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Autore: EffyLou    23/01/2018    2 recensioni
Londra, Inghilterra. 1888.
«[...] Se siete qui è perché siete individui curiosi, coraggiosi, bramosi di scoprire nuovi mondi. E noi, umili artisti e fenomeni da baraccone, siamo al vostro più totale servizio Ma badate bene: non lasciatevi sopraffare dalle regole della società. Nel perimetro dell'Imaginaerum... non bisogna opporre resistenza. Potreste fronteggiare cose inspiegabili, magiche forse. Non fatevi domande, perché non avrete risposte»
- - - - -
La compagnia circense Imaginaerum è sulla bocca di tutti e genera emozioni contrastanti nel popolo e nell'individuo singolo: provocano curiosità per la ventata di novità e il tocco osé, ma al contempo vengono disprezzati per i loro azzardi.
Quando Jack lo Squartatore comincerà ad infestare Whitechapel, Scotland Yard dovrà far fronte anche alla misteriosa scomparsa di bambini per mano di colui che viene chiamato il Pifferaio Magico. L'Imaginaerum finisce sotto i riflettori: non è possibile che quell'accozzaglia di straccioni non c'entri niente.
Genere: Dark, Mistero, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo quinto
 
 
Sta correndo. Si trova nella radura che separa l’area in cui sono montati i tendoni, da quella in cui ci sono le carovane. Lo spiazzo in cui di tanto in tanto lasciano liberi i cavalli o gli animali più mansueti, soprattutto con l’arrivo della primavera.
È notte, sta correndo e le sembra di non arrivare mai al Tempio, l’unico luogo sicuro, come se la radura non avesse una fine. Ha paura, una paura tremenda e primordiale. Non sa bene da cosa stia scappando, sa solo che deve correre. I muscoli delle cosce bruciano per lo sforzo, i polmoni minacciano di lasciarla senza fiato.
Inciampa su una radice, cade rovinosamente in avanti ma non si ferma. Striscia, gattona, traballa per rimettersi in piedi. Ma forse è troppo lenta, perché una morsa d’acciaio le serra il braccio; il suo primo istinto è voltarsi e difendersi. Ma quando gira la testa, tutto ciò che vede è un’ombra più nera della notte, delineata per assumere le fattezze umanoidi, e occhi rossi che brillano come lanterne fiammeggianti. Ciò che più la terrorizza, è la bocca mostruosamente aperta a mostrare denti lunghi come coltelli. Eppure così ipnotici… così ipnotici…
 

