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Autore: _Polx_    10/12/2017    6 recensioni
A sei anni dall'uscita di Skyrim, ormai pilastro videoludico.
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“Perché ti sei arruolato?”.
Il ragazzo si guardò attorno, incerto: “dici a me, signore?”.
“A chi altri?”.
Quello ridacchiò: “be', pagano bene, signore... e, ovviamente, il Concordato”.
“Certo” anche lui ridacchiò “il Concordato”.
“E tu, signore? Perché hai accettato di stanziarti in questa terra vile e fredda?”.
“Il destino mi ha condotto qui”.
La fronte dell'altro si corrugò: “non è la risposta che mi sarei aspettato da te, signore”.
“Auri-El qui prende il nome di Akatosh, o sbaglio?”.
“Non sbagli, signore”.
“Ebbene, lui ha voluto che arrivassi a Skyrim. Aveva un dono per me” sospirò “ho avuto molto da fare”.
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Dovahkiin, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Giunse a Riften stremata. I suoi piedi sanguinavano, le sue costole dolevano per il grande sforzo, la sua vista deformava ogni immagine.
Sapeva come scendere in profondità senza arrischiarsi nel Ratway. Era stato suo padre a dirglielo e per miracolo non se lo scordò, nello smarrimento e nella confusione in cui versava la sua mente.
Spinse sé stessa contro il meccanismo del sarcofago, poiché era tanto debole che le sue sole mani non sarebbero bastate, e scese a fatica la rozza scala a pioli.
Cadde a terra e la sua testa rimbombò per il gran clangore di spade e chiasso di voci. Qualcuno si stava fronteggiando, nell'arena della grande Cisterna: due membri della Gilda dei Ladri, che lì risiedeva in floridezza ormai da anni, si sfidavano in duello amichevole. Uno di essi era niente meno che il capogilda, il più alto e snello, così come il più brutale, colui che probabilmente avrebbe avuto la meglio se non fossero stati interrotti. Un Elfo Alto in armatura draconica dal volto segnato e il passo lesto.
Passo che impietrì quando la scorse.
"Sofie" chiamò mentre il suo viso sbiancava e la spada gli sfuggiva di mano.
Si precipitò da lei, ma la giovane aveva ormai ceduto all'abbandono dell'incoscienza e non vi fu modo per lui di riscuoterla. La adagiò su un letto, il più quieto e appartato che vi fosse in quell'immenso ambiente, e attese che si ridestasse, torturandosi mani e pensieri, mentre i peggior timori si facevano largo tra le sue preoccupazioni.
Fra i membri della Gilda si diffuse un muto trambusto. Vagavano in silenzio, sbirciando nervosamente il loro capo che sembrava preda d'un profondo sconforto.
"Non mi piace affatto" borbottò uno di loro, prestando attenzione a non essere udito dal diretto interessato "non ne viene mai nulla di buono quando il capo incappa in simili seccature".
"Sua figlia non è una seccatura, Vipir" replicò un altro.
Quello parve sorpreso da tali parole: "sua figlia? Una Nord purosangue?".
"L'ha salvata dalla strada nove anni fa, se non erro, quando lei ne aveva altrettanti" pettegolò una donna, che pure parlava senza malizia.
"E tu, Sapphire, come lo sai?" chiese indignato.
"Anche Runa lo sa" si giustificò lei.
Vipir si voltò fulmineo verso il compare e questi scrollò le spalle: "tutti lo sanno".
"Non io" esclamò "com'è possibile?".
"Te lo spiegherò" si unì una quarta voce "sei il miglior ciarliere, ma il peggior ascoltatore. Eccoti la spiegazione, Vipir".
"Ad ogni modo, Thrynn" deviò quello "sarai d'accordo con me che, se il problema dovesse allontanare il capo dalla base, la sua assenza potrebbe procurarci rogne".
