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Autore: Watson_my_head    30/11/2017    4 recensioni
Nonostante avessero la stessa età, Victor e Sherlock erano profondamente diversi. Sherlock era sicuramente più intelligente, era più intelligente di tutti i bambini della sua età, questo era un dato di fatto, ma era estremamente infantile nei modi, spensierato e allegro, come se vivesse in un mondo tutto suo fatto di sogni e avventure meravigliose. Victor era diverso. Figlio unico di una famiglia di origini francesi, era cresciuto solo, in una grande casa di campagna con suo padre, un uomo silenzioso, di quelli che non regalano abbracci né complimenti. Un uomo segnato dalla vita e da un amore perduto troppo presto. E Victor era stato costretto a farsi strada nel mondo così, solo, con un padre arido di sentimenti, la cui presenza era quotidiana assenza. Victor cresceva, anno dopo anno, con i suoi occhi tristi, le lentiggini e i lunghi silenzi. Per questo, sembrava più grande della sua età, più maturo e consapevole della vita e delle cose del mondo.
Non poteva ancora saperlo, ma da grande avrebbe cercato l'amore in ogni dove, per riempire quei vuoti che crescevano, silenziosi, dentro di lui.
Opera realizzata per la Challenge estiva 2017 del gruppo "ASPETTANDO SHERLOCK "https://www.facebook.com/groups/
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro personaggio, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao a tutti!

 

Forse vi ricorderete di me per....(non posso dirlo.) Questa storia ha partecipato alla challenge estiva del gruppo facebook Aspettando Sherlock 5- SPOILERS!. Evito di mettere il prompt che mi è stato affidato per non spoilerare l'andamento della ff. E' una viclock, ma datele una chance e fatemi sapere cosa ne pensate (anche se la odiate, va bene XD). La seconda parte la pubblicherò spero entro la fine di dicembre...e che dire ancora? Buona lettura!


 
***
 

A Giorgia.

Ti regalo sconclusionate parole di un amore triste e difficile,

senza pretendere niente,

solo che un po' ti piaccia.

E a Grazia,

preziosa ancora di salvezza nei momenti di sconforto.

 

 

 

Summertime sadness

 

 

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“L'amore? Non so.

Se include tutto,

anche le contraddizioni

e i superamenti di sé stessi,

le aberrazioni e

l'indicibile,

allora si, vada per l'amore.

 

Altrimenti, no.”

 

Franz Kafka. “Lettere a Milena”

 

 

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“Ti odio Mycroft!”

 

Sherlock correva a perdifiato giù per la collina, con le lacrime che gli impedivano di vedere dove stesse andando e con la rabbia dei suoi cinque anni urlata senza sosta, fino quasi a perdere la voce. Inciampò e cadde ruzzolando rovinosamente per qualche metro. Il cappello da pirata che sua madre gli aveva regalato pochi mesi prima, volò via dalla sua testa finendo per infilzarsi in un cespuglio di rovi poco distante. La sciabola di legno che aveva in mano invece, si era conficcata nel terreno e probabilmente aveva contribuito alla sua caduta. Quando riuscì a fermarsi, alle lacrime di rabbia si unirono quelle di spavento e dolore per un ginocchio sbucciato e per le braccia graffiate. Si mise a sedere e pianse ancora fino a quando i singhiozzi non si trasformarono in piccoli lamenti e poi in un broncio triste e tenerissimo. Barbarossa, che lo aveva raggiunto quasi subito, gli leccò la faccia e le lacrime e poi si sedette affianco a lui, silenzioso.

La vista di quel bambino dai folti ricci neri e dagli occhi smeraldo rossi di pianto e tristezza, seduto sul pendio di una collina, solo, abbracciato stretto al suo cane, avrebbe spezzato il cuore di chiunque. Persino quello di suo fratello Mycroft che lo aveva inseguito per un po' prima di perdere le sue tracce e che aveva gridato il suo nome a lungo prima di lasciarsi andare quasi ad una cieca disperazione. Se fosse stato più magro, più veloce, più responsabile, non avrebbe perso il suo fratellino e i suoi genitori non l'avrebbero ucciso quando sarebbero tornati. Questo pensava mentre camminava sui sentieri della grande tenuta che circondava la casa per ettari. Nonostante un'intelligenza che andava ben oltre la media dei normali dodicenni, Mycroft sapeva che non sarebbe stato facile trovarlo. Dopotutto nemmeno Sherlock era un normale bambino di cinque anni. Analizzando le conseguenze delle sue azioni ammise a se stesso che non avrebbe dovuto strappare quel disegno. Non avrebbe dovuto ridere di lui e della sua fissazione per pirati, velieri e mari in tempesta. Sherlock aveva urlato tra le lacrime, con tutto il fiato che aveva in gola, che lo odiava e aveva ragione. Gli aveva lanciato quaderni e matite nel tentativo di colpirlo di proposito con qualsiasi cosa gli capitasse sotto mano, perfino con il pastello a cera blu, che era il suo preferito e che aveva già consumato per metà nonostante fosse quasi nuovo.

Poi, quando aveva afferrato una delle tazze della colazione e l'aveva lanciata con tutta la forza che aveva, mancando di poco la sua testa, Mycroft aveva deciso che il limite era stato passato. Si era avventato contro suo fratello con tutta l'intenzione di picchiarlo pur di farlo smettere, ma Sherlock era piccolo e agile e non gliel'avrebbe mai data vinta. Si era messo a correre girando attorno al lunghissimo tavolo di quercia mettendo non pochi metri di distanza tra loro. Poi si era fermato dal lato opposto, aveva asciugato il naso e le lacrime alla manica del maglione in un unico gesto e tra i singhiozzi aveva rivolto al fratello uno sguardo di sfida che Mycroft aveva colto perfettamente. Infine era schizzato fuori, non prima di aver afferrato il cappello e la sciabola di legno che portava ovunque, ed era sparito tra gli alberi in pochissimi secondi. Barbarossa, che aveva seguito tutta la scena dalla sua postazione preferita vicino al camino, aveva deciso che era arrivato il momento di partecipare attivamente e aveva inseguito il suo padroncino preferito sparendo dalla vista subito dopo di lui.

A Mycroft non restava quindi che continuare a cercare sperando di ritrovarlo prima di sera. E una volta trovato lo avrebbe punito a dovere. Abbracciato, baciato e poi punito a dovere.

 

:::

 

Sherlock restò seduto sul pendio della collina per un po', abbracciato a Barbarossa, il suo unico amico nel mondo, accarezzandolo con amore.

“Tu sei il mio migliore amico per sempre!” - gli disse stampandogli baci sul muso e grattandogli la pancia. Poi si sdraiò. L'erba era morbida e il sole di aprile era caldo sul suo visetto ancora triste. Guardò il cielo. Era azzurro e solo poche nuvole lo solcavano veloci. D'improvviso non furono più nuvole, ma grossi velieri che solcavano il mare e lui era un coraggioso capitano, un pirata senza paura che avrebbe sconfitto il suo più acerrimo nemico, Lord Mycroft, in un'epica battaglia. Si addormentò così, stremato dalla corsa e dal pianto, col musetto del suo fedele compagno d'avventura poggiato sul petto.

Quando si svegliò erano passate un paio d'ore. Si mise a sedere, si guardò intorno cercando un qualsiasi punto di riferimento che gli facesse capire dove si trovasse ma non c'era niente che riconosceva. Nonostante questo, non si lasciò cogliere dallo sconforto, era un bambino troppo intelligente. Sapeva che avrebbe trovato la strada di casa, prima o poi, e Barbarossa era con lui. Si mise in piedi, raccolse il cappello e la sciabola e si incamminò risalendo la collina. Quando si trovò ad un bivio però, il destino scelse per lui la direzione sbagliata, facendolo allontanare irrimediabilmente dalla strada di casa e da suo fratello che lo stava cercando nella direzione opposta. Camminò a lungo, forse per un'ora, fendendo con la spada i cespugli che costeggiavano il sentiero fino a trovarsi all'improvviso di fronte ad una vasta radura. C'era qualcosa lì in mezzo, ma non riusciva a capire cosa fosse. Barbarossa si mise a correre e sparì davanti ai suoi occhi tra l'erba che cresceva alta e incolta.

“Barbarossa!”- lo chiamò inutilmente prima di corrergli dietro alla cieca in mezzo all'erba che era alta quasi quanto lui.

Riuscì a fermarsi all'ultimo secondo, poco prima di andare a sbattere contro un muretto circolare di pietra che sembrava comparso per magia. Vi si appoggiò con le mani per riprendere fiato e si guardò intorno alla ricerca del suo cane che comparve un secondo dopo scodinzolante e felice. Sherlock allora si staccò dal muretto, fece qualche passo indietro, guardò in alto e lo vide. Quel puntino, che aveva visto in mezzo alla radura poco prima, era un bambino e stava cantando.

 

“..Va quand tu seras grand

Tu feras le tour du monde,

Tu reviendras parfois

Embrasser ton papa..”

