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Autore: Raptor Pardus    28/10/2017    0 recensioni
A volte odo sussurri.
Non ricordo quando fu la prima volta, ma ricordo il buio che vidi quando quella voce penetrò nella mia testa, dilaniando le mie cervella e moltiplicandosi come un cancro.
Ti prego, ti prego non te ne andare, ascolta! Ascolta la mia storia, lascia che io possa narrare il momento in cui la mia esistenza ha acquisito un senso...
La pioggia acida batteva contro il parabrezza della volante blu scuro che vagava silenziosa, di pattuglia, per le vie sporche della città, piene di insegne al neon e lampade alogene in cui i suoi abbaglianti si confondevano, una minuscola goccia luminosa in un oceano di luci soffocanti che brillavano nella triste notte senza stelle.
Genere: Azione, Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Violenza
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Sussurri

 
A volte odo sussurri.
Non ricordo quando fu la prima volta, ma ricordo il buio che vidi quando quella voce penetrò nella mia testa, dilaniando le mie cervella e moltiplicandosi come un cancro.
Ti prego, ti prego non te ne andare, ascolta! Ascolta la mia storia, lascia che io possa narrare il momento in cui la mia esistenza ha acquisito un senso.
Ricordo il buio che mi velò gli occhi, ricordo ciò che vidi attraverso il buio quel giorno: un’ombra, ammantata in un velo ancor più nero. Emanava un’aura che faceva rabbrividire, un alone intorno a sé che la separava da ogni cosa. La figura, esile nell’aspetto, curva, ma ben più alta di me, mi parlava, sussurrando, sibilando.
Diceva una sola parola, ripetuta all’infinito da infinite voci: uccidi.
 
La mia prima vittima fu un facile bersaglio, ancora mi fremono le mani al ricordo, ancora sento la salivazione aumentare solo a rievocare il piacere che mi causò.
Fu un bambino, rapito non lontano da un parco giochi in una sera di dicembre.
Nevicava, lo ricordo perfettamente.
Mi seguì come un agnellino non appena gli mostrai qualche stupido regalo, ubbidendo ad ogni mia richiesta.
Non so nemmeno quanti anni avesse, non so nemmeno il suo nome.
Ma ricordo i suoi occhi, di un verde intenso, quasi smeraldino, li ricordo mentre recidevo le sue vene partendo dai polsi e salendo fino alle spalle, scoprendo i suoi giovani piccoli muscoli sotto la chiara, pallida pelle, li ricordo mentre il buio oscurava la mia vista, e non restavano che loro, a fissarmi nell’oscurità.
 
La creatura mi appariva in sogno, ripetendo sempre le stesse parole, compiendo sempre lo stesso macabro rito.
Adesso però vi era una nuova scena nei miei incubi: un anello di fiamme, al centro del quale io mi ritrovavo immobilizzato, avvolto in garze, come una mummia.
Non riuscivo a vedermi, ma sentivo il tessuto ruvido sulla mia nuda pelle e le lingue di fuoco che lambivano il mio collo.
La figura oscura era davanti a me, ora così vicina che le nostre labbra quasi si sfioravano, e continuava a ripetere sempre la stessa parola: uccidi.
 
La seconda vittima fu una prostituta raccolta in mezzo alla strada, nel pieno della notte, una ragazzina ancora nel fiore della giovinezza, dai capelli scuri, corvini, due grandi occhi languidi, incerti.
Andammo in un campo di grano ormai maturo, dove lei mi concesse le sue grazie, e nel pieno del coito, steso per terra e bloccato al suolo dalle sue forme, la pugnalai al ventre.
Lei non vide la lama, continuando a gemere per il piacere, né percepì i suoi intestini venir vomitati fuori dal suo ventre mentre io affondavo ancor più la lama nella carne, avvicinandomi ai suoi seni acerbi.
Morì sopra di me, ancora ansimando.
 
Gli incubi divenivano sempre più ricorrenti, sempre più vividi.
Ormai iniziavo a vedere la creatura anche da sveglio.
Persi il lavoro in poche settimane, persi qualsiasi contatto umano, persi qualsiasi contatto con la realtà.
Iniziavo a non curarmi più; io, che avevo sempre avuto un’attenzione maniacale nella cura della mia immagine, adesso apparivo sciatto, trasandato, sporco.
Mentre il mio volto si ricopriva di una barba incolta, mentre i miei capelli e le mie unghie si allungavano senza controllo, iniziai a parlare al mio incubo.
Gli diedi un nome, dandogli ormai del tu, e, per la prima volta, l’incubo mutò le sue parole.
Non ci volle molto perché iniziasse a rispondere alle mie domande, e per me non ci volle molto per cedere alle sue lusinghe.
Voleva sempre più sangue, voleva sempre più vittime.
 
