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Autore: Watson_my_head    25/12/2017    7 recensioni
E se… John fosse stato una spia di Moriarty sin dall’inizio, ingaggiato per avvicinarsi a Sherlock e colpirlo nel modo più crudele: un tradimento?
Opera realizzata per il Secret Santa 2017 del gruppo "ASPETTANDO SHERLOCK" https://www.facebook.com/groups/366635016782488/"
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Opera realizzata per il Secret Santa 2017 del gruppo "ASPETTANDO SHERLOCK "https://www.facebook.com/groups/366635016782488/

 
Mirrors

 
Dicono alcuni che finirà nel fuoco
il mondo, altri nel ghiaccio.
Del desiderio ho gustato quel poco
che mi fa scegliere il fuoco.
Ma se dovesse due volte finire, so pure che cos'è odiare,
e per la distruzione posso dire
che anche il ghiaccio è terribile
e può bastare.
Robert Lee Frost


 

John Watson era un medico militare.

Un uomo tutto d'un pezzo, dai forti valori e dalle capacità micidiali, tra cui una mira formidabile ed un sorriso disarmante.

John Watson era un uomo, un amico, una persona di cui fidarsi ciecamente. Qualcuno su cui chiunque avrebbe messo la mano sul fuoco, qualcuno da difendere e proteggere a costo della propria vita. Un conduttore di luce, un mitigatore d'animo. Occhi blu e profondi, sguardo rassicurante. Un uomo senza nessuna paura.

John Watson era un medico militare.

 

John Watson in realtà, era una spia.

 

 

Fin dal principio, ogni cosa, ogni minima cosa era stata studiata nel più piccolo dettaglio. Ogni mossa, ogni parola, ogni sguardo. Sorrisi ponderati, quasi contati, ad uno ad uno. Non c'era improvvisazione, niente che non fosse stato premeditato, scritto e poi recitato come un copione. Nel corso dei mesi, nessun cedimento, nessun tentennamento, mai. Dritto, verso l'obiettivo. John Watson aveva un lavoro, e lo avrebbe portato a termine, come aveva fatto con ognuno dei suoi precedenti lavori. “L'uomo senz'anima”, un mercenario specializzato, dall'aspetto innocuo e assolutamente letale. Così era conosciuto nell'ambiente. Affidare a lui un problema, equivaleva ad averlo risolto, e per questo, il suo tempo era pagato a caro prezzo.

Gli ci erano voluti otto mesi per prepararsi al primo incontro. Gli erano sembrati anche troppi, a dire la verità, ma le disposizioni erano chiare e lui non era mai stato uno che contestava gli ordini, soprattutto quando erano pagati così tanto da sfiorare l'indecenza. Eppure, il problema continuava a sembrargli sopravvalutato. E' così che John Watson chiamava i suoi incarichi: problemi. Problemi da risolvere. Sherlock Holmes era il suo nuovo problema da risolvere. Il suo nuovo rompicapo, un nuovo giocattolo. E John adorava quando i problemi erano persone, perché il gioco si faceva più difficile ma mille volte più divertente.

La fase di preparazione alla risoluzione di un problema era quella che preferiva meno, ma era anche tra le più eccitanti. Calarsi nei panni di qualcun altro, tirare fuori una personalità completamente diversa, guardarsi allo specchio e quasi non riconoscersi, erano cose che lo eccitavano come poche altre. Ma per questo caso gli era stato chiesto qualcosa di diverso, qualcosa che non aveva mai fatto nel corso della sua “carriera”: spogliarsi completamente di ogni costrutto, eliminare ogni livello e tornare all'origine, tornare ad essere John, soltanto John, il medico militare, ciò che era stato all'inizio della sua carriera nell'esercito, prima di diventare “l'uomo senz'anima”. Riappropriarsi della propria anima. Era questo il gioco. Gli ci vollero ben otto mesi di terapia (ovviamente ben finanziata) per farlo, per spogliarsi completamente di se stesso e tornare all'origine.

“Cerca John dentro di te. Quando lo vedrai sul tuo volto, allora sarai pronto.”

Aveva sentito questa frase per mesi, mesi di rabbia riversata sulla terapista, rabbia per quella preparazione che stava odiando, rabbia per quel problema che lo stava costringendo a fare un viaggio indesiderato dentro se stesso, rabbia per tutte le cose di cui si stava spogliando giorno per giorno. Gli sembrava di eliminare un pezzo di corazza alla volta, una corazza forgiata con fatica nel corso del tempo e di restare sempre più inerme ad affrontare il mondo.

“Come posso risolvere il problema, se mi sento così?”- aveva urlato in una delle ultime sedute, quasi sull'orlo di una crisi di pianto.

“Sei quasi pronto John. Vedo un uomo innocuo, ferito, eppure, dotato di grande intelligenza e capacità straordinarie. E' questo che vedrà anche lui.”

“Il problema?”

La terapista aveva annuito. “Il capo sarà felice di conoscere i tuoi progressi. Fra una settimana sarai pronto. E siamo anche in anticipo di dieci giorni sulla tabella di marcia.”

John aveva sospirato e poi era tornato a casa.

Quella sera si era guardato allo specchio, ma non aveva visto eccitazione nei suoi occhi. Quello che vedeva non gli piaceva affatto. Gli sembrava di intravedere quel ragazzo pieno di speranze che si era iscritto alla facoltà di medicina per salvare il mondo. Patetico. Sorrise, per schernire se stesso. Ma il lavoro che aveva fatto in otto mesi aveva cambiato anche la modalità e la percezione di una cosa semplice come sorridere. Guardò meglio. Nello specchio si rifletteva la sua immagine, ma allo stesso tempo non era se stesso che vedeva. Sono quello che ero, ma che non sono più, e che ora sono di nuovo. L'orrendo maglione che indossava, compreso nel suo nuovo guardaroba, contribuiva a rendere l'immagine distorta eppure stranamente perfetta. Abbassò la testa.

“Io sono John Watson.” - mormorò.

E c'era una parte di se, piccola ma che tuttavia non riusciva a zittire, che continuava a chiedersi “e adesso, quale sei il vero tu?”.