 

Era un bambino dai folti capelli rossi seduto sull'orlo di quello che Sherlock riconobbe essere il pozzo a cui non avrebbe mai dovuto avvicinarsi, secondo le insistenti raccomandazioni di mamma, papà e Mycroft. Il primo pensiero fu che finalmente aveva trovato un punto di riferimento. Sapeva perfettamente dove si trovava quel pozzo che era il numero tre nella “lista dei posti da cui stare lontano”. Il secondo pensiero fu che i capelli di quel bambino assomigliavano tanto a uno dei pastelli a cera che aveva tirato a Mycroft quella mattina colpendolo in piena fronte. E il ricordo lo fece ridere fortissimo tanto che il bambino dai capelli rossi, che fino a quel momento era rimasto di schiena con le gambe penzoloni nel pozzo, smise di cantare e si girò.

“Perché ridi così?”- aveva gli occhi verdi ma rossi di pianto e un milione di lentiggini.

“La mia mamma dice che è pericoloso. Perché la tua mamma ti ha fatto sedere lì?”- Sherlock non comprendeva come fosse possibile.

“Io non ce l'ho la mamma.”

“E dov'è?”

“Papà ha detto che è morta.”

Sherlock rimase in silenzio. La morte non era una cosa che conosceva. Ovviamente sapeva che a volte poteva succedere che le persone e gli animali all'improvviso se ne andassero, ma gli era ancora difficile da comprendere. Come qualsiasi bambino di cinque anni, archiviò quell'informazione e passò oltre.

“E come ti chiami? Io mi chiamo Sherlock”.

“Io mi chiamo Vic-tor.” - scandì perfettamente le sillabe, come se avesse avuto paura di sbagliare il proprio nome.

“Scendi? Perché piangi?”

Victor guardò Sherlock qualche secondo prima di decidersi a farsi un po' indietro, a girarsi completamente e a scendere con un salto. Ora si trovavano uno di fronte all'altro.

“Sei un pirata?”- Victor non aveva risposto alla domanda di Sherlock, catturato dalla vista del suo cappello e della sua sciabola di legno.

“Lo sarò quando diventerò grande. Adesso sono così.”- e alzò la piccola mano con le cinque dita aperte ad indicare la sua età.

“Anche io.”- Victor in risposta alzò la sua e la poggiò su quella di Sherlock. Nonostante avessero la stessa età, Victor era almeno cinque cm più alto e anche la sua mano era più lunga di quella dell'altro. Quel primo gesto di complicità che avrebbero probabilmente ricordato per sempre, fatto di piccole mani e dita che si toccavano, li fece ridere tantissimo e senza nessun motivo, come solo due bambini avrebbero potuto fare.

“E dove abiti?” - chiese Sherlock quando smisero di ridere.

“Là.”- Victor indicò una grande casa in lontananza e Sherlock pensò che assomigliava molto alla sua. - “E tu?”

Sherlock si guardò intorno. Stava cercando di calcolare a mente il percorso che avrebbe dovuto fare per tornare a casa. Mycroft lo aveva tediato per molte sere cercando di insegnarli come ritrovare la strada se mai si fosse perso e combinando questo con il punto numero tre della lista dei posti in cui non andare assolutamente, riuscì, dall'alto dei suoi cinque anni, più o meno a capire.

“Lontano.” - fu la sola cosa che seppe rispondere. In realtà si trovava a non più di quaranta minuti di cammino da casa sua, ma per un bambino così piccolo (un bambino normale, almeno) sarebbe stato un miracolo già solo riuscire a tornare indietro.

“E perché sei venuto qui?”

“Perché Mycroft è cattivo e mi ha fatto arrabbiare.” - Sherlock mise di nuovo il broncio al ricordo del fratello che strappava il suo disegno preferito. Poco importava che ogni nuovo disegno diventasse automaticamente il preferito. Quello lo era più di tutti.

“Chi è Mycofft? Il tuo papà?”- sbagliò il nome, facendo ridere Sherlock a crepapelle.

Victor, nella sua innocenza di bambino, aveva automaticamente associato quel broncio ad una figura paterna, ma Sherlock era troppo piccolo per poterlo capire.

“E' mio fratello. Ha dodici anni. Si crede tanto intelligente e invece è solo stupido!”- rispose, colpendo con un fendente della sua spada alcuni fili d'erba.

Victor annuì.

“Vengo a casa con te. Io sono vicino, tu sei lontano. E' giusto che ti accompagno”. Il ragionamento non aveva nessun senso logico, ma per entrambi sembrò l'idea migliore del mondo. Sherlock sorrise, chiamò Barbarossa che era intento a mangiucchiare legnetti e indicò la parte della radura da cui era arrivato.

“Dobbiamo andare di là, sono sicuro”- disse annuendo deciso.

Victor lo prese per mano, sentendosi tra i due il bambino grande e responsabile, nonostante avesse solo cinque anni, gli stessi di Sherlock e nonostante fosse quest'ultimo a dare le indicazioni sulla strada da prendere. Camminarono così a lungo, dondolando le braccia e saltellando. Di tanto in tanto si fermavano ad osservare una farfalla, o un tronco dalla strana forma, o delle formiche in fila indiana. Tutto era meraviglioso e inaspettato.

“Che cosa stavi cantando?”- chiese mentre studiava attentamente un fungo.

“Niente. Una canzone che cantava la mia mamma.”

“Cantala ancora.”

E Victor cantò ancora, mentre camminavano verso casa, mano nella mano.

“Vuoi essere mio amico?” - chiese Sherlock all'improvviso, mentre attraversavano il bosco.

Gli occhi di Victor, che non erano più rossi di pianto, si accesero di allegria. “Si. Migliori amici nel mondo.” - rispose. E Sherlock fu così felice che gli diede la sua sciabola da pirata e gli disse che avrebbe potuto giocarci per tutto il tempo che voleva.

 

Un'ora e mezza dopo Sherlock sentì la voce di suo fratello che lo chiamava. Era pomeriggio inoltrato ormai, iniziava a fare freddo e fu felice di sentire una voce familiare, nonostante fosse quella del suo acerrimo nemico Lord Mycroft.

“Myc!”- rispose, urlando a gran voce.

Passarono pochi minuti e Mycroft arrivò di corsa, gettandosi in ginocchio ai piedi del fratellino. Iniziò a passare le mani freneticamente tra i suoi capelli, sul viso, sulle spalle, sulle gambe, in cerca di fratture, tagli, contusioni, bruciature e di chissà quale altra disgrazia la sua mente aveva immaginato in tutto quel tempo. Erano passate più o meno quattro ore da quando lo aveva perso di vista, quattro ore in cui aveva quasi perso la ragione. Sherlock lasciò la mano di Victor e protestò per le attenzioni del fratello che una volta finito di esaminarlo sommariamente, lo stritolò tra le braccia.

“Non farlo mai più Sherlock. Mi hai fatto morire di paura.”- disse tra le lacrime e Sherlock non capì il motivo per cui suo fratello maggiore stesse piangendo a quel modo. Rimase in silenzio, fino a quando Mycroft non si staccò e si rimise in piedi asciugandosi il viso con un gesto di inconscia eleganza.

“Tu chi sei?”- chiese al bambino dai capelli rossi che se ne stava dritto con le mani dietro la schiena ad osservare la scena.

“Victor.”

“Victor? Sei il figlio dei Trevor?”- chiese Mycroft squadrando il bambino da capo a piedi. Victor annuì.

“E' il mio miglior amico nel mondo!”- aggiunse Sherlock felice. Mycroft li guardò entrambi ringraziando silenziosamente il cielo, l'universo e qualche Dio a caso a cui comunque non credeva assolutamente, per aver condotto due bambini di cinque anni sani e salvi a casa da soli.

“Vieni, tra poco torneranno i nostri genitori e ti accompagneranno a casa.” - disse, prendendoli per mano.

Si avviarono quindi verso la grande magione in pietra che si stagliava maestosa e rassicurante contro le prime luci della sera. Sherlock aveva dimenticato il suo disegno preferito, il litigio con Mycroft e le ginocchia sbucciate. Aveva vissuto un'avventura fantastica. Aveva esplorato il pozzo proibito e soprattutto aveva trovato un amico, il migliore di tutti. E per nessun motivo al mondo avrebbe lasciato che il ricordo di quella giornata fosse svanito dalla sua mente. Lo tenne stretto stretto, chiuso a chiave in una piccola stanzetta della sua memoria dove custodiva le cose più preziose: i sorrisi della mamma, gli occhi tondi di Barbarossa, gli abbracci di papà, il suono del suo violino e la manina di Victor Trevor congiunta alla sua.

 

:::

 

Victor era un bambino strano.

Questo pensava Mycroft mentre era costretto a fare da babysitter a suo fratello e al suo nuovo amico che nel corso degli anni era diventato una presenza fissa a casa Holmes. Li guardava giocare insieme nel finto cimitero dietro casa ed era palese quanto Sherlock lo adorasse. Mycroft ne era un po' indispettito, ma la verità è che ne era solo irrimediabilmente geloso. Il suo fratellino, che ormai aveva già compiuto sette anni, stravedeva per Victor, ne parlava in continuazione, voleva che fosse sempre presente. Lo amava, come avrebbe dovuto amare lui e probabilmente se avesse potuto lo avrebbe volentieri scambiato con suo fratello maggiore. Mycroft li osservava e più volte si era scoperto a desiderare di odiare quel bambino dai capelli rossi e dagli occhi grandi. Ma questo non era possibile, nemmeno contemplabile.

