Pairing: Ushishira
| TenSemi |IwaOi
Parte: 1/9.
Avvertimenti: Soulmates!AU in
cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno.
| Angst | Malattia | Non odiatemi
troppo | Per le parti in cui saranno coinvolti gli IwaOi
(più avanti nella storia) è necessario leggere la prima soulmate,
che trovate qui.
Note d’Autore: (e maledizioni) a fine storia.
Alla mia parabatai Luna: ci ho messo mesi a finire questa storia, è
tua e mi sembrava opportuno cominciare la pubblicazione nel giorno del tuo compleanno.
Don’t
let me be gone.
«[...] Sed si quis, quae multa vides discrimine tali,
si quis in adversu piat casusve deusve,
te superesse velim, tua vita dignior aetas.»
[...] ille autem: «causas nequiquam nectis inanis
nec mea iam mutata loco sententia cedit.»
Shirabu non lo aveva mai detto a nessuno, ma gli spogliatoi
avevano in qualche modo il potere di rilassarlo. Tutto pareva restare sigillato
al di fuori di essi: la folla che li acclamava, la frenesia del campo,
l’agitazione e l’adrenalina della sfida, ogni cosa entrava in pausa per tutto
il tempo in cui lui restava negli spogliatoi e il giovane alzatore poteva
prendersi qualche istante per pensare in maniera rilassata, senza la pressione
del gioco, senza il costante pensiero di dover essere perfetto.
«È ora, Shirabu», si sentì
chiamare dal capitano.
No. Aveva bisogno ancora di qualche istante, solo un
paio, il tempo necessario a pensare ancora una volta, magari da solo…
«Solo un secondo, vi raggiungo subito».
Sperò che Ushijima capisse, che non si lamentasse o insistesse – il suo compagno, dopotutto, non lo aveva mai sentito chiaramente come in quei giorni, sebbene fosse passato poco da quando avevano stretto il legame. E Wakatoshi non si oppose, in qualche modo comprese il suo bisogno senza che il ragazzo dovesse spiegarsi e fece cenno all’intera squadra di cominciare ad uscire. Tendou Satori fu l’ultimo a lasciare la stanza, uno sguardo sottile lanciato all’indietro ed un brutto presentimento taciuto.
Quando fu da solo, Shirabu si fece scappare un grosso sospiro, quasi avesse fino a quel momento trattenuto il fiato ed ora potesse tornare a respirare liberamente. Non era il genere di persona abituato a compatirsi ed anzi odiava profondamente chi passava il tempo a disperarsi per la propria condizione in maniera passiva, senza riuscire a fare qualcosa per migliorarla; eppure, in quel momento, sentiva l’urgenza di sospirare e stare da solo, di raggrupparsi su se stesso e provare a sparire dal mondo. E davvero, davvero, non era da lui arrendersi a quel modo, sfiduciarsi e lasciarsi andare, ma non riusciva a farne a meno; non riusciva a guardare davanti a sé e vedere qualcosa.
Ci aveva pensato a lasciar perdere quella partita. Ci
aveva davvero pensato e poi s’era preso a schiaffi per averlo fatto; s’era
detto che una vittoria o una sconfitta non avrebbe cambiato nulla, non avrebbe
certamente migliorato la sua condizione - ed era la verità. Poi, però, gli era
tornato in mente quanto si fosse impegnato per essere in quella squadra, per
poter giocare da titolare ed alzare per Ushijima.
Quella era una finale, dannazione! Una finale che dovevano vincere ad ogni
costo.
Perché sarebbe potuta essere la sua ultima finale.
Shirabu sentiva chiaramente il respiro ferirgli il petto sempre più man mano che prendeva fiato: più l’aria entrava, più le fitte aumentavano, quasi avesse corso per salvare la propria vita, quasi avesse fatto uno sforzo inumano. E invece, come sempre, era solo giunto quasi alla fine degli allenamenti di pallavolo, che alla Shiratorizawa potevano essere pesanti più che in altre scuole, ma a cui ormai era davvero abituato. Perché era improvvisamente senza fiato?
«Ancora dieci
giri di campo e possiamo passare a qualche set di gioco», sentì dire ad Ushijima e per la prima volta il pensiero di un ulteriore
sforzo fisico lo fece deprimere.
