Il ventisettenne Lorenzo guardò prima le campagne che si stendevano oltre la villa di Careggi e poi i sottili guanti di pelle che stringeva nel pugno: “Fossi in voi non sarei così duro...” disse, piano, il mento un po' asimmetrico che si spostava a destra e a sinistra.
Ginevra Cavalcanti, ormai in là con l'età, si accigliò e trattenne a stento un sospiro di indignazione.
Anche se per tutti quello era solo un uomo ancora giovane eppure estremamente promettente, per lei Lorenzo altro non era se non un indegno erede dell'assennato e cauto Piero.
Ricordava ancora benissimo come suo figlio Pierfrancesco fosse stato perdonato, all'indomani della scoperta della congiura di Luca Pitti. Era stato Piero, loro parente e loro amico, a capire perché si era arrivati a tanto.
Era stato un uomo così lungimirante e comprensivo che, concessa la grazia a Pierfrancesco, l'aveva subito ripreso con sé alla banca.
Lorenzo era fatto di un'altra pasta. Voleva condividere con lei la custodia dei due bambini solo per potersene approfittare, Ginevra ne era convinta.
“Mio figlio è morto da così poco...” disse la donna, simulando l'incertezza di una vecchia vedova rimasta sola con due nipoti ancora piccoli: “Ho bisogno di tempo per...”
“Non c'è tempo per pensare.” la scrollò il Medici che aveva ereditato la banca e la fortuna della famiglia: “La mia è un'offerta misericordiosa. Se non vi garba, Lorenzo e Giovanni verranno a Firenze con me e mio fratello e basta.”
La donna sospirò, annusando l'aria piacevolmente estiva che arrivava dai campi. Era il 20 luglio, era passato appena un giorno dalla morte di Pierfrancesco, e benché fosse sera il sole ancora non era sceso oltre l'orizzonte.
Sentire il frinire delle cicale e il suono acuto di qualche uccellino che stava ancora cercando la cena, fece ripiombare Ginevra in uno stato di profonda prostrazione.
Pierfrancesco aveva amato moltissimo la villa di Careggi, così come quella di Cafaggiolo e quella di Castello. Anche se era stato un banchiere fatto e finito, era un uomo innamorato della campagna e della libertà.
Appena poteva liberarsi dall'ufficio, Pierfrancesco andava subito in campagna coi suoi figli. Però, benché amasse la pace fuori dalla caotica Firenze, non era appassionato di cavalcate e caccia come era stato suo padre.
Il ricordo del figlio appena perso, morto ad appena trentasei anni, si mescolò con quello del marito, Lorenzo, che tutti chiamavano il Vecchio, per non confonderlo con il tronfio figlio di Piero.
Lui era morto a quarantacinque anni, senza troppo preavviso. Era stato sempre un uomo forte e robusto, di ottima salute, sempre impegnato negli affari di famiglia da un lato e negli svaghi di campagna dall'altro.
Ginevra ricordava ancora benissimo di come suo marito Lorenzo adorasse andare a caccia, assieme ai suoi cani o anche da solo, e cavalcare per ore intere tra i campi e nei boschi. Pierfrancesco, suo figlio, era stato più tranquillo, ma come il padre aveva amato moltissimo quei posti e la pace dell'aria aperta.
“I miei nipoti sono abituato a stare in campagna...” provò a opporsi un'ultima volta la Cavalcanti, ben sapendo che tanto l'altro avrebbe avuto la meglio: “Venire a vivere a palazzo, così, all'improvviso, sarebbe un trauma e basta per loro...”
“Sciocchezze.” minimizzò subito Lorenzo, risistemandosi in testa la berretta piumata, come a dire che il discorso poteva considerarsi chiuso: “A Firenze, questi due piccoli selvaggi verranno istruiti dai migliori letterati e filosofi d'Italia. Vorreste il loro male, a tenerli qui in mezzo ai contadini. E poi, Ginevra carissima, i fatti son questi: o accettate di condividere il loro affidamento, o farò in modo che la Signoria li lascia a me e a Giuliano e basta.”