Perchè Victor Trevor era un bambino che sapeva farsi amare.

Nonostante avessero la stessa età, Victor e Sherlock erano profondamente diversi. Sherlock era sicuramente più intelligente, era più intelligente di tutti i bambini della sua età, questo era un dato di fatto, ma era estremamente infantile nei modi, spensierato e allegro, come se vivesse in un mondo tutto suo fatto di sogni e avventure meravigliose. Era curioso, analitico, osservava ogni cosa e ne deduceva personali e fantasiose storie. E poi Sherlock rideva. Rideva sempre. Aveva una risata chiara e cristallina, così contagiosa che nessuno poteva resistere dal ridere assieme a lui. Nemmeno Mycroft.

Victor era diverso. Figlio unico di una famiglia di origini francesi, era cresciuto solo, in una grande casa di campagna con suo padre, un uomo silenzioso, di quelli che non regalano abbracci né complimenti. Un uomo segnato dalla vita e da un amore perduto troppo presto. E Victor era stato costretto a farsi strada nel mondo così, solo, con un padre arido di sentimenti, la cui presenza era quotidiana assenza. Victor cresceva, anno dopo anno, con i suoi occhi tristi, le lentiggini e i lunghi silenzi. Per questo, sembrava più grande della sua età, più maturo e consapevole della vita e delle cose del mondo.

Non poteva ancora saperlo, ma da grande avrebbe cercato l'amore in ogni dove, per riempire quei vuoti che crescevano, silenziosi, dentro di lui.

Ma adesso, aveva solo sette anni.

Amava Sherlock, amava correre con lui nei campi che si estendevano selvaggi intorno alle loro case, mettere la benda sull'occhio e giocare ai pirati, fare merenda insieme seduti sui gradini della porta posteriore e tirare sassolini nelle pozzanghere di aprile. Amava fare il bagno con lui quando l'acqua era ancora fredda e l'estate era alle porte, lanciarsi la sabbia e poi ridere a crepapelle, fino ad avere mal di pancia. Rincorrersi nel bosco, giocare a perdersi e poi ritrovarsi e costruire ghirlande di fiori, guardare il cielo e sognare, vedere cose diverse e raccontarsi segreti e storie di fantasmi sotto le coperte. E amava l'inverno più di ogni altra cosa, con la neve che sapeva scendere silenziosa e che fissava per ore alla finestra. Sherlock lo tirava per un braccio cercando di trascinarlo fuori ma alla fine spesso doveva arrendersi e sedersi accanto a lui finendo quasi sempre per addormentarsi sulla sua spalla. Victor amava tutto questo. Ma altre volte, mentre Sherlock correva furioso per la grande casa inseguendo fantasmi di sogni, fendendo l'aria con la sua sciabola e Mycroft studiava tenendoli d'occhio, Victor se ne stava seduto al grande tavolo e disegnava, silenzioso. Disegnava paesaggi e persone e poi li dipingeva, spesso usando solo le dita e la sua tecnica, seppur infantile e priva di qualsiasi regola, era affascinante e catturava l'interesse di chi guardava. Usava colori perlopiù scuri, e dipingeva tracciando sulla carta intensi vortici fatti di spesse linee di viola o blu. A volte dipingeva in bianco e nero, ma solo nei suoi giorni peggiori, quando non diceva quasi niente e neppure Sherlock riusciva a farlo sorridere. E di tanto in tanto, mentre dipingeva, si alzava, si avvicinava a Mycroft e lo abbracciava, stritolandolo un po', come fanno i bambini che non sanno dimostrare l'affetto, e poi tornava al tavolo, silenzioso. Mycroft sentiva scaldarglisi il cuore ogni volta.

Victor Trevor aveva solo sette anni, ma era un bambino che sapeva farsi amare, questo era certo.

Sherlock, non si sa in che modo, era l'unico che riuscisse a farlo ridere di cuore, e c'è da dire che quando sorrideva, Victor era la cosa più bella del mondo.

 

:::

 

Sherlock comprese cosa fosse la morte all'età di otto anni, una mattina qualsiasi di giugno in cui il sole era caldo e il cielo terso. Un giorno come tutti gli altri. Chiamò Barbarossa molte volte, troppe, ma il suo adorato amico non rispose mai.

Fu trovato qualche giorno dopo in un sentiero abbastanza distante dalla casa, accoccolato sotto un albero come se stesse soltanto dormendo. Come se avesse scelto di morire lontano per portare con sé il dolore della perdita. Non fu così. Per Sherlock fu come perdere il mondo intero. Si sentì perso. Si sentì solo. Pianse, scalciò, singhiozzò il suo nome e pianse ancora. Poi si chiuse in camera sua per tre giorni. Non aveva mai sperimentato un tale malessere, un dolore di cui non riusciva ad individuare il punto esatto. Era da qualche parte tra lo stomaco ed il cuore e faceva così male che avrebbe soltanto voluto dormire. E dormì a lungo. E quando si svegliava piangeva e chiamava il suo cane, nella speranza che quello fosse solo un terribile incubo e che Barbarossa sarebbe comparso all'improvviso sulla soglia della porta, allegro come sempre. Ma non successe mai. Mai più. Sua madre gli accarezzò i capelli sussurrandogli dolci parole e fu l'unica che riuscì a farlo mangiare qualcosa. Mycroft invece fu allontanato malamente, con il lancio di un peluche che andò a sbattere contro il muro del corridoio. Era triste Mycroft. Avrebbe voluto proteggere il suo fratellino da tutto, ma c'erano alcune cose per cui nessuno poteva fare nulla. E la morte era una di quelle.

Dopo quattro giorni di lacrime fu Victor a convincere Sherlock a uscire di casa. Non fecero altro che stare seduti al confine della tenuta con lo sguardo oltre la scogliera a guardare il mare in silenzio, come due bambini grandi. Il sole moriva all'orizzonte e Sherlock aveva smesso di piangere. Victor lo teneva per mano, così come aveva fatto qualche anno prima con quel bambino dai capelli ricci e gli occhi smeraldo che aveva perso la strada di casa.

“Promettimi che tu non mi lascerai mai.”- disse Sherlock, la voce bassa, gli occhi spenti.

“Io non ti lascerò, se tu non mi lascerai.”- gli rispose Victor. E per quello che poteva valere a otto anni, per lui quella, era una promessa per la vita.

 

:::

 

In qualche modo, Sherlock non fu più lo stesso.

Non nominò mai più Barbarossa. Finse di dimenticarlo. Finse. Perché in realtà pensava a lui ogni volta che scendeva le scale di mattina e non lo trovava ad aspettarlo. Ogni volta che tornava da scuola e nessuno lo accoglieva saltellando e leccandogli le mani. Ogni volta che andava a dormire e non c'era nessuno ad accoccolarsi sui suoi piedi. Pensava a lui ogni giorno, ogni giorno, ma finse di dimenticare. Perché tenere alle cose non era mai un vantaggio. E se Mycroft lo aveva sempre ripetuto, lui ne comprese il significato solo quando perse una delle cose a cui teneva di più al mondo. E il mondo di un bambino di otto anni può essere fatto davvero di poche cose. Quindi, tenere alle cose non era un vantaggio. Riuscì quasi a convincersene. Ma per quanto si sforzasse, per quanto questo potesse essere vero, e per un certo verso lo era sicuramente, di una cosa era già assolutamente consapevole, nonostante avesse solo otto anni:

Sherlock Holmes non poteva fare a meno di tenere a Victor Trevor.

Avevano passato gli ultimi tre anni vivendo praticamente in simbiosi. Dal giorno in cui si erano conosciuti nella radura del pozzo proibito, a quella stessa mattina in cui Sherlock, guardando il soffitto sdraiato sul suo letto, rifletteva sul significato delle parole che Mycroft usava ripetere di tanto in tanto, come fosse un monito. Parole che non aveva mai compreso fino in fondo prima di Barbarossa e con cui si ritrovava a fare i conti adesso, quando pensava al suo amico Victor, il suo migliore amico, l'unico al mondo. Pensava al sorriso di Victor. A quei suoi buffi capelli. Al modo in cui aveva detto Mycofft la prima volta, al suo talento nel dipingere e nel rendere ogni cosa una scoperta meravigliosa. Il suo pirata preferito, il suo secondo, proprio l'unico al mondo. Ma in fondo, aveva solo otto anni Sherlock. E per quanto potesse essere intelligente non era in grado di capire ancora nulla. Quello che per lui valeva era una promessa, un “Io non ti lascerò” detto sul bordo di una scogliera dopo giorni di lacrime. E per adesso bastava a non avere paura.

Comunque, in qualche modo, dopo la morte di Barbarossa non fu più lo stesso.