Shirabu Kenjirou non era mai stato facile da demoralizzare, anzi
aveva sempre dato più del cento per cento quando si trattava di raggiungere un
obiettivo, con una forza d’animo ed una volontà encomiabili, che tutti in
squadra gli invidiavano. Mentre tornava a correre dietro i ragazzi dell’ultimo
anno, però, sentiva le forze venirgli meno e il petto fare davvero male per il
respiro corto - non si sarebbe mai lamentato per una cosa del genere, eppure
dentro di sé aveva preso a gridare basta
ad ogni passo, fermatevi ad ogni metro, vi prego ad ogni nuovo respiro. Non aveva idea di
cosa stesse succedendo e quando finalmente raggiunsero la panchina per
rinfrescarsi, l'alzatore quasi tremava.
Prese a bere
con avidità, affannandosi e smettendo quasi di respirare per farlo. Finì la
prima bottiglina quasi in un unico sorso e riprese fiato forse troppo
velocemente perché gli venne da tossire, la gola ferita da quell'impeto.
«Tutto bene, Shirabu?» si sentì chiedere dal capitano. Si domandò se si
fosse accorto del suo malessere o se magari lo avesse sentito. Wakatoshi era diventato il suo compagno da poco
più di un mese ormai, sebbene quella situazione sembrasse tanto naturale da
parere molto più vecchia di così.
«Sto bene»,
rispose - poteva sentirle le sue bugie?
Il capitano
restò a guardarlo per un po': avrebbe voluto dire altro, ma aveva idea che a Kenjiro non andasse di parlarne davanti a tutti gli altri,
quindi lasciò perdere, non senza una certa preoccupazione. Shirabu
era il suo compagno, eppure per la prima volta faticava a
capire che cosa gli passasse per la testa.
Quando
presero a giocare i set di allenamento, l'alzatore si rese conto di essere
lento: qualcosa non andava, la mente pensava veloce e precisa come sempre, ma
il corpo non pareva volerle rispondere con la solita coordinazione - reagiva
con qualche istante di ritardo, il tempo necessario perché non fosse perfetto.
«Si può
sapere che cosa ti è preso oggi, Shirabu?»
Per quanto
una parte di sé si aspettasse quel rimprovero, il ragazzo sussultò a quel
richiamo: aveva sperato che le sue mancanze non fossero state altrettanto
evidenti a nessun altro, ma ovviamente l'allenatore aveva visto ogni cosa.
«Resterai qui
finché non avrai fatto almeno cinquanta alzate come si deve», decretò questi,
senza lasciare spazio a qualunque tipo di contestazione.
Shirabu annuì, ma
per la prima volta si sentì venire meno al pensiero di un allenamento.
La tosse
aveva deciso di perseguitarlo. Non potevano esservi altre spiegazioni al
fastidio continuo che dal petto gli saliva in gola ormai da quasi due
settimane. Shirabu aveva cercato di stare attento, di
non esporsi a cambiamenti bruschi di temperatura, a non raffreddarsi dopo gli
allenamenti o sudare quando non era necessario, eppure quella tosse sembrava
proprio non volerlo lasciar in pace.
La pallavolo
ne stava risentendo. A Kenjirou sembrava quasi che
più si avvicinava la data delle qualificazioni per il Torneo Primaverile, più
il suo gioco peggiorasse. Era perennemente stanco: nonostante stesse dormendo -
e anche più del solito in quelle notti - semplicemente il suo corpo non pareva
volerne sapere di ristabilirsi e permettergli di tornare ai suoi soliti ritmi.
Shirabu odiava
quella situazione ed odiava il suo corpo, che lo tradiva in un momento tanto
importante.
«Vuoi che
resti a studiare con te, questa sera?»
La gentilezza
di Wakatoshi era qualcosa a cui l'alzatore della Shiratorizawa doveva essere abituato ormai, eppure c'era
qualcosa nel modo in cui il suo compagno
parlava - e gli parlava - a cui ancora
non era riuscito ad abituarsi, una disinteressata dolcezza, una sincera premura
che lo prendeva dritto allo stomaco e di tanto in tanto gli faceva chiedere che
cosa avesse fatto per meritarlo.
