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Autore: Tigre Rossa    17/08/2017    5 recensioni
"Tu sei il mio Bilbo, il mio tesoro più grande. Questo è tutto quello che so ed è l’unica cosa che mi serve sapere. E se questo fosse un sogno, ucciderei chiunque tentasse di svegliarti."
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Bagginshield - Ispirata ad una delle scene più tristi e romantiche di 'Trono di spade'.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bilbo, Thorin Scudodiquercia
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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If this is a dream

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Tu sei la luna della mia vita. Questo è tutto ciò che so, tutto ciò che mi serve sapere.

 E se questo è un sogno, ucciderò l’uomo che proverà a svegliarmi.

-Trono di spade

 

 

 


 

Il canto dei gabbiani si attenuava sempre di più, coperto dal suono potente e dolce delle onde, rassicurante come una vecchia ninna nanna di cui ormai aveva dimenticato le parole ma la cui melodia gli era ancora cara.

Non ricordava di aver chiuso gli occhi, ma doveva essere così, perché era tutto talmente buio, come se la notte avesse oscurato qualsiasi luce. Doveva essersi addormentato all’improvviso un’altra volta. Ormai gli capitava così spesso, anche quando componeva, anche quando intonava con voce stanca e tremante i suoi vecchi versi. Gli elfi erano gentili e non glielo avevano mai fatto pesare, così come il suo buon Frodo. Ma a lui pesava, pesava enormemente.

Era vecchio ormai, più vecchio di quanto avrebbe mai dovuto essere, e la sua stanchezza pervadeva sempre di più il suo corpo spezzato, nonostante lui non volesse cedergli, non ancora, forse mai.

Lui, un tempo un hobbit dal cuore affamato e gli occhi pieni di vita, era ormai ridotto ad un pallido fantasma di quello che era una volta. Ma dentro, oh, dentro era ancora quello stesso Bilbo che era uscito di corsa di casa senza nemmeno un fazzoletto da taschino, pur di andare incontro all’avventura della sua vita. E quel Bilbo odiava il vecchio hobbit fragile che era diventato, anche se era consapevole di non poter fare nulla per cambiare quella realtà.

Si mosse, tentando di raccogliere la forza di sollevare le palpebre. Non ci riusciva, anche se per la prima volta dopo tanto tempo non si sentiva debole o stanco. Voleva aprire gli occhi e guardare la sua Terra di Mezzo un’ultima volta, continuare a seguirla con lo sguardo fino a quando il mare non l’avrebbe nascosta con le sue acque cristalline. Il rumore dell’oceano sembrava quasi acquietarsi mentre lui lottava contro se stesso, ma sapeva che non poteva essere così. Per lungo tempo sarebbe stato circondato solo da un mare senza fine, fino ad arrivare in quella terra lieta dove forse avrebbe potuto finalmente riposare senza dolore. Eppure . . .

Quando finalmente riuscì ad aprire gli occhi, il cielo più azzurro che avesse mai visto lo sovrastava, ma né il rumore delle onde né il canto dei gabbiani riempivano l’aria. Tirava un lieve venticello che gli colmò il naso di profumi, ma non sentì  l’odore del legno della nave o quello acre della salsedine, bensì l’odore caldo e familiare della dura roccia e della terra disposta a crescere con un po’ di cure e buona volontà. Era un odore inconfondibile, ma che non avrebbe mai dovuto sentire, non lì, non in quel momento.

A fatica, come se non si muovesse da molto, molto tempo, si mise a sedere, guardandosi attorno, e ciò che vide lo lasciò senza fiato.

Non era sul ponte ben levigato di una nave, ma seduto sulla terra bruciata di un posto che non vedeva l’erba e i fiori da anni, con accanto un sottile fiumiciattolo di nemmeno dieci passi che scorreva silente. Attorno a lui, desolazione totale e corvi neri come l’inchiostro che sfidavano i tordi

l’accoglievano, nel modo sereno in cui si dà il bentornato a casa ad un amico partito da poco. Di fronte ai suoi occhi si ergeva una sconfinata, magnifica montagna, talmente alta che sembrava quasi sfiorare le nuvole.

Il mezzuomo trattenne il fiato, mentre contemplava per la prima volta dopo decenni la Montagna Solitaria.

