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Autore: Liizzie    05/11/2017    0 recensioni
"Sinestesia": accostamento di due parole appartenenti a diverse sfere sensoriali. Interpretando a modo mio questa figura retorica, ho deciso di accostare due mondi opposti (ma non più di tanto): la letteratura e arte.
É una raccolta di OneShots, ognuna delle quali racconta la storia che c'è dietro ad un'opera d'arte. I personaggi presentano tratti che rimandano a uno o più membri degli One Direction. Sarebbe difficile darvi una trama unica, ma c'è una cosa che accomuna ogni storia: l'arte.
Ho deciso di scrivere questa raccolta per incitare la gente ad apprezzare di più le opere d'arte: espressione della libertà umana. Al giorno d'oggi non ne capiamo l'importanza, ma dietro ogni quadro si cela una storia ed io ho deciso di raccontarvele a modo mio.
Se volete saperne di più, passate a leggere la prima! E' incentrata su una storia d'amore nata sulla nave "Méduse" tra due giovani, che si ritrovano a dover combattere la morte nella "Zattera della medusa", ricorrendo anche ad atti antimorali (come il cannibalismo) pur di sopravvivere.
Tutto ciò è arrivato a noi grazie a Géricault e al suo dipinto conservato al Louvre "Le Radeau de la Méduse".
Genere: Romantico, Slice of life, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, Lime, Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Incompiuta
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♒︎ La Méduse ♒︎ 

   Le Radueau de la Mèduse, Théodore Géricault, 1819, olio su tela, Museo del Louvre, Parigi

 

 

 

Giugno 1816. La Méduse è appena partita. Stavo finalmente compiendo il viaggio che aspettavo da una vita. Non vedevo l’ora di imbattermi nel mare in tempesta e capire la sensazione di pieno contatto con la natura. Per non parlare poi della destinazione: il Senegal, colonia che fino a pochi anni prima non pensavo che avrei mai potuto vedere. Non sono mai uscito dalla Francia e da Rochefort, ho sempre preferito dedicarmi allo studio costante per arrivare a fare un giorno ciò che stavo facendo oggi: imbarcarmi ed esplorare il mare. Mi ero appena laureato in Ingegneria ed ero stato chiamato per questa spedizione in Sènegal: la Francia doveva andare ad accertarsi che l’Inghilterra le avesse restituito la colonia. 

Eravamo tutti così eccitati di partire! Vedevo nei volti un senso di realizzazione, e felicità. Ma in particolare entusiasti di esplorare una nuova terra e di avere l’onore di accompagnare in Sénegal due personaggi di prestigio: il futuro governatore senegalese e la sua famiglia. 

Avevano una Troupe composta da 400 uomini: tra ingegneri, medici, cuochi e aiutanti. Nonostante la mia felicità qualcosa mi turbava: colui che guidava la fregata, Hugues de Chaumareys. Hugues era stato un mio compagno di corso fin dal primo anno di università. In lui avevo visto tutto, purché l’impegno. Era un ragazzo disinteressato costretto a studiare dai genitori che volevano un futuro prosperoso per il figlio. Aveva avuto sempre il minimo voto ad ogni esame, ed aveva conseguito una laurea a dir poco penosa, con una tesi evidentemente scritta dal padre. Era un ragazzo scontroso e abbastanza maleducato nonostante si vantasse delle sue origini nobili. Ma allora perché avevano messo proprio lui al comando della Méduse? 

A quanto avevo sentito in giro il padre aveva 'comprato' il ruolo del figlio nella nave. Ed era evidente! La Francia di sua spontanea volontà non avrebbe mai potuto scegliere uomo peggiore al comando di una nave con un carico così importante: non navigava da anni (l’ultima volta effettivamente era stata col padre all’età di 6 anni) e non aveva una buona conoscenza delle acque (lui e il padre si erano allontanati  poco dalla costa). 

Tra i 400 uomini dell’equipaggio conobbi in particolare il medico di bordo Henry Savigny, anche lui desideroso di esplorare la vastità del mare. Ricordo perfettamente il momento in cui ci incontrammo. Era uno dei primi giorni di navigazione e mi trovavo sotto l’albero centrale della fregata. Stavo controllando che le misure di esso fossero corrette, per la stabilità della nave. Tenevo il metro con una mano e un taccuino con la penna nell’altra, quando sentii una risatina maschile avvicinarsi. L’uomo ignoto si avvicinò e mi tenne il metro facilitandomi il lavoro. Sollevai la testa e vidi due grandi occhi verdi e una chioma riccia.