«..-rsia? Persia!»
La ragazza strinse le palpebre, mugolando di disappunto. Poi si decise ad aprire gli occhi, incontrando lo sguardo divertito di Prittle. L’amica è seduta ai piedi del letto, già vestita per le prove generali prima dello spettacolo serale.
Persia aveva approfittato dell’assenza di clienti quel pomeriggio per riposarsi un po’. Non c’era riuscita come avrebbe sperato, aveva fatto un sogno strano. Era così reale, le sembrava di sentire ancora quella morsa sul braccio. Istintivamente lanciò un’occhiata, scoprendo con orrore che c’era il segno di cinque dita rosse appena sotto il gomito.
Era reale? Ma come…?
«Stiamo aspettando te, alzati, lavativa!» la riscosse la trillante voce di Prittle.
Persia rabbrividì e si alzò in piedi, tirando verso il basso le maniche della camicia che si erano arricciate sopra il gomito. Doveva assolutamente parlare con Faust.
Ciò che si erano detti quella sera, dopo il racconto sul Samhain, l’aveva allertata nonostante non ci fosse molto per cui stare attenti. Faust affermava che le incongruenze nei Tarocchi e sulle Carte Astrali, erano dovute ad uno squilibrio che stava per travolgerli tutti. Ma non c’erano ancora segni concreti di “squilibrio”.
Prittle scostò la tenda, facendo entrare Persia nel cerchio di polvere e fieno. C’erano tutti, ognuno stava ripassando il suo numero. C’era Alegria che faceva esibire Mune in numeri semplici e divertenti, per poi darle un biscottino; Kalì era impegnata nel lancio dei coltelli; Dolly stava sciogliendo i muscoli per il trapezio che avrebbe eseguito con Prittle; Bubblegum si prodigava in una serie di pose impossibili, che la facevano sembrare di gomma; Diablo lanciava e riacciuffava birilli, annoiato nel fare il numero da giocoliere; Klunni e Tramp sistemavano i fili alle marionette; Faust si divertiva con banali giochi di prestigio a Boris, che teneva sollevata una palla di metallo da duecento chili come se fosse la cosa più naturale al mondo. Persia non vide Kà, ma intuì che fosse andato a recuperare i suoi leoni.
Quando la ragazza passò di fianco a Faust, abbassò la voce: «Ho fatto un sogno»
«Era tanto brutto?»
Lei non rispose, alzò la manica per mostrargli il segno delle dita sull’avambraccio. Non erano più rosse, ma cominciavano ad assumere un colore violaceo. Gli scoccò un’occhiata eloquente, e lui la guardò apprensivo.
«Mio dio, Persia. Sicura fosse un sogno?»
«Sì, non ho dubbi. Ma… come?»
Faust infilò le carte nella tasca della giacca, mentre con un braccio cingeva le spalle della ragazza che aveva cresciuto come una figlia. «Ci sono forze capaci di eludere ogni protezione, ogni barriera, fosse anche del sonno. Mi chiedo solo perché. Perché te?»
Era una domanda retorica: se non lo sapeva Faust, non poteva di certo saperlo lei. Persia fu percorsa da un brivido d’angoscia al pensiero che era finita nel mirino di una qualche entità capace addirittura di eludere le barriere del sonno. Aveva paura, era innegabile. Decise che avrebbe spostato le sue cose nel Tempio, una volta per tutte. O almeno finché la situazione non si sarebbe placata.
 
 


Dopo le prove generali, ci fu lo spettacolo.
Di solito in primavera il pubblico era sempre molto folto, pieno d’allegria e di bambini. Eppure, stavolta, gli spalti erano quasi del tutto vuoti. Ancor più preoccupante, era la totale assenza di bambini. Dietro le quinte, Dolly ed Alegria restarono amareggiati nel non vedere Jimmy seduto in prima fila, come aveva promesso.
Prittle era tremendamente agitata. Faceva avanti e indietro di fronte alle toelette per il trucco, insicura sulla reazione del pubblico. Erano pochi, non manifestavano nemmeno un po’ d’entusiasmo. Gli artisti, semplicemente, non vedevano l’ora che lo spettacolo finisse. Cercarono di mantenere una facciata allegra e coinvolgente, sperando di sollevare gli animi e strappare un sorriso.
Solo uno, in cima agli spalti, si azzardava a battere le mani. Era accompagnato da un altro individuo, che tuttavia non si muoveva.
«Lei ha troppi pregiudizi, ispettore. Si diverta!» sbottò allegramente Jonathan, appena finì il suo applauso solitario.
«Sei l’unico qui che si sta divertendo, Anderson. Guardati intorno» brontolò Charles Burke, senza trasporto.
«Già, che banda di musoni. – si sporse in avanti per rivolgersi ad una signora di mezz’età. – Madame, lei non trova delizioso questo spettacolo?»
Lei gli scoccò un’occhiataccia, e Jonathan venne tirato indietro dall’ispettore. «Oh, Anderson, smettila. Siamo qui per studiare questi fenomeni da baraccone, non importunare le signore!»
«Le loro attività non si limitano a questo. Ci sono il tendone della chiromante e quello per i bambini»
«Lo so» replicò, asciutto.
«Indaghiamo anche lì, ispettore?»
«Che domande, Anderson, è chiaro!»
«Bene, io vado dalla chiromante. È quella ragazza che ballava la danza del ventre tra una pausa e l’altra. Non male, non trova?»
Burke si passò le dita sugli occhi, esasperato. «Sii un minimo professionale. Un minimo».
Jonathan ridacchiò sommessamente, mentre si alzava in piedi e seguiva il flusso di persone che scendevano dagli spalti e usciva dal tendone.
 