Aveva desiderato rivederla tanto a lungo e così disperatamente. Era partito dalla Contea solo per vederla un’ultima volta, prima della fine, ma il suo corpo l’aveva tradito lungo la Via, privandogli anche quella piccola consolazione. Non era riuscito a scorgerla nemmeno nel sonno, come niente della sua avventura da fin troppo tempo. Erano decenni che non vedeva il profilo del monte o la sua imponenza, nonostante il desiderio ardente del suo cuore triste.

E ora, dopo tutto quel desiderare in silenzio, l’aveva davanti. Adesso che, lasciando per sempre i luoghi in cui aveva vissuto, era riuscito a sognarla –perché quello era solo un sogno, ovviamente, un sogno come mille altri-, non poteva distogliere lo sguardo. Semplicemente, non poteva.

Rimase lì per un tempo che a lui parve infinito, a guardarla, a soffermarsi su ogni più piccolo dettaglio, ad accarezzare con lo sguardo ogni roccia ed ogni pietra.

Quando fu così pieno della Montagna Solitaria da esserne ubriaco, spinto da qualcosa che nemmeno lui sapeva spiegarsi, tentò d’alzarsi, senza trovare stranamente alcuna difficoltà. Preso com’era dalla Montagna non notò le sue mani lisce né le maniche blu che gli avvolgevano le braccia, differenti da ciò che indossava quando era salito sulla nave. Fu solo quando il suo sguardo cadde per caso sul misero fiumiciattolo che si rese conto di essere diverso.

Dall’acqua sporca un Bilbo infinitamente più giovane e sano gli restituiva lo sguardo, un Bilbo non ancora annientato dal peso dell’Anello, il Bilbo che avrebbe visto in quel fiume se si fosse specchiato durante la sua avventura. Era magro, dritto e quasi fiero, il viso senza rughe e di nuovo roseo, i ricci ramati e gli occhi attenti. Indossava i vestiti che aveva ad Erebor, il capottino di filo blu che aveva conservato con cura al suo ritorno a casa e sotto la maglia di mithirl che tanto aveva amato e che brillava come mille stelle. Al suo fianco, orgogliosa come sempre, stava la sua piccola Pungolo.

Ma quello che lo guardava dall’acqua non era un antico Bilbo, un Bilbo appartenente ad un’impresa maledetta e nato dalla sua memoria. In quei giorni, lui non aveva mai avuto gli occhi così spenti, né le labbra secche per aver ormai smesso di sorridere da troppo tempo, né quell’espressione triste di chi non si aspetta più niente. No, quello non era il giovane avventuroso dei suoi ricordi, e nemmeno il vecchio hobbit che si addormentava quando era troppo debole per sopportare il dolore. Quel piccolo esserino triste e coraggioso che si ostinava a non distogliere lo sguardo dal suo era proprio Bilbo, il vero Bilbo, quel Bilbo che ancora poteva sentire dentro di sé ma che nessun altro sembrava capace di vedere.

Era ironico quel sogno, molto ironico; questo era tutto quello che riusciva a pensare, mentre si avviava, silenzioso e senza un reale motivo, verso il cancello aperto del regno. Nessuno poteva vedere più chi era realmente, e lui lo diventava quando nessun altro avrebbe potuto accorgersene. Non aveva mai più potuto salutare la dimora della sua anima, e questa si mostrava in tutta la sua imponenza quando finalmente si era deciso a lasciarla alle spalle. Ironico, davvero.

Smise di pensare quando arrivò proprio di fronte ai portoni, quei giganteschi portoni di smeraldo, spalancati come se Smaug fosse appena uscito in volo, giurando vendetta contro chi l’aveva scacciato dalla sua dimora. Li sfiorò con le dita, e sembravano così reali al tatto, così tangibili, che per un attimo esitò. Si chiese se dovesse entrare, se volesse davvero vedere quel posto che l’aveva spezzato senza ucciderlo, lasciandolo per più di metà della sua vita in un limbo senza fine. Rimase lì, a cercare una risposta mentre la sua mente correva indietro, a momenti passati ma mai dimenticati.

Sì, decise infine, doveva. Quel luogo gli aveva fatto male, ma nella sua anima aveva preso il posto della Contea, e non avrebbe potuto risvegliarsi se non ne avesse visto un’ultima volta quelle sale, quei lunghi corridoi, quelle stanze illuminate da un paio di flebili fiaccole. Era lì che aveva lasciato i frammenti del suo cuore ferito, dopotutto. Era a quel posto di gloria e di morte a cui apparteneva.

Così, si fece coraggio e, dopo un profondo respiro, entrò.