 

Quella notte sognò di essere di nuovo sul campo di battaglia, come non gli succedeva da tempo ormai. Si svegliò madido di sudore, respirando a fatica, con il cuore che batteva all'impazzata. Fu quello il momento esatto in cui capì di essere davvero pronto. Guardò il soffitto per ore. Era andato talmente giù dentro se stesso da riportare a galla ricordi che con fatica aveva nascosto. Odiava quella sensazione, e odiava Sherlock Holmes che era la causa di tutto quello che gli stava accadendo. Gli incubi lo avrebbero tormentato ancora, di questo era certo, ma pensò che avrebbe usato quella rabbia per portare a termine il suo compito nel miglior modo possibile.

 

:::

 

 

Vivere con Sherlock Holmes si rivelò più strano del previsto. Nonostante John avesse una tabella di marcia da seguire con punti fermi sparsi qua e là (uno sguardo ben mirato, un sorriso, parole precise da pronunciare di tanto in tanto), questo nuovo incarico gli permetteva un range di libertà abbastanza largo. Doveva semplicemente essere se stesso, o meglio, il nuovo se stesso, per un lungo periodo, ma non era a conoscenza di quanto dovesse durare l'incarico, né il fine ultimo dell'incarico stesso. Doveva semplicemente essere John Watson, vivere con Sherlock Holmes e conquistare la sua indiscussa fiducia.

John aveva osservato Sherlock a lungo, soprattutto nei primi mesi di convivenza. All'iniziale odio si era aggiunta una sorta di ammirazione per quell'uomo assolutamente strano e dotato di un'intelligenza fuori dal comune. Sherlock Holmes era davvero un essere umano... particolare. Dormiva poco e mangiava anche meno. Suonava il violino per ore e lo faceva divinamente, su questo non c'era alcun dubbio. A volte se ne stava in silenzio per giorni, come se fosse del tutto assente, oppure, parlava da solo di cose che probabilmente solo lui poteva capire. E poi c'era quella cosa delle deduzioni. Era assolutamente incredibile. Sherlock riusciva a leggere le persone con un solo sguardo, o a decifrare un omicidio con due sole occhiate alla scena del crimine. E in merito a ciò John non era certo avaro di complimenti. Era il suo ruolo dopotutto, ma dentro di sé pensava che quell'uomo fosse davvero eccezionale. Dio se lo odiava. Lo ammirava e lo odiava allo stesso tempo perché avrebbe voluto avere per sé quelle capacità straordinarie. Ne avrebbe di certo fatto un uso migliore.

Spesso l'appartamento in cui vivevano era un disastro. Non era raro trovare pezzi di cadavere nel frigorifero o nel lavandino e ogni volta che accadeva, John immaginava di schiaffeggiare quella stupida di Molly Hooper fino a farle promettere di smetterla di rifornire il suo coinquilino di quella roba. La odiava. Odiava anche lei, forse più di Sherlock, per il suo essere così accondiscendente e priva del benché minimo carattere. Ogni volta che la vedeva girovagare per il laboratorio facendo pirouettes attorno ad uno Sherlock che la ignorava totalmente, lo assaliva un senso di fastidio e nausea. Avrebbe voluto urlarle in faccia di smetterla di rendersi ridicola perché il fatto che Sherlock non la considerasse nemmeno era palese a tutti, anche agli oggetti inanimati del laboratorio. Ma invece, le sorrideva perché doveva farlo.

A volte odiava proprio quella vita.

Tra tutte le persone che gravitavano attorno a Sherlock Holmes il più interessante era sicuramente suo fratello Mycroft. Quell'incontro nell'edificio abbandonato, con la telefonata nella cabina telefonica, le telecamere, la macchina nera e tutto quell'alone di mistero avevano divertito John all'inverosimile. Sapeva benissimo chi fosse quell'uomo con l'ombrello, ma recitare la parte di John Watson, nuovo amico di Sherlock Holmes che rifiuta i soldi per spiarlo, fu una delle cose più divertenti del mondo.

Prendo tanti di quei soldi per essere qui a fingere di rifiutarne altri che potrei comprare tutto questo edificio con te dentro, la macchina, e quella graziosa signora con il telefono, caro Mycroft Holmes, aveva pensato John durante quella bizzarra sceneggiata. Nel tragitto verso casa non aveva potuto fare a meno di riflettere sul rapporto tra quei due strambi fratelli. Dovevano avere seri problemi per comportarsi in quel modo e non riuscì a decidere chi dei due fosse il più stupido.

Poi c'era la signora del piano di sotto, la padrona di casa, che a John ricordava un po' sua madre e per questo sentiva di dover essere sempre gentile con lei, a prescindere dalla finzione. E comunque faceva dei biscotti buonissimi. (A volte immaginava di ficcarli in bocca a Sherlock a forza solo per farlo stare zitto e costringerlo a mangiare durante i casi).

John gli gravitava attorno come una luna. Fu difficile all'inizio sopportare senza remore tutti i suoi comportamenti bizzarri e più volte dovette costringersi a lasciare l'appartamento per evitare di spezzargli tutte le ossa del corpo. Si sentiva un leone in gabbia. Aveva dovuto smettere di allenarsi ogni giorno come era solito fare prima di essere ingaggiato per l'incarico e troppo spesso sentiva la tensione montare dentro di lui. Avrebbe preso a pugni le cose, e distrutto qualche mobile, se solo avesse potuto. Ma non poteva. E Sherlock non contribuiva a rendere più piacevole questa sua frustrazione. Questo continuo reprimere aveva effetti terribili sul suo sonno notturno, o meglio, sul suo non sonno. Non riusciva più a dormire, e quando lo faceva aveva incubi in continuazione. Quasi sempre era il sole cocente dell'Afghanistan e l'odore di sangue, il suo, ma a volte gli incubi assumevano il tono blu dell'acqua e la sensazione di annegare era così vivida da sembrare reale.

Fu proprio a causa di uno di quegli incubi che John rischiò per la prima volta di farsi scoprire. Era andato a dormire molto tardi, Sherlock si era lagnato tutto il giorno per colpa di un caso che non riusciva a risolvere e quando finalmente ci era riuscito erano le tre passate di notte. John lo aveva seguito per tutta Londra, senza mangiare, senza battere ciglio e senza lamentarsi neppure una volta (e Dio solo sa quanto avrebbe voluto piantarlo nel bel mezzo della strada e mandare tutto all'aria). Quando alla fine erano tornati a casa, era talmente distrutto da non riuscire neppure a parlare. Aveva fatto le scale in silenzio e si era diretto in camera sua. Si era buttato sul letto ancora completamente vestito e aveva chiuso gli occhi.