Divenne grande all'improvviso perdendo quell'infantile sfumatura che caratterizzava ogni suo sorriso, ogni suo gesto. La tempesta che si agitava dentro di lui si acquietò. Rimase la sua curiosità che anzi si accentuò e che lo portò a desiderare ardentemente di sapere, prediligendo alcune cose e ignorandone completamente altre che invece sembravano essere interessanti per tutto il resto del mondo. Divenne apparentemente più silenzioso e chiuso in se stesso. A volte lo si poteva trovare a guardare fisso nel vuoto, perso in chissà quali pensieri e poi all'improvviso diceva cose che non avevano nessun senso. O almeno, nessun senso per chi gli stava attorno, tranne che per Victor, ovviamente, che non si sa come ma sembrava in grado di leggergli nel pensiero. Suonava il violino da quando aveva tre anni, ma adesso aveva iniziato a farlo in maniera quasi maniacale, esercitandosi per ore ed ore, fino a quando Victor non gli diceva di smettere perché quello che stava suonando era perfetto. O fino a quando non gli facevano male le mani. “Mi aiuta a pensare.” diceva, quando gli chiedevano di smetterla. Mycroft lo osservava in silenzio, chiedendosi quali pensieri dovesse affrontare un bambino di otto anni. Ma poi ripensava ai suoi otto anni e alla difficoltà di gestire una mente così brillante per quello che fondamentalmente era solo un bambino che si affacciava nel mondo, e comprendeva. Certo, lui era il più intelligente e ne era venuto fuori in maniera egregia, ma probabilmente per Sherlock sarebbe stato più difficile. Era un bambino con un grande cuore, animato da forti passioni e Mycroft temeva per lui. Temeva sempre per lui. Gli insegnò quindi a incanalare la matassa ingarbugliata dei suoi pensieri in qualcosa che tenesse la mente occupata, e fin da quando aveva 4 anni, lo aveva iniziato al gioco delle deduzioni. Col tempo Sherlock era diventato bravissimo. Non quanto lui, ovviamente, ma era piuttosto notevole. Quando Victor non era nei paraggi e Sherlock era troppo silenzioso, Mycroft gli proponeva qualche caso interessante, persone che aveva conosciuto a scuola o che aveva incontrato per la strada e lo sfidava a carpirne i segreti da una semplice descrizione. Sherlock si lasciava coinvolgere e giocava con assoluta serietà e passione. Ma quando sbagliava qualcosa, e c'era sempre qualcosa, metteva il broncio e Mycroft era segretamente un po' felice di veder riaffiorare quel bambino che ormai stava crescendo in fretta.

Victor non partecipava mai al gioco delle deduzioni. Non ne era capace e in fondo non gli importava. Quando arrivava a casa degli Holmes e trovava i due fratelli intenti a capire perché una certa signora si fosse vestita in un certo modo, lui si limitava a sedere in quello che ormai era diventato il suo posto, e dipingeva. Dipingeva o disegnava in continuazione. Aveva un cavalletto nel soggiorno degli Holmes e ovunque erano disseminati i suoi quadri. Aveva ritratto tutti i componenti della famiglia e il quadro per la mamma di Sherlock era così bello che era stato appeso vicino all'ingresso. E poi amava disegnare su piccoli pezzi di carta e lasciare quei disegni nascosti in giro per casa, nel finto cimitero e nel giardino, di modo che Sherlock potesse trovarli e tenerli con sé. Vederlo sorridere, ogni volta che riusciva a scovare un nuovo disegno, lo rendeva felice. E buona parte di questi ritraeva proprio il suo amico nelle situazioni più disparate. Il suo preferito comunque, lo aveva tenuto per sé, nascosto in un cassetto nella sua stanza. Ritraeva un piccolo Sherlock triste, vestito da pirata, fermo nel tempo a quel giorno in cui si erano incontrati. Un ricordo indelebile che avrebbe tenuto impresso sulla carta e nella sua memoria per sempre.

 

:::

 

La scuola era un vero incubo.

I primi anni erano stati semplici, ma adesso che Sherlock aveva compiuto dodici anni, le cose iniziavano a farsi complicate.

La odiava profondamente. Odiava la maggior parte delle materie e i suoi compagni di classe. Odiava mettere la divisa ogni giorno e soprattutto odiava non essere in classe con Victor. Frequentavano lo stesso junior college, una scuola privata e costosissima destinata ai figli delle ricche famiglie inglesi, ma erano stati assegnati a due sezioni diverse in due edifici diversi. L'unico momento in cui riuscivano a vedersi era la pausa pranzo e la fine delle lezioni, quando tornavano a casa insieme, sempre, o quasi.

Sherlock era brillante, in una maniera quasi imbarazzante agli occhi dei professori e dei suoi compagni. Non aveva bisogno di studiare, e la sua concentrazione poteva essere ridotta al minimo. Era comunque più bravo di tutti gli altri. E fino a quando si è bambini questo non rappresenta un grosso problema. Ma adesso le cose stavano lentamente cambiando. Sherlock odiava i suoi compagni, tanto quanto loro odiavano lui. Perché era saccente, perché era distante, come se avesse scritto in volto il desiderio costante di trovarsi in un altro posto. E quindi se ne stava seduto, col broncio, a guardare fuori dalla finestra. A volte veniva interrogato, ma anche se sembrava essere del tutto assente, riusciva sempre a dare la risposta esatta e questo faceva infuriare un ragazzo in particolare, quello che sarebbe stato facilmente il primo della classe se non ci fosse stato Sherlock: Andrew Wilson. Andrew era il classico figlio di papà, tutto linguaggio forbito e finti sorrisi smaglianti. Ma Sherlock l'aveva inquadrato il giorno stesso in cui l'aveva conosciuto. Era qualcuno da cui stare alla larga per evitare problemi, questo era certo, e fino a quel momento, escludendo qualche diverbio verbale, ci era riuscito. Comunque, quando Sherlock si annoiava troppo, nonostante conoscesse le risposte, evitava di rispondere, apostrofava il professore con termini quali “noioso, inutile, superfluo” e veniva sbattuto fuori all'istante. Quelli erano i momenti che preferiva, perché poteva girare indisturbato per la scuola e soprattutto poteva infilarsi nei laboratori di scienze quando non c'era nessuno.

Victor era l'opposto di Sherlock. Lo adoravano tutti. C'era stata perfino una lotta all'ultimo sangue per chi dovesse essere la sua compagna di banco. Alla fine aveva vinto Sally Cunningam, che subito dopo aver reclamato il suo posto aveva scritto Sally e Victor sui loro due banchi con un pennarello indelebile e tutte l'avevano invidiata da morire. Anche i maschi facevano a gara per ricevere le sue attenzioni e Victor aveva imparato a destreggiarsi perfettamente regalando il suo tempo in maniera equa in modo da non deludere nessuno. Vedeva gli altri sorridergli e di rimando riusciva quasi a sentirsi felice. Ma la verità è che aveva eretto una sorta di muro, in modo del tutto inconscio, dietro il quale nascondeva il vero se stesso, il bambino dagli occhi tristi che osservava la neve in silenzio, scegliendo di dare agli altri la parte migliore di sé, i sorrisi, gli scherzi stupidi, l'esuberanza dei suoi dodici anni. Victor voleva disperatamente che tutti lo amassero e ci riusciva benissimo.

Quando arrivava l'ora di pranzo Sherlock e Victor si sedevano l'uno accanto all'altro ed erano di nuovo loro stessi. Era come ritrovarsi dopo aver giocato a nascondino nel bosco. Ognuno riconquistava il ruolo che gli apparteneva. Sherlock sorrideva, Victor mangiava silenzioso, ascoltando quello che il suo amico aveva da raccontare. Era come tornare a casa.

Tutti li guardavano chiedendosi perché amassero tanto l'uno la compagnia dell'altro nonostante fossero completamente diversi, praticamente opposti.

 

:::

 

Quel giorno Sherlock era in ritardo per la scuola. Era rimasto sveglio fino a tardi e non era riuscito ad alzarsi al solito orario. Aveva fatto colazione in fretta, rovesciando la tazza e rompendola in mille pezzi, e quando finalmente era salito in macchina si era reso conto che ormai era troppo tardi per passare a prendere Victor. L'avrebbe trovato già a scuola. Le lezioni furono noiose come sempre e quando finalmente arrivò la pausa pranzo, Sherlock si sedette al solito tavolo in attesa del suo amico. Ma Victor non arrivò. Era già capitato altre volte, ma Sherlock ne conosceva sempre il motivo. Questa volta era diverso. Lo aspettò a lungo, fino a quando la sala non fu quasi completamente vuota e alla fine si rassegnò a tornare in classe, senza aver mangiato quasi nulla. Passò le restanti ore a chiedersi dove fosse il suo migliore amico e soprattutto perché non lo avesse avvertito della propria assenza, ma mentre era impegnato in uno di questi pensieri, il professore gli rivolse una domanda. Sherlock lo guardò e rispose, senza battere ciglio. Era perfettamente in grado di lasciare una parte del suo cervello ad ascoltare in background le inutili ciarle dell'ora di geografia. Andrew, che aveva alzato la mano da almeno cinque minuti, la riabbassò seccato. Fissò Sherlock per tutte le ore restanti.

 

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Ho le prove per il corso di teatro, ho dimenticato di dirtelo, scusa! Sarò occupato tutto il giorno. Ci vediamo domani, (forse). Romeo

 

Il bigliettino era stato messo nel suo armadietto attraverso una delle fessure superiori e quando Sherlock lo aveva aperto, era caduto a terra ondeggiando leggero. L'elegante scrittura di Victor era inconfondibile. Lo lesse un paio di volte, storcendo il naso su quel “Romeo”, prima di sentire una voce pronunciare il suo nome.

“Holmes.”