Non parlava certo senza una dose di ragione. Non negavano infatti che il loro capo fosse il miglior dono che gli Otto avessero offerto alla Gilda da molto tempo, né che da quasi un decennio, ormai, nessuno più osasse prendersi gioco della potente organizzazione del Rift, ma assieme alla nuova gloria, egli aveva portato con sé grande aria di cambiamento: la Gilda complottava e corrompeva, s'arricchiva e si faceva beffe dei poteri forti, tenendo fede a tutto ciò che apparteneva alla sua più antica natura, tuttavia non vi erano più compromessi cui essa si piegasse. Il popolo non la odiava né temeva più di quanto non odiasse o temesse i propri governi e, se inizialmente vi si affidava solo in caso di necessità, ora ne chiedeva il supporto prima ancora di rivolgersi all'autorità ufficiale, poiché sapeva che avrebbe ottenuto risultati più rapidi e in modo pulito. Gli stessi Jarl, ormai, patteggiavano e discorrevano più che volentieri col capogilda e l'avrebbero considerato alla stregua d'un loro pari, se solo questi non si fosse ostinato a vivere un'esistenza tanto discreta e appartata.
"Sono già protettore di Skyrim in qualità di Dovahkiin, tuttavia l'intera regione pare essersene scordata" diceva "eppure non è passata che una decina d'anni dalla caduta di Alduin: la fine del mondo ci ha quasi colti tutti e già essa viene cantata da menestrelli e ubriachi senza consapevolezza né rispetto, quasi fosse una fiaba burrascosa. Se tale onore non è sufficiente a fruttarmi fama, certo non permetterò che il mio onere di pacificatore del Rift lo faccia al posto suo. Mi sono unito alla Gilda per necessità e ora continuo a guidarla per fiducia: accontentatevi del fatto che gli uomini che la compongono si comportino ormai in maniera accorta e lasciateci fuori dalla vostra politica, se non avete denaro da offrirci oltre alle vostre parole".
Era evidentemente una figura rispettata e temuta, poiché portava su di sé il titolo d'uccisore del divoratore di mondi e, al contempo, quello di domatore virtuoso d'una banda senza morale né princìpi. Dunque, come Vipir ben comprendeva, senza di lui se ne sarebbero andati gran parte del rispetto e della riverenza che i pezzi grossi ormai mostravano nei loro confronti.
"Ti stai sfondando le nocche prendendo a pugni un uscio spalancato" lo zittì Runa "è più che probabile che la ragazza abbia semplicemente ceduto alla curiosità di vedere la nostra sede e si sia messa in cammino sottovalutando i rigori del viaggio. Da qui a Windhelm la strada è lunga e perigliosa. Si sarà sfiancata. Domani il capo la riaccompagnerà a casa e vi rimarrà come suo solito per un paio di settimane, prima di tornare qualche giorno tra noi".
 
Quando Sofie si svegliò, il volto rigido e affilato dell'Elfo Alto fu tutto ciò che i suoi occhi seppero riconoscere: "pa', perdonami se non sono riuscita a parlarti appena arrivata, perdonami se sono crollata" bofonchiò "ma ho corso per giorni così da raggiungerti il prima possibile, ancor più rapidamente d'una missiva".
Lui la zittì con gesto lieve: "cos'è accaduto?" ma a quella domanda gli occhi di lei si colmarono di lacrime e i suoi denti batterono così forte che le riuscì difficile rispondere: "uomini mascherati sono entrati in casa nostra" singhiozzò.
Quelle parole parvero squarciargli lo stomaco: "che ne è di tuo fratello?" chiese in fil di voce "e di tua madre? Sofie, dimmi che ne è di loro" insistette, perché il pianto opprimeva a tal punto il respiro di lei da mozzarle le parole in gola.
"Ma'... lei l'ha difeso, l'ha difeso come una fiera, ma è una mercante, pa', non una guerriera".
Anche il respiro di lui si mozzò mentre la più crudele delle consapevolezze ne annichilì ogni speranza: "Sofie, che dici?".
"Ulfric ha promesso per lei un funerale onorevole e una nuova tomba è stata eretta in nome di Ysolda la dolce, nelle terre del feudo di Whiterun. Ho dovuto scegliere se partecipare alle esequie o venire da te".