Persia si tolse gli abiti di scena. Indugiò per un momento guardando i lividi sul braccio, in apprensione, ma si riscosse subito. Non aveva senso rimuginarci su, quella notte avrebbe dormito al Tempio e non sarebbe successo nulla. Lì era al sicuro.
Indossò la camicia con le maniche larghe e un corsetto di cuoio scuro; la gonna color mogano, con toppe qua e là, e un pezzo di stoffa colorato legato ai fianchi per dare una nota di vivacità al completo tetro.
Uscì dal retro del tendone, mentre la gente era ormai fuori dal cancello, e con un sospiro si avviò al Tempio. Restò sorpresa nel vedere qualcuno ad aspettarla lì di fronte.
Per un momento le brillarono gli occhi: nonostante la serata fosse stata un disastro, qualcuno era interessato ai suoi servizi di chiromante.
Si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla. Quando lui si voltò, Persia incrociò due occhi tra il verde e l’azzurro, chiari persino con il buio. I capelli castani uscivano disordinati dai bordi del berretto. Le sorrise affabile, tendendole la mano.
«Madame, molto lieto»
Lei ricambiò il sorriso. «Venga, si accomodi».
Persia scostò la pesante tenda viola che fungeva da ingresso, e subito spostò anche quella cascata di fili intrecciati a perline di vetro colorato. Nonostante fosse buio, la ragazza sapeva esattamente come muoversi per accendere le candele, illuminando il piccolo spazio.
Sul fondo, c’era un’altra cascata fili e perline di vetro, che faceva da separatore per una piccola porzione di tenda. L’uomo intravide coperte e un cuscino, segno che c’era un cantuccio. Di fronte al “separatore”, c’erano due cuscini colorati divisi da un tavolino basso su cui erano posate due candele e alcuni monili. Tutt’intorno c’erano piccoli mobili che ospitavano, sulle mensole, statuette, icone, simboli, candele, libri. Aveva l’impressione di essere entrato in un santuario, ma non gli era chiaro a quale divinità fosse dedicato. C’erano oggetti sacri da ogni dove. Lui aveva studiato, poteva dire che molti di essi provenissero da Paesi del Medio Oriente, in quanto erano simboli islamici o zoroastriani. C’erano anche simboli ebraici, cristiani, induisti, buddisti, anche pagani.
Le scoccò un’occhiata, lei era intenta ad accendere l’incenso. Subito lo spazio si profumò della fragranza.
«Si sieda, i cuscini sono comodi» gli sorrise, con una punta di divertimento. Gli sembrava uno stoccafisso, lì in piedi.
Lui obbedì, incrociando le gambe e togliendosi il berretto. Alla luce delle candele, i capelli castani assumevano riflessi ramati.
«Benvenuto nel Tempio di Gipsy. – continuò lei. – Gipsy sono io, ma può chiamarmi anche Persia, se lo desidera».
Jonathan non riusciva a non ricambiare il sorriso. Lei aveva quella bellezza esotica, era così diversa dalle donne inglesi. Gli sembrava quasi una creatura mitologica. Non si sarebbe stupito nel sapere che al suo passaggio, per strada, gli uomini si giravano a guardarla. Era diversa, attirava l’attenzione.
«Non sei inglese. Anzi, non sei europea» constatò, inclinando la testa da un lato.
In quella tenda non c’era niente di strano che potesse ricondurre ai rapimenti dei bambini. Era semplicemente un ambiente mistico, misterioso, ancestrale.
Persia gli scoccò un’occhiata ironica. «Cosa vuole che faccia per lei? Lettura dei Tarocchi, Carta Astrale, lettura della mano..?»
«La mano, per favore»
«Non sono europea, no. – gli rispose, infine. – I miei genitori erano persiani, ma mia madre era anche zingara»
«Teheran?»
«Shiraz» lo corresse con un sorrisetto, mentre con un cenno lo invitava a porgerle la mano.
Jonathan obbedì. «Mi dispiace che lo spettacolo non sia andato bene»
«Può succedere» alzò le spalle simulando noncuranza.
Poteva succedere, era vero, ma ciò non li faceva sentire meno umiliati e frustrati.
Lui percepì una punta d’amarezza nella sua voce. Parlava con uno strano accento sulle parole, che a questo punto capì dovesse essere persiano, e contribuiva a renderla così distante dalla realtà che si vedeva fuori.
«Forse è per via dei bambini che stanno sparendo da Londra» disse, senza inflessioni nella voce. La guardò con la coda dell’occhio, scrutando attentamente la sua reazione.
Persia sollevò lo sguardo su di lui, sorpresa e confusa. Le sembrò che quegli occhi, allegri e vispi, fossero diventati lastre di ghiaccio. «Stanno sparendo dei bambini?»
«Sì. Tra i cinque e i tredici anni. Strano che non l'abbiate notato, ho visto che avete un tendone appositamente dedicato per i laboratori rivolti a loro»
«No, io… Non me ne occupo, non potevo saperlo» scosse piano la testa, facendo ondeggiare i capelli neri.
«Ma certo, lo capisco».
Bambini scomparsi. Questo spiega tutto, pensò Persia con l’angoscia nel cuore.
L’assenza di bambini durante lo spettacolo, la diffidenza del pubblico scarno. Che gli squilibri di cui parlava Faust cominciassero dai ragazzini? Perché proprio loro, poi?
«Allora, cosa ti dice la mia mano?» la incalzò Jonathan, riscuotendola.
I suoi occhi chiari sembrarono addolcirsi di fronte a quell’espressione confusa.
La vide scuotere la testa come a scacciare un brutto pensiero, e gli tastò la mano saggiandone la consistenza. Gli sembrò più rilassata, ma poteva solo immaginare che fosse una facciata. Persia aveva mille pensieri per la testa, la maggior parte dei quali cupi. Quel sogno, gli squilibri, i bambini scomparsi, gli spettacoli che andavano male…
«Una mano mista. Lei è una persona versatile, capace di assimilazione rapida e immediata. Sa cogliere l’essenziale di ogni problema e sa risolverlo con abilità e prontezza. Ha buone capacità di immedesimazione, e con molte probabilità è dotato di un intuito quasi da sensitivo», si sentì dire, quasi la voce non fosse neanche la sua.
Jonathan sorrise. «È una scienza esatta?»
«Chissà» replicò lei, ricambiando il sorriso con una nota d’astuzia. Gli ricordò un felino, sul punto di fregare il topo.