Erebor era la stessa, esattamente la stessa. Non riuscì a trovare una sola differenza, mentre vagava solitario per gli enormi saloni, se non che tutto l’oro sembrava scomparso e l’odore della disperazione svanito nel vento. Forse quel sogno non voleva essere così crudele, alla fine dei conti. Camminò e camminò per quelle che gli parvero ore, accarezzando ogni singolo dettaglio con lo sguardo e le punta dei polpastrelli e riconoscendo ogni cosa. Ogni cosa era così spaventosamente reale, dalla sensazione del pavimento freddo sotto i piedi al tocco caldo delle pareti all’eco dei suoi passi esitanti. Non sembrava quasi un sogno, per quanto era reale. Tutto gli era familiare, come se glielo avessero impresso a fuoco nella memoria, e ciò era sconcertante, visto che tutti quei dettagli gli erano stati portati via da molto tempo. Vagò senza meta e senza badare a nulla, lasciandosi guidare solo dal proprio cuore malinconico. Probabilmente avrebbe continuato a camminare ancora a lungo, se un canto lontano non l’avesse raggiunto, accarezzandogli le orecchie a punta con la delicatezza di un amante e facendolo tremare, anche se non sapeva perché.

“Lontano su nebbiosi monti gelati . . .”
Bilbo si bloccò, portandosi una mano al petto e stringendo con forza la cotta di maglia. Conosceva quella melodia, la conosceva bene, anche se ormai aveva dimenticato da lungo tempo le parole. Era il canto che aveva dato inizio a tutto, quel canto che aveva cambiato la sua vita per sempre. Era una melodia che udiva ogni notte, in ogni sogno ed in ogni incubo, e che svaniva non appena apriva gli occhi, lasciandolo vuoto e nel silenzio.

“In antri oscuri e desolati
partir dobbiamo, l'alba scordiamo
per ritrovare gli ori incantati.”

Quelle erano le parole, erano davvero quelle, le parole che il tempo gli aveva portato via insieme a tutto il resto. E quella voce . . . lui conosceva quella voce, una voce che aveva lottato a lungo per continuare a custodirla nella propria memoria, una voce che mai avrebbe voluto smarrire ma il cui ricordo era volato via, nonostante tutti i suoi sforzi. Quella voce che aveva inseguito a lungo nelle sue notti e che l’aveva abbandonato tanto tempo prima. Ma quella voce era lì ora, profonda e  malinconica, e fu come se non l’avesse mai smarrita. Lui conosceva quella voce. E sapeva a chi apparteneva.

D’istinto, lo hobbit si mise a correre, il vecchio cuore stanco che batteva forte per una disperazione da lungo tempo sopita, seguendo quel canto dolente, inseguendo quella melodia prima che svanisse ancora e lo lasciasse da solo un’ultima volta.
“Ruggenti pini sulle vette
dei venti il pianto nella notte . . .”

Si infilò in uno stretto corridoio che non ricordava assolutamente, ma non esitò, temendo di arrivare troppo tardi e di perdere ancora quella canzone che non poteva lasciare andare. Continuò a correre, cadendo una volta e rialzandosi quasi immediatamente, mentre una sola parola gli riempiva l’anima fino a scoppiare, un nome che non riusciva e non poteva pronunciare, ma che dava forza alla sua corsa disperata, mentre lui si ritrovava in un corridoio ancora più piccolo e la melodia, ormai poco lontana da lui, giungeva alla fine.
“Il fuoco ardeva, fiamme spargeva
alberi accesi, torce di luce.”.

Si fermò, il fiato accelerato che gli si bloccava nel petto e i grandi occhi blu che diventavano sempre più grandi, mentre si guardava intorno e riconosceva quello stesso corridoio in cui si era rifugiato tante volte ad Erebor. E lì, proprio lì, in quell’angolino dove lui era solito sedersi quando aveva bisogno di fuggire da tutto, stava un nano dai lunghi capelli corvini e dal viso malinconico che si rigirava tra le dita una minuscola ghianda.

Bilbo sentì distintamente il proprio cuore bloccarsi, quando quei occhi di ghiaccio che una volta aveva tanto amato incontrarono i suoi e quelle labbra sottili pronunciarono il suo nome con la dolcezza di una preghiera.

“Bilbo.”

Solo allora, solo in quel momento, lo hobbit innamorato riuscì a parlare, sussurrando appena una parola che ormai non pronunciava da decenni e che conteneva tutto il suo mondo perduto “Thorin . . .”.