Sherlock la ignorò. Era troppo impegnato a cercare di capire perché si sentisse così triste dopo aver letto quel biglietto. Finì quindi di riporre i libri, poi chiuse l'armadietto con un movimento nervoso producendo un gran tonfo e vi si appoggiò con la schiena, osservando il pavimento, come se fosse completamente solo. E in effetti era così tardi che probabilmente a scuola non era rimasto più nessuno.

“Sei sordo?”. -Andrew Wilson se ne stava in piedi, di fronte a lui.

“No, ti sto solo ignorando.”

Andrew lo squadrò per qualche secondo. -“Tu non mi piaci.”

“Nemmeno tu mi piaci, Wilson.”- Sherlock lo guardò con sfida. - “Sei talmente stupido che dubito tu possa piacere a qualcuno”. Era nervoso e per qualche assurdo motivo, triste. Essere diplomatico al momento era l'ultimo dei suoi pensieri.

Il movimento fu improvviso. Andrew colpì con un pugno l'armadietto, a soli cinque centimetri dal viso di Sherlock.

“Il prossimo è sulla tua faccia.”

Sherlock sobbalzò, più per il rumore che per la paura. Anzi, non era spaventato affatto. Era piuttosto annoiato invece, da questa situazione che lo distraeva da ciò a cui stava pensando. Lo guardò.

“Ti piace proprio sfogare la rabbia repressa su chi è più bravo di te? Non è colpa mia se sei così stupido. E non è colpa mia se i tuoi genitori hanno divorziato perché tuo padre se la fa con la madre di Morgan. Forse è colpa tua.” - Sherlock sorrise. Sapeva di aver esagerato ma ormai era troppo tardi per tornare indietro. Andrew era diventato paonazzo, dalla rabbia e dalla vergogna. Afferrò Sherlock per il colletto della camicia e lo sbattè con forza contro l'armadietto, una, due, tre volte. -“Devi smetterla! Devi smetterla! Non è vero!!”.

Andrew Wilson era un bambino grande e grosso, alto quanto Sherlock, ma grosso il doppio di lui. Un bambino ferito nell'orgoglio da poche parole ben mirate. Aveva gli occhi lucidi di pianto ed una rabbia repressa pronta ad esplodere. Sherlock lo aveva capito ed aveva iniziato solo adesso ad avere una certa paura, come se il suo spirito di sopravvivenza fosse sempre in ritardo rispetto a quello di tutte le persone normali. Aveva solo dodici anni, ma era già perfettamente conscio del fatto che questo, gli avrebbe causato non pochi problemi nel corso della vita.

“Ti faccio nero, Holmes. Così vediamo se hai ancora il coraggio di andartene in giro con quella faccia quando te l'avrò spaccata.”

Sherlock chiuse gli occhi in attesa dell'inevitabile.

 

“Sai? Io non credo proprio, Wilson.”

La voce di Victor arrivò calma e del tutto inaspettata. Seguì un momento di stasi perfetto. Andrew rimase immobile con il pugno già pronto a mezz'aria. Sherlock aveva riaperto gli occhi, ma tratteneva ancora il respiro. Victor se ne stava appoggiato al muro di fronte, dietro la schiena di Andrew, tranquillo, con un sorriso letale stampato sul volto e le braccia incrociate al petto. Aveva ancora addosso il costume di scena, una blusa in velluto nero con intrecci dorati, stivali di cuoio scuro e una spada corta sul fianco destro. Romeo Montecchi, bellissimo, perfettamente fuori contesto.

“Siccome mi sembra che tu non abbia sentito, te lo ripeto, perché voglio darti il beneficio del dubbio. Ho detto, io non credo proprio Wilson”- disse, staccandosi dal muro con un movimento elegante e avvicinandosi agli armadietti lentamente.

“Mi hai capito?”- disse questa volta a pochi centimetri dall'orecchio di Andrew che nel frattempo era completamente sbiancato. Sherlock era immobile, incapace di pensare. Victor sorrise, poi con una mano prese delicatamente il pugno che stringeva il colletto del suo migliore amico e lo allontanò. “Se non ti dispiace”, - gli disse - “questo puoi riprendertelo.”- e con un movimento fluido si frappose tra i due, dando la schiena a Sherlock e trovandosi così a pochi centimetri dal viso di Wilson. Avevano tutti dodici anni, ma Victor, grazie ad un fisico precocemente sviluppato e a i suoi modi raffinati ed eleganti, passava tranquillamente per un quindicenne. Era il più alto della scuola e nessuno aveva mai avuto il coraggio di ingaggiare battaglia con lui. Non ce n'era stato mai motivo comunque, perché tutti lo adoravano.

Wilson ebbe paura. Indietreggiò di qualche passo spostando lo sguardo a terra. “Io non...non volevo. Per favore non dirlo a nessuno, mio padre mi ucciderebbe”- iniziò a piagnucolare portando le mani tra i capelli. “Per favore, Trevor.”

Victor lo guardò. E provò una profonda pena per quel ragazzino che forse non era poi troppo diverso da lui. Scosse appena la testa allargando un po' le braccia. “Non dirò niente. Ma quello che è accaduto qui non dovrà mai più ripetersi, mi sembra chiaro no?”

Andrew annuì velocemente. “Mi...dispiace”- riuscì a dire prima di dileguarsi lungo il corridoio con passo svelto, come se avesse avuto il timore di essere inseguito. Victor lo osservò andare via fino a quando non lo vide sparire dietro un angolo, poi finalmente si voltò verso il suo amico.

Sherlock, che non aveva detto nemmeno una parola, se ne stava appoggiato all'armadietto e con occhi spalancati guardava il pavimento. Era andato completamente in tilt. Il suo corpo stava reagendo in una maniera che non riusciva a comprendere, sentiva il viso caldo e le mani sudate. Arrivò alla veloce conclusione che doveva essere arrossito violentemente, ma non riusciva a ricordare l'esatta causa scatenante di questa reazione. Il cuore aveva iniziato a battere ad un ritmo accelerato, troppo accelerato e gli ci volle quasi mezzo minuto per rendersi conto che Victor lo stava chiamando.

“Sherlock!”- lo scosse leggermente per una spalla. - “stai bene?”

Sherlock alzò lo sguardo mettendo a fuoco un Victor palesemente preoccupato.

“Si.”- rispose staccandosi dall'armadietto e allontanandosi di qualche passo. “Che ci fai qui? Non dovevi essere a teatro?”

Victor lo guardò in silenzio per qualche istante. Gli bastò un attimo per capire. “Perché sei arrabbiato? Mi sembra sia stata una fortuna che io sia passato di qui proprio pochi minuti fa, o no?”.

“Me la sarei cavata benissimo.”

“Tu dici?”- Victor sbuffò una risata incredula incrociando le braccia al petto. “Quello stava per farti nero, lo sai bene”.

“Non ho bisogno di un'altra balia.”- Sherlock sentiva ancora il viso caldo e all'iniziale sensazione di spaesatezza sentì aggiungersi piano piano una strana rabbia di cui non riusciva a comprendere la ragione. La sentiva montare dentro di sé e ormai non poteva più fermarla. -“Non farlo mai più.”- aggiunse arido, prima di voltarsi e incamminarsi lungo lo stesso corridoio che poco prima aveva visto Andrew Wilson sparire.

Victor rimase pietrificato, incapace di dire qualsiasi cosa. Illuminato dalla luce bassa del tardo pomeriggio, con addosso quello stupido costume di velluto, si sentì all'improvviso completamente solo, come se non avesse nessuno al mondo oltre se stesso e profondamente a disagio. Restò lì a lungo a chiedersi dove avesse sbagliato senza tuttavia riuscire a trovare una risposta. Ripensò allora a suo padre e a tutte le volte in cui lo aveva fatto sentire inutile e sbagliato e si convinse un po' di più che forse quella doveva essere la verità. E stranamente si sentì come sollevato, perché in fin dei conti, per quanto si sforzasse, non poteva essere diverso da ciò che era sempre stato. Si arrese a tale consapevolezza con fin troppa facilità, sentendosi anche un po' stupido per non averlo capito prima. Quindi tornò a teatro per provare portando con sé un inconscio groviglio di sentimenti pesante come un macigno, e quando salì sul palco ridusse tutti in lacrime, recitando quello che l'insegnante definì come “il miglior Romeo che la scuola avesse mai visto”.

 

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Sherlock faticò ad addormentarsi quella notte. Guardò il soffitto a lungo ripensando a quello che era accaduto, senza capire. Ripercorse ogni passaggio, ogni momento di quel maledetto pomeriggio e ogni volta che arrivava al punto in cui Victor si frapponeva tra lui e quello stupido di Wilson, non poteva che arrossire di nuovo. Ogni volta. Nascose la testa sotto il cuscino per soffocare la rabbia e pensò a quell'altro stupido, a Victor, che avrebbe dovuto farsi i fatti propri e lasciare che lui se la cavasse da solo. Un occhio nero forse avrebbe fatto meno male di quella cosa, quella strana sensazione che lo opprimeva e a cui non riusciva a dare un nome. Si addormentò così, tormentandosi a lungo su quei pensieri e sognando lunghi corridoi bui e tetre quinte teatrali. Aprì centinaia di porte ma non trovò mai quello che stava disperatamente cercando. E poi all'improvviso lo vide, seduto sul bordo in cartapesta di un pozzo di scena, spuntato nel mezzo di un palco. C'era uno spicchio giallo di luna su un cielo dipinto di stelle e il silenzio della finta notte avvolgeva ogni cosa. Victor, perfetto nel suo costume da Romeo, guardava il fondo del pozzo ed era triste e bellissimo.