La sabbia era calda sotto la sua schiena e il sole lo accecava. Non riusciva a tenere gli occhi aperti. Il dolore alla spalla, o al petto, era insopportabile, sentiva mancargli il respiro e qualcuno sopra di lui gli impediva di muoversi. Si svegliò di soprassalto. Una figura indefinita incombeva davvero su di lui, tanto che gli fu difficile in quello stato alterato di agitazione, distinguere tra la realtà e il sogno. Reagì come sapeva fare, nonostante il respiro affannato e il cuore che batteva all'impazzata. Con un scatto afferrò l'uomo che lo stava guardando e con tutta la forza di cui era capace lo scaraventò a terra bloccandolo con il peso del proprio corpo. Un gomito sotto la sua gola e l'altra mano a bloccargli i polsi. L'uomo sotto di lui fu evidentemente preso alla sprovvista. Sbatté la testa sul pavimento con un tonfo sordo e sembrò non reagire, o almeno sembrava non voler combattere. Questo fu strano. Forse non era un assalitore. Forse no.

John ci mise quattro secondi a rendersi conto che avrebbe potuto facilmente ammazzare Sherlock Holmes senza nemmeno volerlo.

Sherlock se ne stava immobile steso sul pavimento con gli occhi fissi su John e una punta di incredulità nello sguardo. Era forse paura? Aveva ancora la gola schiacciata dal braccio sinistro del suo coinquilino e la testa forzatamente piegata all'indietro.

“John..?” - riuscì a dire, “sono io, Sherlock”.

John lo lasciò andare immediatamente, indietreggiando sul pavimento e finendo con la schiena contro il letto. Imprecò tra se e se prendendosi la testa tra le mani. Dio se era confuso. Aveva ancora addosso la sensazione orribile di quel sogno. Si strinse il petto con una mano.

“John.”

“Lasciami stare. Vattene.” - rispose a malo modo, tra i denti. Non voleva vederlo, non voleva sentirlo. Era completamente sopraffatto da quella situazione che odiava. Odiava dover fare quegli incubi terribili. Odiava sentirsi così esposto. Odiava aver perso il controllo della propria mente. E odiava Sherlock Holmes.

Sherlock si rialzò lentamente. Lo guardò per qualche secondo senza dire nulla, poi lasciò la stanza. John rimase in quella posizione per ore. Pensò a lungo. Pensò all'incarico che stava svolgendo, alla sua vita prima e dopo l'Afghanistan, a come era diventato quello che era, a come aveva smesso di essere quello che era stato. Al momento esatto in cui la sua vita era cambiata, per denaro, per spirito di conservazione, per noia. La noia era la chiave di tutto nella sua vita. Quella vita piatta da cui fuggiva in ogni modo, ad ogni costo. Ad. Ogni. Costo. Anche a costo di non avere più rispetto di se stesso e delle persone. Per John Watson una vita poteva valere meno di niente. Ma a volte, e quella notte fu una di quelle, non poteva fare a meno di pensare che non ci fosse niente che valesse meno della sua di vita. E odiava se stesso anche per questi pensieri. A intervalli regolari, la sua coscienza sembrava chiedergli il conto. Un'occhiata al riflesso nello specchio per capire chi sei, John. Ma non lo capiva mai. Ed erano solo pensieri in fondo. Poteva ignorarli, come aveva sempre fatto.

Ma questo incarico... questo incarico aveva scavato così a fondo in lui da riportare a galla cose che nessuno avrebbe voluto avere tra le mani. Più volte John si era domandato se l'incarico non fosse una vendetta nei suoi confronti, più che nei confronti di quello Sherlock Holmes. Perché Sherlock Holmes era un uomo strano, questo era vero. Ma non era un pericolo per nessuno, se non per se stesso. A volte John si scopriva a chiedersi come avesse fatto Sherlock a sopravvivere tutto quel tempo senza di lui al suo fianco. Come aveva fatto a non morire di fame? Come aveva fatto a non far esplodere tutto il palazzo o a farsi uccidere dalla mafia cinese o a finire semplicemente sotto un autobus? Sherlock non era un pericolo, ma piuttosto una risorsa per la società e per quella massa di incompetenti di Scotland Yard. Quella volta in cui avevano salvato un bambino dalle mani di un rapitore, John se ne era uscito con un “sei straordinario” completamente fuori dalla parte. Fu un complimento vero, senza filtri. Fu solo John. Ne fu così spaventato che quasi smise di parlare per due giorni. E Sherlock ne fu così preoccupato che pur di farlo stare meglio, anche se non conosceva il motivo del suo malessere, mandò giù tre pasti completi al giorno e non fece esperimenti, ne suonò il violino di notte. John lo odiò ancora di più per questo.

Sherlock Holmes lo stava facendo scendere a patti con se stesso, e questa era una cosa che John Watson, l'uomo senz'anima, non poteva sopportare.

 

Alla fine si addormentò così, tormentato da questi pensieri, seduto sul pavimento mentre fuori era già quasi giorno.

Quando scese in cucina erano le undici passate. Sherlock era stato silenzioso tutta la mattina, tanto da credere che non fosse in casa e invece era seduto sulla sua poltrona, immobile. John doveva velocemente rientrare nella parte ed evitare che ciò che era accaduto la notte prima minasse in qualche modo il loro rapporto, o, come era più probabile, la sua sanità mentale.

“Mi dispiace per questa notte. Vuoi un tè?”

“Si grazie.”

Sorseggiarono il tè in silenzio, per un po'.

“John, vorrei precisare che se ero in camera tua è solo perché ho sentito che ti lamentavi e ho pensato stessi male.” La voce di Sherlock suonava quasi asettica. “Poi ho visto che invece stavi avendo un incubo, uno dei soliti, e in quel momento ti sei svegliato”.

John guardò il fondo della propria tazza.

“Ti ho fatto male?”. Riusciva perfettamente a ricordare il rumore secco della testa di Sherlock che sbatteva sul pavimento. Non avrebbe dovuto importargli in fondo, ma a John si, al John che conosceva Sherlock sarebbe importato, e poi era pur sempre un medico, era nella sua natura chiedere. O forse gli andava e basta, di chiedere. Andava a entrambi gli John, forse a tutti gli John che erano dentro di lui. Era così confuso che avrebbe voluto affogarci in quella tazza.