La donna abbassò la testa canuta, coperta da un velo nero a lutto molto spesso, e a quel punto riuscì a dire solamente: “E va bene, accetto di condividere l'affidamento, ma lasciate che almeno prima ne parli con loro. Sono soli e spaventati. Se almeno avessero ancora la madre...”
“Come volete.” sbuffò il figlio di Piero: “Mi aspetto che entro domani li portiate a Firenze.”
Ginevra annuì e poi, con un cenno del capo, Lorenzo la salutò e, apprendo un po' contrariato, si voltò di scatto, il grosso naso che vibrava, e se ne andò ad ampie falcate, fino a raggiungere il suo cavallo, legato a uno dei cerchi a muro della villa.
Lorenzo, figlio di Pierfrancesco, stava cercando il fratello dappertutto. Sua nonna Ginevra gli aveva chiesto di trovarlo e portarlo in casa, perché doveva dire a entrambi una cosa molto importante.
Il ragazzino, che avrebbe fatto tredici anni il 4 agosto, non sapeva più dove guardare. Era finito anche nel pollaio, ricordandosi come a volte Giovanni, quando era malinconico per qualche motivo, vi andasse per giocare a rincorrere le galline.
Stava per tornare dentro alla villa, sconfitto, quando gli venne in mente un ultimo posto: il capanno in cui tenevano gli attrezzi per la cura delle vigne.
Correndo, i capelli castani scompigliati dal vento caldo di luglio e il tozzo naso pieno dell'odore pesante della terra rovente, Lorenzo arrivò davanti al portone di legno e lo aprì con fare guardingo.
Senza dire nulla, cercò per un po' il fratello. Lo trovò dopo parecchi minuti, e solo perché Giovanni aveva deciso di farsi vedere.
Il bambino, di otto anni e mezzo, era seduto sopra a un cumulo di sacchi vuoti, le ginocchia strette sotto al mento e i corti ricci castani pieni di fili di paglia. Non era difficile credere che avesse provato a riposare sul fieno delle stalle.
“Vieni, Giovannino, nostra nonna vuole parlarci.” disse Lorenzo, prendendo il fratello minore per una mano e inducendolo a seguirlo.
Giovanni era un bambino abbastanza esile, con braccia e gambe lunghe, che promettevano un'altezza maggiore di quella del fratello che – a dodici, quasi tredici anni – non dava speranze di abbandonare l'aspetto tozzo che aveva avuto fin da piccolo.
“Non devi avere paura...” disse il più grande, mentre attraversavano il cortile a passo spedito, diretti senza indugio verso l'ingresso della villa: “Anche se nostro padre è morto non vuol dire che...” continuò Lorenzo, ma la voce gli morì in gola.
Giovanni lo guardò di soppiatto. Sapeva che suo fratello si stava mostrando forte solo per lui, aveva sempre fatto così, sia nelle cose importanti che in quelle da poco.
Probabilmente, se non fosse stato per lui, Lorenzo sarebbe stato ancora a piangere nella loro camera, rifiutando di vedere chicchessia. Erano entrambi molto attaccati al loro padre, che da sempre era stato il loro unico punto di riferimento.
Il maggiore, in realtà, serbava ancora il ricordo vivido della loro madre, che era morta nel dare alla luce Giovanni, ma cercava di non parlarne mai, per non intristire il minore, che non aveva potuto conoscerla nemmeno per poco tempo.
Sentendosi malfermo sulla gambe, mentre entravano in caso, il più piccolo avvertiva ancora il sentore della morte che aveva visitato appena il giorno prima la loro villa.
Nemmeno l'afa che profumava di campi riusciva a togliergli dalle narici il tanfo del cordoglio e della paura.
Perchè oltre al dolore, tanto per lui, quanto per suo fratello – che Lorenzo lo volesse dar a vedere o meno – era arrivato anche il panico. La loro nonna li amava molto e si era subito detta pronta a proteggerli e curarli, ma la verità era che era anziana e che perdere il figlio l'aveva fatta invecchiare ancora di più.