Sherlock si svegliò da quel sogno di soprassalto, sudato e tremante, con il cuore che batteva all'impazzata e con la prima erezione inconscia della sua vita.

Fu un completo shock. Non perché non capisse cosa stesse accadendo, non era mica stupido, ma semplicemente perché arrivò in modo del tutto inaspettato. Non così, non in quel modo, non con quel sogno, non con quei pensieri. Quel pensiero. Non era così che sarebbe dovuto accadere. Forse aveva desiderato che non accadesse affatto, forse non gli era importato mai più di tanto. Si sentì tradito dal proprio corpo e provò profonda vergogna, ma non solo. Ebbe paura. Una paura folle che divorava ogni cosa, ogni pensiero razionale, ogni altro sentimento, ogni sensazione. Più forte persino della vergogna. Gli restava solo la paura. Lo faceva tremare e desiderare di tornare indietro a prima di quel sogno, a prima di addormentarsi, a prima di quel giorno. Forse se fosse uscito di scuola un po' prima non sarebbe accaduto nulla di tutto ciò. Sarebbe tornato a casa, avrebbe fatto i compiti e sarebbe andato a dormire come tutte le sere. Non avrebbe sognato Victor e tutto sarebbe a posto. Forse.

Pensieri irrazionali di questo genere si accavallavano frenetici nella sua mente. Il solito maniacale ordine con cui aveva imparato a catalogarli non funzionava più. Non solo il suo corpo l'aveva tradito, ma ora anche il suo cervello sembrava aver smesso di funzionare correttamente. Restò a pancia all'aria con le mani che stringevano le lenzuola, a guardare il soffitto nell'oscurità cercando di tornare a respirare normalmente. Decise che non avrebbe fatto nulla. Avrebbe solo aspettato che tutto fosse passato. Avrebbe solo aspettato. E fu quello che fece.

Imparò solo col tempo che certe cose non potevano essere controllate, neppure se si possiede un'intelligenza superiore alla media e quindi si arrese a dover risolvere in altro modo ciò che capitò sempre più spesso. A lungo si sforzò di cambiare l'oggetto dei propri pensieri e ci provò in ogni modo, ma da quel giorno in cui fu quasi pestato, fu sempre inutile. Victor Trevor, l'amico d'infanzia, il suo miglior amico, l'unico al mondo, era diventato assolutamente e irrimediabilmente impossibile da rimpiazzare.

 

La mattina successiva riuscì a fingere di stare male e convinse i suoi genitori a farlo restare a casa qualche giorno. Mycroft, che era in vacanza dal college, lo studiò in silenzio ma non gli disse nulla. Si limitò a lanciargli qualche occhiata durante il pranzo e la cena, ma non parlarono mai e quando un pomeriggio gli chiese di giocare alle deduzioni, Sherlock rispose con un secco “no” e non ci fu altro.

Victor non si fece mai vivo, ma chiamò una volta per chiedere cosa fosse successo. Fu Mycroft a rispondere che Sherlock aveva l'influenza e dopo questo non ci furono altri contatti, ma era bastato lo squillo del telefono a mandare in confusione il suo cuore che aveva iniziato a battere all'impazzata. Allora si era rifugiato in camera sua e non era più uscito per ore.

Dopo quattro giorni Sherlock tornò a scuola e fu come se non fosse mai mancato. Nessuno gli chiese nulla, tranne Andrew Wilson che appena lo vide lo salutò con un timido cenno della mano e un piccolo sorriso. Sherlock lo ignorò totalmente. Le lezioni furono noiose più di quanto ricordasse, e quando arrivò l'ora di pranzo si sentì così sollevato che uscì dall'aula prima di tutti, mentre la campanella stava ancora suonando. In mensa si sedette al solito posto, il vassoio pieno di cibo e nessuna voglia di mangiarlo. Non si guardò attorno mai, nemmeno una volta. La recita scolastica era ormai vicina e tutti i ragazzi impegnati nelle prove erano esonerati dal seguire le lezioni. Non si aspettava di vedere Victor e ne era estremamente sollevato perché aveva paura di se stesso e di come avrebbe potuto reagire, ma sapeva che non poteva continuare a nascondersi a casa. Purtroppo.

“Sei tornato.”

Le deduzioni di Sherlock erano sbagliate e come aveva previsto, il suo cuore iniziò a battere furiosamente. Riuscì solo a pensare che fortunatamente da fuori non si sarebbe mai visto. Alzò lo sguardo, con riluttanza. Victor nel frattempo si era seduto di fronte a lui come sempre, il vassoio posato sul tavolo con un tonfo. “Sei guarito?”- disse, iniziando a mangiare la sua porzione di patate. Fu un sollievo constatare che indossava la divisa scolastica.

“Già.”

Seguì silenzio. Victor mangiava, Sherlock guardava il proprio cibo.

“Non ho ancora capito perché ti sei arrabbiato l'altro giorno ma dato che è evidente che è stata colpa mia, ti chiedo scusa”. Victor aveva posato la forchetta e stava guardando il suo migliore amico con una vaga tristezza negli occhi.

Sherlock si sentì sopraffatto. Come poteva spiegargli quello che gli stava accadendo se nemmeno lui ne aveva la vaga idea? Come poteva anche solo minimamente accennare ad un discorso che non avrebbe mai e poi mai saputo pronunciare? Come avrebbe potuto dirgli parole che non riusciva a formulare nemmeno nella sua testa? La verità era che Sherlock si sentiva profondamente confuso. Non aveva risposte a nessuna delle domande che si stava ponendo. Quello che aveva erano solo i suoi dodici anni e confusi pensieri intrappolati dentro emozioni inspiegabili. Pensò che alla fine lo avrebbe perduto. Avrebbe perso il suo amico, così come era successo con Barbarossa e la paura lo colpì forte, così come avrebbe dovuto fare quel pugno che Andrew Wilson non gli aveva mai dato.

Aprì bocca per rispondere ma non riuscì a dire niente e dopo qualche altro minuto fu Victor a parlare, di nuovo.

“Devo andare in teatro.”

“Va bene.”

Furono le uniche cose che si dissero prima che Victor si allontanasse e mentre Sherlock lo guardava andare via, pensò che fosse una metafora perfetta per quello che sentiva dentro di lui.

 

:::

 

Seguirono giorni difficili. Sherlock divenne scontroso più del solito, smise di rispondere alle domande dei professori e passò più tempo fuori dalle aule che dentro. Si rifugiò nei laboratori di scienze ogni volta che ne aveva l'occasione e conduceva dubbi esperimenti su rane e insetti morti. Saltò il pranzo per vari giorni ed evitò il più possibile di incontrare Victor. Non rispose ai suoi messaggi sul cellulare e ignorò i consueti bigliettini che il suo amico aveva sempre la premura di fargli trovare nell'armadietto o nelle tasche del cappotto. L'ultimo, scritto sul retro di un tovagliolino della mensa, diceva: - Domani sera ci sarà la recita. Verrai a vedermi? Vic.-, ed era corredato da un disegnino buffo di una Giulietta morente e di un Romeo che la guardava mangiando pop corn.

Quella notte Sherlock pensò a lungo. Aveva il coraggio di perdere il suo amico per degli stupidi pensieri che probabilmente sarebbero andati via col passare del tempo? E se non fossero andati mai via? Impossibile. Aveva solo dodici anni dopotutto. Ma se non fossero andati via avrebbe sempre potuto fingere, ignorare, reprimere. Gli sembrò la soluzione migliore.

Sognò Barbarossa che correva nel grano. E lui, che aveva di nuovo otto anni, lo chiamava disperatamente senza riuscire a farlo voltare mai. Si allontanò sempre di più invece, fino a sparire dalla vista. Sherlock pianse disperato nel sogno e nel sonno, rigirandosi nel letto fino al mattino.

 

Victor continuò a sentirsi a lungo solo in quei giorni. Aveva centinaia di amici e facce sorridenti attorno a sé, ma non gli importava di nessuno. Perché nessuno di quelli era Sherlock. Fu difficile mantenere il suo solito atteggiamento da ragazzino scanzonato e si sforzò affinché nessuno lo notasse e gli si avvicinasse abbastanza da potergli chiedere che cosa avesse fatto. Non c'era niente di più tedioso dell'interesse di qualcuno di cui non gli importava assolutamente nulla. Quindi sorrise a tutti, parlò con tutti, scherzò con tutti, come sempre, ma la verità era che non si era mai sentito così vuoto e finto come in quei giorni. Dopo l'episodio della mensa in cui Sherlock gli aveva rivolto a stento la parola, era tornato a casa e aveva iniziato a dipingere furiosamente tele su tele, imbrattando il pavimento di nero dopo aver gettato via i pennelli e aver iniziato a rovesciare la tempera direttamente dai barattoli. Si sfogò così, per ore, fino a che suo padre non gli urlò di smetterla e lo costrinse a ripulire. Lo studio, che un tempo era appartenuto a suo madre, fu ridotto un vero disastro. Ed ogni giorno, fino allo spettacolo, dipinse con le mani e con la rabbia fino a sfinirsi, recitando le sue battute, imbrattato di colori, su un cimitero di quadri che non sarebbero mai stati finiti.