"Salve e lei.. sarebbe?" Domandò Henry per far conoscenza. "Un ingegnere?" Domandai retoricamente indicando l’etichetta attaccata alla tasta in alto a sinistra della camicia. Lo vidi ridere timidamente e arrossire. I capelli ricci erano mossi dal vento e il rossore delle guance accentuato dall’aria calda di Giugno. "Louis, Louis Riou". Non l’avevo mai visto, e vi assicuro che se l’avessi visto prima l’avrei ricordato certamente. Ci scambiammo delle informazioni irrilevanti per fare conoscenza e ci demmo appuntamento nello stesso punto la sera stessa per osservare le stelle, mi disse infatti che voleva essere aiutato a riconoscere qualche costellazione non visibile normalmente in città a causa delle forti luci. 

Scesi in cabina ancora turbato dall’incontro col medico di bordo. Mi aveva colpito fin da subito la sua gentilezza e disponibilità, due qualità non facili da trovare in una persona sola. Aprii la porta e mi buttai di peso sul letto. Fissai per un momento il soffitto bianco e poi chiusi gli occhi lasciandomi cullare dalle onde del mare. Ma un pensiero fisso non riusciva ad andar via: quegli occhi verdi smeraldo e quei ricci ribelli

 

[…]

 

"Si intendo questa! Proprio questa la vedi?" Henry cercava di indicarmi con il dito una costellazione ma era così difficile davanti a quell’ammasso infinito di stelle! Eravamo stesi proprio sulla punta della prua e sopra i nostri occhi si ergeva l’infinito, l’eterno universo. "Intendi quella proprio là composta da cinque stelle?" Domandai. Henry sbuffò. Mi prese la mano per indicarmi la costellazione a cui stava pensando lui e mi sussurrò di chiudere l’occhio destro. La sua voce arrivò dritta al mio orecchio e il sospiro che uscì dalla sua bocca mi fede rabbrividire. Aveva una mano così calda e accogliente che l’avrei tenuta per tutta la vita. Fissavo il cielo, fissavo quindi l’infinito cercando di immaginare cosa ci potesse essere oltre, ma era tutto inutile: avrei preferito naufragar negli occhi verdi che continuavano a fissarmi. “E quindi? Cosa ti ha portato a compiere questo viaggio?” Chiese per interrompere l’imbarazzo evidente che si era creato. “Vorrei tanto rispondere semplicemente, Signor Henry, che sia stato il mio desiderio di esplorazione e conoscenza. Ma il principale motivo è il guadagno che potrei ricavarne. A casa i frutti del lavoro di papà non arrivano spesso e mia madre ritrovandosi a gestire quattro figli ha bisogno di un aiuto economico. Ed ho deciso di darglielo io, ha fatto tanto per me, ha permesso che la mia aspirazione lavorativa si realizzasse e quindi ha permesso che io fossi qua oggi” dissi tutto d’un fiato. Sicuramente la carriera di medico era fruttuosa e mi sentivo a disagio a mostrare il vero motivo per cui mi trovavo sulla nave. Ci fu un certo periodo di silenzio, non ricordo quanto tempo fosse, probabilmente pochi secondi, ma a me era sembrato eterno. “Ringrazio il cielo allora che sua madre abbia un problema economico, se no a quest’ora non sarebbe qua con me oggi” disse poi. Il girarmi verso di lui fu istintivo; era come se mi avesse dato il via libera di perdermi dentro i suoi smeraldi. Già nel secondo in cui avevo voltato il capo avevo cominciato a scrutarlo dall’alto al basso e lui faceva lo stesso. Stava nascendo in noi un desiderio di uno verso l’altro che non sarebbe potuto scomparire velocemente. Questo scrutarsi reciproco s’interruppe con la sua mano poggiata sulla mia guancia e lo scatto che fece congiungere la sua bocca con la mia. Era stato un momento, un millisecondo che aveva cambiato la mia vita. Aveva preso a toccarmi i capelli e dopo neanche due secondi aveva avvicinato il volo al mio incastrandolo al suo come un pezzo di lego.