“Dove ti eri cacciato?” chiese, con tono bonario, Ginevra, quando vide i due bambini.
Tolse qualche pezzetto di paglia dai suoi capelli ricci e poi invitò sia lui sia il fratello a seguirla nel salotto, per parlare.
La villa era in silenzio. Ai domestici era stato dato un giorno di libertà e quei pochi che erano rimasti, si aggiravano muti e mesti per la villa, anche loro in lutto per il padrone di casa, che con tutti loro era sempre stato molto equanime e permissivo, senza mai perdere il loro rispetto.
“E così – concluse la donna, dopo aver spiegato quello che lei e il figlio di Piero si erano detti quel pomeriggio, gli occhi chiari che luccicavano per le lacrime trattenute a stento – io credo che sia giusto che domani si vada a Firenze. Vedrete che vi troverete bene dai vostri cugini e con il tempo porteremo lì le vostre cose e... Giovanni!”
Prima che sua nonna potesse finire di parlare, il bambino era scattato in piedi come una molla ed era corso fuori dalla stanza.
“Io...” balbettò Lorenzo, combattuto tra filare dietro al fratello e restare dov'era.
Si sentiva così stanco e sconvolto, che non aveva alcuna voglia di correre, tanto meno di badare a Giovanni. Lo faceva da sempre, ma quel giorno avrebbe tanto voluto potersi prendere un po' di tempo solo per sé.
“Ti prego, Lorenzo...” gli disse sua nonna, affranta.
Il ragazzino, allora, si morse le labbra sottili e poi si mise in piedi, mentre una lacrima di stanchezza e frustrazione gli scendeva lungo la guancia. Con passo deciso, anche se non velocissimo, andò alla porta, già pensando a dove potesse essere scappato suo fratello.
Giovanni era andato, il più veloce che aveva potuto, alle stalle a aveva preso il cavallo che di solito usava suo padre.
Lo stalliere lo aveva guardato attonito, ma non gli aveva detto nulla. Si rendeva conto che il piccolo stava rischiando grosso, ma non ebbe la prontezza di fermarlo.
La bestia preferita di Pierfrancesco Medici era una grossa femmina dal manto scuro, che avrebbe potuto benissimo diventare un cavallo da guerra, se solo fosse stata istruita in tal senso.
Per salirvi, Giovanni aveva usato la scaletta e poi, senza ragionarci troppo, si era stretto al crine dell'animale e, cavalcando a pelo, era uscito di gran furia dalle stalle, travolgendo un paio di secchi e una piccola mangiatoia mezza vuota.
Appena sentì il vento torrido di luglio sferzargli il viso, il bambino si appiattì il più possibile contro al schiena e il collo della cavalla, per non scivolare. La corsa della bestia era furiosa, era come se anche lei avesse capito che il suo padrone non c'era più.
Giovanni non aprì gli occhi per parecchio tempo, lasciando che l'animale lo portasse dove preferiva.
Quando la cavalla fu troppo stanca per tenere quel ritmo folle, il piccolo si scostò un po' dal pelo lucido e si guardò attorno.
Stava scendendo lentamente il buio e il tramonto gettava sui campi delle ombre incredibili. Il cielo tinto di rosso e arancio sembrava disegnato, per quanto i colori erano intensi.
Con difficoltà, senza star lì a chiedersi come avrebbe eventualmente fatto a rimontare in groppa alla bestia, Giovanni scese, impattando in modo un po' doloroso con il suolo. Per lui era davvero troppo alta...
Tenendo una piccola mano sul collo della sua cavalcatura, la portò con sé per qualche centinaio di metri. Erano in mezzo ai campi, così il bambino cercò il riparo di una pianta, ma l'inizio del bosco non era molto vicino.
Quando arrivò al suo nascondiglio, il sole era già quasi del tutto oltre la linea dell'orizzonte.