 

La sera dello spettacolo Victor recitò con tutto se stesso, acclamato da un pubblico adorante di genitori e studenti. Sherlock lo guardò rapito per tutto il tempo e alla fine si presentò dietro le quinte per congratularsi. Fu uno sforzo immane tenere a bada il proprio cuore e i propri pensieri, ma in qualche modo riuscì a cavarsela. Non poteva continuare a riversare la sua rabbia e la sua confusione su Victor, la cui unica colpa era stata quella di salvarlo da un pestaggio assicurato. E più di ogni altra cosa non poteva rischiare di perdere il suo migliore amico, non di nuovo. Faceva troppo male. Non l'avrebbe sopportato. Victor lo accolse semplicemente con un largo sorriso, uno dei migliori di cui era capace e sembrò così felice che Sherlock promise a se stesso che mai più sarebbe stato la causa di quegli occhi tristi.

Ci volle un po' perché le cose tornassero alla normalità. Sherlock era dovuto scendere a compromessi con se stesso. Victor, che era un compromesso vivente, fu solo infinitamente felice di riavere l'unica cosa al mondo di cui gli importasse davvero, l'amicizia di Sherlock. E l'approvazione di tutto l'inutile resto del mondo, ovviamente.

 

 

:::

 

 

“Quando i miei pensieri sono ansiosi, inquieti e cattivi, vado in riva al mare e il mare li annega e li manda via con i suoi grandi suoni larghi, li purifica con il suo rumore e impone un ritmo su tutto ciò che in me è disorientato e confuso.”*- declamò Victor all'improvviso dopo che per interminabili minuti avevano guardato seduti in silenzio l'infinita distesa di acqua che placida si apriva davanti ai loro occhi.

“Dove l'hai letta questa scemenza?”- gli rispose Sherlock con uno sguardo di finta noia.

Victor scoppiò a ridere sonoramente. “Oh, Sherlock...mi fai diventare matto.”- e con un movimento leggero e sinuoso si era sdraiato sull'asciugamano dandogli la schiena. - “Sai, si chiama letteratura. In questo caso Austriaca, per la precisione.”- disse, guardando languido la sabbia che scivolava via tra le dita della sua mano. - “Non mi aspetto che tu la comprenda.”- aggiunse, in tono scherzoso.

“Noioso, più che noioso, per la precisione.”

Victor sorrise e non disse più niente, per un po'.

L'estate dei loro quindici anni volgeva così quasi al termine. Erano state sei settimane intense di nullafacenza, suddivise equamente tra bagni in mare, esplorazioni della costa, gite in barca, quadri dipinti en plein air e concerti notturni di violino, cieli stellati, desideri inespressi, notti in bianco, corse sotto la pioggia, finte lotte e risate. L'ultimo giorno di vacanza avevano deciso di passarlo così, senza fare niente, sdraiati sulla spiaggia selvaggia della tenuta degli Holmes. Il sole era caldo e i pensieri galleggiavano silenziosi tra le basse dune di sabbia, pesanti, come pietre trasportate a fatica dalla brezza di mare. Sherlock, come ormai faceva quando era sicuro di non essere visto, si azzardò a fissare Victor ben oltre il tempo lecito.

Era bello. Oggettivamente bello. Lo era sempre stato. Aveva folti capelli ramati che adesso gli cadevano disordinati e gocciolanti sulla fronte. Gli occhi, di un verde intenso, parevano racchiudere i segreti più nascosti del mondo ed erano così profondi che chiunque avrebbe potuto facilmente perdervisi. E quel sorriso, che era per Sherlock fonte dei più grandi turbamenti interiori, avrebbe rischiarato da solo la notte più buia e acceso il giorno più grigio della più triste delle vite. Era bello. Bello come la malinconia estiva. Victor era il sole che moriva all'orizzonte, un temporale improvviso, una canzone triste.

Sherlock sospirò, afferrando un sassolino e lanciandolo svogliatamente verso l'acqua. Se ne stava seduto, con un braccio poggiato sulle ginocchia e la testa piegata di lato a pensare a cose che non avrebbero mai trovato la via per diventare parole concrete.

“Che cosa farai da grande?”- disse Victor rimettendosi a sedere, spalla a spalla con il suo amico.

“Mh?”

Sherlock, che era perso in ben altri pensieri, non aveva capito una sola parola di quelle che gli erano state rivolte. Fu riportato alla realtà da una mano che leggera si insinuò dietro la nuca tra i suoi ricci bagnati.

“Ho detto, che cosa farai da grande, genio.”

“Lo sai bene.”- riuscì a dire, sopraffatto da quel gesto che rischiava di mandare in corto circuito il suo cervello.

“Ah già, il detective privato.”

“Non proprio, ma si, più o meno è quello che vorrei fare.”

Victor lo guardò e sorrise dolcemente. Lasciò scivolare la mano dalla nuca alla spalla di Sherlock, cingendolo con il braccio. - “Tu potresti fare qualsiasi cosa, lo sai vero? Qualsiasi.”- poi si voltò verso il mare. “Ti basterebbe solo volerlo.”

Sherlock lo fissò in silenzio, colto all'improvviso da un brivido che lo attraversò da capo a piedi, ma non seppe stabilire se fosse a causa della brezza sulla sua pelle bagnata o se fosse per qualcos'altro.

“Hai freddo?”- Victor gli accarezzò il braccio come se avesse voluto scaldarlo. Sherlock pensò invece che quello non era il modo adatto per spegnere il fuoco che sentiva dentro.

Non era la prima volta che Victor si lasciava andare a gesti di così palese affetto. Era sempre stato un bambino capace di eclatanti manifestazioni, nel bene e nel male, e abbracci e baci non erano negati mai a nessuno. Ed ora che era diventato un adolescente (quasi un adulto per chiunque lo avesse sentito parlare) le cose non erano diverse, anche se probabilmente tutti avevano potuto notare chi fosse il destinatario principale delle sue attenzioni. Sherlock ripercorse con la mente quelle sei settimane e tutti i momenti che avevano passato insieme. C'era stata quella volta in cui un temporale estivo li aveva colti all'improvviso mentre passeggiavano sulla scogliera. Avevano corso a perdifiato verso casa, ridendo come matti e l'avevano trovata vuota. Sherlock si era seduto su uno sgabello della cucina per riprendere fiato, completamente fradicio e gocciolante, e Victor, che era sparito in bagno quasi subito, era tornato con un asciugamani e in silenzio, aveva iniziato ad asciugargli i capelli dolcemente. In quel preciso istante il tempo si era come fermato in una bolla di perfezione che odorava di pioggia, pelle bagnata e paura. E Sherlock aveva ringraziato il rumore dell'acqua sui vetri perché riusciva a coprire il battito folle del proprio cuore.

E c'era stata quella volta in cui avevano passato tutta la notte sulla spiaggia a guardare le stelle. “Pensi ci siano altri mondi?”, aveva chiesto Victor all'improvviso. “Altri mondi con infiniti Victor e infiniti Sherlock?”. E Sherlock non aveva saputo rispondere. Victor lo aveva guardato e gli aveva accarezzato i capelli. Poi era tornato a guardare il cielo. “Forse infiniti Victor, ma non infiniti Sherlock. Che alcune cose sono fatte per restare uniche, come melodie perfette.” Sherlock di nuovo, non fu capace di proferire parola e si maledisse a lungo per questo e per non essere riuscito a muovere nemmeno un dito, immobilizzato da tanta bellezza e dalla paura folle di fare per primo il passo verso un baratro da cui non avrebbe mai potuto fare ritorno. Ma Dio solo sa quanto avrebbe voluto baciarlo.

E poi c'era stata quella volta in cui era andato a casa sua e l'aveva trovato nello studio della madre, completamente distrutto dalle lacrime, sfinito, in un angolo della stanza, con i vestiti macchiati, una mano sanguinante e l'anima esposta. Sherlock si era avvicinato piano, come si fa con gli animali feriti, e gli aveva accarezzato una guancia. Victor lo aveva afferrato per quella mano con violenza, ansimando, con gli occhi spalancati fissi nei suoi, come se non lo avesse riconosciuto. Sherlock lo aveva guardato a lungo in silenzio. Conosceva perfettamente gli sbalzi di umore di cui il suo migliore amico era capace e questo forse, era uno dei peggiori che avesse mai visto o che Victor gli permise di vedere. Non lo seppe mai. Quando si era finalmente lasciato andare, Victor aveva pianto di nuovo, disperatamente, accoccolato tra le braccia del suo amico e in un istante era stato di nuovo il bambino perduto che aveva patito l'amore. Pianse e pianse, aggrappato alla sua maglietta per un tempo interminabile. La luce aveva cambiato angolazione, era scesa bassa e rassicurante, ma loro erano rimasti seduti a terra, in quell'angolo di inferno, stretti l'uno nell'altro, come aggrappati disperatamente alla vita.

Il padre di Victor li aveva guardati in silenzio dalla porta per qualche minuto. Avrebbe voluto separarli e non permettergli di vedersi mai più. Ma quel giorno, il senso di colpa represso per anni, si era palesato così forte che gli aveva impedito qualunque gesto. Non era riuscito a dire niente e per la prima volta nella sua vita aveva pensato che forse aveva sbagliato tutto.