Persia si prodigò nella spiegazione di ogni dito, e ciò che la forma di essi indicava. Gli disse che le dita erano collegate ai pianeti, che erano qualità o difetti a seconda delle conformazioni e misure, in rapporto con tutto il resto.
Passò poi alle linee sulle mani, indicandogli ognuna dove si trovasse e il significato che avesse in base alla forma. Alcune erano intrecciate, come se formate da un doppio filo, altre nitide e pulite come tagli. Persia gli parlò delle linee della vita, della testa, del cuore, del destino, della fortuna e della salute. Poi controllò la cosiddetta linea rascetta, o “braccialetto” in quanto si trovava tra il palmo e il polso, e gli “anelli”. Gli anelli erano due: l’anello di Venere, che indicava sensibilità e carisma; e l’anello di Salomone, segno distintivo di chi aveva capacità divinatorie, latenti o meno. Sia Persia che Faust lo possedevano, un’ansa formata dalla linea del cuore che si avvolgeva intorno all’indice. Jonathan possedeva un marcato anello di Venere.
Riprese spiegandogli i “monti” sui palmi delle mani. In sostanza si trattava dei cuscinetti alla base delle dita, più altri due.
Persia sorrise alzando lo sguardo su di lui: «Monte di Venere pronunciato: passioni eccessive, forte vitalità. Monte di Giove ben disegnato: natura gioviale, orgogliosa, ambiziosa e dominatrice».
Jonathan alzò le spalle, ma in realtà non stava poi ascoltando molto di quello che lei diceva.
Per ultimo Persia si impegnò nella ricerca dell’ultimo elemento che completasse la lettura: i segni modificatori. Individuò le cosiddette stelle e triangoli, spiegandogli il significato.

