una settimana prima ed entra in un ampio cortile alberato dove si
affacciano varie finestre per quattro piani d'altezza, alcune delle quali anche
con dei balconcini pieni di piante. Il ragazzo dai capelli rossi procede sul
lato sinistro e apre un nuovo portoncino con le chiavi per poi chiamare l'ascensore.
Approfitta dell’attesa e del tragitto, che gli pare durare una vita, per
togliersi la camicia sudata, asciugarsi alla bell'e meglio con la stessa e
infilare quella pulita. Le porte dell'ascensore gli si aprono davanti sul
quarto piano mentre sta infilando la camicia sporca nella borsa: è dunque
costretto a caracollare impacciatamente fuori dall'abitacolo con le mani piene
per poi ringraziare tutte le divinità che ci sono in cielo per non aver trovato
nessuno sul pianerottolo che potesse assistere a quell’entrata di scena a dir
poco grottesca.
La porta, l'unica del pianerottolo, è verde e ha una targa d'ottone vuota
appesa all'altezza degli occhi. Isaia infila le chiavi nella toppa e si prepara
mentalmente alle occhiatacce dei suoi colleghi —che s'era immaginato come
professionisti tutti di certo più anziani di lui-, dunque spalanca la porta.
L'espressione sul suo volto quando si rende conto di essere l'unico oltre a una
ragazza dai capelli azzurri è, a giudizio dell'appena nominata ragazza,
semplicemente epica.
Nota autrice
Benvenuti, signori e signore, in questa nuova storia OC!
Spero che questo primo capitolo d'introduzione vi sia piaciuto. Beatrice ed
Isaia sono due dei quattro OC che ho deciso di inserire in partenza (ma che,
uno di questi a parte, non sono stati comunque scritti da me).
Come credo abbiate capito Beatrice fa parte della Mafia e Isaia del Governo
(credo fosse palese, MA SPECIFICHIAMO CHE NON SI SA MAI).
Non ho idea di quanti capitoli durerà questa storia, tutto sarà in base alla
quantità (e alla qualità!) della mia ispirazione.
Qui sotto troverete la scheda da compilare per
inviarmi il vostro OC e la descrizione dei quattro già presenti (più qualche
dettaglio fondamentale).
*Nome
*Cognome
*Luogo di nascita (anche generico)
*Aspetto fisico (evitabile dato che invece il presta volto è obbligatorio, ma
consigliato)
*Aspetto comportamentale
*Background
*Segni particolari, incluse ossessioni di sorta
*Abilità (se posseduta)
*Affiliazione (se membro della Mafia indicare da quanto tempo)
*Presta volto
*Frase/Citazione rappresentativa
Note
1.Possedere un'abilità non è obbligatorio, si può ugualmente far parte della
Mafia.
2.Il nome dell'abilità e l'abilità stessa devono essere ispirati a un'opera
della letteratura italiana, più o meno famosa.
3. I personaggi sono TUTTI rigorosamente italiani dato che la storia stessa
si ambienta solo ed esclusivamente in Italia, quindi niente nomi inglesi di
sorta, sorry.
4. Ninte personaggi over-power, bravi in tutto e fighissimi. Non esistono
persone né perfette né imbattibili.
5. Ricordatevi che più la storia del vostro personaggio e il personaggio in
genere saranno dettagliati più possibilità ci saranno che vengano scelti.
6. I presta volto possono essere cantanti, attori, personaggi di anime/manga o
di videogiochi, quel che volete, ma devono essere rintracciabili, quindi una
foto a caso non va bene, ho bisogno di nome, cognome e codice fiscale.
Ovviamente non c'è bisogno che siano esattamente identici al personaggio, ma mi
servono come riferimento.
7. La citazione non deve essere il nome dell'abilità per esteso, ma qualcosa
che rappresenti il personaggio!
Potete inviare tutti gli OC che volete, il
numero di quelli che selezionerò sarà variabile in base all'ispirazione.
Se un vostro OC verrà accettato NON SPARITE, potrei dovervi chiedere altre
cose. Nel caso succedesse mi prenderò la libertà di fare ciò che desidero del
personaggio c:
Detto questo, passiamo alle presentazioni!
Beatrice Pazzi - 20 anni. Mafia.
Abilità:
Lasciate ogni speranza, o voi ch'entrate.
La giustizia è soggetta a contestazione, la forza è riconoscibilissima e senza
dispute: proprio per questa ragione non è stato possibile concedere la forza
alla giustizia.
Max Caulfield, Life is Strange
Abilità:
Uno, nessuno, centomila
Io considero il mondo per quello che è: un palcoscenico dove ognuno deve
recitare la sua parte.
Nezumi, No.6
Abilità:
L'amor che move il sole e l'altre stelle
Pensavo semplicemente che mi sarei potuto scusare il giorno seguente, ma il
giorno seguente non arrivò mai.
Karma Akabane, Assassination Classroom (da adulto e con le lentiggini)
Abilità:
La lupa
Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di
arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la vita a credersi stupido.
Chloe Price, Life is Strange
Bene, spero sia tutto chiaro, se avete
domande chiedetemi pure.
Enjoy.