Aveva sperato di trovare conforto in suo padre, ma ora che si trovava di fronte a lui vide nei suoi occhi solo orrore e smarrimento. Per la prima volta da quando lo conosceva, le parve debole e fragile come un fiore annientato dalla prima gelata.
"Cal" continuò nonostante tutto "è stato preso. 'Il bastardello gli somiglia: ha il suo sangue e tanto basta'. Queste sono state le loro parole" ora nel suo sguardo vi era colpa e rabbia oltre che cocente dolore "ti ho deluso e me ne vergogno. Io ero presente, ma mi hanno presa e legata perché assistessi al loro operato e così mi hanno lasciata, finché non mi sono liberata per conto mio, ma ormai era tardi: ma' era morta e loro spariti con Cal. Mi dispiace" ringhiò tra i singhiozzi "mi vanto d'essere tua allieva, ma se lo fossi degnamente nulla di tutto questo sarebbe accaduto".
Con mani tremanti, lui le carezzò il volto intriso di lacrime: "non vi è colpa che tu debba sobbarcarti. Hanno atteso che io fossi lontano per colpire. Troverò Cal. Lo troverò, Sofie, è una promessa che faccio di fronte agli Otto o ai Nove che siano, ma tu devi riposare e rimetterti in forze".
"Desidero venire con te".
"No" negò categorico "resterai qui. Nessuno verrebbe a cercarti in un covo criminale, ma questa è brava gente, se le ordino di esserlo. Sarai al sicuro" detto questo, si alzò e se ne allontanò senza darle modo di ribattere.
"Sapphire, te l'affido" disse marciando verso l'uscita.
"Sì, capo" annuì trattenendo qualsiasi obiezione.
"Brynjolf, a te la Gilda".
"Per quanto?" chiese l'altro.
"Per il tempo necessario".
 
Non vedeva tanti occhi puntati su di sé dai tempi in cui, per la prima volta, la follia degli eventi aveva trascinato in tutta Skyrim la voce che lui fosse il nuovo Sangue di Drago, eletto di Akatosh e salvatore del Mundus.
Tuttavia, stavolta in essi non trovò orgoglio, curiosità o ammirazione, ma solo pietà e turbamento.
Non permise loro di scalfirlo. Avanzò per le gelide vie, fino a che gli immensi portali del Palazzo dei Re non si stagliarono di fronte a lui. Entrò senza chiedere udienza, né attendere che le guardie dessero notizia del suo arrivo, ma nessuno gliene avrebbe fatto rimprovero, poiché lui era il più stimato cittadino di Windhelm, vanto e orgoglio della città, nonché del suo Jarl.
Quel giorno, due tra gli uomini più potenti di Skyrim, da molti anni rivali e al contempo cari amici, si sarebbero affrontati senza che vi fosse benevolenza o cameratismo ad unirli.
“Una promessa m'era stata fatta, Ulfric Manto della Tempesta, ossia che qui avrei avuto pace, che qui non avrei dovuto temere” fu la cruda accusa del Dovahkiin e s'era rivolto allo Jarl prima ancora di fare ritorno alla propria dimora, poiché non osava avvicinarvisi.
“Hanno attaccato nella notte e si sono dileguati prima che noi potessimo intervenire” si giustificò la guardia ufficiale di Ulfric, erta al suo fianco.
“Non è a te che mi rivolgo, Galmar, dunque taci”.
“Lama della Tempesta...”.
“Non chiamarmi a quel modo” zittì lo Jarl impunemente e non parve affatto risentirsene “non ho combattuto al tuo fianco, né ho sostenuto la tua causa”.
“Pure giungi a me con la pretesa di avere la mia protezione”.
“Quindi tale è la riconoscenza offerta all'uccisore del divoratore di mondi. Pochi anni e già dimentichi la parola data, Ulfric Manto della Tempesta”.
“Non eccedere con la tua arroganza, Elfo” ringhiò Galmar, ma Ulfric gli fece cenno di tacere.
“Comprendo la tua ira...” cercò piuttosto di mitigare.
“No, non la comprendi, Re Nord” sibilò con disprezzo.