Avvertendo una solitudine profonda e piena, Giovanni restò a lungo seduto sull'erba a guardare fisso davanti a sé.
La cavalla, ben addestrata e abbastanza docile, era poco lontano e brucava placidamente, in attesa di ordini.
Passò un bel po', tanto che il cielo si tinse di scuro e finalmente calò la sera e a quel punto, con dei singhiozzi difficili da frenare, Giovanni scoppiò a piangere.
Quando Lorenzo trovò Giovanni, non si diede nemmeno la pena di sgridarlo per il suo comportamento.
Era già buio, i pochi servi della villa si erano messi anche loro a setacciare i campi per cercarlo, e alla fine era stato proprio suo fratello maggiore a trovarlo, e l'aveva fatto solo perché Giovanni l'aveva voluto.
Il bambino, infatti, dopo aver sfogato tutto quello che gli stringeva l'anima nel petto, si era alzato e, confidando nel buon senso d'orientamento della cavalla di suo padre, aveva seguito la bestia fino a casa, per poi incontrare Lorenzo sul viale che portava proprio alla villa.
“Vedrete che potrete tornare quando volete... Sia qui che alla villa di Castello.” assicurò Ginevra, mentre ripuliva Giovanni dalle chiazze di terra che aveva sul viso e sulle braccia: “La villa di Cafaggiolo, poi, è vostra per diritto. Così come i soldi di vostro padre. Appena Lorenzo sarà maggiorenne, riavrete tutto quanto e allora potrete far quel che preferite...”
La mattina di luglio in Firenze, eccezion fatta per l'odore, era come un cesto di fiori colorati.
I due figli del defunto Pierfrancesco Medici arrivarono in città di buon'ora, accolti da una piccola folla di curiosi che si riversavano a ondate in strada.
Lorenzo, che aveva messo abiti semplici, ma abbastanza eleganti, guardava fuori dal calessino, il volto sempre imbronciato, com'era per natura, e gli occhi tondi persi e confusi.
Giovanni si rendeva conto della tensione del fratello soprattutto dal modo in cui stava stringendo i pugni sulle ginocchia.
Anche la loro nonna Ginevra, seduta tra loro, pareva molto in ansia, ma dispensava a entrambi ampi sorrisi, non appena si accorgeva che uno dei due la stava guardando.
“Sistemati il colletto...” disse piano la donna, mentre il calessino svoltava nella via Larga, rivolgendosi a Giovanni.
Questi trafficò con le piccole dita finché non riuscì a raddrizzare la stoffa e poi ritornò a fissare fuori dal finestrino.
Palazzo Medici si stagliava imponente e arrogante a lato della strada e appena fuori dal portone un paio di guardie dei loro cugini già li stavano aspettando.
Quando si fermarono proprio là, Ginevra fece coraggio ai nipoti dicendo: “Da oggi, per voi, inizia una nuova vita. Cogliete questa opportunità.”
Scese per primo Lorenzo. Teneva la schiena rigida, il mento un po' ritratto. Da fuori poteva apparire un ragazzino compito, ma il fratello, che lo conosceva come le sue tasche, capiva che era solo terrorizzato.
Fu poi la volta della Cavalcanti che, con passo un po' malfermo, si fece aiutare dal cocchiere, e poi salutò le guardie con una riverenza, coprendosi poi subito il volto con il velo di pizzo a lutto.
Per ultimo scese Giovanni. Dalla strada, secca per la scarsa pioggia di quel periodo, si sollevò una nuvoletta di polvere, quando i suoi piedi toccarono il suolo.
Non appena i tre, scortati dalle guardie, varcarono l'ingresso del palazzo, trovandosi nel cortiletto centrale, una voce che conoscevano bene esclamò, senza la minima gioia: “Eccovi qui, finalmente!”
Se Lorenzo, come la nonna, aveva subito salutato il cugino, Giovanni era rimasto così sbalordito dalla bellezza del cortile che non si era quasi accorto del parente appena arrivato dalle scale che portavano all'interno.