Il re sorrise un po’ malinconicamente, come se udire il proprio nome sulle sue labbra fosse qualcosa in cui mai avrebbe potuto sperare. Quel sorriso fu troppo per l’anima del povero mezzuomo, che indietreggiò quasi senza rendersene conto, chiedendosi come un sogno potesse essere tanto bello e allo stesso tempo tanto crudele, e come tutto potesse essere così reale da fargli male al cuore.

“No, non è possibile.” balbettò, la voce spezzata. “Tu, tu sei . . .”.

Il nano si alzò lentamente, facendosi scivolare la ghianda in tasca senza mai distogliere lo sguardo dal suo. “Sono qui, ghivasha.” disse con dolcezza, facendo un passo verso di lui, e poi un altro, e poi un altro ancora “Sono qui con te.”.

“No.” negò lo hobbit, incapace di muoversi, troppo preso com’era dall’accarezzare con lo sguardo ogni singolo dettaglio dell’altro, perdendosi come succedeva quando era ancora giovane e si incantava a guardarlo. “Questo è solo un sogno.” mormorò, sentendo gli occhi iniziare a bruciargli di lacrime represse, e a quelle parole il re si fermò, quasi come se avesse paura di quello che stava dicendo. “La mia mente folle mi sta illudendo di nuovo.” gli faceva male pronunciare quelle parole, anche se sapeva che non poteva essere quella la realtà. Quella era solo un’ombra, un ultimo crudele scherzo della sua immaginazione incapace di rassegnarsi. “Sto solo sognando un’altra volta, un sogno terribilmente doloroso.”.

Thorin rimase a guardarlo a lungo, come se nemmeno lui riuscisse a distogliere lo sguardo dal suo viso, come se temesse di vederlo svanire da un momento all’altro. “Forse questo non è un sogno, amrâlimê.” sussurrò piano, quasi avesse paura di spezzarlo “Forse per una volta non stai sognando.”.

Bilbo esitò, mentre quelle parole gli entravano dentro a rassicurare in qualche strano modo la sua anima sanguinante. Lui non sognava Thorin da anni, nonostante l’avrebbe tanto voluto. Non lo sognava più da quando la sua mente aveva iniziato ad annebbiarsi e aveva iniziano a perdere i particolari del suo viso. Ma se quello non era un sogno, cos’altro poteva essere?

Improvvisamente temerario come quando, tanti anni prima, si era infilato nella tana di un drago vivo senza esitazione, fece un passo verso di lui e disse, con un tono tranquillo che non gli apparteneva da troppo tempo “Forse allora sono morto. Forse il mio vecchio cuore non ha retto più e ha semplicemente smesso di battere. “.

Thorin chiuse gli occhi, come se fosse stato ferito. Lo hobbit fece allora un altro passo, continuando a parlare e senza mai distogliere lo sguardo da lui.

“Forse ti ho finalmente raggiunto alla fine di tutto.” Ad ogni parola corrispondeva un passo. Un passo sempre più vicino a lui, fino a quando fu abbastanza vicino da poter sentire il suo odore. Odore di guerra, di tempesta, di sangue e lacrime. Lo stesso odore dei suoi ricordi. “Ma questo non può essere possibile.” Altri sei passi, ed era abbastanza vicino da poter sentire il suo respiro. Si fermò e lui riaprì gli occhi, che corsero subito a cercare i suoi. “Il tuo posto dovrebbe essere nelle Sale di Mahal.”.

Thorin strinse i pugni, ma non distolse mai lo sguardo dal suo “Forse invece mi sono rifiutato di entrare nelle Sale senza di te.” replicò, con una sicurezza e una fierezza tali che un tempo l’avrebbero fatto tremare “Forse ho detto a Mahal di andare ishkh khakfe andu null e sono rimasto qui ad aspettarti.”.

A Bilbo sfuggì una mezza risata, soffocata dalle lacrime che lottavano per non uscire. “Suona terribilmente come qualcosa che potresti fare davvero.” disse, vedendolo sorridere appena alla sua risata trattenuta. Quel maledetto nano testardo avrebbe benissimo potuto insultare il proprio dio e rifiutare di obbedirgli, se avesse creduto di essere nel giusto. Lo conosceva abbastanza bene per crederlo possibile. Però il suo cuore si strinse comunque un’altra volta, e lui continuò, quasi con fatica “Ma no, non può essere. È solo uno dei miei folli, dolorosi sogni. Qualcosa che non potrà mai diventare realtà, per quanto io possa desiderarlo.”.