Ulfric lo ignorò: “tuttavia le parole di Galmar sono veritiere: hanno agito nell'ombra e nell'ombra sono spariti. Riceverai la tua somma ereditaria appena le carte saranno siglate e ti assicuro che...”.
“Brucia la mia somma ereditaria con la tua maledetta superbia, Re Nord” inveì “e dimmi chi ha attaccato la mia casa, chi ha ucciso mia moglie. Dimmi dove hanno condotto mio figlio. O non avrai più alcun alleato in me”.
“Mai sei stato mio alleato”.
“Ho salvato la tua gente dall'ira di Alduin”.
“Non dall'ira dell'Impero”.
“Quello è un male che tu solo hai trascinato su te stesso, in nome di un popolo cui io non appartengo. Non mi pento d'essermi estraniato da questa guerra e non nego che ben poco interesse vi sia in me per chi la vincerà. Ora, Re Nord, rispondi alle mie domande, o augurami buona fortuna e dimmi addio”.
“Buona fortuna” era ciò che già andava affiorando sulle labbra di Galmar, ma Ulfric non era del medesimo avviso: “pare che un giovane soldato fosse di ronda nel tuo quartiere, quella notte. Ha parlato di scure figure, probabilmente penetrate in città col favore delle tenebre e, ahimè, della sventatezza delle guardie. Era molto turbato: è riuscito a fare ben poco e ancor meno è stato fatto in seguito. Mi perdonerai” troncò sul nascere un'astiosa protesta “ma la quasi totalità dei miei uomini combatte in prima linea, lontana da qui”.
“Convoca quel soldato, Ulfric, perché possa parlarvi. Confido in una piena libertà d'azione”.
“L'avrai” garantì il sovrano e lui se ne congedò con un secco inchino, austero e formale, l'unico che avesse mai concesso allo Jarl di Windhelm da quando, per la prima volta, mise piede in città. Certo non fu un gesto di rispetto o d'ossequio, bensì una provocazione, una burla satura di tutto il livore che quell'animo ferito reprimeva in sé, e il sovrano ben lo comprese.
 
“Mio signore” la giovane guardia s'impettì scorgendo l'alta figura elfica avanzare nelle tenebre, quando finalmente il Dovahkiin trovò la forza di tornare alla propria casa.
Il soldato attendeva sulla soglia ancora chiusa, lo sguardo fisso nel buio per evitare d'incrociare il suo: “ho saputo d'esser stato convocato, mio signore”.
“Non chiamarmi a quel modo” lo rimproverò “non sono tuo signore”.
“Tu non hai nome, mio signore. Proprio per questo il popolo ti chiama Dovah: non sa come altro rivolgersi a te”.
“Dunque tu fa altrettanto”.
Il soldato annuì timidamente: “d'accordo, Dovah, mio signore. Qual è il mio compito?”.
“Mi hanno detto che eri di ronda la notte dell'aggressione”.
Il volto del giovane Nord sbiancò. Non seppe come ribattere.
“Dunque?” insistette l'altro.
“Dovah, mio signore...”.
“Rispondi”.
“Lo ero”.
“Mi hanno anche detto che non hai combattuto”.
Il ragazzo abbassò lo sguardo, contrito e mortificato: “è così, Dovah, mio signore”.
“Non sono tuo signore”.
Il volto del soldato si contrasse: “perdonami, Dovah”.
“Sei fuggito?”.
Quello annuì. I suoi denti tremavano appena.
“Quanti erano?”.
“Tre”.
“Solo tre?”.
Quella domanda fu una pugnalata che accese in lui grande vergogna: “dominavano le arti arcane” balbettò “io...”.
“Da quanto sei in servizio?”.
“Due mesi, mio signore... Dovah” si corresse.
Quello lo squadrò con stupore: “due mesi appena?”.
“È così”.
Non a caso, dunque, il ragazzo sembrava fresco d'accademia.
“Da quando i novelli supervisionano le vie della città?”.
“Da quando i veterani cadono sul campo di battaglia” rispose con amarezza.