Iniziai a rubare per sopravvivere, divenendo sempre più ardito nei miei furti.
In un appartamento al settimo piano di un palazzo pacchianamente appariscente trovai un giovane uomo dai comportamenti ambigui, troppo intento a parlare al cellulare per accorgersi della mia presenza.
Gli calai un sacco in testa, rubai la sua auto e lo portai fuori città.
Sotto la luna piena iniziai a pugnalarlo tra le gambe, più e più volte, riducendo ad una massa informe i suoi attributi, squarciando le sue natiche e rivoltandogli il retto.
Quando non ebbe più la forza di implorare pietà gli diedi il colpo di grazia tra scapola e clavicola, abbandonando poi il cadavere in un cerchio fatto del suo stesso sangue.
Erano margherite che fiorivano tutt’intorno al nostro piccolo teatro, margherite i cui petali si tinsero presto di rosso.
 
Dormivo, vegliavo, ormai non vi era più differenza.
La realtà mi appariva un sogno, ed i miei sogni erano la mia realtà.
Profonde rughe e vistose occhiaie segnavano il mio volto contrito mentre sussurravo al mio incubo.
Egli mi dava forza, mi sosteneva, alimentava il mio ego e il mio animo mentre il mio corpo rapidamente deperiva, come un fiore che appassisce per far spazio al frutto che lo seguirà.
Ed il mio albero era il sangue, l’incubo le mie radici.
Chiesi io quale sarebbe stata la mia successiva fonte di piacere, iniziando ad avvertire il senso di dipendenza che togliere la vita mi stava causando.
Ma come potevo fermarmi, quando finalmente mi sentivo realizzato.
 
Dal balcone del mio appartamento vidi la vittima desiderata, in mezzo alle luci di chi mi stava cercando.
Era un nero, grosso come un toro, mani grandi e forti, spalle larghe e gambe lunghe.
Divorai il suo fisico marmoreo con lo sguardo e, quando il sole calò dietro i palazzi della periferia, uscii dal mio covo per cacciarlo.
Lo colpii con una spranga in testa, spappolandogli le cervella, mentre era distratto dall’aprire la porta della sua piccola casa in uno scantinato.
Mentre gemeva per il dolore, ancora cosciente, estrassi la lama e la affondai nel suo petto, aprendolo in due fino al pube, stracciando la canotta che indossava ogni giorno.
Toccai il suo cuore pulsante, caldo e umido, all’interno della sua cassa toracica, godendo irrefrenabilmente nel penetrarlo, nello strappargli l’organo dal petto e lasciarlo lì, appoggiato sulla ferita sanguinante.
Gli sfondai il cranio con la spranga, colpendolo più e più volte, mentre era ancora vivo, e lo abbandonai lì, sulle scale di casa sua, scompostamente riverso per terra in una pozza di sangue e materia grigia, nel buio della notte.
 
Ormai schiumavo dalla rabbia, artigliando e ferendo le mie stesse carni, desideroso di versare altro sangue.
Nero divenne il mio animo, e il rosso cercavo, guidato dall’essere, l’Incubo, la mia guida e il mio scudo.
Oramai la mia dimora era una discarica, ed era palese che a breve chiunque fosse passato nei dintorni, arricciando il naso al puzzo dei miei rifiuti, avrebbe chiamato chi di dovere.
Mi ero ridotto ad una bestia, dando sfogo ai miei bisogni sui muri e scordando presto i precetti base del comportamento umano.
Mi aggiravo nudo per i corridoi, dando la caccia ai piccoli animali che ormai avevo attirato in quel lerciume, divorando qualsiasi cosa si muovesse prima di finire tra le mie grinfie.
Incubo mi diceva di non perdere la strada, di continuare a portare doni al suo altare, ed io non me lo feci ripetere.
 
Una notte d’estate mi intrufolai in una villetta poco fuori città, le cui finestre erano state lasciate aperte per combattere il caldo afoso.
I proprietari si cullavano nella falsa speranza che i loro angeli custodi li avrebbero protetti, ma eluderli fu ridicolmente facile.
Il primo a cadere fu il marito, affondai i denti nella sua gola mentre ancora dormiva accanto alla moglie.
Morì soffocato dal suo stesso sangue, svegliando la moglie con i suo rantolii lamentosi.
Le urla della donna durarono poco, presto sostituite dal pianto, mentre l’afferravo e la piegavo al mio volere, possedendola come farebbe una bestia.
La uccisi all’apice dell’orgasmo, banchettando poi con le carni di entrambi i coniugi.
Solo quando finii di rifocillarmi trovai la camera della bambina, ancora intenta a dormire, protetta dalla porta socchiusa.
La rapii nel sonno, portandola nella mia tana.
 