Dovette chinare il capo per impedire alle lacrime di rigargli le guance e chiudere con forza gli occhi, ma poi una mano ruvida e segnata da anni di battaglie salì al suo viso e delicatamente ma senza difficoltà lo sollevò in alto.

“Bilbo, guardami.” lo chiamò con dolcezza Thorin, accarezzandogli appena il mento. Lo hobbit esitò, ma alla fine cedette e tremante riaprì gli occhi.

Il suo viso era a pochi centimetri dal proprio, talmente vicino da poter sentire il suo respiro sfiorargli le labbra. Per un attimo temette di perdersi in esso, nelle sue linee decise, in quei tratti regali, in quegli occhi di ghiaccio così tremendamente caldi e in quelle labbra che sapevano donare importanza e peso anche al suo semplice nome. Come aveva potuto il tempo portargli via anche il ricordo di quel volto che tanto aveva amato e che conosceva meglio del proprio? Come aveva potuto dimenticarlo?

Il re sospirò, i penetranti occhi chiari colmi di tristezza e di qualcosa che aveva smarrito tanto tempo prima “Questo non è un sogno. E anche se lo fosse, non mi importerebbe.” sussurrò con decisone, per poi posare la fronte sulla sua “Tu sei il mio Bilbo, il mio tesoro più grande. Questo è tutto quello che so ed è l’unica cosa che mi serve sapere. E se questo fosse un sogno, ucciderei chiunque tentasse di svegliarti.”.

Un sola, solitaria lacrima rigò la guancia del mezzuomo, e subito il pollice del nano corse a spazzarla via, mentre i suoi occhi di ghiaccio cullavano quelli color del mare dell’altro, tentando di rassicurarli. Non sarebbero stati separati, non più. “Ma nessuno verrà, amrâlimê.” mormorò ancora Thorin, accarezzandogli piano la guancia “Non questa volta.”.

Bilbo capì e con un sorriso tremante chiuse gli occhi. Era finita. Il suo eterno limbo era finalmente giunto al termine. Era davvero, davvero finita.

Il re chiuse gli occhi a sua volta e i due rimasero così per un lungo momento, fronte contro fronte, fino a quando lo hobbit non si lasciò sfuggire un singhiozzo e le sue braccia tremanti non si strinsero attorno al corpo dell’amato, come a cercare riparo, come per essere certo che niente e nessuno l’avrebbe portato ancora via da lui. Thorin rimase immobile solo per un momento, troppo stupito per fare altro che guardarlo senza parole, ma poi lo prese tra le sue braccia e lo strinse forte a sé, senza alcuna intenzione di lasciarlo andare anche se fosse sceso Mahal in persona ad imporglielo.

“Tu non hai idea di quanto io abbia pregato . . . di quanto abbia pianto . . .” singhiozzò Bilbo tra le sue braccia, cercando di non tremare e di impedire al proprio cuore di spezzarsi un’altra volta per la troppa felicità.

Il re lo strinse più forte, quasi disperatamente “Lo so. Lo so, azyungel.”  sussurrò, la voce rotta di chi si è tenuto dentro troppo e per troppo tempo. “Sono stato al tuo fianco ogni giorno, anche se non potevi vedermi, anche se non potevi toccarmi, anche se non potevi sentirmi. Ho visto quando hai preparato il mio corpo per il funerale. Ti ho visto mentre facevi scivolare la tua ghianda nelle mie mani fredde e poi sussurravi sulle mie labbra “Eri tu la mia casa.”.”.

Bilbo nascose il viso contro il suo petto, tentando di fermare le lacrime. Ricordava fin troppo bene quel momento. Ricordava il tocco delle sue labbra gelide contro le proprie, e quella sensazione di vuoto quando aveva lasciato la sua ghianda tra le sue dita. In quel momento aveva creduto di non poter mai più essere felice e che ciò che aveva perduto l’avrebbe tormentato per tutta la vita. E si era portato dietro quella certezza per lunghi, lunghi anni.

Thorin gli accarezzò lento la schiena in delicati movimento circolari, come se fosse la cosa più fragile del mondo e avesse paura di romperlo. “Ho visto ogni tua singola lacrima, ho sentito ogni tuo gemito e ogni tua preghiera.” continuò, sfiorandogli il collo e la punta delle orecchie “Ti ho udito chiamarmi nella notte e supplicarmi di tornare da te. Ti ho osservato scrivere di me nel tuo libro e custodire gelosamente anche il più minuscolo ricordo. Ti ho visto spegnerti giorno dopo giorno e invocarmi nel sonno, anche quando tutto stava svanendo.”.