Jonathan non credeva a certe storielle, ma lo incuriosiva ascoltare di queste pratiche.
Capiva che lei doveva lavorare, non poteva farle perdere tempo con domande e osservazioni sui bambini. Anche perché si sarebbe insospettita. L’aveva trovata inizialmente turbata, poi rilassata mentre gli spiegava ogni cosa riguardante la mano. Ma soprattutto gli era sembrata sincera.
Persia lo lasciò andare, inclinando la testa da un lato. «Lei non crede nella chiromanzia», e non era affatto una domanda. Si era accorta dell’atteggiamento distratto di lui, del suo così minimo interesse in ciò che diceva. Anzi, sembrava molto più concentrato a studiarla che ad ascoltarla.
Jonathan posò il mento sul palmo della mano. «No. Eppure ci hai preso, Gipsy»
Lei sorrise, come se avesse appena ottenuto una vittoria. «Lo immaginavo. Se non ci crede, perché è qui?»
Si morse l’interno della guancia, come faceva quando rifletteva su cosa dire o fare… quelle rare volte in cui lo faceva, almeno, visto che Jonathan Anderson non era abituato ad elaborare strategie. Preferiva l’improvvisazione. «Forse, e ribadisco forse, una fanciulla ha attirato la mia attenzione. E l’unico modo per parlare era farmi leggere la mano».
Persia non si tradì. Solo un’ombra sembrò attraversarle lo sguardo, e Jonathan capì che non gli aveva creduto neanche per un istante. Eppure sorrise. Un po’ lo destabilizzò: pregustava il momento in cui lei sarebbe arrossita, avrebbe sfarfallato le ciglia e abbassato lo sguardo. Invece si era limitata a sorridere, e si sentì trattato come un povero scemo a cui si dà il contentino.
«Chissà che magari la suddetta fanciulla non abbia risvegliato una curiosità per la chiromanzia, checché lei ne dica»
«Chissà» mormorò, senza tradirsi.
«Sono cinque sterline, comunque».
Jonathan strinse appena le labbra, ma annuì. Estrasse delle monete dalla tasca dei pantaloni, le contò velocemente e le posò sul tavolino facendole tintinnare.
Sorrise a Persia, che gli strizzò l’occhio senza sbilanciarsi in sorrisi ampi. Aveva l’atteggiamento astuto e languido come quello dei felini, ma non scortese né antipatico. Per Jonathan sarebbe stato quasi un piacere farsi fregare da lei.
Cosa poteva aspettarsi da una donna che aveva vissuto con la consapevolezza di doversi sempre guardare le spalle dal resto del mondo? Non avrebbe abbassato la guardia così facilmente alle adulazioni o al primo sorriso da rubacuori.
La vide prendere le monete e lasciarle cadere in un sacchetto di cuoio, richiudendolo con un laccetto. Jonathan si alzò in piedi, subito imitato da Persia.
«È stato un piacere, madame» ed esibì un elegante baciamano.
«Arrivederci, Jonathan».
Lo vide poi sparire oltre i fili di perline e oltre la pesante tenda viola. Si grattò il mento, incerta, e prima che potesse uscire per raggiungere Faust, fu lui a raggiungerla.
Aveva l’aria concitata e le dita sporche di gesso. Persia lo guardò sollevando un sopracciglio.
«Che hai fatto?»
«Oh, simboli. Sai, sigilli di Salomone e cubi di Metatron. – liquidò il discorso con un gesto della mano. – Insomma, chi era?»
«Dice di chiamarsi Jonathan. Sembra un poliziotto, ma se fosse non deve avere molta esperienza. - incrociò le braccia al petto e alzò le spalle. – Mi ha detto che stanno sparendo i bambini, Faust. Tra i cinque e i tredici anni. Bisognerà stare attenti a Dolly ed Alegria».
Faust s’incantò. Lo sguardo fisso sulla debole luce colorata emanata dalle perline di vetro, ma non la vedeva davvero; aveva gli occhi vacui, la mente distante. Il corpo si era irrigidito, paralizzato.
Persia aspettò che il vecchio mago tornasse in sé. In quel momento stava cercando di ricordare qualcosa, probabilmente, oppure le vibrazioni sui diversi livelli di realtà lo stavano raggiungendo.
Batté le palpebre ripetutamente, riacquistando vitalità nello sguardo. Lanciò un’occhiata a Persia, ma non le disse nulla. Scosse la testa e sgusciò fuori dalla tenda in fretta, come se stesse prendendo fuoco.
Lei sospirò, improvvisamente esausta, e decise di andare a dormire, fortunatamente protetta dall'energia del Tempio.
 