No, Shirabu non era sentimentale. Eppure Ushijima
aveva su di lui quello strano potere di fargli tremare le gambe e far male il
petto. La verità era che Kenjiro era stato innamorato
di lui ben prima del legame, forse inconsciamente dalla prima volta in cui lo aveva
visto giocare.
«Non voglio
disturbarti, posso tranquillamente ripassare da solo», disse - sapeva che il compagno avrebbe
preso la sua risposta come sincera, senza fraintendere.
«Tuttavia
vorrei restare con te stasera, se per Kawanishi non è
un problema...» ammise Wakatoshi senza alcun
imbarazzo: sentiva qualcosa, a livello istintivo, che premeva perché non si
separasse da lui.
Shirabu non indagò
oltre, ma annuendo semplicemente lo rassicurò che al suo compagno di stanza non
sarebbe importato: Taichi era tipo da addormentarsi
in qualunque situazione, quasi potesse isolarsi dal resto del mondo a suo
piacimento. Non ebbero bisogno di dirsi altro: il legame che li univa era da
sempre stato qualcosa di tanto naturale che ad entrambi veniva semplice capirsi
e non c'era quasi mai bisogno di spiegare le proprie azioni o parole. Se Ushijima aveva espresso il desiderio di restare con lui, a Kenjirou non serviva altro.
Fu mentre
aveva ancora la testa china sul libro, che un colpo di tosse scosse
violentemente il corpo dell'alzatore. All'inizio Shirabu
non si accorse di nulla, ma semplicemente cercò quanto prima di coprirsi la
bocca per evitare di infastidire Wakatoshi, seduto
accanto a lui alla scrivania. Tuttavia, la tosse non accennava a volerlo
lasciar stare e anzi l’intensità aumentava rendendogli difficile respirare e
causandogli grosse fitte al petto. La testa di Shirabu
girò d’improvviso e il ragazzo sarebbe quasi sicuramente caduto dalla sedia se Ushijima non lo avesse preso per un braccio, allarmato
dalla sua reazione.
«Kawanishi, hai dell’acqua?», chiese con tono autorevole ma
senza tradire l’agitazione che lo aveva preso - Taichi
gli passò subito un bicchiere pieno per metà e si mise dall’altro lato di Shirabu, cercando di capire che cosa non andasse.
L’alzatore
della Shiratorizawa bevve con la stessa avidità che
mostrava da giorni durante gli allenamenti e la tosse sembrò dargli tregua,
permettendogli di avere di nuovo il controllo sul suo corpo. Sentire addosso lo
sguardo sia di Ushijima che di Kawanishi
lo innervosì.
«Sto bene»,
minimizzò con una certa impazienza, evitando di guardarli negli occhi perché
non capissero quanto poco credeva alle sue stesse parole «È stato solo un colpo
di tosse, devo essermi raffreddato».
Taichi sospirò, alzandosi ma senza staccargli gli occhi da dosso. Ushijima pensò per qualche istante se replicare o meno a quella che sapeva essere una bugia: c’era qualcosa che impensieriva Shirabu, lo sentiva da giorni, lo sentiva come fosse un fastidio fisico, un continuo punzecchiare della pelle. I legami di solito non erano così forti e Wakatoshi aveva capito da subito che quello che lo legava a Shirabu era particolare, era intenso; per questo sapeva esattamente che cosa stava succedendo e non era nulla di buono. Ma Kenjirou non ne voleva parlare, questo era altrettanto evidente.
«Forse è ora
di chiudere e di andare a dormire», suggerì il più piccolo - aveva l’improvviso
bisogno di chiudere la luce e nascondersi sotto le coperte, di fare in modo che
non lo fissassero, che non si concentrassero su di lui o sarebbe crollato.
Erano passati
diversi giorni e Shirabu era diventato sempre più
nervoso. Gli allenamenti non erano migliorati così come non era migliorata la
sua tosse o la sua stanchezza o il fiato corto che ormai lo prendeva sempre più
spesso.
Dire che
stava bene serviva a poco, ma il ragazzo cercava ancora di reggere, di
aggrapparsi a quelle parole e pareva voler convincere più se stesso che gli
altri. Continuava a ripetersi che sarebbe stato meglio, che presto si sarebbe
ripreso, cher era solo una brutta - strana -
influenza capitata nel momento sbagliato.
