Anime & Manga > Caro fratello
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Autore: Miss_Moonlight    30/10/2017    1 recensioni
Con questo racconto, ho voluto proseguire il manga di Ryioko Ikeda, "Oniisama e" ("Caro Fratello"), dunque segue gli avvenimenti del fumetto, non quelli dell'anime (cartone animato).
Rei Asaka (Saint Just) pare essersi suicidata, mentre Kaoru Orihara è morta di cancro, due anni dopo il matrimonio con Takehiko Henmi e la loro partenza per la Germania.
La storia del manga era ambientata verso la fine degli anni Settanta, dunque, nel mio racconto, siamo negli anni Ottanta.
La pubblicherò a capitoli ma non farò attendere molto; ho finito il racconto, lo sto solo ricopiando a pc (dato che a me piace scrivere su carta :) )
Se qualcuno leggerà e ed avesse voglia di scrivermi un commento, mi farebbe piacere!
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Fukiko Ichinomiya, Mariko Shinobu, Nanako Misonoo, Rei Asaka, Takehiko Henmi
Note: Lime | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate, Threesome
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*Aveva gli occhi chiusi, le lunghe ciglia adagiate delicatamente, come serrande sottili. Distesa sull'erba, aveva il viso liscio, l'espressione serena ed a vederla così, avrei potuto giurare che stesse sognando qualcosa di bello e piacevole, come una dolce carezza.
Il sole primaverile filtrava tra i rami del grande albero, come per raggiungerla e posarsi sui bei lineamenti del suo volto regale. I capelli erano come spuma, languidamente accoccolati sull'erba; biondi, così lunghi… Oh, come l'amavo! Mi faceva male il cuore, il torace intero. Il mio petto era pieno di un soffio, carico di energia, come un uragano. L'amavo così tanto, di così tanta, struggente, tenerezza, che il solo guardarla, pensarla, mi faceva salire le lacrime agli occhi e, per poco, non mi sentivo mancare; mi girava la testa.
“Ti sento. Che hai da fissare? Ormai mi conosci a memoria.” Mi disse, con il sorriso nella voce, voltata la testa verso di me.
“Non mi abituerò mai a ciò che amo.” Le risposi.
Sorrise, vinta. “Tu ami tutto.”
“Niente quanto te.”
Scosse la testa. Lo sapevo che si sentiva disarmata dal mio affetto, dalla mia dedizione, dal mio esserci stata sempre, dal primo momento in cui l'avevo vista. Sempre, senza chiederla mai nulla più che di poterle stare accanto.*

Aprì gli occhi. Le facevano male i cervicali. Si era appisolata sulla sedia del tavolo, nel cucinotto. Si sentiva la bocca impastata, lo stomaco pesante. Si alzò, versò della tisana già preparata ed andò nell'altra stanza.
Guardò l'orologio-sveglia sul comodino, accanto al letto: le 2.10 di notte. Qualche ora prima aveva deciso di rispondere al telefono di casa, cosa che non faceva da giorni.
“Nanako?!”
“Ciao, mamma.”
“Finalmente ti trovo! Tuo padre… è grave. È in ospedale.”
Si mise a cercare qualcosa, nei cassetti dell'armadio, prima, in quelli del piccolo tavolo da trucco, poi. Lo trovò. Il diario con la copertina nera, in pelle morbida, con le pagine color panna, senza righe. Lo annusò: profumava di libro vecchio.
Si sedette al piccolo tavolo da trucco, situato vicino alla porta-finestra che dava sul poggiolo. Si sedette ed iniziò a scrivere.

Cara” me,
è tanto tempo che non scrivo i miei pensieri, i miei sentimenti, né gli accaduti o le paure… L'ultima volta l'ho fatto a lui, cinque anni fa. Era fine estate, l'estate dei miei diciotto anni.
La sua lettera, giunta dalla Germania, aveva portato alla mia conoscenza l'ennesima sconfitta della vita, la sconfitta di troppo.
È strano ma non ho perso l'abitudine alla scrittura. La penna scivola su questo foglio e mi spaventa che, forse, potrei andare avanti tutta la notte; questa notte, che passerò qui, prima di partire, per tornare là dove ho vissuto gli anni miei più belli.
Sono cinque anni che non torno. Era settembre quando partii, così come lo è ora.
Mi stai mettendo di fronte alla necessità di chiudere il cerchio, vita?
Oh, che scrivo! A cosa sono capace di pensare, anche in un momento come questo! Papà… Papà!
Ho abbandonato anche te, padre mio. Chissà se mi consideri ancora una figlia, nel tuo cuore.