La ragazzina implorava pietà, piangendo in continuazione.
Incubo sussurrava al mio orecchio, baciando il collo della piccola creatura davanti ai miei occhi, diceva cose ovvie, quasi non sapessi come venerarlo.
Violentai la femmina per una settimana, finché il suo corpo non cedette per la fatica e l’inedia.
Banchettai con le sue carni e quindi portai ciò che restava del suo corpo nelle fogne, avendo trovato un accesso nei piani più bassi del palazzo dove dimoravo.
Non ci volle molto perché la sostituissi con un bambino, rapito in quello stesso palazzo.
 
Forse è meglio che mi sbrighi nel raccontarti questa mia storia, non ho più molto tempo.
Incubo mi chiamava a sé ormai, tendendomi una scheletrica mano nera da uno spiraglio di luce alla fine di un tunnel immerso nell’oscurità.
Mi chiese solo di rompere il collo a quest’ultima creatura, non me lo feci ripetere.
Incubo ormai era là, fuori dalla finestra dell’appartamento, e mi chiamava con parole dolci.
Fuori pioveva, la pioggia acida attraversava il suo corpo come fosse un’ombra.
Ma rumori mi attiravano lontano da lui.
Ecco, li senti? Li senti anche tu ora, rumori di porte abbattute.
Sento la pioggia sulla mia pelle, mi accorgo solo adesso di avere un braccio proteso fuori dalla finestra.
Sento la mia pelle umida, bagnata dall’acqua, una sensazione che non provavo da tanto tempo.
Giù, per strada, luci, sirene, fari, urla.
È tutto confuso, nella mia mente, al di fuori della mia mente.
Sento il battito del mio cuore, che impazza accelerando, battendo come un martello su ferro rovente.
Brucio, mi sento male, gli angeli vendicatori ormai sono qui.
E la mia ora!
Il mio destino è compiuto.
O forse è solo tutto un delirio.
Buio e luce si fondono, vedo solo ombre.
Ondeggio, vagando per la casa, finché non inciampo in qualcosa, cadendo rovinosamente a terra.
Metto a fuoco a stento il cadavere della mia ultima vittima, e la nausea mi assale.
Corro in bagno, mi fermo sul lavandino, pronto a vomitare.
Alzo lo sguardo, e vedo il mio riflesso nello specchio di fronte a me, vedo il mostro che sono diventato, e mi disgusta.
Eppure mi piace.
Sento il fuoco dentro di me, sento la rabbia, sento la lotta che sta avvenendo tra le due parti del mio spirito.
Ma da quanto sono qui? Da quanto sto parlando? A chi?
La confusione mi assale, mi gira la testa.
Dietro di me vedo l’Incubo, lo sento, mi accarezza suadente.
Egli è parte di me.
Egli è me.
E voglio distruggerlo.
E abbandonarmi completamente a lui.
L’odio mi divora, l’odio verso me stesso, e decido che devo distruggere cosa sono diventato.
Colpisco me stesso, colpisco il mio riflesso, lo specchio si spacca, la mia fronte sanguina.
Li sento, gli angeli ormai sono dentro la casa.
Barcollo fino al cadavere del bambino, e mi accorgo che nella mia pazzia ho tracciato un pentacolo col suo sangue, sul pavimento.
Fisso i miei polsi, divorati dall’Incubo, esili, quasi morti.
In una mano stringo un frammento di vetro, nemmeno mi sono accorto di averlo raccolto.
È un attimo.
La lama improvvisata affonda nella mia pelle sottile e mi recide i tendini del polso.
Per recidermi il secondo impugno la lama con la bocca, tagliandomi le guance.
Sento il sapore del sangue in bocca, acre, marcio, e sputo il frammento nelle mie mani ormai fuori controllo, cercando di trattenerlo con gli avambracci.
Cado in ginocchio, urlando, gli occhi fuori dalle orbite, e affondo il vetro nel mio ventre.
Cado a terra, mentre gli angeli mi circondano puntandomi contro la luce delle loro torce e le loro armi, fisso il soffitto, e vedo l’Incubo che si rispecchia in me, mi fissa, e attende in silenzio.
Mi chiama, ma non parla, mi attira, mi succhia, nel buio, mi reclama.
Il mio cuore si ferma, l’Incubo mi bacia, e finalmente trovo la pace.

   
 
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