Ushijima lo fissava
senza avvicinarsi, sempre più consapevole ma senza sapere cosa fare. Aveva
provato a parlargli ovviamente, chiedendogli di prendersi una pausa, di
rallentare un po’ il ritmo che s’era fatto particolarmente intenso dato il
periodo dell’anno, ma Shirabu aveva ribattuto che non
c’era nulla di cui preoccuparsi e lo aveva in qualche modo chiuso fuori. Da
allora Wakatoshi non aveva più detto nulla, ma
controllava da lontano ogni suo movimento, ogni più piccolo dettaglio: la
sensazione di disagio che aveva provato quando Kenjirou
aveva cominciato a stare male ora era diventata molto più forte, forte da
tenerlo sveglio la notte, da essere un pensiero fisso nella sua testa.
Per questo
sentì chiaramente il corpo di Shirabu cedere. Stava
sistemando la palestra dopo gli allenamenti insieme a Tendou
e Semi: la palla che aveva in mano cadde, abbandonata a se stessa - tutto
quello che Wakatoshi percepì fu Shirabu,
fragile, in pericolo, senza di lui.
Il capitano
si affrettò fuori dalla palestra: non aveva bisogno di chiedere dove fosse il
ragazzo perché lo sentiva chiaramente, allo stesso modo in cui percepiva il
proprio corpo - Shirabu era ancora negli spogliatoi.
Quando entrò, lo trovò accovacciato contro il muro, una mano che si allungava
in alto, come se volesse provare a sostenere l’intero corpo e l’altra a
stringere la divisa all’altezza del petto.
«Sono qui»,
gli disse, piegandosi accanto a lui e poggiandogli una mano sulla schiena.
«Wakatoshi», sussurrò quello con un filo di voce e Ushijima tremò perché non l’aveva mai visto tanto indifeso da che lo conosceva.
Decise per
entrambi, decise in quell’istante che le cose non potevano andare avanti così,
facendo finta che non fosse nulla. Decise che la mattina dopo avrebbero preso
appuntamento con un medico per cercare di capire che cosa stesse succedendo.
Kenjirou non disse
nulla: Ushijima aveva preso la decisione che lui
aveva paura anche solo a considerare - Ushijima,
stava imparando, era tutto ciò che a lui mancava, tutte le volte in cui
mancava.
Shirabu era stanco.
Non solo fisicamente: Shirabu era stanco delle
ipotesi, degli accertamenti, delle parole dei medici, di tutta la gente che
aveva intorno. Shirabu era stanco degli sguardi
preoccupati, dei suoi compagni di squadra, che lo fissavano intensamente ogni
volta che si fermava a prendere fiato.
Soprattutto, Shirabu era stanco di non sapere. Perché, qualunque cosa
fosse, era certo che avrebbe potuto superarlo solo una volta saputo cosa fosse:
non avere un nome per quel malessere che lo stava prosciugando dall’interno
rischiava di farlo impazzire.
Per questo
non era preoccupato la mattina della biopsia. Avrebbe potuto finalmente avere
una risposta: la massa che la radiografia aveva rivelato nel polmone destro
poteva essere un cancro. Paradossalmente, non si sentiva spaventato – si
ripeteva che non sapere era peggio, che non conoscere che cosa stava succedendo
al suo corpo lo rendeva più instabile di quando sarebbe stato con qualunque
malattia, e questo lo faceva andare avanti.
Voleva essere forte come era sempre stato, voleva mostrare a tutti che non aveva bisogno di essere accudito, che non era improvvisamente diventato un bambino da sorvegliare. E voleva dare una pausa ad Ushijima. Il suo compagno non s’era dato un attimo di tregua da quando avevano deciso di fare tutti gli accertamenti del caso: era stato con lui costantemente, ad ogni visita, ad ogni analisi, quasi più dei suoi genitori. Non si era mai lamentato, non aveva ceduto neanche una volta e anzi, era stato sempre pronto ad una parola di incoraggiamento o di conforto quando Shirabu era irritato. Aveva saputo riconoscere i momenti in cui il silenzio bastava a dare conforto e quelli in cui invece l’alzatore avrebbe preferito parlare di qualunque cosa pur di saturare l’aria della stanza.