“Mh?”

“Alla testa dico, ti ho fatto male?”

“No, John.”

“Bene. Posso controllare?”

“Credo che se ci fossero state conseguenze a quest'ora sarebbe tardi, non credi?”

“Stai cercando di farmi sentire ancora più in colpa?”

Sherlock non rispose perché non era proprio quella la sua intenzione. Quello che voleva era farlo ridere, ma non c'era riuscito. Alla fine sussurrò un semplice “No.”

“Allora fammi controllare.”

Posò la tazza sul basso tavolino di fianco la sua poltrona e si diresse verso Sherlock fermandosi subito dietro di lui. Gli toccò la testa con delicatezza, spostando i folti ricci neri. Fece scorrere le dita sulla cute fino al punto che presumibilmente aveva impattato col pavimento. Effettivamente c'era un bernoccolo abbastanza evidente. Sherlock non fece una piega.

“Ci hai messo del ghiaccio? Hai mal di testa? Nausea?”

“No, sto bene, non è niente.”

“Sei sicuro di non avere mal di testa?”

John fece un passo in avanti e si piegò un po' verso di lui per guardarlo in viso. Sapeva riconoscere qualcuno quando mentiva e conosceva innumerevoli modi per costringerlo a dire la verità. Ma non era quello il caso.

“Dovresti parlare con qualcuno per quegli incubi che ti tormentano. Non riesci più a dormire bene.” Sherlock preferiva parlare di cose più importanti che del suo (persistente) mal di testa. Ma John lo ignorò per dirigersi in cucina e quindi in bagno da cui tornò con delle pillole ed un bicchiere d'acqua.

“Prendi queste, ti passerà”. Le porse a Sherlock che le ingoiò, controvoglia.

“Mi dispiace per stanotte. Ho creduto fossi qualcun altro. Però..non farlo più.” Gli disse, schiarendosi la voce e guardandolo dall'alto mentre se ne stava in piedi con le braccia lungo i fianchi e i pugni chiusi. Il tono delle sue parole non permetteva repliche. “Vado a fare un giro.” Aggiunse poi voltandosi. Recuperò in fretta il cappotto e le chiavi e scese lentamente i gradini senza salutare.

Sherlock rimase a guardare la porta da cui John era uscito per svariati minuti. Qualcosa non andava, ma non riusciva a capire cosa. C'era sempre qualcosa che non andava, sempre.

 

::

 

Nel corso della sua carriera John Watson aveva subito i traumi più svariati, a partire da quelli formativi durante l'addestramento militare, per passare agli infortuni negli anni di servizio, fino a ferite ben più gravi, come il colpo d'arma da fuoco ricevuto alla spalla. E poi, arti rotti, tagli, lividi, bruciature e torture vere e proprie. Era abituato quasi a tutto. In più era un medico, il che aumentava le sue doti in maniera esponenziale. Per tutti questi motivi, quando riprese conoscenza in quella buia galleria abbandonata della metropolitana, ci mise poco più di mezzo minuto a capire la situazione generale ed il suo stato. Aveva subito un colpo alla testa, niente di così grave, ma il dolore era abbastanza forte da impedirgli momentaneamente di vedere al 100% delle sue normali facoltà. Sentiva i capelli appiccicati sulla fronte a causa del sangue raggrumato e stimò un taglio non troppo profondo ne troppo largo. Tutto sommato stava bene. Meglio di altre mille occasioni ben peggiori. Faceva male però. Diede un'occhiata a Sarah alla sua sinistra che sembrava non avere traumi visibili. Ne fu sollevato. Ascoltò il farneticare della donna cinese che continuava a chiamarlo Sherlock Holmes e pensò che doveva essere proprio stupida per aver fatto quello che aveva fatto. Se fosse riuscito a liberarsi, e ci stava provando, avrebbe fatto passare a lei ai suoi scagnozzi le pene dell'inferno. Ma l'avevano legato troppo bene. Si chiese dove fosse Sherlock. Perché fosse così lento a capire certe cose. Perché lui era uscito da nemmeno tre minuti quando erano stati rapiti e nonostante questo non si fosse accorto di niente. E soprattutto si chiese perché fosse stato così stupido da farsi colpire alla testa senza nemmeno opporre resistenza. Non era da John Watson. Stava diventando lento anche lui?

“Io non sono Sherlock Holmes.”

Lo ripeté più volte ma aveva con se quella stupida carta di credito e l'assegno e perfino i biglietti del dannato circo. Tutto a nome di Sherlock. Era tutto contro di lui. Era sempre tutto contro di lui da quando aveva iniziato con questo caso, ormai molti mesi prima. A volte si sentiva un cagnolino scodinzolante ai piedi del suo padrone, pronto a seguirlo ovunque e a fare qualunque cosa. Detestava fare la parte dello stupido e trovarsi in situazioni come questa. Respirò a fondo. La donna cinese continuava a farneticare. Avrebbe voluto zittirla con una testata.

“Cosa significa quando un assassino non riesce a colpire il bersaglio? Significa che non ci sta provando veramente”.

Per un secondo John aveva creduto davvero di morire, fino a quella frase. Quella frase cambiò ogni cosa, rimise tutto in gioco. Era forse un codice? Il capo sapeva di quello che stava accadendo e non aveva permesso a lui e a Sherlock di morire? Aveva intimato a quella donna di non ucciderlo? Dopotutto c'era un incarico in ballo, uno che aveva richiesto molto tempo e molto denaro. Non avrebbe permesso ad una qualsiasi banda di criminali cinesi di far saltare un piano ben più importante. Si sentì sollevato. Ma poi quella folle scoprì il macchinario che avevano visto la sera prima al circo e John temette per la vita di Sarah. Tuttavia, ed il pensiero fu immediato quanto terribile, lei era sacrificabile.

Sacrificabile.

Per John Watson una vita poteva valere meno di niente. Sarah era carina, simpatica, sicuramente era anche un ottimo medico. Ma la conosceva praticamente da tre giorni. L'incarico invece gli stava portando via un anno della sua vita. Un intero anno che nessuno gli avrebbe mai restituito, anche se avrebbe guadagnato tanti di quei soldi da potersi ritirare a vita su un'isola della Fiji. Ma poi pensò che erano troppo calde le Fiji e che Londra gli sarebbe mancata. Prima o poi comunque l'incarico sarebbe finito. Anno più, anno meno. Quindi, Sarah era sacrificabile. Fu strano sentirsi sollevato per questo pensiero, che lo faceva assomigliare di nuovo al vecchio se stesso, e allo stesso tempo esserne disgustato.