“Sembra che tu non sia mai stato qui...” ridacchiò il figlio di Piero, i capelli scuri perfettamente acconciati e la pelle olivastra coperta da un sottile strato di sudore dovuto all'afa pressante di quel giorno.
Giovanni comprese che il cugino stava parlando con lui, così si forzò di distogliere lo sguardo dagli affreschi e dalle finestre che si innalzavano al cielo, per ribattere, ma sua nonna, che conosceva lo sguardo che si era appena acceso nelle iridi tanto chiare da essere quasi trasparenti del nipote, lo anticipò: “Perdonatelo... Giovannino è molto scosso per la perdita di suo padre. Ci vuole pazienza, con lui.”
“La pazienza non ci manca.” disse la voce allegra di Giuliano, l'altro cugino, che si era appena palesato.
I capelli un po' spettinati, probabilmente per una corsa, e le gambe snelle e scattanti, il figlio minore di Piero andò vicino ai due bambini e, mettendo una mano sulla spalla a entrambi, disse loro: “Lasciamo i grandi a discutere. Venite, vi mostro la vostra nuova casa...”
Il dodicenne Lorenzo, deglutendo per l'agitazione che ancora non l'aveva lasciato, annuì e seguì il cugino ventiduenne senza fare obbiezioni.
Lo stesso fece Giovanni, anche se, mentre Giuliano lo sospingeva con gentilezza verso lo scalone, il bambino continuò per un po' a voltarsi verso sua nonna che stava parlottando con uno dei loro nuovi tutori.
Il profilo severo e di rara bruttezza di Lorenzo, figlio di Piero, incuteva nel piccolo una strana soggezione. Tutti dicevano che in quell'uomo risiedeva l'anima della Firenze che stava per sbocciare, ma per il bambino gli occhi scuri del cugino parevano solo pieni di calcoli e inganni.
Giuliano, i cui lineamenti erano decisamente più belli di quelli del fratello, si fermò un momento al terzo gradino e colse le occhiate che il bambino gettava a Lorenzo e Ginevra.
“Vedrete che vi troverete bene qui.” disse, tirando un po' Giovanni per far sì che smettesse di voltarsi: “Ci sono molte persone interessanti a Firenze. Non abbiate paura di Lorenzo, mio fratello è meglio di quel che può sembrare. Parla tanto, ma non morde.”
I due orfani non dicevano nulla e così Giuliano, con un sospiro, continuò a salire le scale, fino a che non si trovarono al piano superiore.
Rapiti, in modo diverso l'uno dall'altro, dall'opulenza della casa in cui erano capitati, i bambini per qualche minuto ebbero occhi solo per la ricchezza dei dipinti, delle tappezzerie e dei mobili.
Se Lorenzo, però, era rimasto rapito dai colori e dalle forme, chiedendosi già come avessero potuto i loro cugini ottenere così tante cose belle, mentre loro erano abituati a vivere in ville molto decorose, certo, ma decisamente a stampo campagnolo, Giovanni stava facendo valutazioni molto differenti.
Aveva visto una credenza colma di volumi e la sua mente era già al lavoro. Non leggeva ancora speditamente come avrebbe voluto, ma aveva divorato tutti i libri che suo padre, negli anni, gli aveva concesso di avere.
Sapeva già che la campagna gli sarebbe mancata, ma sapeva anche che a palazzo Medici le stalle non mancavano. Magari non subito, ma era certo che prima o poi sarebbe riuscito a sgusciarvi dentro, prendere una bestia che si lasciasse montare da lui, e, con un libro nella borsa, sarebbe scappato fuori città, in cerca di una parentesi di libertà.
“E comunque, a mio fratello Lorenzo ci penso io – soggiunse quasi tra sé il giovane Giuliano, mentre lasciava i cuginetti liberi di osservare da vicino tutto quel che volevano – finché ci sarò io, non dovete avere paura di lui.”