“Hai mai combattuto in prima linea?”.
Il giovane scosse il capo: “eravamo sei fratelli, fino a quattro anni fa. Ora rimango solo io, fedele ai Manto della Tempesta per onore. Mia madre ne morirebbe, se me ne andassi come loro. Per questo pensavo al congedo, per quanto riprovevole possa sembrare... perdonami, non dovrei assillarti con questioni tanto futili”.
“Certo non sono futili per lei”.
Con mano ferma ma animo scosso, Dovah ruotò la chiave nella serratura e questa scattò docilmente. Aprì la porta, ma non avanzò. Vi era solo buio ad accoglierlo.
“Entra” ordinò “accendi braciere e candele”.
Il giovane non sembrava propenso ad inoltrarsi in quell'oscurità spettrale satura di morte e mistero, ma non osò opporsi e fece quanto chiestogli.
Quando infine vi fu luce, Dovah varcò la soglia.
Aveva visto e inflitto morte, nel corso della sua vita, mai per diletto, mai con leggerezza, bensì spinto dalla necessità di sopravvivere in una terra ostile e straniera. Tuttavia, il suo stomaco si sconquassò e le vertigini lo colsero quando il naso odorò e gli occhi scorsero il sangue che impregnava il legno del pavimento. Il sangue di lei.
Quella casa aveva già assistito ad atti immondi. Lui stesso vi aveva posto fine, per poi acquistare la proprietà a prezzo conveniente, poiché nessun altro desiderava più mettervi piede. Ora, nuova vita innocente era stata spezzata tra quelle mura e se, fino ad allora, aveva creduto di conoscere l'oppressione del dolore e la rabbia dell'impotenza, dovette ricredersi.
Nel mezzo della grande pozza ormai irrancidita era un oggetto in ferro che Dovah raccolse senza indugi. Grezza e pesante, gli parve la scimmiottatura di maschere che già aveva visto in passato. Un simbolo spiccava sul suo retro: una mano dal palmo aperto e le dita ampie. La sua mente andò istintivamente alla Confraternita degli Assassini che per generazioni aveva ammorbato Skyrim, tuttavia da anni quella minaccia non era che un'ombra innocua. Lui stesso era stato causa della sua disfatta.
Inoltre, la mano che ora giaceva nella sua non era nera come pece, bensì rossa come il sangue. Il mignolo pareva mozzato.
Era un marchio che non conosceva e ciò lo sorprese, ma presto il giovane lo strappò da quei pensieri: “non c'era” assicurò “il corpo è stato portato via, la casa chiusa. E quella non c'era”.
Dovah sorrise amaramente: “mi provocano” mormorò.
“Chi, signore?”.
“Forse tu puoi dar risposta alla tua stessa domanda”.
Il ragazzo tardò a replicare, così incerto e smarrito: “mi spiace, signore, io...” ma a quel punto un ricordo tanto vago quanto prepotente tornò alla sua memoria “in effetti, sì, Dovah, signore. O, per lo meno, posso dire d'aver visto uno di loro, poiché non sapevano che io fossi presente e sono riuscito a spiarli”.
Dovah, ancora chino a terra, si alzò con la lentezza d'un meccanismo prossimo all'incepparsi: “dunque?”.
Tuttavia il giovane era restio a parlare, poiché l'immagine che si formò nella sua mente era bizzarra e non riusciva a darle significato. In realtà, era la sua fortunata mancanza di esperienza ad impedirgli di comprenderla: “ho visto un volto grottesco e cinereo, con iridescenti occhi d'ambra, che balenavano nella notte come fuoco”.
Al contrario suo, Dovah si orientò immediatamente in quella descrizione. I suoi denti si strinsero e le unghie penetrarono nei palmi: “hanno preso il bambino?”.
“È così” balbettò il ragazzo e la risposta fu sufficiente perché Dovah abbandonasse la dimora senza curarsi di chiuderla e senza congedare il soldato.
Abbandonò Windhelm. Sellò in fretta e furia la giumenta morella che riposava quietamente nelle stalle e spronò verso nord.
 
  
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