Sussurrò un mi dispiace ma nemmeno lui capì se fosse vero oppure no.

E poi finalmente arrivò Sherlock, quel fottuto bastardo, in ritardo di almeno mezz'ora. John riuscì ad evitare che Sarah fosse colpita a morte e Sherlock li liberò entrambi. A terra, in mezzo alla polvere, ancora legato alla sedia e con la testa che gli pulsava freneticamente, John guardò il suo coinquilino e per la prima volta da quando aveva messo piede nella sua vita, pensò che uccidere Sherlock Holmes sarebbe stato davvero uno spreco, se fosse stato quello il fine ultimo del suo incarico.

 

La mattina dopo la chiusura di quello strano caso, John passò più minuti del solito davanti al suo armadio. Il guardaroba che gli era stato fornito per interpretare questo nuovo se stesso era sicuramente di dubbio gusto, o forse no, ma di certo non incontrava le sue preferenze. Guardò i maglioni ripiegati con militare cura nello scaffale, indeciso fino alla fine su cosa indossare per scendere a fare colazione. Il suo coinquilino avrebbe sicuramente indossato una di quelle meravigliose camicie su misura in seta pregiata e probabilmente una delle sue innumerevoli vestaglie altrettanto di valore. Lo immaginò vestirsi. Fu improvviso. Immaginò le sue lunghe mani bianche da violinista sfiorare il tessuto dei diversi abiti durante la scelta. Immaginò quelle dita abbottonare la camicia lentamente, dal basso verso l'alto, fino al colletto. Lo immaginò guardarsi allo specchio e in quel riflesso, immaginò di scorgere anche se stesso e...

Dio. Che cosa stava succedendo? Si appoggiò con una mano allo stipite dell'armadio e guardò il pavimento. Sorrise tra se e se. Che diavolo di pensiero era mai quello? Una specie di fantasia erotica e sensuale su Sherlock Holmes? Con Sherlock Holmes. Si coprì la bocca con l'altra mano per nascondere un sorriso di incredulità. Scosse appena la testa. Dopotutto Sherlock era un bellissimo uomo, assolutamente notevole. Aveva gli occhi più belli che avesse mai visto in un essere umano. E quel fare arrogante, con cui ostentava una sfacciata superiorità, era decisamente sexy. Ma con lui, e John lo aveva notato fin da subito, tutto questo non avveniva. O comunque molto meno rispetto a tutti gli altri. Quando si trattava di John Watson, Sherlock riusciva a smussare gli angoli del suo carattere e a mostrarsi più docile e comprensivo oltre che iperprotettivo.

Iperprotettivo.

John rifletté su questa parola mentre indossava il maglione che aveva finalmente scelto, uno a larghe righe bianche e blu. Si guardò allo specchio.

Iperprotettivo.

Quell'uomo, che probabilmente stava già leggendo il giornale seduto al tavolo del soggiorno, aveva una specie di ossessione per lui. John arrivò a questa conclusione mentre aggiustava il colletto del suo maglione dozzinale. Sherlock si fidava a tal punto di lui da dargli senza remore la sua carta di credito, un assegno a tre zeri, e qualsiasi altra cosa gli avrebbe mai chiesto. Probabilmente avrebbe dato anche la sua stessa vita per lui. Ripercorse a mente tutti i mesi passati. Tutti gli appuntamenti sabotati. Tutte le litigate inutili e adolescenziali, tutti i suoi repentini cambi d'umore e i silenzi, il violino suonato solo per farlo addormentare, le cene fuori, gli sguardi. John fu colto all'improvviso dalla verità come se fosse stato colpito in pieno viso. Guardò il riflesso di se stesso negli occhi. Sherlock Holmes aveva la più completa fiducia in quel John Watson che ora stava lì in piedi di fronte a lui. Sherlock Holmes avrebbe fatto qualsiasi cosa e dato qualsiasi cosa per lui. Sherlock Holmes era forse...innamorato di lui?
Che fosse questo il fine ultimo dell'incarico che gli era stato affidato? Conquistare la piena fiducia di quell'uomo e colpirlo poi nel suo punto più debole? All'improvviso, sentì di nuovo quella voce nella sua testa.

“E adesso, quale sei il vero tu?”

Non le diede ascolto, distolse lo sguardo da quel se stesso e scese in soggiorno per fare colazione.

 

:::

 

 

L'odore di cloro era fortissimo.

John se ne stava seduto in quello spogliatoio minuscolo aspettando istruzioni che sembravano tardare, con quell'odore persistente nel naso. Era in ansia, e non sapeva nemmeno il motivo. Lo sapeva benissimo in realtà, ma piuttosto che ammetterlo a se stesso, preferiva negarlo. Guardò le proprie scarpe. Finalmente aveva potuto indossare di nuovo uno dei suoi completi scuri, uno di quelli fatti su misura per lui e abbandonare quei ridicoli vestiti dozzinali che avevano costituito il suo guardaroba per più di un anno. Toccò il polsino della camicia blu scuro che fuoriusciva appena dalla manica della giacca, così come deve essere per un abito sartoriale. La seta era morbidissima. L'abito era bellissimo. Tutto era perfetto, come prima. Quasi tutto. Perché nonostante John si sentisse finalmente di nuovo se stesso, non poteva più fare a meno di chiedersi chi fosse in realtà.

Sicuramente non era l'uomo che indossava quegli orrendi maglioni, questo era certo. Ed il pensiero lo fece un po' sorridere. E di certo non era quello che preparava il tè al suo coinquilino. Ne quello che durante l'azione faceva da spalla, o che se ne stava in silenzio, o che faceva finta di non capire le cose, come quella volta in cui aveva compreso che i graffiti gialli erano simboli cinesi dalla prima volta che li aveva visti. O quando aveva capito che l'assassino era il tassista ben prima che ci arrivasse Sherlock Holmes, il consulente investigativo. La parte di quello lento non gli si addiceva proprio.