L'ospedale grigio e spoglio aveva un aspetto comunemente opprimente ed inamicale.
Procedette lungo il corridoio con passi non veloci, come se temesse l'attrito dell'aria, nell'ambiente.
I pantaloni, a tartan grigi e neri, accompagnavano il suo incedere misurato e la giacca nera toccava i suoi esili fianchi, come ad obbedire al ritmo scandito dal “toc toc” delle stringate corvine.
Scorse sua madre, seduta su una sedia di plastica, davanti a sé. Aveva la testa inclinata in avanti, appoggiata ad una mano ed i capelli come sempre raccolti ma scarmigliati e colorati d'argento.
Non indossava il kimono, com'era stata consueta fare ma un completo in maglina, color caffèlatte
“Mamma!” La chiamò.
La signora Misonoo alzò il volto all'improvviso e rimase ferma qualche istante. La bocca leggermente aperta, l'espressione interdetta.
“Nanako!” Si alzò e l'abbracciò.
Lei la sfiorò alla schiena, lievemente. “Ho preso il primo volo che ho trovato… Lui… dov'è?”
“Là, dentro. Non è cosciente. È attaccato al respiratore da tre giorni, oramai.”
La mamma la condusse alla porta, che lei aprì, con i battiti del cuore quasi gelati. Lo vide. Li vide entrambi. Suo padre disteso, con un 'espressione contrita, intubato. Takehiko seduto di fianco, con i capelli più lunghi, sul collo, di quanto fossero stati in passato. Aveva un po' di barba e l'aspetto di un uomo adulto. Indossava pantaloni grigi ed un maglione blu; molto più informale di un tempo.
“Oh, ma… Nanako, sei tu!” Esclamò Takehiko.
“Ciao...”
Ci fu un attimo di silenzio, dopodiché lei chiese: “posso rimanere sola con lui?” - e Takehiko e la madre uscirono.

Mezz'ora dopo, entrò nella stanza sua madre, per dirle che era ora di andare a casa, a cenare e riposare ma Nana volle rimanere ancora.
L'orario delle visite era passato da molto, quando un'infermiera le disse che non poteva più concederle ulteriore tempo.

Arrivò a casa come un' automa, prendendo i mezzi pubblici, condotta dall'abitudine istintiva, incorporata.
Non guardò neanche quella che era stata la sua casa, per gran parte della sua vita. Tirò dritto ed aprì la porta, con le chiavi che le aveva lasciato la madre, prima di andarsene dall'ospedale, con Takehiko.
Cercò di essere silenziosa. Non voleva che i suoi la sentissero. Non voleva vederli, non voleva dover sostenere i loro sguardi e, tantomeno, le loro parole.
Si tolse le scarpe e salì le scale.
“Nanako!”
Suo fratello era apparso sull'uscio della porta dello studiolo di suo padre.
“Nana. Adesso mi chiamano tutti Nana.” Rispose lei, senza neanche accorgersi di averlo detto.
Takehiko restò interdetto per qualche istante. Poi, in un sospiro, ripeté: “Nana. Ho portato a casa la tua valigia. L'ho messa nella tua vecchia camera, come ha detto la mamma.”
“La mamma?” fece riecheggiare lei, con un tono di voce che suonava disturbato.
“S...sì. Tua mamma. Nananko… Nana. Possiamo parlare?”
“Tu dormi qui?”
“Sì, nello studio di papà. Ha comprato un divano letto anni fa, affinché mi fermassi qui, quando li venivo a trovare. Anche la ma...ehm, tua mamma, ha insistito affinché stessi qui. Inizialmente, ero andato in una locanda...”
“Non ti devi giustificare. Non volevo farti intendere che ne avessi motivo.”
“Puoi entrare un po'?” Chiese Takehiko ed indicò l'ingresso dello studio.
Nana entrò.
Il divano-letto era aperto e preparato per la notte, con una grossa coperta a quadrettoni sopra.
*Takehiko è freddoloso?* pensò.
A parte il divano letto ed una pianta – una San Severia –, vicino alla finestra, la stanza era rimasta identica.
Takehiko si sedette sul letto e si torse le mani; prese fiato ed esordì: “Nanako, che ne è di te? Sono… ero il tuo caro fratello...”
Come un fulmine, lei girò le spalle ed uscì dalla stanza, a passo spedito.
Takehiko la seguì. “Aspetta, aspetta Nana!” ma non voleva gridare, non voleva iniziare una discussione accesa che avrebbe potuto disturbare la mamma.
Nana entrò nella sua stanza e si chiuse la porta alle spalle, vi si appoggiò e chiuse gli occhi, quindi inspirò profondamente. Restò così qualche attimo; poi, aprì la valigia e ne estrasse il diario. Si sedette alla scrivania, quella dove cento, mille volte si era seduta per scrivere le sue lettere alla persona che aveva considerato il suo più grande confidente e che, in quel momento, si trovava nella stanza di fianco, solo, come lei.