 

[…]

 

Passammo i successivii otto giorno insieme. E quando non potevamo vederni, notavo che mi guardava dal suo posto di lavoro. Non avevo mai provato qualcosa del genere con qualcun altro prima d’ora. Immaginavamo già il nostro futuro insieme, a bordo delle navi più prestigiose. 

"Henry!" esortai entrando nella sua cabina. Tra 'sua' e 'mia' non c’era più molta differenza: passavamo tutte le notti insieme a parlare o toccarci i capelli. Avevo scoperto che una delle sue passioni era suonare, comporre canzoni e cantare. La notte prima mi aveva detto che ne stava scrivendo una di canzone, per me.

Prende la chitarra con una mano e poggia sul comò il testo della canzone nascondendolo. I miei occhi erano fissi su esso gli occhi dal foglio spiegazzato, curioso di scoprire cosa aveva scritto. Alzando poi lo sguardo non potei mare a meno di rimanere incantato: indossava solo un paio di boxer neri e aveva il capo appoggiato nella frontiera del suo letto. I suoi lineamenti mi ricordavano la Statua marmorea 'Apollo del Belvedere': la muscolatura delle braccia, ancora tesa, lasciava intravedere che aveva appena suonato la chitarra. Rimasi in silenzio per un momento, fu lui a rompere la quiete: "Ho finito la canzone!" esclamò sorridendo. Aveva gli occhi raggianti. -Devi sentirla- aggiunse. Mi avvicinai velocemente sedendomi al bordo del letto aspettando impaziente. "Ma non ora" aggiunse ammiccando. Posò la chitarra e si avvicinò eliminando la poca distanza che era rimasta tra noi. Voleva di più lo sentivo, e lo volevo anche io. Aprì gli occhi un’ultima volta guardandomi intensamente prima di poggiarmi su di lui, sul letto. 

Non mi sarei mai sentito a mio agio a quello sguardo, non mi sarei mai abituato ad Henry. 

Quella notte facemmo l’amore. E’ difficile spiegare la sensazione di stare con la persona con cui si è convinti di passare tutta la vita. 

Ci rilassammo poi sul letto, lasciandoci cullare e addormentare dal rumore del mare.

 

[…]

 

Giorno 30 giugno. Il vento sembrava arrivare verso di noi più violentemente, il comandante della nave aveva deciso di non voler spendere troppo per questo viaggio e di voler accelerare i tempi, ansioso di ritornare in Francia per rivedere Genèvieve al Bar delle Foliès-Bergere. Era una ballerina di circo che si esibiva facendo la spogliarellista nel bar più importante di Parigi. 

La nave viaggiava più veloce e da sola: aveva lasciato dietro di se la Argus, la corvetta Écho e la Loire. Questa situazione mi metteva inquietudine, al contrario gli altri intorno a me erano particolarmente tranquilli; ma come biasimarli? Non erano a conoscenza dell’incapacità di Hugues come comandante.

Scossi la testa cercando di cacciar via i pensieri negativi e concentrai la mia attenzione su Henry, che dall’altro lato della barca stava curando la figlia del futuro governatore del Sènegal. 

 

[…]

 

Giorno 1 luglio. Si era fatta sera. La velocità era aumentata ancora di più. Stavo controllando se la direzione presa fosse corretta attraverso le stelle, ma mi accorsi tra un bacio e un altro con Henry che il tragitto aveva preso una rotta sbagliata. "Il tragitto" dissi preoccupato. Henry non capiva, prima che potesse fare altre domande corsi al piano di sotto lasciando Henry da solo con mille domande. Bussai violentemente alla cabina di controllo. Nessuno apriva. Forzai la serratura e spalancai la porta trovando il comandante steso sulla poltrona davanti al timone a dormire con una bottiglia di Bourbon in mano. Ubriaco. Lo strattonai, ma mi resi conto che non stava capendo nulla. Lasciai perdere e presi io il controllo della fregata. Alla velocità con cui stavamo andando non c’era modo di frenare e cambiare direzione, da li ad un paio d’ore ci saremmo incagliati in un banco di sabbia al largo della Mauritania.  Annaspai. Mi sentii circondare il corpo da due braccia: Henry. Gli spiegai la situazione e mi tranquillizzò. Gli diedi indicazione di suonare gli allarmi delle cabine per far evacuare la truppa. Intanto attraverso qualche calcolo cercai di trovare una soluzione. 