Ma c'erano altri aspetti di quel John che invece gli assomigliavano molto, così tanto che a volte dimenticava fosse tutta una finzione. Amava ascoltare Sherlock quando suonava il violino e soprattutto amava quando lo suonava solo per lui, per farlo addormentare dopo essersi svegliato a causa di un incubo. Amava godersi il calore del camino nelle fredde giornate invernali, leggere un libro e avere attorno quello strambo del suo coinquilino a compiere dubbi esperimenti o a fare chissà che altro. E amava mangiare insieme a lui il cibo d'asporto, scoprire le frasi stupide dei biscotti della fortuna e prenderlo in giro per il modo in cui le leggeva. Gli piaceva passeggiare fino a Regent Park e poi salire sulla collina di Primrose Hill e osservare Londra, la sua Londra. Correre per le strade, respirare la nebbia, bagnarsi di pioggia e sentirsi vivo.

Aveva odiato quella vita all'inizio. Quel non essere se stesso e allo stesso tempo tornare ad esserlo davvero. Aveva odiato tutto e aveva odiato Sherlock Holmes. E adesso, seduto in quello spogliatoio freddo, sentiva lo stomaco contorcersi e le domande che gli affollavano la mente non riuscivano a trovare nessuna risposta che lo soddisfacesse. Odiava ancora quella vita? Odiava ancora Sherlock Holmes? O forse odiava solo se stesso, quello che era, che fingeva di essere o che non sarebbe mai stato? Alla fine decise che l'unica cosa giusta da fare in quel momento fosse concentrarsi su quello in cui era più bravo, portare a termine un incarico, qualunque esso fosse. E così fece.

Recuperare i piani missilistici. Questo gli era stato ordinato pochi minuti prima. Portò le dita alla bocca e si sfiorò le labbra. Avrebbe potuto prendere la chiavetta con i piani in qualsiasi momento, avrebbe usato una scusa banale e Sherlock glieli avrebbe consegnati di spontanea volontà, senza problemi. Perché dunque la piscina, l'incontro e tutta quella messa in scena? Effettivamente, rubare una chiavetta usb non avrebbe giustificato un piano così elaborato e così a lungo termine come quello in cui era stato coinvolto. I piani missilistici dovevano essere una scusa per qualcos'altro, ormai era piuttosto evidente. Eppure, c'era una parte di lui che sperava fosse davvero quello il suo compito, solo quello. Prendere la chiavetta con il suo contenuto, e semplicemente sparire.

 

Fu in quell'istante che sentì la voce di Sherlock.

E per la prima volta nella sua vita, John Watson, l'uomo senz'anima, capì cosa significasse esitare. Fu breve, come un battito di ciglia, eppure così forte da far crollare le certezze di una vita. Ne fu spaventato a morte.

Prese un profondo respiro. Mai, nella sua lunga carriera, aveva fallito. Mai. Portare a termine un incarico e risolvere il problema era quello che faceva, quindi lo avrebbe fatto anche questa volta. Sarebbe stato facile.

Si alzò. Qualcuno gli comunicò nel piccolo auricolare che poteva uscire. Alzò lo sguardo, dritto di fronte a se, aggiustò la giacca dell'abito e lentamente, i polsini della camicia, lisciò i capelli all'indietro con una mano, si schiarì la voce e infine, un attimo prima di uscire, scelse di portare con se un'unica arma, la più letale.

Sorridere.

 

John fece due soli passi sul bordo della piscina guardando il pavimento, con quel sorriso furbo e distante che poteva gelare il sangue al solo guardarlo. Poi si voltò verso Sherlock, o meglio verso quell'involucro che doveva contenere Sherlock Holmes, da qualche parte. Era tutto visibile, tutto lì. La sorpresa, l'incertezza, l'incomprensione e poi, la delusione. Profonda e cocente. Era tutto lì, sul quel viso sbiancato a pochi metri da lui. La sua sfacciata arroganza ridotta a poco più di niente, nascosta nello sguardo di un bambino ferito. Gli occhi tondi e tristi. La bocca aperta. Dovunque fosse Sherlock Holmes, non era di certo lì.

John si leccò le labbra, continuando a sorridere.

“Buonasera. Questo è un colpo di scena, vero Sherlock?”- disse, schiarendosi la voce e aggiustando il nodo della cravatta. Suonava estremamente divertito.

Sherlock lo fissò per svariati minuti.

“Ah ok, hai bisogno di fare quella cosa in cui rimani zitto per processare quello che sta accadendo, giusto? Posso aspettare.” - aggiunse, dando una finta occhiata al costosissimo orologio che portava al polso. Poi distolse lo sguardo e dondolò un po' sui piedi. “Quando vuoi.”

“...John? Che diavolo...”

“Ah ecco, hai riacquistato l'uso della parola vedo. Bene, bravo il mio ragazzo.”- John gli sorrise apertamente, ma non c'era niente in quel sorriso che ricordasse il vecchio John Watson, quello che era stato fino a poche ore prima. - “Si, sono io. O meglio, quello è il mio nome. E' esatto. Sei proprio bravo.”- lo prese in giro.

La chiavetta che Sherlock aveva in mano scivolò via dalle sue dita e cadde sul pavimento umido del bordo piscina.

“Ops, ti è caduta una cosa, aspetta che ti aiuto.”- John coprì la breve distanza che li separava, si chinò appena e raccolse l'usb. Quando si raddrizzò era praticamente a pochi centimetri dal viso gelato di Sherlock.

“Sorpresa.” - gli sussurrò accostandosi al suo orecchio. - “Non te l'aspettavi, vero? Il mio consulente investigativo, l'unico al mondo.”- gli disse, tornando a guardarlo negli occhi e reclinando appena la testa di lato.

Sherlock sembrava totalmente incapace di reagire. Deglutì qualcosa che forse avrebbe voluto dire e rimase in silenzio ma i suoi occhi si fecero lucidi nel giro di un istante.

John era così vicino da poter cogliere ogni minima sfumatura di verde e di azzurro di quegli occhi adesso così liquidi e il pallore di quelle labbra perfettamente disegnate tradivano da sole la più completa delusione.

Delusione.