Shirabu non poteva
essergli più grato. E allo stesso tempo, Wakatoshi
restava una delle sue maggiori preoccupazioni: come avrebbe reagito ad una sua
malattia? Sentiva dolore? Sentiva il suo malessere? Gli aveva posto diverse
volte quella domanda e il capitano gli aveva sempre garantito di non sentire
nulla se non un leggero fastidio, dovuto più alla situazione in generale che
alla specifica malattia. Tuttavia, Kenjirou non gli
aveva creduto – sapeva quanto poteva essere forte il loro legame, era
impossibile che Ushijima non sentisse nulla.
La biopsia
non durò molto. Shirabu era stato contento di sapere
che l’anestesia sarebbe stata solo locale, perché non aveva alcuna voglia di
farsi ricoverare o di sopportare l’annebbiamento che un sedativo gli avrebbe
sicuramente causato.
Quando poté
lasciare la sua stanza, trovò ad aspettarlo in corridoio tutta la squadra della
Shiratorizawa. Stette a fissarli, il conforto per
quella presenza che faceva a pugni con la sensazione di sentirsi costantemente
messo in dubbio; poi semplicemente sospirò.
«I risultati
arriveranno fra un paio di settimane», li informò: lo avrebbero saputo
comunque, quindi tanto valeva che fosse lui la fonte delle notizie che
sarebbero circolate in breve in tutta l’Accademia.
«Come ti
senti?».
Se Shirabu fosse riuscito ad essere oggettivo con se stesso
come lo era con gli altri, si sarebbe preso a schiaffi per il modo in cui la
sua reazione all’esterno cambiava se l’esterno in questione era Ushijima. Perché quella domanda probabilmente lo avrebbe
irritato se posta da chiunque altro, mentre nella voce di Wakatoshi
non riuscì a sentire niente se non genuina apprensione.
Kenjirou era
dannatamente innamorato del suo capitano.
«Mi dà appena
fastidio la gola, sai per via del tubo che hanno inserito, ma è sopportabile»,
rispose in modo sincero. «E vorrei andare via da qui, ho visto fin troppo
spesso questi corridoi», aggiunse, alquanto seccato.
Mentre
camminavano verso l’uscita, Tendou che, accanto a
Semi, precedeva la coppia, notò con la coda dell’occhio un volto familiare che
camminava lungo il corridoio, in direzione opposta alla loro.
Chissà che ci fa qui dentro il capitano della Aoba Joshai, pensò con una certa curiosità.
A voler essere precisi, i risultati della biopsia
avevano impiegato venti giorni per essere pronti. Ed ovviamente avevano avuto
il peggiore dei tempismi. Shirabu aveva saputo il
giorno prima dell’inizio del torneo che, appena fosse stato libero, sarebbe
potuto passare a ritirarli con i suoi genitori e solo in quel momento aveva
realizzato quanto fosse reale tutta quella situazione. La cosa gli aveva fatto
girare la testa: sapere, improvvisamente, non era più la sua priorità.
Aveva mentito ad Ushijima –
aveva detto che sarebbe tornato a casa per passare un pomeriggio con i suoi,
s’era addirittura finto seccato dalla cosa ed aveva promesso che sarebbe
tornato in serata: nonostante fossero in vacanza già da un po’, i ragazzi della
squadra erano rimasti in Accademia per continuare gli allenamenti in vista
delle qualificazioni per i Nazionali e si dava il caso che quello fosse proprio
il giorno prima delle partite.
Wakatoshi non aveva detto nulla, s’era fidato e questo aveva
fatto sentire ancora di più in colpa Shirabu. Ma non
poteva portarlo con sé, non per questa cosa: aveva bisogno di conoscere per
primo, da solo, i risultati di quella biopsia, aveva bisogno di preparasi a ciò
che sarebbe accaduto se fosse risultata positiva.
Quando aveva preso fra le mani il foglio bianco
dell’ospedale, i kanji avevano preso a confondersi
tra loro davanti ai suoi occhi. Shirabu aveva dovuto
leggere più volte per essere certo di aver compreso ciò che quelle parole
significavano e quando era accaduto, non aveva avuto il coraggio di guardare
sua madre negli occhi.
L’esito era stato positivo.