Cara” me,
non mi sono cara, dunque non dovrei usare questa parola, nei confronti di me stessa ma ho sempre iniziato così le mie lettere…
Non ho il coraggio di guardarmi intorno, di osservare questa casa, questa stanza… La sola idea di questi luoghi è opprimente, al punto che fatico a respirare. Vorrei fuggire, eppure, mi sto odiando per essere fuggita, all'epoca, lasciando soli la mamma, il papà, Takehiko… Mio fratello… Lui, ora, è qui, nella casa dove sono cresciuta, assieme ai miei genitori ed è come se fosse parte naturale della famiglia. Cos'è successo finché sono stata lontana? È come se lui si fosse integrato. Ha chiamato mia madre . Non avrei mai neanche osato sognare tanto, quando mi illudevo che il professor Henmy potesse essere come mio fratello.
In cinque anni, possono essere successe moltissime cose.
Com'è accaduto che il papà è finito così? Stava male? Se così fosse, qualcuno me l'avrebbe detto. Mi avrebbero avvisato, se avesse avuto gravi problemi di salute. O, forse, lui non ha voluto? Forse, non mi considerava più sua figlia?
Se così fosse, non potrei fargliene una colpa.
Sono io ad essermi comportata come se non fossi più sua figlia.
Per cinque anni.
Cinque anni, che per me non hanno contato nulla ma, per gli altri, sono lungo tempo…
La mamma è invecchiata ed ha la tristezza negli occhi.
Era sempre stata la mia buona mamma. La mamma e basta. Prima di andarmene da qui, non avevo pensato particolarmente alla mamma. Lei c'era ed io l'amavo.
Poi…. Poi… questi cinque anni… Cinque anni bui, nel labirinto. Cinque anni, come niente.

Nana alzò la testa e si guardò nello specchio, fissato sopra allo scrittoio.
Aveva gli occhi stanchi, un po' cerchiati e del trucco spanto, sotto.
Riprese la penna.

Ho gli occhi troppo grandi. Li ho sempre avuti troppo grandi. Se non avessi preso l'abitudine di truccarmi di scuro, forse sembrerei ancora una bambolina, anche se… rotta.
Takehiko mi ha guardata come se fossi un fantasma… E non so il fantasma di chi abbia visto in me.Quando ero ragazzina, non pensavo quasi per nulla al mio corpo. Cioè, ero io ed il mio corpo era la naturale ed inalienabile estensione di me. Poi, è diventato estraneo. Non so, di preciso, quando sia cominciato. Me lo sono chiesto, diverse volte ma non trovo il preciso punto d'inizio.
Forse è cominciato quando mi sono fatta più bionda, il giorno prima di iniziare l'università, a Parigi.
Parigi… La Parigi di fine anni Settanta permetteva tutto.
Avresti amato Parigi, Saint Just.
Cosa proverò se non potessi più parlarti, papà? Se tu morissi senza sapere che sono tornata per te, solo per te.

   
 
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