Quella notte Victor aveva dormito a casa di Sherlock, nel suo letto. Non aveva sorriso mai, neanche una volta. E non aveva detto nemmeno una parola. Si erano guardati a lungo negli occhi nel buio accogliente di quella casa che aveva vissuto di amore e sapeva di famiglia. Victor si era sentito protetto. Aveva accarezzato Sherlock dolcemente, come ormai aveva fatto tante volte e come se non fosse stato lui quello bisognoso di conforto, poi si era addormentato sfinito. Sherlock lo aveva guardato dormire per un po' e aveva desiderato disperatamente di poter eliminare quel dolore, il male di vivere, dalla persona che amava più di ogni altra cosa al mondo. Gli aveva accarezzato i capelli e lo aveva baciato su una guancia, poi si era addormentato anche lui. La mattina seguente si era svegliato nel letto da solo. Victor, con il più smagliante dei sorrisi e l'allegria più contagiosa era in cucina con sua madre a preparare la colazione. Li aveva sentiti ridere fin dal piano di sopra e quando era sceso, era come se nulla fosse mai accaduto.

C'erano stati questi e tanti altri momenti. Carezze veloci e tocchi quasi rubati. Occhi negli occhi, attimi immobili di assoluta perfezione, parole non dette, battiti di cuore e respiri spezzati. Gesti perennemente al confine di una linea che non venne mai oltrepassata. Mani nei capelli, abbracci silenziosi, baci su guance e uno sul collo di cui Sherlock ricordava l'esatta pressione, l'esatto punto, il luogo, il momento, il giorno, l'orario preciso e perfino i secondi dell'attimo in cui l'aveva ricevuto. Poi Victor aveva riso e aveva declamato una delle sue stupide poesie sulla vita e sulla morte e tutto era tornato alla normalità.

 

Quella mano che gli accarezzava il braccio lo teneva ancorato alla realtà e contemporaneamente lo proiettava altrove, in un luogo lontanissimo e sconosciuto. Sherlock aveva paura. Questa era la verità pura e semplice. Non la banale paura di un quindicenne al primo amore. No. Sherlock aveva paura della perdita più di ogni altra cosa. E di non essere ricambiato, ovviamente. Ma le ultime settimane avevano incoraggiato i suoi pensieri e la speranza che forse i gesti di Victor non fossero dettati solo dall'affetto e da un'ormai decennale amicizia. Ma comunque restava la paura che era più forte di qualsiasi consapevolezza, perché Sherlock sapeva cosa significasse amare qualcosa e poi perderla. Tenere alle cose non era un vantaggio. E non era pronto a rischiare di nuovo. Non con Victor. Forse avrebbe preferito guardare nel fondo di quegli occhi per sempre, senza fare quel passo in più che l'avrebbe portato a perdersi, piuttosto che restare solo senza poter più godere di quel sorriso e del suono cristallino di quella risata. Forse.

 

“Sherlock? Sei qui? Sei con me?”- Victor lo riportò al presente.

“No, non ho freddo.”- rispose di getto, cercando di concentrarsi. - “E comunque, vale lo stesso per te.”- aggiunse in tono sommesso. “Puoi diventare ciò che vuoi, se solo lo desideri.”

Victor scoppiò a ridere lasciando la presa sul suo amico.

“Io non sono niente Sherlock. E non diventerò mai niente.”- disse. Ed era così serio che Sherlock ebbe improvvisamente paura.

“Perché dici questo?”

“Pensi mai alla morte?”

“Cosa?”

“Alla morte. Ci pensi mai? A volte penso che non ci sia niente là fuori per me. Non vedo niente. Io non ho niente. E non appartengo a nessun luogo, a parte uno.”

Ci fu silenzio per qualche secondo. Victor sembrava che adesso stesse parlando a se stesso e Sherlock non lo aveva mai visto così triste e così lucido. Le sue esternazioni nei momenti di tristezza erano ben altre. Grida e pianti e cose rotte. Ma questa lucidità di espressione faceva molta più paura.

“...quale? Quale luogo?”

“Ho paura, a volte.”

“Di che cosa? Vic...che stai dicendo?”

“Del giorno in cui mi vedrai per quello che sono realmente. E allora anche tu mi lascerai.”- fece una pausa. - “Mi piace quello che sono attraverso i tuoi occhi. Peccato non sia la verità.”- si alzò di scatto. Sherlock non seppe che dire. Fu colpito all'improvviso da quelle parole come fossero schiaffi. Facevano più male, però.

Ma Victor rise all'improvviso.

“Guarda il sole, sta morendo. Facciamo il bagno adesso, sarà l'ultimo.” - e tese una mano verso il suo amico, seduto ancora immobile a digerire frasi che gli apparivano del tutto senza senso. Aveva voglia di chiedere e capire, ma Victor sembrava aver riacquistato il suo buon umore e gli offriva la sua mano e quel sorriso a cui non avrebbe mai saputo resistere.

Quindi fecero il bagno, nell'acqua ormai fredda, con il sole che stava tramontando e portava con sé gli ultimi istanti di un giorno che Sherlock avrebbe ricordato per sempre.

 

“Quale posto? A quale unico posto pensi di appartenere?”- gli chiese, mentre camminavano l'uno affianco all'altro sul sentiero che li avrebbe ricondotti a casa.

“L'unico a cui non posso aspirare.”

Sherlock non capiva. Di che parlava? Non poteva parlare di lui. Victor non poteva essere così stupido. Se sono io, se solo fossi io, ti farei vedere quanto invece ti sbagli. Ma non poteva essere lui. Perché mai Victor avrebbe dovuto pensare di non essere abbastanza? Era impossibile. Sherlock non capiva e non avrebbe capito per molto tempo ancora.

“Comunque mi sbagliavo.” - aggiunse Victor.

“Su cosa?”

“Sul fatto che potresti diventare qualsiasi cosa, Sherlock. Professore di letteratura mi sento di escluderlo.” e scoppiò in una sonora, coinvolgente risata.

 

::

 

Una tela bianca.

Non mi amerà mai. Non si può amare uno come me. Non mi amo nemmeno io. Non so chi sono.

Si sedette a terra. Il pennello in mano, il barattolo di acrilico nero lì vicino.

Non mi amerà mai. Una prima, spessa, lenta, pennellata. Non posso amarlo. Non me lo merito. Una seconda, altrettanto lenta pennellata. Non posso aspirare a tanto. Non potrò mai. Non sono nessuno. Pennellate, una dopo l'altra, lente. Nero, nero che copre, ogni cosa. Se gli chiedessi di amarmi, lo perderei. Puoi permettertelo, Victor? Puoi? Linee continue. Solo nero, nero su bianco. Nient'altro. Nessuna forma. Nessuna dimensione. Nero. La vita che assomiglia alla morte. Reclinò la testa di lato. La morte che assomiglia alla vita. E ancora linee. Non puoi aspirare a tanto. Non puoi aspirare a quel profumo. Acqua salata e dolcezza naive. Son sourire, ces mains et ces yeux, ils m'ont touché. Il est cruel et il ne le sait meme pas.

Una tela nera.

Lasciare andare? Non appartengo a nessun luogo. A parte uno. Forse nemmeno a quello. Il ne sait pas.

 

::

 

Sherlock fu molto silenzioso quella sera. Mangiò poco e niente e poi si chiuse in camera sua. Pensò alle ultime settimane, a quello stesso pomeriggio, alle parole di Victor, ai suoi gesti. Si permise di pensare che forse superare quella linea immaginaria che ancora li divideva non doveva essere proprio un azzardo. Forse poteva superare la paura. Dopotutto, come poteva temere di perdere qualcosa che in realtà non possedeva affatto? Victor non era suo. (Quanto avrebbe voluto che invece lo fosse). Ma lui non sapeva niente dell'amore. Non sapeva niente di cose romantiche e baci appassionati sotto il cielo stellato e passeggiate mano nella mano. Non sapeva niente di frasi dolci e stupidi soprannomi. Non conosceva niente di tutto ciò. Ma conosceva Victor. Victor e il suo profumo, quando faceva il bagno e poi si scrollava l'acqua dai capelli agitandoli addosso a lui. E il suo sorriso, che sapeva coglierlo impreparato e lasciarlo senza fiato. E le sue mani, grandi e forti, che sapevano stringere con forza e accarezzare con dolcezza. E i suoi occhi, che nascondevano segreti e allo stesso tempo mettevano in mostra l'anima più indifesa. E quel suo corpo, causa di turbamenti notturni e sogni indicibili. Sherlock arrossì violentemente e nascose il viso nel cuscino. Forse avrebbe potuto fare un tentativo. Forse la paura avrebbe potuto farsi da parte. Forse. Si addormentò così, chiedendo a se stesso di trovare il coraggio di buttarsi in qualcosa che non conosceva affatto ma che voleva disperatamente.

 

Ma poi iniziò la scuola e il tredicesimo giorno, alle 14:47, durante la pausa pranzo, Victor presentò a Sherlock la sua ragazza.

 

E il mondo finì in quel preciso istante.





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Nota dell'autrice:

It's a roller coaster, I know.
A presto <3

   
 
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