 

[…]

 

Giorno 5 luglio. La Mèduse era ormai arenata da giorni. Aveva sei scialuppe, sufficienti per entrarci tutti. Dopo giorni di calcoli a metà della notte andai a controllare in che condizioni fosse il capitano, che nonostante la situazione aveva continuato a bere fregandosene di tutto e lasciando a me il comando della nave.  Avevamo già lasciato andare cinque delle sei scialuppe. Eravamo rimasti in 150 più il governatore, la sua famiglia e il comandante. Scostai la tenda dietro la quale l’avevo posizionato con l’aiuto di Henry. Il vuoto. Non c’era più. Pochi secondi dopo Henry mi raggiunse dicendo che la famiglia del governatore era scomparsa con la scialuppa. Mi sentii stupido, aveva sentito tutto il mio piano e se ne era approfittato andandosene senza che nessuno se ne accorgesse. Se ne erano andati, lasciandoci a morire su una nave destinata a naufragare. Tutto ciò che avevo sognato, la mia vita con Henry non poteva finire là, in mezzo al mare. Dovevo trovare una soluzione. Ci riunimmo con le altre 150 persone lasciate sulla fregata. Un costruttore della nave che viaggiava con noi ci disse che c’era una zattera al di sotto della nave. Era lunga 20 metri e larga 7, la chiamammo 'La zattera della fortuna'. La notte la riempimmo del necessario per mangiare e ci imbarcammo la sera stessa. Eravamo legati con una fune alla fregata e il nostro intento era quello di trascinarla al di là del banco di sabbia. Il problema sopraggiunse dopo pochi chilometri. Il peso degli uomini e del cibo era eccessivo, l’imbarcazione affondò parzialmente a causa degli uomini e le coperte che si avrebbero dovuti proteggere dal freddo notturno erano zuppe di acqua salata. La fune con la quale ci eravamo legati alla barca in caso di problemi si ruppe per la forza del mare. La zattera della Mèduse fu abbandonata al proprio destino, proprio come le nostre vite. 

 

[…]

 

Giorno 6 luglio. Già venti persone erano morte a causa del freddo straziante la notte prima. Io ed Henry eravamo restati abbracciati tutta la notte sia per una necessità fisica (ci trasmettevamo calore) che per un sostegno morale. Ci amavamo e entrambi almeno sapevamo che avremmo passato le ultime notti della nostra vita insieme: o saremmo morti su quella zattera o nel migliore dei casi ci saremmo salvati e ci sposati. Il cibo era veramente poco e non sapevamo come sfamare gli uomini e sopratutto come dissetarli.

 

[…] 

 

Giorno 15 luglio. Erano passati nove giorni e non c’era nessuna terra in vista, eravamo alla deriva del mare. Più di cento persone erano morte, io ed Henry eravamo sopravvissuti insieme ad altri cinquanta. La speranza non ci aveva abbandonato. Arrivammo ad un compromesso estremo pur di sopravvivere: il cannibalismo. Squarciammo le salme degli uomini morti e le cucinammo al sole.  Molti di noi pur di non farlo si lanciarono in mare lasciandosi morire. Non volevano più soffrire. Non volevano andar contro l’etica umana. Avevano preferito lasciarsi andare. Io ed Henry come gli altri 50 uomini rimasti in vita decidemmo di lasciar perdere l’etica e la moralità e pensare alla nostra salvezza. 

 

[…]

 

Giorno 16 luglio. Durante la notte osservai il volto scavato di Henry e per un momento ricordai come fosse pochi giorni prima. Come fossimo pochi giorni prima: ricchi di sogni e di speranze. Adesso la speranza stava cominciando a mancare. La fame cominciava a farsi sentire. Le salme dei morti, nonché il nostro modo per sopravvivere erano ormai diventati un mucchio di ossa. La maglietta rossa di Henry era tutta sfilacciata e piena di buchi: a stento lo copriva dal freddo. La mia camicia bianca era diventata nerastra e nessuna forma di vita o barca all’orizzonte. Ma ancora quel poco di speranza non ci aveva abbandonato. Eravamo rimasti in tredici sulla nave e continuavamo a cercare con i nostri occhi l’Argus, l’Écho o la Loire.  Henry mi toccò il volto e mi guardò fisso negli occhi. Il suo sguardo intenso faceva percepire tutto l’amore che provava per me. Durante quelli sguardi era come se le nostre anime si incontrassero in chissà quale mondo parallelo. Si avvicinò con la bocca al mi orecchio sussurrandomi di non mollare. E fu proprio quello che feci. 