John aveva davanti a se l'uomo con cui aveva vissuto per più di un anno, l'uomo che aveva odiato e che forse odiava ancora, ma era anche l'uomo con cui aveva condiviso ogni cosa, la vita e in più occasioni la morte. Si erano salvati a vicenda lui e Sherlock, innumerevoli volte. Avevano riso, si erano ubriacati, avevano parlato e taciuto. E più volte erano arrivati a sfiorare qualcosa che forse sarebbe stato troppo. Qualcosa che avrebbe potuto rovinare ogni cosa, o renderla meravigliosa, ma che mai avrebbe potuto conciliarsi con la sua vita, quella vera.

John fu costretto ad indietreggiare. Aveva avuto paura di poche cose nella sua vita, forse di nessuna. Forse nemmeno in quel giorno in cui gli avevano sparato e aveva rischiato di morire. Ma di fronte a quello sguardo, di fronte a quegli occhi, si sentì come investito e la paura di quello che avrebbe potuto significare, lo costrinse a fare due passi indietro.

Indossare il suo miglior sorriso era sempre stata la sua arma preferita, lo schermo perfetto, lo scudo che lo proteggeva dal mondo esterno. Aveva sempre funzionato. Ma questa volta gli tornò indietro, riflesso come in uno specchio, tutto quello che aveva sempre temuto. E di nuovo quella frase, “...e adesso, quale sei il vero tu?”.

Sherlock colse l'incertezza nel suo sguardo e tentò di sollevare una mano nella sua direzione.

“Non ci provare Sherlock. Se fai un passo, uno solo, giuro che ti ammazzo. E lo faccio. E' quello che faccio per vivere.”

Sherlock si immobilizzò.

“John.”

“Mi dispiace. Niente di personale Sherlock. E' solo quello che faccio. Questo è quello che sono.” - John aveva recuperato la sua freddezza. Mise la chiavetta in tasca e lo guardò sorridendo appena. - “Questa la prendo io, se non ti dispiace. E adesso vattene.”

Ma Sherlock non si mosse. Invece cambiò qualcosa nel suo sguardo.

“In fondo, avevo capito che qualcosa non andava. La prima volta in cui hai avuto un incubo hai fatto un nome che non ho riconosciuto, fino a questo caso. E non ho avuto tempo di capire perché altrimenti le persone sarebbero morte. Poi c'è stata quella notte in cui mi hai atterrato come se niente fosse, con capacità di combattimento che vanno ben oltre quelle di un normale soldato e ti ho sentito parlare in russo al telefono, una volta.”- sorrise, tristemente- “Mycroft aveva ragione.”

“Su cosa?”

“Su di te.”

John sorrise, guardando a terra per un istante. “Mi è sempre piaciuto tuo fratello. Era quello più interessante tra tutti i tuoi...amici. E poi, nasconde molti segreti. Cose che tu nemmeno immagini, Sherlock.”- scosse appena la testa. “Ma non te le dirò. E comunque, anche tu mi piacevi. Beh, non da subito diciamo. Non sai le volte che avrei voluto soffocarti mentre dormivi. O spezzarti quelle belle manine candide. Sei fortunato che io sia un amante della musica classica. Mi sarebbe dispiaciuto non sentirti più suonare. Ma spiegami come diavolo fai a vivere in quel modo, con i cadaveri nel frigorifero. E' disgustoso.”

“Tu sei disgustoso.”

“Ah, mi fai male al cuore, Sherlock.”- John sorrise, ma fu colpito profondamente da quelle parole così forti e così vere. - “E tu sei un ingenuo. Sei solo un ingenuo.”

Si guardarono a lungo in silenzio.

“Mi dispiace.” - disse alla fine John sfoderando il più vero dei suoi sorrisi. E per un attimo assomigliò al John Watson che sapeva sorridere davvero, quello che una volta aveva ripescato Sherlock dal Tamigi e ne aveva riso per giorni.

Sherlock sembrò molto combattuto su quello che stava per dire, ma alla fine fu più forte di lui.

“Puoi ancora tornare indietro. Sei ancora in tempo, John.”

John scoppiò a ridere. “Ci credi proprio?” - lo scrutò per bene - “Si, tu ci credi davvero. Ci hai davvero creduto. Allora lascia che te lo spieghi per bene. Quello che hai conosciuto non ero io. Non sono io!”- urlò - “io non mi vesto in quel modo, non parlo in quel modo, non sorrido in quel modo.” - Gli si era avvicinato pericolosamente e aveva abbassato la voce. - “Io non preparo il tè e non corro dietro agli altri come un cagnolino. Non mi faccio insultare. Non mi piace nemmeno il cibo cinese, e non sono stupido come ti piace pensare, Sherlock Holmes. Io non sono niente di tutto questo. Tu non mi conosci affatto.” - lo spinse via con una mano. Sherlock indietreggiò di un passo.

“Forse non sei queste cose, forse hai miglior gusto nel vestire, lo ammetto. Ma io so chi sei. Lo so. Sei un uomo ferito, che non è mai tornato dalla guerra e che per sopravvivere ha scelto di portarsela a casa. Fai questo lavoro, ma sei costantemente combattuto. E' palese. Lo leggo dai tuoi movimenti, da come ti avvicini, da come esiti. Sei arrabbiato e deluso da te stesso. Hai sempre portato a termine i tuoi compiti ma questa volta non ce la fai, vero John Watson? Perché questa volta sei andato troppo a fondo, hai scavato così tanto che sei rimasto intrappolato nella tua stessa buca e non sai più come uscirne. Quante notti insonni hai passato pensando a quello che stavi facendo? Ti ho visto, quando ti guardavi allo specchio senza fare niente per interminabili minuti. Adesso so a cosa stavi pensando. Sei sempre stato un mistero per me John, anche quando pensavo di conoscerti. E adesso finalmente, ho capito tutto. Mi sento sollevato. C'era sempre qualcosa che non andava in te, sempre e non riuscivo a capire... Quante volte ti sei svegliato sperando che quella fosse davvero la tua vita? Eh? Vivere al 221b di Baker Street e avere la guerra dentro, rischiare la morte e sentirsi vivo ma aiutando gli altri, facendo la cosa giusta. Dopotutto sei un medico John, è la tua vocazione. Dimmelo, quante volte?”

John lo aveva guardato in silenzio sputare queste parole una dietro l'altra senza sosta, dedurlo, così come aveva fatto la prima volta che si erano incontrati.