La sera era tornato alla Shiratorizawa
come promesso – i suoi genitori gli avevano chiesto di restare, di lasciar
perdere la pallavolo e la scuola, perché nulla contava quanto la sua salute, ma
l’alzatore li aveva messi di fronte alla pratica constatazione che le partite
dei giorni seguenti non avrebbe fatto crescere il suo cancro più di un’intera
giornata passata nel letto ed era andato via. La verità era che non sopportava
il volto di sua madre o le parole di suo padre – aveva sempre avuto un tono di
voce forte e sostenuto, lui, mentre adesso pareva non essere in grado di
parlare senza tremare.
All’Accademia nessuno sapeva della sua malattia,
all’Accademia avrebbe potuto fingere di essere sano ancora per un po’, almeno
fino alla fine della partita. Per questo non aveva detto nulla, per questo era
arrivato con gli altri alla palestra ed aveva giocato con loro, fino alla
finale di quella mattina. Aveva retto, era stato bravissimo, era fiero di
quanto fosse riuscito anche lui a contribuire alle tre vittorie che avevano
ottenuto.
Shirabu sospirò, sistemandosi meglio la maglietta della
divisa e lasciando finalmente lo spogliatoio. Era l’ultimo passo da compiere,
l’ultimo sforzo da sostenere, l’ultima partita da vincere.
***
«Kenjirou, stai bene?».
La voce di Reon lo sorprese
– Shirabu quasi sussultò a quella domanda: s’era
accorto di qualcosa? Aveva forse giocato in modo da far notare che qualcosa non
andava?
«Sì. Mi gira solo un po’ la testa». Non aveva la forza
di mentire e, dopotutto, nulla in quella frase doveva per forza significare di
più del semplice fatto che era stanco per via dei set interminabili.
Nonostante tutto, Shirabu
non riusciva a pensare ad altro che alla sconfitta. La Karasuno aveva vinto e
loro avevano perso. La sua ultima partita non sarebbe stata una vittoria.
«Non avevo mai pensato che avremmo potuto perdere»,
ammise, pensando ad alta voce.
Reon, accanto a lui non sapeva bene che cosa dire: nessuno
aveva pensato che avrebbero potuto perdere e per questo la sconfitta bruciava
ancora di più. I ragazzi della Shiratorizawa non
riuscirono più a trattenere le lacrime – Reon si fece
scappare le prime e quelle di Shirabu le seguirono:
l’alzatore non sapeva precisamente perché stesse piangendo, se per la partita,
la sua malattia, la probabilità che non avrebbe mai più giocato: tutto era
confuso e mischiato in quel senso di oppressione che provava all’altezza del
petto e che solo le lacrime parevano poter esprimere.
La premiazione si svolse in silenzio. Shirabu poteva sentire chiaramente la Karasuno esultare, ma
tutti i suoi compagni di squadra non dissero nulla, si limitarono a ringraziare
per i complimenti che venivano loro fatti e guardavano davanti, con appena le
forze per andare via. Era triste: sentivano così cocente la sconfitta che quasi
non avevano voglia di fare nulla.
«Il tuo alzatore ha qualcosa che non va».
Quelle parole colpirono Kenjirou
come un secchio di acqua gelida addosso. Aveva perso la cognizione di ciò lo
circondava per qualche istante, quindi faticò a capire da dove venisse la voce.
Quando alzò la testa, il quattrocchi biondo della Karasuno stava parlando con Ushijima – entrambe le squadre erano dirette agli
spogliatoi ma s’erano fermate quando il ragazzo aveva parlato.
«Cosa hai detto del mio compagno di squadra?».
Tendou s’era fatto avanti, ciondolando in modo che le
braccia apparissero troppo lunghe per il resto del corpo – voleva spaventarlo,
voleva che ritirasse quello che aveva detto su Shirabu
ed andasse via, perché non aveva idea di quello che stavano passando.
«Non intendevo offendere». Tsukishima
era stanco come tutti gli altri, aveva solo fatto un’osservazione «Durante la
partita, ha faticato a resistere – quando sono tornato dall’infermeria per
l’ultimo set, era evidente che fosse allo stremo, molto più di noi, molto più
di quanto la partita richiedesse. Anche ora, è molto pallido».
«Cosa vuoi saperne tu?», Tendou
non avrebbe davvero dovuto prendersela tanto, ancor di più perché il commento
di quel centrale era oggettivo e non tratteneva davvero alcun tipo di malizia.
Ma dopotutto lui non era la persona più lucida con cui parlare.