Lo baciò tra i capelli, mentre sentiva gli occhi diventare umidi, e lui si strinse ancora di più contro il suo petto “Ti ho visto gridare il mio nome quando non riuscivi più a ricordare il suono della mia voce o il colore dei miei occhi, mentre le lacrime ti rigavano il viso.”

Gli accarezzò delicatamente il viso, per poi costringerlo con dolcezza a sollevarlo e asciugargli con le dita quelle lacrime fredde. “Ma ora non dovrai piangere mai più, amrâlimê.” promise, senza riuscire a vederlo piangere ancora una volta a causa sua “Siamo insieme, e non ti lascerò mai più andare via.”.

Lo hobbit sorrise, un sorriso sincero e luminoso, il primo da tanto, tanto tempo. “E io non potrei chiedere nulla di più.” fu tutto quello che riuscì a dire. Poi, quasi con timore, sollevò una mano e accarezzò a sua volta il visoo del nano, sfiorando con le dita per la prima volta dopo anni il suo sogno perduto, la sua casa abbandonata.

A quel punto gli occhi di Thorin si fecero lucidi e la mano che prima era sulla sua guancia corse alla sua mano e la strinse contro la sua pelle, quasi come se temesse che quel tocco svanisse, lasciandolo di nuovo da solo nell’oscurità “Potrai mai perdonarmi per quello che ti ho fatto?” chiese a fatica, il cuore pieno di rimpianto. Quanto gli aveva fatto male, a quale vita di solitudine e muta disperazione l’aveva condannato a causa della sua cecità e del suo orgoglio. Quando aveva dovuto soffrire a causa di un amore spezzato. Come aveva potuto fargli questo?

“Non devo perdonarti nulla, Thorin.” replicò l’altro in tono quasi severo, come se stesse rimproverando un bambino troppo ingenuo “Donarti il mio cuore è stata una mia scelta, una scelta che farei ancora ed ancora, fino alla fine dei tempi.”.

I suoi occhi si addolcirono così come la sua voce, e il mezzuomo posò nuovamente la sua fronte contro quella di lui “Tu eri il mio sole e hai illuminato ogni mio singolo giorno.” sussurrò ad appena un respiro di distanza dalla sua bocca, mentre gli occhi di ghiaccio del nano erano incatenati ai suoi “Eri le mie stelle, e la tua luce lontana mi ha permesso di continuare ad andare avanti anche nel buio della lunga notte che è stata la mia esistenza senza di te.”.

Thorin sorrise appena, posando l’altra mano sul collo di lui ed accarezzandoglielo con una delicatezza che lo fece rabbrividire “E tu eri la luna della mia vita.” rispose, la voce così bassa che poteva apena sentirla “L’unica luce in una vita d’oscurità. Non mi pento di averti amato, anche se perderti mi ha ucciso più di quella lama nel petto.” sussurrò, quasi sulle sue labbra, gli occhi di ghiaccio che danzavano “Perché tu sei mio e io sono tuo, e nemmeno il tempo o la morte possono cancellare quello che ci lega.”.

Bilbo sorrise, commosso. Il suo cuore era troppo vecchio per poter provare una felicità così grande. “Tu sei mio e io sono tuo.” ripeté, mentre un’ultima lacrima scivolava sulla sua guancia. “E  ora il tempo e la morte non potranno più tenerci lontani.” giurò, e poi lasciò che Thorin unisse le loro labbra in quel tanto agognato e a lungo negato bacio, un bacio che entrambi desideravano da tanto tempo, ben diverso da quel triste tocco che lui ricordava.

Rimasero lì, stretti in un abbraccio mozzafiato, scordando ogni cosa e lasciando che fossero le loro bocche e i loro cuori, da troppo tempo divisi, a parlare per loro. Nulla aveva più importanza, non in quel momento, non ora che erano di nuovo l’uno tra le braccia dell’altro. Nient’altro avrebbe mai più avuto importanza, e nulla poteva turbarli ora, né le ombre dei loro errori né i fantasmi dei giorni ormai fuggiti via.

Perché quello che c’era tra di loro era reale, lo era sempre stato, ed adesso, dopo la morte, potevano finalmente viverlo fino in fondo.

 

 

 

 

  
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