 

[…]

 

Giorno 17 luglio. Il mare era agitato. In due settimane di navigazione la natura era sempre stata dalla nostra parte donandoci giorni di intenso sole e mare tranquillo. Oggi non era così. Tutti noi ci aspettavamo che la nostra fine fosse vicina. La zattera si era ridotta a 10 metri, molte delle travi di legno furono trasportate via dal vento e dalla forza del mare. La mia vita era appannata, ma in lontananza vidi qualcosa. l’Argus. "Guardate!" urlai. Alzammo Henry per quel che potemmo. Si era levato la sua maglietta rossa e la sventolava nel cielo cercando di richiamare l’attenzione del battello.  Io accanto a lui sopra una botte d’acqua ormai vuota, feci lo stesso sventolando la mia camicia. Gli uomini dietro di noi sventolavano le mani e urlavano disperati. Alcuni volevano nuotare filo alla nave in lontananza ma il mare lo impediva. Dopo lunghi dieci minuti eravamo sfiniti. Avevamo a mala pena la forza di reggerci in piedi. Con la coda dell’occhio prima di svenire vidi il battello che cambiava rotto: stava venendo verso di noi. Fu questo l’ultimo mio ricordo.

 

[…]

 

Giorno 20 luglio. Sentii un soffice piumino contornarmi il corpo nudo. Sbattei gli occhi ripetutamente cercando di mettere a fuoco il luogo in cui mi trovavo. Sentivo ancora il mare trasportarmi. Poi realizzai: ero su un letto di una cabina dell’Argus. La mia mano sinistra era tenuta stretta da un’altra mano: quella di Henry. Mi girai e lo guardai. Stava dormendo accanto a me. Vedevo il volto preoccupato, forse perchè temeva che non mi sarei risvegliato più. Gli strinsi la mano e di colpo aprì gli occhi. Un sorriso raggiante si fece spazio nel suo volto: lo stesso di quando gli avevo mostrato le costellazioni poche notti prima del naufragio. Ci abbracciammo e ci baciammo con un sentimento ancora maggiore di quello di prima. Pianse. Singhiozzò. Mi disse più volte all’orecchio di quanto la sua vita fosse cambiata in meglio dopo avermi conosciuto e che fossi la sua felicità. "Lou, mi vuoi sposare?" disse poi uscendo un anello dalla tasca. Il mio respiro si spezzò. L’anello era argentato, con un’ancora sopra. Il suo invece aveva una nave. "Sì, Sì, Sì!" risposi dopo pochi secondi e ci baciammo. Sapevamo che la nostra vita insieme era appena iniziata, e non sarebbe mai finita. 

 

[…]

 

Giorno 24 dicembre. Era la vigilia di Natale. Ci trovavamo nel Regno di Sicilia. Henry stava presentando il suo primo romanzo, che già da Settembre aveva ricevuto molte critiche positive in Francia. Raccontava del naufragio della Mèduse e del clima teso e di violenza che c’era stato sulla zattera della fortuna. Raccontò delle vicende di cannibalismo ma sopratutto mise in cattiva luce il comandante Chaumaray la cui negligenza fu considerata la causa principale del naufragio. Non sono aveva lasciato morire più di cento persone abbandonando la nave per primo, ma aveva messo in ridicolo la monarchia francese appena restauratasi. Il suo romanzo era intitolao 'Casualité?': non solo per ironizzare la scelta del comandante, e per rivendicare la morte di centinaia di persone. Ma anche per la casualità di esser capitati nella stessa nave, io ed Henry. Era successo tutto “par hazard” effettivamente. Ma forse era il destino che ci aveva unito. 

Sospirai, con l’odore del mar mediterraneo che mi accarezzava il viso. Io ed Henry ci stringemmo la mano. Eravamo stesi sulla sabbia, sapevo che quello non sarebbe stato l’ultimo approdo della nostra vita. Avevamo ancora tanti momenti, tanti attimi da vivere. E neanche la morte era riuscita a strapparci via la vita. L’amore che ci accomunava era più forte di qualunque altra cosa, perfino del caso e della morte. Vinceva su tutto. 

Saremmo rimasti sempre io e lui: Louis ed Henry 

  
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