«Va tutto bene, Satori. Ti
ringrazio per questo appunto», rispose Ushijima,
rivolgendosi al centrale con la sua solita calma e l’espressione serena.
Shirabu era bloccato sul posto, gli occhi vacui ma
spalancati, l’aria che prendeva a mancargli. Quindi si era notato. Quindi
qualcuno si era accorto del suo malessere, qualcuno di esterno che non
conosceva la sua condizione. Aveva davvero giocato male come credeva, forse era
stata solo colpa sua se quella partita era stata persa, alla fine. Aveva
sacrificato la vittoria per un atto di puro egoismo, per aver voluto giocare a
qualunque costo, senza informare i suoi compagni delle sue reali condizioni…
Ebbe voglia di vomitare.
Quando entrarono nello spogliatoio per prendere le
proprie cose e raggiungere il pullman, Tendou stava
ancora borbottando qualcosa contro Tsukishima – non
gli era piaciuto il modo in cui aveva parlato di Shirabu,
non gli era piaciuta la sua sfrontatezza, il suo tono saccente. In definitiva
lo odiava. Ushijima annuiva ad ogni nuova frase che
l’amico diceva a riguardo e Semi cercava di zittirlo perché quella era davvero
l’ultima cosa di cui avevano bisogno, distrutti com’erano.
«L’esame è positivo».
Shirabu sussurrò quelle parole nella stanza, senza essere
certo che qualcuno gli stesse prestando attenzione. Aveva solo bisogno di
dirlo, perché era stata la peggiore delle idee tenerselo dentro e giocare,
quindi doveva rimediare in qualche modo. Anche se non avrebbe potuto dar loro
la vittoria.
Qualcuno dei ragazzi lo guardò. Nessuno disse niente. Tendou ancora parlava, quindi Kenjirou
pensò che non lo avesse affatto sentito. Di fronte a lui, però, gli occhi di Goshiki lo fissavano, enormi e pieni di lacrime; le mani
avevano coperto la bocca e sembrava non stesse respirando. Goshiki
lo aveva sentito, perché era un primino fastidioso e
gentile con tutti, perché in qualche modo sapeva sempre esserci nel momento
giusto.
«La biopsia è positiva», ripeté il ragazzo, con più
forza nella voce.
Stavolta il silenzio calò completamente nella stanza. Tendou smise di parlare; ad Ushijima
cadde il borsone dalle mani mentre un dolore tremendo gli bloccava il petto. I
singhiozzi di Goshiki presero a scandire il tempo
che, altrimenti, si sarebbe potuto dire congelato. Nessuno sapeva che cosa
dire, nessuno sapeva come rimediare a quelle parole.
«L’ho saputo il giorno prima che cominciassero le
qualificazioni, ma non volevo dirvelo perché c’era bisogno che tutti fossimo
concentrati su queste partite. Mi dispiace, probabilmente è stato egoistico da
parte mia, perché se lo aveste saputo non avrei giocato e forse questa partita
sarebbe finita diversamente».
Shirabu diceva tutto quello che aveva dentro senza fermarsi e
senza guardare nessuno dei compagni negli occhi – aveva solo voglia di sfogare
ciò che sentiva senza essere interrotto, ma non sapeva se sarebbe stato in
grado di sostenere gli sguardi degli altri. Che cosa stavano pensando di lui?
Lo odiavano per aver tenuto nascosta una cosa di queste dimensioni? O forse
provavano semplicemente pietà per un ragazzo troppo giovane per avere il
cancro?
Perché Shirabu aveva il
cancro. Dio, lui aveva il cancro.
«Perché non me l’hai detto?». Il sussurro di Wakatoshi lo ferì e non riuscì a non guardarlo. Il suo compagno, impallidito, gli restituiva
uno sguardo pieno di dolore.
«Non volevo che una notizia del genere ti togliesse la
concentrazione necessaria per questo torneo, non volevo che smettessi di pensare
a vincere solo perché io…».
«Stai davvero paragonando una partita di pallavolo con
la tua salute?!»
A gridare era stato Semi, che fissava l’alzatore con
occhi sbarrati e pieni di rabbia – no, Shirabu non
poteva essere tanto stupido, non poteva essere arrivato ad una conclusione del
genere! Eita non poteva credere che Shirabu avesse pensato di far loro un favore non dicendo
niente, quando negli ultimi mesi non era passato giorno in cui tutti non
fossero preoccupati per la sua salute, per quello che poteva succedere... E
lui, lui più di chiunque altro...