 
Charles Burke attendeva Jonathan fuori il cancello dell’Imaginaerum. Lui, per sua sfortuna, non aveva trovato i responsabili del Teatro delle Pulci, ma solamente il ragazzino zingaro amico di Jimmy, Alegria. L’aveva salutato con energia, gli aveva chiesto del figlio e di portargli i suoi saluti. Ma l’ispettore doveva lavorare, e per un momento si chiese come si sarebbe comportato Anderson nella sua situazione: amichevole. Come poteva Charles Burke essere amichevole con uno zingaro? E come poteva farlo se era convinto che il circo, di cui faceva parte il suddetto zingaro, era coinvolto nel caso dei bambini scomparsi? Si limitò a fargli qualche domanda a riguardo, e il ragazzino gli sembrò turbato da quella notizia. Come non poteva? Alegria aveva proprio tredici anni. Poteva essere preso di mira.
Non aveva cavato un ragno dal buco, comunque, e questo lo indispettiva.

Jonathan Anderson fece capolino dal cancello. «Sono stato professionale, lo giuro»
«Non ti credo neanche un po’» replicò l’ispettore, dandogli le spalle per cominciare a camminare. Il ragazzo scoppiò a ridere, e gli chiese come fosse andata la sua indagine. Burke raccontò velocemente l’accaduto, senza dilungarsi troppo.
«Ah, un buco nell’acqua insomma» constatò Anderson sghignazzando.
L’ispettore lo fulminò con un’occhiata. «Immagino che tu invece abbia persino ritrovato i bambini, non è vero?»
«Come è acido, ispettore! Mi sono fatto leggere la mano, ho parlato con la chiromante. Insomma, se non altro ho conosciuto una bella signorina»
L’altro alzò gli occhi al cielo. «Scoperto qualcosa?»
«Non aveva idea dei bambini scomparsi. – scrollò le spalle. – A quanto dice, almeno, ma mi sembrava sincera»
«Non ti fidare della gente di spettacolo, Anderson. Lei è una chiromante, che equivale ad essere una ciarlatana, una truffatrice. Quella è più furba di te».
Jonathan ripensò a come l’aveva liquidato, a quell’ombra che le aveva attraversato lo sguardo facendogli capire che non credeva ad una parola di quello che diceva. Si ritrovò a sorridere appena ed alzare le spalle. «Non ho calcato troppo la mano, poteva insospettirsi e doveva comunque lavorare, quindi da quel poco che ho potuto ascoltare in merito al caso dico solo che mi è sembrata sincera. Che è più furba di me non lo metto in dubbio».





 
Spero che almeno questo capitolo sia venuto un po' più lungo di quello precedente hahahah
Buonasera! Wow, non vi ho fatto aspettare per niente stavolta, miracolo. Sto cavalcando l'onda dell'ispirazione xD
Anderson e Burke hanno già cominciato ad indagare sui circensi, anche se il primo lo fa a modo suo HAHAHAH! Mi sono seriamente trattenuta dallo scrivervi tutta l'analisi della mano di Anderson, ma sarebbe risultato noioso - immagino - e inutile ai fini di trama - sicuramente -, perciò ho evitato! 
ed ecco quindi che i filoni del circo e quelli di Scotland Yard si toccano per la prima volta, tramite Persia e Jonathan. E adesso non potranno far altro che stare in allerta, anche sognare è diventato pericoloso! 
* voce da narratore di Leone il Cane Fifone * Cose strane succedono all'Imaginaerum, e tocca a Faust proteggere la sua grande famiglia.

Se non vi è chiaro qualcosa chiedete, e se volete lasciate un parere! Grazie a tutti, alla prossima ♥

 
   
 
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