“Non sai dirlo, perché non puoi contarle. Ti sei odiato a lungo, vero? Ti odi ancora adesso. Anche in questo momento. Guardati. Avresti potuto prendere i piani e andare via, oppure uccidermi subito e farla finita. E invece sei ancora qui. E mi stai ancora ascoltando, John. Vuoi essere salvato? E' questo che vuoi? Perché io posso farlo. Posso salvarti. Dammi la possibilità di salvarti John, ti prego. Lascia che io...”

 

“Voi due, basta flirtare adesso. Paparino ne ha abbastanza.”

Una voce che suonava familiare alle orecchie di Sherlock proveniva da una delle porte in fondo alla piscina. Pochi attimi dopo Moriarty fece il suo ingresso trionfale, le mani nelle tasche ed un sorriso strafottente. Sherlock e John si voltarono contemporaneamente verso di lui.

“Jim Moriarty. Salve!”

John abbassò appena lo sguardo e si allontanò di un passo da Sherlock.

“Jim? Jim quello dell'ospedale? Oh, ho dato davvero un'impressione così deludente? Ma allora suppongo che il punto fosse proprio quello.”- si fermò. - “Ti ho fatto intravedere Sherlock, in piccola parte, cosa ho in ballo là fuori nel grande e brutto mondo. E cosa c'è in ballo qui dentro. Vedi, io sono uno specialista, come te.”

“Caro Jim, potresti sistemare le cose per me per sbarazzarmi dell'odiosa ragazza di mio fratello? Caro Jim, potresti sistemare le cose per me affinché io sparisca in Sud America?”

Moriarty aveva ripreso a camminare, sorridendo compiaciuto alle parole di Sherlock. - “Proprio così.”

“Consulente criminale. Geniale.”

“Vero? Nessuno arriva mai a me. E nessuno lo farà mai.”

“Io l'ho fatto.”

“No, Sherlock. Io sono arrivato a te. E' diverso. Vero John?”- Jim si voltò in direzione di John che nel frattempo si era allontanato ancora di qualche metro.

“Puoi parlare, Jonny Boy.”

Ma John non rispose nulla, limitandosi ad annuire. Jim sorrise e si avvicinò di qualche passo fino a fermarsi esattamente di fronte a lui. Lentamente gli fece scivolare una mano nella tasca dei pantaloni, guardandolo negli occhi.

“Hai fatto tutto quello che ti avevo chiesto? Mh?”

John annuì senza distogliere lo sguardo o mostrare sottomissione. Si fissavano dritto negli occhi. Sherlock osservò la scena in silenzio.

Jim tirò fuori la chiavetta. -“Oh, i piani missilistici. Avrei potuto trovarli dovunque.” - La picchiettò delicatamente sul naso di John prima di scaraventarla in piscina.- “Ma grazie”- gli sorrise, poi si voltò verso Sherlock. - “Ma veniamo al punto! La vera questione per cui siamo qui. Ma non fraintendermi, mio caro. Ho adorato tutto questo, questo nostro giochino. Fare finta di essere Jim l'informatico, fare la parte del gay...ti è piaciuto il tocco della biancheria intima?”

“Delle persone sono morte.”

“E' quello che le persone fanno!”- urlò Jim. E il suono rimbombò fortissimo in quella enorme stanza. - “Ed è quello che farai anche tu, tesoro.”

“Mi piacerebbe vederti provare.”

Jim scoppiò a ridere. - “Oh, non essere ridicolo. Che cosa banale. A me non piace avere le mani sporche. Per questo abbiamo il tuo migliore amico.”- si voltò verso John che a quelle parole aveva impercettibilmente allargato gli occhi. - “Ti brucerà. Ti brucerà fino in fondo al cuore.”

John aveva iniziato a respirare pesantemente.

“Sono stato debitamente informato di non possederne uno.” - fu la risposta secca di Sherlock.

“Oh, sappiamo entrambi che non è proprio vero.” - sussurrò Moriarty con un sorriso soddisfatto sul volto. -”John, bruciagli il cuore. E poi uccidilo.”- disse mentre si voltava e riprendeva a camminare verso l'uscita.

John aveva seguito tutto il dialogo con lo stomaco in gola. Non doveva arrivare a questo. Non era questa la soluzione al problema. Non poteva, non voleva uccidere Sherlock Holmes. Non voleva farlo. Non..

“Non erano questi i patti.” - disse, in direzione di Moriarty che a quelle parole si fermò, senza voltarsi.

“Puoi ripetere prego?”

“Ho detto, che non erano questi i patti. Quando devo uccidere qualcuno devo saperlo prima. Deve essere nel contratto. E' così che lavoro.”- John ostentava una sicurezza che dentro di sé non aveva. Conosceva perfettamente Jim Moriarty e quello di cui era capace. Non aveva paura, ma avrebbe avuto ragione di averne.

“John...” -Sherlock tentò di intromettersi. Aveva capito che la situazione stava per degenerare e cercava una via di fuga per entrambi da svariati minuti.

“Sta zitto Sherlock. Non sono affari tuoi.”

Jim si voltò. “Lo sapevo. Lo sapevo. Non è dolce? Ora capisco perché ti è piaciuto così tanto averlo attorno. Le persone diventano sentimentali nei confronti dei loro animaletti. Sono così leali. O sono solo pagati per esserlo? Ops!” - sorrise - “Ma direi che hai scoperto le tue carte, dottor Watson.”

Moriarty tornò indietro fin ad arrivare all'altezza di John. - “Non sei stato pagato per questo, Jonny. Ma stasera qualcuno deve morire. E se non è lui, e di certo non sono io, rimani solo tu.” - tirò fuori dalla tasca una pistola e allungando il braccio la appoggiò sulla fronte di John.

Tutto fu immobile in un istante. Sherlock non se ne rese nemmeno conto ma stava trattenendo il respiro. John credette di vedere il sole dell'Afghanistan ma sapeva che non poteva essere vero.

“Puoi dirgli addio se vuoi.”- disse Moriarty, guardandolo dritto negli occhi.

“Sherlo..”

Poi si udì lo sparo.

“Per me era più che sufficiente. Spero ti basti.”

 

 

Per John Watson una vita poteva valere meno di niente. Ma a volte, e quella notte fu una di quelle, non poté fare a meno di pensare, un istante prima di morire, che non ci fosse niente che valesse meno della sua di vita. E che forse bisognava lasciar andare per ritrovarsi, finalmente.

 

 

 

   
 
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