«Ci siamo allenati tanto per questa finale, non
sarebbe stato giusto che io-».
«Abbiamo perso in ogni caso!»
Semi era fuori di sé dalla rabbia, le mani gli
tremavano, le spalle erano rigide, i tratti del viso stravolti. Shirabu non l'aveva mai visto in quello stato - nessuno lo
aveva mai visto così. Tendou gli poggiò entrambe le
mani sulla schiena, provando a calmarlo, ma questi si scansò seccato, facendo
qualche passo in avanti.
«Parli come se non fosse importante, come fosse una
sciocchezza! Ti sei forse messo in testa di morire?».
Semi seppe di aver sbagliato nel momento stesso in cui
l'ultima parola lasciò le sue labbra. Non avrebbe dovuto dirlo, non avrebbe
dovuto essere così privo di tatto. Eppure Shirabu
continuava a dargli l'impressione di credere che quello di oggi sarebbe stato
il suo ultimo sforzo e la cosa lo faceva impazzire.
«Volevo giocare...», sussurrò Shirabu - perché improvvisamente era tanto stanco? «Volevo solo… solo… giocare». Dio, da quando era tanto facile arrivare alle lacrime? L’alzatore le ricacciò indietro: no, lui non piangeva e non avrebbe cominciato a farlo da adesso. Non si sarebbe lasciato portare via anche questo.
Semi avrebbe voluto replicare, avrebbe voluto di nuovo
scrollarsi di dosso la presenza di Tendou, ma non fu
possibile fare altro. Il pianto di Goshiki interruppe
la scena e distolse per la prima volta l’attenzione da Shirabu.
Il primino, seduto su una panca in un angolo della
stanza, aveva il viso nascosto tra le mani e tremava da testa a piedi; non
stava neanche provando a soffocare i singhiozzi che, anzi, riempivano la stanza
in maniera rumorosa.
Come facevano gli altri a non capire? Come faceva Semi
ad essere arrabbiato e Shirabu a rispondergli? Come
facevano a respirare, come facevano a non piangere? Era possibile non piangere?
E come stava Ushijima? Sentiva dolore…? Shirabu sentiva dolore? Perché lui lo sentiva il dolore -
fitto, perforante, soffocante, all’altezza dello stomaco, non pareva volerlo
lasciar stare e lo faceva piangere. Goshiki non si
accorse di star gridando, non riuscì a cogliere le sue stesse parole: si
ritrovò semplicemente a terra e poi tra le braccia di Reon
- Reon lo stava stringendo? Perché?
«Va tutto bene, Tsutomu. Tutto bene. Cerca di respirare. Ora passa, cerca solo di respirare», lo sentiva sussurrare, ma il dolore era così forte… Shirabu aveva il cancro. Shirabu sarebbe potuto morire. Esisteva una possibilità, uno scenario futuro in cui Shirabu non ci sarebbe più stato. Come si faceva a respirare con un simile pensiero in testa? Il primino si aggrappò alla maglietta di Reon e pianse contro il suo petto, consumando tutto il fiato che aveva, perché non era in grado di reggere il dolore.
Ushijima si avvicinò a Kenjirou
senza dire nulla - il ragazzo aveva la testa bassa e i pugni stretti e lui non
avrebbe voluto fare altro che prenderlo e portarlo via, dove la sofferenza che
sentivano sarebbe semplicemente sparita.
«Torniamo a casa, Wakatoshi», sussurrò l’alzatore.
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I guess I’m back! Ancora una volta con una soulmates!AU e nuove coppie da traumatizzare! Alla Ushishira sono particolarmente legata, quindi quella che doveva essere una shot si è trasformata in una roba di oltre cento pagine di word… spero che possa piacervi!
Qualche precisazione: il titolo è tratto da “Goner” dei Twenty one pilots, mentre la citazione proviene dall’episodio di Eurialo e Niso, nell’Eneide.
Cercherò di mantenere gli aggiornamenti regolari, ogni settimana / dieci giorni, dal momento che la storia è praticamente conclusa!
A presto e grazie anticipatamente a chiunque presterà attenzione a queste righe!